Manifesti - Mario Michele Merlino

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Manifesti - Mario Michele Merlino
Suona il citofono.
Uno squillo, due. Pausa. Il terzo prolungato. ‘Che palle!’, a mezza voce, percorrendo il
corridoio. ‘Sali’, tanto sa già che si tratta del Piccolotto. Solo lui s’inventa codici e modelli tutti suoi
come fosse James Bond, l’agente 007 al servizio di Sua Maestà. E’ sera. Buio e freddo fuori.
La mamma sta finendo di sparecchiare. Il padre, già in poltrona, ascolta la musica classica. L’unica
di suo gradimento e che impone al resto della famiglia. Un quartetto di Haydn. Lo riconosce dallo
stile melodioso, idilliaco, con il violino che irrompe e si espande con sequenze liriche dominanti.
Sbadiglia sbuffa ma la musica gli è dentro. Si dice: ‘quartetto per archi n.63 in re maggiore chiamato
L’allodola’.
Apre la porta. Il Piccolotto entra con il passo deciso dondolandosi sulle gambe tozze e storte. Agita
le braccia lungo i fianchi come se dovesse scattare e balzare improvviso da liana in liana. Gli ricorda
uno dei protagonisti di Prima di Adamo, quello meno evoluto della specie, più simile alle scimmie.
Sulla scrivania ha ancora il romanzo di Jack London, accanto a Rivolta contro il mondo moderno di
Evola.
Un po’ di Chaos nelle letture si adatta al disordine del suo carattere. Curiosità o solo attesa di stelle
danzanti? Chissà. Prima o poi, ‘quando diventerò grande’, ironizza, ‘farò ordine anche nei libri che
leggo, mettendo il Barone fra i ricordi dell’infanzia’… Troppe discussioni pro e contro, chiacchiere
incapacitanti, mentre fuori ci si arma e già s’avvicina il tempo ove compariranno le pistole e i coltelli
a sostituire la spranga e i bastoni.
Indossa l’immancabile maglione nero con il filo rosso al collo e ai polsi. I colori della Repubblica, lo
va ripetendo ad ogni occasione. Il suo Fascismo non va molto oltre ma tanto basta. In piazza sono il
coraggio e i pugni che contano e non gli mancano né l’uno né gli altri. Poi, quando un commissario
ha cercato di fermarlo strattonandolo per la giacca, ha tirato fuori dalla cinta dei pantaloni una
mazzetta da cinque chili e l’ha tramortito sul marciapiede. Sei mesi di Regina Coeli ed è stato
fortunato che il magistrato gli ha derubricato il reato di tentato omicidio in lesioni gravi.
‘Posso entrare?’, quando già s’è sbracato sul letto in camera sua. Ride, o meglio è un ghigno, per la
battuta. ‘E tua mamma?’. Anche questa è una domanda scontata. E sua madre si presenta,
premurosa, con la tazza di latte caldo e tanto zucchero.
Il Piccolotto ha l’ulcera e mai una
lira.
‘Non me lo portare sulla cattiva strada…’. Esce e chiude la porta. ‘Sono passato a prenderti. Si va
Mario Michele Merlino
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ad attaccare manifesti…’. A Mario proprio non va. Rivestirsi inventare una scusa rientrare a notte
inoltrata con i vestiti sporchi di colla le mani gelate gli occhi impastati di sonno. Per delle parole che
nessuno si ferma a leggere, magari con i compagni che li strappano dopo pochi minuti, parole che
s’oppongono al mondo ostile o, peggio, indifferente. Battaglie perse in partenza. Mentre i suoi
coetanei se ne vanno con la ragazza, allo stadio, in discoteca, loro si masturbano sull’Europa delle
patrie sul mito di Berlino in un mare di fiamme e di macerie danno e prendono legnate da zecche e
sbirri…
E’ stanco infreddolito, in questo grande appartamento dai muri spessi e il soffitto alto senza
riscaldamento; ha voglia di mettersi a letto con un buon libro. Nietzsche ed Evola, lampi di verità
assolute, i francesi sempre affascinanti della collaborazione e, perché no, il Corsaro Nero che piange
o I pirati della Malesia di Emilio Salgari, letti fin da bambino da adolescente ed ora quasi ventenne,
che ti fanno sempre sognare d’essere altro e altrove.
Brutta razza gli intellettuali, lo sa bene, patetici con se stessi o cotti nella broda delle parole rubate
dai libri e riverniciate come proprie… Il Piccolotto incalza, dopo un rutto di compiacimento,
deponendo tazza e piattino sul pavimento. Lui, sì, che ha una fede da smuovere le montagne. Viva il
Duce e carica. I suoi compagni di classe del liceo-bene al centro di Roma, giacca e cravatta
d’obbligo, ne farebbero scempio, minimo dandogli dell’ottuso. Tutta colpa di Giovanni Gentile, il
filosofo della riforma scolastica, con quella presunzione di rendere gli studenti del Classico premessa
della nuova classe dirigente della Nazione.
‘Cazzate…’, pensa fra sé sfogliando la vecchia edizione di Rivolta fattasi rilegare da una famiglia di
sordomuti, camerati. Gentile, per pigra ignoranza, piace poco e ancor meno è letto. Troppo
compromesso con il Regime. Eppure a Firenze, aprile del ’44, mentre rientrava a casa, l’attende un
commando gappista e lo stende a colpi di rivoltella ‘Allora?’ – insiste – ‘Che fai? Te la dormi? Ho
lasciato sul pianerottolo rotolo colla e il secchio’.
‘Non trovi qualcun altro?’, si azzarda. Porta la mano alla gola e si sforza in un colpo di tosse
credibile ma che avverte ridicolo. Sa che lo sta facendo incazzare. Un sì o un no, niente vie di mezzo.
Infatti, ora il Piccolotto è in piedi, stringe i pugni, lo fulmina con lo sguardo.
‘Ci si caga sotto, eh? Tutti bravi. A chiacchiere. Che ti credi che ho bisogno, io, di te o di qualche
studentello a farmi compagnia? Io vado anche da solo…’.Fa il gesto di andarsene. Un po’ teatrale,
ma ne è capace. Raccontano che era da solo quando è incappato in un gruppo di comunisti intenti
anch’essi all’affissione. Uno di costoro, per farsi grande, protetto dal numero, gli ha strappato
l’ultimo manifesto incollato, quasi sotto il naso. S’è trovato con il secchio ancora mezzo pieno
d’acqua e colla a cappello, poi con il manico di scopa, srotolati i restanti manifesti, al grido di
‘All’armi!’ s’è scagliato contro gli altri che pensavano di godersi la scena e si sono trovati una
gragnola di randellate. Quando hanno reagito, certo, l’hanno lasciato sul marciapiede con tutte le
ossa sconnesse, lividi escoriazioni ferite varie, ma ancor più fiero e determinato.
‘Dai. Scherzavo’. Prova a pacificarsi. Nessuno dei due è rancoroso e, in fondo, sanno d’essere legati
fra loro, cameratismo e amicizia. Mario s’è sempre chiesto come mai, pur di famiglia di estrazione
borghese, attenta nei modi e nelle frequentazioni, con la cultura e i titoli accademici a vanto,
prediliga un tipo umano tanto a lui distante. Fin da ragazzetto con il figlio del macellaio o il garzone
degli alimentari. ‘L’Italia proletaria e fascista…’, l’ha sempre colpito come Mussolini, parlando dal
‘fatidico’ balcone di piazza Venezia il 10 giugno 1940, abbia anteposto il termine ‘proletario’ a
‘fascista’. A rimarcare le origini e la vocazione socialiste contro quelle potenze – Inghilterra e
Francia- governate dal grande capitale. Forse per misurare le proprie forze, per un vezzo
intellettuale verso coloro che dei libri non si fanno cura prediligendo pugni e calci, per uscire dal
guscio e, al bordo del nido protettivo, spiccare il volo. ‘Fammi imbragare con i blue jeans e il
Mario Michele Merlino
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maglione rattoppato… che la notte è giovane e noi siamo i più fighi’.
‘Stronzo’, sintetico il Piccolotto, che gongola tutto. Si sente vincitore. E lo è. Si cambia in fretta. Da
sotto l’armadio, in un incavo ricavato appositamente tira fuori il manganello snodabile, portatosi
dalla Germania, dove certi arnesi si comprano in armeria senza dover mostrare documenti.
Precauzione. I tempi si stanno rendendo difficili. E’ vero: le botte si danno e si prendono, ma sempre
meglio attrezzarsi data la disparità dei numeri.
Escono cercando di fare il meno rumore possibile nel chiudere la porta. Come se sua madre non se
ne fosse accorta e, dalla finestra, li vede incamminarsi verso il buio con tutto l’armamentario per
l’affissione. Un’altra notte, l’ennesima, di apprensione. Da quando aveva sedici anni, quell’unico
figlio maschio, è andato a inquadrarsi con i ‘fascisti’ e s’è subito messo in prima fila. Già un paio di
volte portato in Questura; già un paio di volte è tornato con i segni dello scontro…
Mario Michele Merlino
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