Leggi un estratto
Transcript
Leggi un estratto
Il logo “Extra” è ideato da Yoshihito Furuya Illustrazione di copertina: Elisabetta Stoinich Titolo originale: Number the stars © 1989 by Lois Lowry Pubblicato in accordo con Houghton Mifflin Harcourt Publishing Company Traduzione: Sara Congregati Revisione: Sara Reggiani www.giunti.it © 2012 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia Via Dante 4 - 20121 Milano - Italia Prima edizione: gennaio 2012 RistampaAnno 6 5 4 3 2 1 0 2016 2015 2014 2013 2012 Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato L O I S L OW RY CONTA LE STELLE Traduzione di Sara Congregati Alla mia amica Annelise Platt Tusind tak 1 Perché corri? «Facciamo a chi arriva prima all’angolo, Ellen!» Annemarie si aggiustò sulle spalle la cartella piena zeppa di libri in modo da bilanciarne il peso. «Pronta?» domandò con lo sguardo rivolto alla sua migliore amica. Ellen fece una smorfia. «No,» disse ridendo «lo sai che non ce la faccio a batterti: non ho le tue gambe lunghe. Non possiamo limitarci a camminare come persone civili?». Era una bimba di dieci anni dal fisico tarchiato, a differenza di Annemarie, che era alta e magra. «Dobbiamo allenarci per la gara di venerdì… Sono sicura che vincerò la corsa femminile, questa settimana. La settimana scorsa sono arrivata seconda, ma da allora mi sono allenata tutti i giorni. E dai, Ellen!» la supplicò Annemarie, misurando con lo sguardo la distanza dall’angolo successivo di quella strada di Copenaghen. «Per favore!» Dopo un attimo di esitazione Ellen annuì, riassestandosi lo zaino sulle spalle. «E va bene. Pronti...» disse. «Via!» gridò Annemarie e le due bambine si lanciarono in una corsa sfrenata lungo il marciapiede che costeggiava le abitazioni. I capelli biondo platino di Annemarie le svolazzavano dietro, mentre le treccioline nere di Ellen le rimbalzavano sulle spalle. 7 «Aspettatemi!» piagnucolava la piccola Kirsti, rimasta indietro, ma le due bambine più grandi non l’ascoltarono. Annemarie dette subito un netto distacco all’amica, nonostante la scarpa le si fosse slacciata mentre correva a rotta di collo per la Østerbrogade, sfrecciando davanti ai negozietti e ai caffè del suo quartiere, nella zona nordorientale di Copenaghen. Ridendo, schivò un’anziana signora vestita di nero che aveva una borsa di corda per la spesa. Una giovane donna che spingeva il bambino in carrozzina si fece da parte per lasciarle via libera. L’angolo era in vista. Non appena l’ebbe raggiunto, Annemarie alzò lo sguardo, ansimante. Smise di ridere. Il suo cuore sembrò saltare un battito. «Halte!» intimò il soldato con voce austera. La parola tedesca era tanto familiare quanto spaventosa. Annemarie l’aveva sentita piuttosto spesso, mai però che fosse stata rivolta a lei prima d’ora. Dietro Annemarie, anche Ellen rallentò per poi fermarsi. Molto più indietro la piccola Kirsti arrancava col broncio perché non l’avevano aspettata. Annemarie sollevò lo sguardo. Erano in due. Il che implicava due elmetti, due paia di occhi gelidi che la guardavano in cagnesco e quattro alti stivali lucidi, saldamente piantati sul marciapiede, che le sbarravano la strada di casa. Il che a sua volta implicava due fucili ben saldi in mano ai soldati. Guardò i fucili, per prima cosa. Poi, alla fine, guardò in faccia il soldato che le aveva intimato l’alt. «Perché corri?» chiese questo con voce dura. Il suo danese era estremamente scarso. Tre anni, pensò Annemarie con disprezzo. Sono tre anni che vivono nel nostro Paese e ancora non sanno parlare la nostra lingua. 8 «Correvo con la mia amica» rispose educatamente. «A scuola abbiamo le gare di corsa tutti i venerdì e io voglio far bene, così…» la voce le venne meno prima ancora di riuscire a terminare la frase. Non parlare così tanto, si disse. Rispondi soltanto alle loro domande, nient’altro. Guardò indietro. Ellen era immobile sul marciapiede, pochi metri dietro di lei. Molto più indietro, Kirsti, ancora imbronciata, avanzava lentamente verso l’angolo. Non molto distante, una donna si era affacciata sulla porta di un negozio e se ne stava lì, in silenzio, a guardare. Uno dei soldati, il più alto, le andò incontro. Annemarie lo riconobbe come quello che lei ed Ellen, bisbigliando, erano solite chiamare “la giraffa”, per via dell’altezza e del lungo collo che spuntava dal colletto rigido. Lui e l’altro soldato piantonavano sempre quell’angolo. Punzecchiò il bordo della sua cartella con la canna del fucile. Annemarie tremava. «Che c’è dentro?» chiese con timbro sonoro. Con la coda dell’occhio, Annemarie vide la donna guadagnare lentamente l’interno del suo negozio, sparendo nell’ombra dietro la porta d’ingresso. «Libri» rispose sinceramente. «Sei brava a scuola?» domandò il soldato. Sembrava volersi prendere gioco di lei. «Sì». «Come ti chiami?» «Annemarie Johansen». «E la tua amica… pure lei è brava a scuola?» Stava guardando dietro di lei, verso Ellen, che non si era mossa. Anche Annemarie si voltò a guardare e vide che il volto di Ellen, dalle guance solitamente rosee, era pallido e i suoi occhi neri erano spalancati. 9 Fece cenno di sì al soldato. «Più brava di me» disse. «Come si chiama?» «Ellen». «E questa chi è?» domandò guardando al fianco di Annemarie. Kirsti era spuntata lì all’improvviso, guardando tutti con cipiglio. «La mia sorellina». Si abbassò a prendere la mano di Kirsti, ma Kirsti, sempre testarda, la rifiutò mettendosi le mani sui fianchi con aria insolente. Il soldato si abbassò ad accarezzare i ricci corti e arruffati della sua sorellina. «Sta’ ferma, Kirsti» le ordinò sottovoce Annemarie, pregando che in un modo o nell’altro l’ostinata bimba di cinque anni recepisse il messaggio. Ma Kirsti allontanò la mano del soldato. «No» disse ad alta voce. Tutti e due i soldati si misero a ridere. Parlarono tra loro in tedesco stretto e Annemarie non fu in grado di capire. «È carina, come la mia piccola» disse quello alto in tono più gradevole. Annemarie si sforzò di sorridere educatamente. «Andate a casa, tutte e tre. Andate a studiare sui vostri libri. E non correte. Sembrate delle teppiste quando correte». I due soldati distolsero lo sguardo. Lesta, Annemarie si abbassò di nuovo ad afferrare la mano della sorella prima che Kirsti potesse resisterle. Facendo camminare in fretta la piccolina, girò l’angolo. Un attimo dopo Ellen era accanto a lei. Senza parlare, con Kirsti in mezzo a loro, si avviarono rapidamente verso il palazzo dove entrambe le loro famiglie abitavano. Quasi a casa ormai, Ellen sussurrò d’un tratto: «Ho avuto una gran paura». 10 «Anch’io» sussurrò di rimando Annemarie. Svoltando per entrare nel loro edificio, tutte e due le bambine guardarono dritto davanti a sé, verso la porta. Lo fecero di proposito, per non attirare gli sguardi o l’attenzione di altri due soldati che piantonavano armati anche quest’angolo. Con uno scatto Kirsti entrò prima di loro, chiacchierando del disegno che aveva portato a casa dall’asilo per mostrarlo alla mamma. Per Kirsti i soldati erano semplicemente parte del paesaggio, qualcosa che era sempre stato lì a ogni angolo, per quanto poteva ricordarsi, qualcosa d’insignificante come i pali della luce. «Lo dirai a tua madre?» domandò Ellen ad Annemarie mentre salivano faticosamente le scale. «No. Si agiterebbe troppo». «No, non glielo dirò neppure io. Probabilmente mamma mi sgriderebbe perché ho corso per strada». Salutò Ellen al secondo piano, dove questa abitava, e salì fino al terzo, immaginando come salutare la madre in modo allegro: un sorriso, il racconto del compito di ortografia del giorno, dove aveva preso un bel voto. Ma arrivò troppo tardi. Kirsti l’aveva preceduta. «Ha punzecchiato la cartella di Annemarie col fucile e poi mi ha afferrato per i capelli!» stava chiacchierando Kirsti mentre si toglieva il maglione in mezzo al soggiorno dell’appartamento. «Ma io non ho avuto paura. Annemarie sì, ed Ellen pure. Io no però!» La signora Johansen si alzò di scatto dalla sedia accanto alla finestra dove fino ad allora era stata seduta. La signora Rosen, la madre di Ellen, era lì anche lei, seduta di fronte. Avevano preso il caffè insieme, come facevano spesso il pomeriggio. Naturalmente non era vero caffè, anche se le due donne continuavano a dire: “prendere il caffè”. Non c’era più stato 11 vero caffè a Copenaghen dall’inizio dell’occupazione nazista. Neppure vero tè. Le due donne sorseggiavano acqua calda aromatizzata alle erbe. «Annemarie, che è successo? Di che sta parlando Kirsti?» domandò sua madre in preda all’ansia. «Dov’è Ellen?» domandò la signora Rosen col terrore negli occhi. «Ellen è a casa. Non pensava che lei fosse qui» spiegò Annemarie. «Non preoccupatevi. Non è stato niente. Erano i due soldati che stanno all’angolo della Østerbrogade… li avrete visti; avete presente quello alto col collo lungo, quello che sembra una giraffa scema?» Raccontò alla madre e alla signora Rosen dell’accaduto, cercando di farlo apparire divertente e insignificante. Tuttavia il loro sguardo ansioso non mutò di una virgola. «Gli ho dato uno schiaffo sulla mano e gli ho gridato contro» annunciò Kirsti dandosi arie d’importanza. «No, mamma, non l’ha fatto» disse Annemarie rassicurando la madre. «Esagera, come sempre». La signora Johansen andò alla finestra e guardò giù in strada. Il quartiere era tranquillo; sembrava lo stesso di sempre: gente che andava e veniva dai negozi, bambini che giocavano, soldati all’angolo. Disse qualcosa sottovoce alla madre di Ellen. «Devono essere nervosi per via degli ultimi incidenti causati dalla Resistenza. Hai letto sul De Frie Danske dei bombardamenti a Hillerød e Nørrebro?» Pur fingendo di essere impegnata a disfare la cartella, Annemarie ascoltava e sapeva a cosa si riferisse la madre. De Frie Danske – I danesi liberi – era un giornale illegale; Peter Neilsen glielo portava di tanto in tanto, accuratamente ripiegato e nascosto fra libri e fogli di nessuna importanza, e mamma lo bruciava sempre dopo che lei 12 e papà l’avevano letto. Ma a volte, di notte, Annemarie sentiva mamma e papà che parlavano delle ultime notizie riportate dal giornale: notizie di sabotaggio ai danni dei nazisti, bombe nascoste ed esplose nelle fabbriche di armamenti e linee ferroviarie commerciali danneggiate per impedire il trasporto delle merci. E sapeva cos’era la Resistenza. Papà glielo aveva spiegato quando lei per caso aveva sentito il termine e ne aveva chiesto il significato. I partigiani erano danesi – nessuno sapeva chi fossero, perché la loro identità era segretissima – determinati a nuocere ai nazisti con ogni mezzo possibile. Danneggiavano le macchine e i camion tedeschi e bombardavano le loro fabbriche. Erano molto coraggiosi. Qualche volta venivano catturati e uccisi. «Devo andare a parlare con Ellen» disse la signora Rosen avviandosi verso la porta. «Voi bambine prenderete un’altra strada, domani, per andare a scuola. Promettimelo, Annemarie. Lo farò promettere anche a Ellen». «Va bene, signora Rosen. Ma che differenza fa? Ci sono soldati tedeschi a ogni angolo». «Si ricorderanno delle vostre facce» disse la signora Rosen, voltandosi sulla porta d’ingresso. «È importante confondersi fra la folla, sempre. Sii uno dei tanti e sta’ sicuro che non avranno mai motivo di ricordarsi della tua faccia». Sparì nel corridoio chiudendosi la porta alle spalle. «Si ricorderà della mia faccia, mamma,» annunciò Kirsti trionfante «perché ha detto che assomiglio alla sua piccola. Ha detto che sono carina». «Se ha una figlia così carina, perché, da buon padre, non torna da lei?» sussurrò la signora Johansen accarezzando la guancia di Kirsti. «Perché non torna al suo Paese?» 13 «Mamma, c’è niente da mangiare?» chiese Annemarie nella speranza di distogliere la madre dal pensiero dei soldati. «Prendi del pane e danne un pezzetto a tua sorella». «Col burro?» domandò Kirsti speranzosa. «Niente burro» rispose la madre. «Lo sai». Kirsti sospirò mentre Annemarie andava a prendere il pane in cucina. «Vorrei un cupcake» disse. «Un grosso cupcake giallo, con la glassa rosa». La madre rise. «Per essere piccola, hai buona memoria» disse a Kirsti. «È da tanto che non abbiamo burro o zucchero per i cupcake. Da almeno un anno». «Quando avremo di nuovo dei cupcake?» «Quando la guerra sarà finita» disse la signora Johansen. Guardò dalla finestra giù in strada, all’angolo dov’erano appostati i soldati, impassibili sotto gli elmetti di metallo. «Quando i soldati saranno andati via». 14 2 Chi è quell’uomo che passa a cavallo? «Raccontami una storia, Annemarie» supplicò Kirsti rannicchiandosi accanto alla sorella nel lettone in cui dormivano insieme. «Raccontami una fiaba». Sorridendo, Annemarie strinse la sorellina fra le braccia, al buio. Tutti i bambini danesi crescevano con le fiabe. Anche Hans Christian Andersen, il più celebre scrittore di fiabe, era danese. «Vuoi quella della sirenetta?» Era sempre stata la preferita di Annemarie. Ma Kirsti disse di no. «Raccontane una che inizi con un re e una regina che hanno una bella figlia». «D’accordo. C’era una volta un re» iniziò Annemarie. «E una regina» bisbigliò Kirsti. «Non dimenticare la regina». «E una regina. Vivevano insieme in un palazzo meraviglioso e…» «Si chiamava Amalienborg, il palazzo?» domandò Kirsti con aria assonnata. «Shhh. Non continuare a interrompermi o non finirò mai la storia. No, non era Amalienborg. Era un palazzo immaginario». Annemarie andò avanti inventando la storia di un re e di una regina e della loro bellissima figlia, la principessa 15 Kirsten; costellava il suo racconto di feste da ballo formali, abiti da favola rifiniti in oro e banchetti di cupcake ricoperti di glassa rosa finché il respiro profondo e regolare di Kirsti non le disse che sua sorella dormiva come un sasso. Si fermò per un attimo, quasi aspettandosi che Kirsti bisbigliasse: «E poi che successe?». Ma Kirsti rimase in silenzio. Annemarie andò col pensiero al vero re, Cristiano X, e al vero palazzo dove viveva, Amalienborg, nel cuore di Copenaghen. Quant’era amato re Cristiano dai danesi! Non era come i re delle fiabe, che se ne stavano al balcone a impartire ordini ai loro sudditi o che sedevano su troni dorati esigendo intrattenimenti vari durante le feste e cercando il marito adatto alle loro figlie. Re Cristiano era una persona in carne e ossa, un uomo dal volto serio e gentile. L’aveva visto spesso quand’era più piccola. Tutte le mattine usciva a cavallo, il suo Jubilee, e cavalcava da solo per le strade di Copenaghen, salutando la sua gente. Qualche volta, quando Annemarie era piccolina, la sorella maggiore, Lise, l’aveva messa in piedi sul marciapiede perché potesse salutare re Cristiano. Qualche volta lui le aveva risalutate tutte e due sorridendo. «Ora sarai speciale per sempre» le aveva detto Lise una volta. «Perché sei stata salutata da un re». Annemarie girò la testa sul guanciale e attraverso le tende semiaperte della finestra fissò il buio della notte di settembre. Pensare a Lise, la sua splendida dolce sorella, la rattristava sempre. Così ripensò al re, che era ancora vivo, mentre Lise non lo era più. Si ricordò di una storia che papà le aveva raccontato poco dopo l’inizio della guerra, quando la Danimarca si era arresa e i soldati vi si erano insediati nel giro di una notte occupando le loro postazioni agli angoli delle strade. 16 Una sera papà le aveva raccontato che quella mattina, mentre aspettava all’angolo di attraversare la strada per fare una commissione vicino al suo ufficio, re Cristiano passò a cavallo, com’era solito fare ogni giorno. Uno dei soldati tedeschi si era voltato all’improvviso, chiedendo a un ragazzo lì accanto: «Chi è quell’uomo che tutte le mattine passa di qui a cavallo?». Papà disse di aver sorriso fra sé, compiaciuto per il fatto che il soldato tedesco non sapesse chi fosse. Sentì il ragazzo rispondere: «È il nostro re. È il re di Danimarca». «Dov’è la sua scorta?» aveva chiesto il soldato. «E sai che gli disse il ragazzo?» aveva domandato papà ad Annemarie che gli stava seduta in grembo. Era piccola allora, aveva solo sette anni. Lei scosse la testa, in attesa della risposta. «Il ragazzo guardò dritto in faccia il soldato e disse: ‘Tutta la Danimarca è la sua scorta’». Annemarie fu attraversata da un brivido. Le sembrò una risposta coraggiosissima. «È vero papà?» domandò. «Quel che ha detto il ragazzo?» Papà rifletté un istante. Valutava sempre attentamente le domande prima di rispondere. «Sì» disse alla fine. «È vero. Ogni cittadino danese darebbe la vita per re Cristiano, per proteggerlo». «Anche tu, papà?» «Sì». «E la mamma?» «Anche la mamma». Annemarie fu di nuovo attraversata da un brivido. «Allora anch’io papà. Se fosse necessario». Rimasero un attimo seduti in silenzio. Dall’altro capo della stanza, la mamma li osservava, Annemarie e il padre, e sorrideva. Quella sera di tre anni fa la mamma 17 stava lavorando all’uncinetto: l’orlo di pizzo di una federa, parte del corredo di Lise. Le sue dita si muovevano rapidamente, trasformando l’esile filo bianco in un orlo stretto e complicato. Lise era una ragazza matura di diciotto anni, allora, e stava per sposare Peter Neilsen. Quando Lise e Peter si sposeranno, diceva la mamma, Annemarie e Kirsti avranno per la prima volta un fratello. «Papà,» aveva detto infine Annemarie rompendo il silenzio «a volte mi chiedo perché il re non sia stato in grado di proteggerci. Perché non ha combattuto i nazisti impedendo loro di entrare armati in Danimarca?» Papà sospirò. «Siamo un Paese talmente minuscolo» disse. «E loro sono un nemico così potente. Il nostro re è stato saggio. Sapeva di quanti pochi soldati disponesse la Danimarca. Sapeva che molti, molti danesi sarebbero morti se avessimo combattuto». «In Norvegia hanno combattuto» fece notare Annemarie. Il padre annuì. «Hanno combattuto strenuamente in Norvegia. Avevano quelle enormi montagne in cui i soldati norvegesi potevano nascondersi. E nonostante ciò, la Norvegia è stata annientata». Annemarie si era raffigurata in testa la Norvegia così come la ricordava dalla cartina di scuola, in alto sopra la Danimarca. La Norvegia era rosa su quella cartina. S’immaginò la striscia rosa della Norvegia annientata da un pugno. «In Norvegia adesso ci sono i soldati tedeschi come qui?» «Sì» disse papà. «Anche in Olanda» aggiunse la mamma dall’altro capo della stanza «e in Belgio e in Francia». «Ma non in Svezia!» annunciò Annemarie, orgogliosa di saperne così tanto del mondo. La Svezia era 18 blu sulla cartina, e aveva visto la Svezia, pur non essendoci mai stata. Dietro la casa dello Zio Henrik, a nord di Copenaghen, aveva guardato l’acqua – il tratto del Mare del Nord chiamato Kattegat – che arrivava a lambire la terra della costa opposta. «È la Svezia quella che vedi» le aveva detto Zio Henrik. «Stai guardando un altro Paese». «È vero» aveva detto papà. «La Svezia è ancora libera». E ora, a distanza di tre anni, era ancora così. Molto altro era cambiato, però. Re Cristiano stava invecchiando e l’anno prima era rimasto gravemente ferito cadendo da cavallo, il buon vecchio Jubilee che l’aveva portato in giro per Copenaghen tante di quelle mattine. Per giorni avevano creduto che sarebbe morto e tutta la Danimarca aveva portato il lutto. Non lui, però. Re Cristiano X era ancora vivo. Lise invece non lo era più. La sua alta e splendida sorella era morta in un incidente due settimane prima di sposarsi. Dentro il baule blu intarsiato nell’angolo della camera da letto – Annemarie riusciva a intravederne la sagoma anche al buio – erano ripiegate le federe di Lise con gli orli a uncinetto, il suo abito da sposa con la scollatura ricamata a mano, intonso, e il vestito giallo con l’ampia gonna svolazzante che aveva indossato per ballare alla sua festa di fidanzamento con Peter. Mamma e papà non parlavano mai di Lise. Non aprivano mai il baule. Annemarie sì, di tanto in tanto, quando rimaneva sola in casa. Sola, toccava delicatamente le cose di Lise, ricordando la tranquilla, dolce sorella che non vedeva l’ora di sposarsi e avere dei bambini. Peter dai capelli rossi, il fidanzato di sua sorella, non aveva sposato nessun’altra dopo la morte di Lise. Era cambiato moltissimo. Una volta per Annemarie e 19 Kirsti era come un fratello maggiore amante del divertimento, sempre pronto allo scherzo e alla battuta, a far dispetti e a stuzzicare. Ora continuava a passare spesso da loro, salutando le bambine con calore e col sorriso sulle labbra, ma di solito andava di fretta e parlava fitto fitto con mamma e papà di cose che Annemarie non comprendeva. Non cantava più le canzoncine sciocche che una volta facevano ridere a crepapelle Annemarie e Kirsti. E non si attardava più. Anche papà era cambiato. Sembrava molto più vecchio e infinitamente stanco, abbattuto. Il mondo intero era cambiato. Solo le fiabe rimanevano tali e quali. «E vissero felici e contenti» sussurrò Annemarie al buio, terminando il racconto per la sorella, che dormiva accanto a lei col pollice in bocca. 20