Scheda tratta da Gentile da Fabriano e l`Altro Rinascimento
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Scheda tratta da Gentile da Fabriano e l`Altro Rinascimento
Scheda tratta da Gentile da Fabriano e l’Altro Rinascimento, catalogo della mostra (Fabriano 2006) a cura di K. Christiansen, A. De Marchi, L. Laureati, L. Mochi Onori, Milano 2006, pp. 150-155, cat. III.8. Nicolò di Pietro (Venezia, documentato dal 1394 al 1427) Storie di San Benedetto San Benedetto tentato nel deserto presso Subiaco Tempera su tavola cm 109,4 X 65,4 Milano, collezione Francesco Molinari (ante 1870); nel 1885 venduta all'asta della collezione Francesco Molinari; nel 1893 acquistata dal Museo Poldi Pezzoli presso l'antiquario Achille Cantoni Inv. 1573 Le quattro tavole provengono dalla medesima pala d'altare e vengono qui riunite per la prima volta dal 1958, quando furono ricongiunte in occasione della mostra Da Altichiero a Pisanello, allestita da Carlo Scarpa nel Museo di Castelvecchio a Verona. Lo stato di conservazione è molto diseguale, e penalizza in particolare le tre immagini degli Uffizi nei confronti di quella del Museo Poldi Pezzoli, che versa in condizioni assai migliori. Due dei tre dipinti conservati a Firenze, quelli in cui compaiono gli episodi di San Benedetto fanciullo risana il vaglio infranto (inv. 9405) e di San Benedetto e il vino avvelenato (inv. 9404), mantengono lo spessore originario ma nel corso di un antico intervento, probabilmente nell'Ottocento, furono sagomati lungo il profilo superiore secondo un andamento centinato, mentre sul retro erano state inserite due traverse a coda di rondine, che sono state eliminate nel corso dei recenti restauri. La terza tavola degli Uffizi, in cui è rappresentato San Benedetto che esorcizza un monaco (inv. 9403), ha mantenuto invece l'originario formato rettangolare ma nel XIX secolo fu assottigliata, fino a uno spessore di circa cm 1,5, e parchettata. I tre dipinti hanno manifestato negli scorsi decenni gravi problemi di adesione della pellicola pittorica. Sono stati restaurati nel 1994 da Alfio Del Serra, che ha provveduto a eliminare sul retro le traverse a coda di rondine nei primi due supporti e la parchettatura nel terzo, in modo da consentire alle tavole di poter tornare a incurvarsi secondo il naturale andamento delle fibre del legno. Il restauro dei supporti è stato perfezionato fra il 1999 e il 2000 grazie all'intervento effettuato da Roberto Buda, nel corso del quale sono stati sostituiti i tasselli precedentemente inseriti nelle fenditure sul retro e sono state applicare due traverse in legno di rovere aventi lo stesso raggio di curvatura del tavolato nei pannelli con San Benedetto fanciullo risana il vaglio infranto e San Benedetto e il vino avvelenato, mentre nel San Benedetto esorcizza un monaco, a causa del ridotto spessore della tavola, è stato applicato un telaio perimetrale in legno di rovere che segue il profilo del supporto. I tre dipinti sono infine stati sottoposti a un restauro pittorico, eseguito da Karin Weber fra il 2000 e il 2001. Quest'ultimo intervento ha provveduto a risarcire le consistenti abrasioni, gli assottigliamenti della pellicola pittorica e numerose lacune di varia entità. Come evidenziano con grande chiarezza le fotografie conservate presso l'Archivio della Soprintendenza per il Polo Speciale Museale di Firenze, nel San Benedetto fanciullo risana il vaglio infranto le cadute di colore di maggiori dimensioni erano localizzate sulla sinistra, in corrispondenza di una spaccatura lungo la connessione fra le tavole - che interessa anche il braccio e la mano destra della nutrice -, e in un'ampia fascia verticale sulla destra, al di sopra della figura del piccolo san Benedetto. Nel San Benedetto e il vino avvelenato le maggiori cadute del colore originale sono diffuse a macchia di leopardo un po' su tutta la superficie, ma in particolare sulla sinistra - lungo la connessione verticale delle tavole, che attraversa il volto di san Benedetto -, in corrispondenza della metà di sinistra del volto del monaco collocato al centro, sul desco e in una larga fascia verticale sulla destra. Il San Benedetto esorcizza un monaco è interessato sulla destra, per circa due terzi dell'altezza della tavola, da una lunga spaccatura diagonale del supporto e presenta un'ampia lacuna in basso, in corrispondenza del pavimento, che è quasi interamente ricostruito. Come riferisce Karin Weber, i danni della pellicola pittorica sono dovuti, oltre che alle drastiche puliture avvenute in passato, che hanno provocato abrasioni e assottigliamenti diffusi, a un alluvionamento subito dai dipinti (Alessandro Cecchi della Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Fiorentino mi comunica che tale alluvionamento, di cui non resta traccia nei dossier degli Uffizi, deve essere avvenuto prima del 1937, quando le tavole furono acquisite dalle Gallerie fiorentine): nel San Benedetto esorcizza un monaco l'acqua è stata assorbita dal basso, provocando la perdita della quasi totalità del pavimento verde e danneggiando seriamente anche il resto del dipinto, fino a circa metà dell'altezza della tavola, mentre nel San Benedetto fanciullo risana il vaglio infranto e nel San Benedetto e il vino avvelenato è invece caduta dall'alto, dilavando la superficie. Anche il supporto del San Benedetto tentato nel deserto presso Subiaco del Museo Poldi Pezzoli, come quello del San Benedetto esorcizza un monaco, ha mantenuto l'originario profilo rettangolare ed è stato assottigliato nell'Ottocento. Prima del recentissimo intervento di Roberto Buda recava una parchettatura identica a quella già presente sulla tavola fiorentina, a segnalare che i due dipinti hanno conosciuto una medesima vicenda collezionistica e antiquariale fino agli ultimi decenni del XIX secolo. Anche il dipinto conservato a Milano ha evidenziato nel corso dei decenni un'imperfetta aderenza della pellicola pittorica (forse a causa di una preparazione difettosa), che per fortuna non ha causato cadute di colore gravi come quelle patite dalle tavole fiorentine, a parte una lacuna verticale lunga e stretta situata sulla destra, in corrispondenza della connessione fra le tavole, che interessa parte della vegetazione e la mano sinistra del santo. La tavola è stata restaurata da Pinin Brambilla Barcilon nel 1990. Prima dell'intervento è stata riscontrata la presenza di diffusi graffi e abrasioni, ma la superficie pittorica è stata giudicata in uno stato conservativo complessivamente buono. Il restauro ha provveduto al consolidamento delle scaglie di colore sollevate e alla rimozione dello sporco e delle vernici ossidate, restituendo luminosità ed equilibrio cromatico al dipinto. Recentemente Roberro Buda ha provveduto, come nel San Benedetto esorcizza un monaco degli Uffizi, a sostituire la parchettatura con un telaio perimetrale in legno di rovere che segue la curvatura delle tavole del supporto, allo scopo di eliminare i movimenti del legno e migliorare l'adesione della pellicola pittorica. l dipinti rappresentano quattro episodi tratti dalla Vita Sancti Benedicti di San Gregorio Magno, la biografia ufficiale del fondatore del monachesimo occidentale: nel primo capitolo del testo di San Gregorio Magno si racconta di come san Benedetto bambino, abbandonati gli studi letterari e risoluto a consacrarsi unicamente a Dio, si mise alla ricerca di un luogo solitario e giunse nella località di Enfide, accompagnato dalla fida nutrice. Un giorno la nutrice, dovendo mondare un po' di grano chiese in prestito a una vicina un vaglio di terracotta. Avendolo sbadatamente posato sul bordo di un tavolo il vaglio cadde a terra e si ruppe in due pezzi. Benedetto nel vedere la nutrice piangere disperatamente per aver rotto il prezioso utensile che le era stato prestato, prese i due pezzi del vaglio rotto e si ritirò in preghiera, versando calde lacrime. Quando si rialzò dalla preghiera trovò al suo fianco lo staccio completamente risanato, senza un minimo segno d'incrinatura. Nel dipinto si vede il santo bambino che, in un interno domestico e sotto gli occhi della nutrice, con un gesto di benedizione risana miracolosamente il vaglio spezzato. Nel secondo capitolo del testo di san Gregorio Magno si racconta di come Benedetto, che si era ritirato a vita in eremitaggio in una grotta nei pressi di Subiaco, “vide giungere il tentatore sotto forma di un merlo, che svolazzava intorno al suo corpo e gli sbatteva insistentemente le ali sul viso. Facendo un segno di croce riuscì a far allontanare il volatile. Ma appena il merlo scomparve lo invase una tentazione sensuale intensissima, che il sant' uomo non aveva mai provato. Un tempo egli aveva veduto una donna e ora lo spirito maligno turbava la sua immaginazione con quel ricordo. Egli era già quasi vinto e stava per decidersi ad abbandonare lo speco quando, illuminato dalla grazia del cielo, ritornò improvvisamente in se stesso. Visti lì nei pressi dei rigogliosi e densi cespugli di rovi e di ortiche, si spogliò delle vesti e si gettò, nudo, tra le spine dei rovi e le foglie brucianti delle ortiche. Si rotolò a lungo là in mezzo e quando ne uscì era lacerato per tutto il corpo; ma con gli strappi della pelle aveva scacciato dal cuore la ferita dell' anima, al piacere sensuale aveva sostituito il dolore, vincendo l'insidia del peccato. Da quel giorno in poi fu talmente domato in lui l'incentivo della sensualità, da non sentirlo mai più". Nel dipinto del Poldi Pezzoli, sullo sfondo di un paesaggio desolato e roccioso, il santo, vestito soltanto da un perizoma di foglie, appare quasi in un'iconografia simile a quella di Ercole al bivio: è tentato dal merlo sulla destra, ma aiutato e rettamente consigliato da un piccolo angelo dalle vesti svolazzanti posto sulla sinistra. Sulla destra e sotto i suoi piedi è raffigurato il letto di rovi e di foglie di ortica che sta per accoglierlo e che lo aiuterà a vincere la tentazione sensuale del demonio. Nel terzo capitolo della vita del santo si racconta di come la fama di Benedetto, per la vita irreprensibile che il santo conduceva come eremita, indusse una comunità di monaci che viveva nei pressi della sua grotta e che aveva perso il superiore a chiedergli di assumerne il comando. Benedetto li seguì nel loro monastero e iniziò subito a vigilare sulla perfetta osservanza della regola monastica, tanto da irritare profondamente i monaci, che erano abituati a costumi assai rilassati. Alla fine decisero di eliminare lo scomodo e intransigente abate, servendogli a tavola un bicchiere di vino avvelenato. A mensa gli presentarono il bicchiere di vino da benedire, prima di berlo, Benedetto alzò la mano per tracciare il segno di croce, e il vaso di morte andò in mille pezzi, come se vi fosse stata scagliata una pietra. Il santo si alzò e prese congedo da quella comunità di monaci riottosi, per fare ritorno alla sua grotta. Nel dipinto si vede il momento in cui un curioso personaggio azzimato che rappresenta evidentemente il demonio e le tentazioni del mondo, vestito con una veste guarnita da frappe bianche, rosse e verdi e con uno strano copricapo che imita la foggia di un verdeggiante fogliame, offre il bicchiere di vino avvelenato a Benedetto, seduto sotto un porticato insieme a due monaci, davanti alla tavola imbandita. Il santo sta alzando la mano per la benedizione che manderà in frantumi il bicchiere. Nel quarto capitolo del testo di san Gregorio Magno si racconta che in un monastero costruito da Benedetto c'era un monaco che non era mai capace di stare concentrato in preghiera: tutte le volte che i fratelli si radunavano per fare orazione quello prendeva la via dell'uscita e con la mente svagata si occupava di tutt'altro. Aspramente redarguito dal suo abate, riuscì a resistere un paio di giorni, ma il terzo giorno ripigliò nuovamente a gironzolare durante il tempo della preghiera. L’abate riferì la cosa a Benedetto, il quale giunse e nell'ora in cui i monaci, finita la recita dei salmi, si applicavano alla meditazione; "egli osservò che una specie di fanciulletto, piccolo e nero, veniva fuori da quel monaco che non era capace di stare in preghiera, tirandolo per il lembo del vestito. Il giorno dopo, uscito dall'oratorio al termine della preghiera, il servo di Dio incontrò il monaco che stava fuori e lo frustò aspramente con una verga. Da quel giorno in poi non fu mai più influenzato dalla suggestione del fanciullo demoniaco, ma perseverò fermo e raccolto nell'orazione". Nel dipinto la scena si svolge all'interno di una chiesa, sul cui altare campeggia un trittico in cui al centro compare Cristo benedicente, e negli scomparti laterali sono raffigurati san Pietro e san Paolo. Benedetto appoggia la verga sulla testa del monaco distratto, che è inginocchiato di fronte a lui, mentre altri due frati assistono all' esorcismo. Sullo sfondo si vede il piccolo demonio fuggire dal monaco che tormentava, addirittura infrangendo la colonnina di una bifora per fare più presto. I quattro dipinti facevano patte in origine di una pala d'altare dedicata a san Benedetto, in cui con ogni probabilità compariva al centro un'immagine del santo, in piedi o seduto in cattedra. Come è stato osservato (D'Arcais 1976, p. 30), le quattro tavole descrivono episodi appartenenti soltanto alla prima parte della vita di Benedetto, il cosiddetto periodo Sublacense (e si può aggiungere che gli episodi sono tratti dai primi quattro capitoli della Vita Sancti Benedicti, sui ben trentotto di cui si compone il testo di san Gregorio Magno). In realtà in questo genere di dossali di tradizione veneziana consacrati a un personaggio sacro, spesso comprendenti otto scene narrative (ma talvolta anche dodici), solitamente sono raffìgurati episodi relativi all'intera esistenza del personaggio, dall'infanzia fino agli ultimi momenti, includendone anche le esequie (come dimostrano ad esempio le smembrate ancone di Jacobello del Fiore oggi conservate nei musei di Denver e di Fermo [cat. III.14], rappresentanti rispettivamente scene della vita di san Pietro e di santa Lucia). Non è quindi escluso a mio avviso che anche la pala d'altare da cui provengono i dipinti in esame comprendesse un numero maggiore di scene narrative (almeno quattro delle quali risulterebbero quindi perdute) distribuite su due registri, anche se non si può (anche per le notevoli dimensioni delle tavole) trascurare la possibilità che i dipinti fossero in origine soltanto quattro, disposti quindi su un solo ordine ai lati della figura del santo, secondo uno schema in qualche modo accostabile al polittico dell' Intercessione di Gentile da Fabriano. (A. De Marchi, in Il potere 2001, p. 164, cat. 47). La vicenda collezionistica dei dipinti, nota soltanto a partire dagli ultimi decenni dell'Ottocento, conferma i dati emersi dall' esame dei supporti, e cioè che le quattro tavole furono separate, in una certa fase della loro esistenza, in due coppie distinte: il San Benedetto fanciullo risana il vaglio infranto e il San Benedetto e il vino avvelenato nell'Ottocento erano nel palazzo Portalupi di Verona (Richter 1914, p. 22). I Portalupi erano un'antica e nobile famiglia di origine milanese (Cartolari 1855, pp. 54-55); non sono conosciute, se non vado errato, altre opere d'arte antiche provenienti dal loro palazzo, e la loro collezione non risulta fra quelle segnalate dalle guide antiche della città scaligera (soltanto Saverio Dalla Rosa nel suo Catastico informa che nel palazzo Portalupi sul Corso "vi sono alcuni buoni quadri": Dalla Rosa [1803-1804] 1996, p. 278). Come mi ha segnalato Aldo Galli, le due tavole raffiguranti San Benedetto esorcizza un monaco e San Benedetto tentato nel deserto presso Subiaco compaiono invece nel catalogo della vendita all'asta della collezione di Francesco Molinari - svoltasi a Milano, presso Giulio Sambon, il 30 novembre 1885 e i giorni seguenti -, con attribuzione all' Angelico. l due dipinti non sono riprodotti ma la coincidenza delle misure e la precisa descrizione, al di là del mancato riconoscimento dei soggetti rappresentati, non lasciano dubbi in merito: "Intérieur d’una énglise. Un saint avec l'habit d'un ordre religieux consacre Saint Bruno à la présence d'autres moines. Près de l'autel un démon s'enfuit par la fenêtre. Bois. Haut. 1.08, larg. 0,64."; "Saint Bruno nu, s'élance dans une haie. Dans les cieux un ange, à droite, un corbeau. Fond de rochers. Pendant au tableaux précédent, Bois. Haut. 1.08, larg. 0,64." (Catalogue 1885, p. 25, lotti nn. 103 e 104). La Galleria del "popolano" Francesco Molinari era stata aperta al pubblico a Milano, nei pressi della chiesa di Santa Maria delle Grazie, il 29 settembre 1870. Constava di ben ventotto sale, ed era considerata all'epoca "la più meravigliosa delle gallerie private che si conoscono" (Venosta [1871], pp. 152-153; Brigola, Venosta 1871, p. 151; A. Genolini, in Catalogue 1885, pp. VII-VIII; si veda anche Merlo 1985, p. 452). Conteneva numerose importanti opere d'arte lombarda, alcune di artisti cremonesi (ad esempio i Santi Vito e Lorenzo di Bonifacio Bembo oggi al New Walk Museum di Leicester, già in collezione Harris, o la Madonna dell'Umiltà e angeli musicanti del fratello di Bonifacio, Benedetto, oggi appartenente al Museo Civico Amedeo Lia della Spezia, inv. 230, anch'essa riconosciuta da Aldo Galli: Catalogue 1885, p. 26, lotto n. 106, i primi, attribuiti a Masolino, e p. 11, lotto n. 49 la seconda, riferita a Scuola olandese del XV secolo), e Cremona è proprio il luogo da cui era oriundo Francesco Molinari (secondo quanto afferma il titolo dello stesso catalogo di vendita della collezione: Catalogue de tableaux formant la galerie de M. Francois Molinari de Crémone; Felice Venosta, probabilmente a causa di un Iapsus calami, curiosamente lo dichiara invece bresciano: Venosta [1871], p. 153), ma dato che almeno una parte significativa della vita del collezionista si svolse a Milano, è probabile che molti acquisti di opere d'arte furono effettuati proprio nel capoluogo lombardo, all'epoca uno dei centri più importanti del mercaro antiquariale a livello internazionale, verso cui confluivano opere d'arte provenienti da ogni dove. La raccolta Molinari è del resto nota agli studi moderni di storia dell'arte per la presenza al suo interno di ben cinque tavole di un importante polittico eseguito da Antoine de Lonhy per la Savoia (G. Romano, in Valle di Susa 1977, p. 208; Romano 1989, p. 43, nota 8; H. Nieuwdorp, in Napoleone 2005, pp. 182-185, cat. 19). Non è quindi affatto detto che le due tavole appartenenti alla serie delle Storie di San Benedetto abbiano avuto un' origine cremonese, mentre è assai probabile che facessero parte della Galleria Molinari già a partire dal 1870, quando l'importante raccolta privata fu aperta al pubblico, dato che nella lista dei pittori rappresentati nella collezione riportata da Felice Venosta figura anche l'Angelico, e che i due dipinti in esame sono gli unici riferiti all'artista fiorentino nel catalogo di vendita, insieme a una tavoletta di piccole dimensioni (cm 25 x 16) rappresentante San Gerolamo e il leone, di problematica identificazione (Venosta [1871], p. 153; Catalogue 1885, p. 25, lotto n. 105). Le due tavole appartenenti alla serie delle Storie di san Benedetto rimasero nel capoluogo lombardo anche dopo la vendita del 1885: il San Benedetto tentato nel deserto presso Subiaco fu acquistato dal Museo Poldi Pezzoli il 10 marzo 1893 presso l'antiquario Achille Cantoni, per 1500 lire (Archivio del Museo Poldi Pezzoli, faldone 14A), mentre il San Benedetto esorcizza un monaco entrò a far parte, entro il 1900, della collezione di Rodolfo Sessa (Venturi 1900, p. 221; dalla collezione Sessa provengono alcune opere conservate presso il Museo Poldi Pezzoli e la Pinacoteca di Brera: Di Lorenzo 2003, pp. 20-21), prima di ricongiungersi alle due tavole già in palazzo Portalupi a Verona nella raccolta di Henry White Cannon (18501934) a villa Doccia a Fiesole (Richter 1914, p.p.16-25, cat. 38-40), assieme alle quali fu acquistato dalle Gallerie Fiorentine nel 1937 (mentre il grosso della collezione Cannon veniva donato al Princeton University Art Museum dal figlio Henry White Cannon Jr.: Richter 1936; Chiarini, in Gli Uffizi 1979, ed. 1980, pp. 583584, cat. P1863-P1865; Gardner 1998, p. 184). Jean Paul Richter ricorda che Rodolfo Sessa riferiva di aver acquistato il pannello con San Benedetto esorcizza un monaco in un villaggio nei dintorni di Mantova (Richter 1914, p. 22), ma sappiamo che questo è inverosimile, dato che prima di figurare nella sua raccolta aveva fatto parte della Galleria Molinari. È però possibile che questa notizia non sia in realtà priva di fondamento, e che riferisca il luogo e le modalità di acquisto del dipinto (e quindi anche del suo compagno oggi al Poldi Pezzoli) da parte di Francesco Molinari: nell'introduzione del catalogo di vendita della collezione Molinari si rende infatti noto che "Pour la présente collection, un catalogue avec la provenance des oeuvres, sera mis à la disposition des visiteurs dans les jours d'exposition et il sera ainsi facilité aux amateurs et aux studieux de remonter à l'origine des tableaux, de s'assurer de leur importance et constater leur authenticité" (A. Genolini, in Catalogue 1885, p. VIII); non è affatto escluso a mio avviso che sia stata proprio questa la fonte dell'informazione sulla provenienza del dipinto riportata da Rodolfo Sessa. Le quattro tavole hanno conosciuto una lunga e tormentata vicenda critica, che sarebbe troppo lungo riassumere in questa sede. A più riprese è stato proposto che nel polittico siano state attive due mani differenti, probabilmente a causa del migliore stato di conservazione (e forse anche della più felice armonia compositiva) che fa risaltare oltremodo l'immagine milanese rispetto a quelle oggi a Firenze. È quindi necessario ribadire, a dispetto delle ampie cadute del pigmento originale nelle tavole fiorentine, l'assoluta omogeneità stilistica dei quattro dipinti del gruppo. L’ipotesi di gran lunga più convincente (formulata a partire dall'importante apertura di Roberto Longhi 1940, ed. 1975, p. 62) è quella che individua l'autore delle tavole in oggetto nel pittore veneziano Nicolò di Pietro, e che situa la loro esecuzione fra il 1415 e il 1420 circa (si rimanda a De Marchi 1992b, pp. 104, fig. 59a-f, 109-110, nota 57, per i puntuali confronti proposti con opere sicure di Nicolò di Pietro, come la Sant’ Orsola e le compagne del Metropolitan Museum di New York e le tavole del polittico agostiniano di Pesaro. Per la cronologia delle tavole in esame valgono soprattutto, in particolare per il paesaggio roccioso e l'angelo svolazzante della tavola Poldi pezzoli, i raffronti con opere dello stesso Gentile quali il polittico di Valle Romita, databile fra il 1405 e il 1410, e le Stimmate di san Francesco Magnani, del 1420 circa). È stato inoltre proposto che Gentile da Fabriano abbia ricevuto la commissione per realizzare questo polittico, ne abbia approntato il progetto, e forse anche il disegno sulla mestica, per affidarne poi l'esecuzione a Nicolò di Pietro, a causa dei numerosi altri impegni che aveva assunto (De Marchi 1992b, p. 104; A. De Marchi, in Il potere 2001; Gentile da Fabriano e Nicolò di Pietro avevano lavorato uno a fianco dell' altro nel 1408, su incarico di Francesco Amadi, per la realizzazione di due ancone: cfr. Scudi, Regesto, doc.1 : si veda il saggio di A. De Marchi nel volume Studi). Questa seconda proposta è sicuramente più difficile da dimostrare, in assenza di una documentazione specifica, e c'è chi ha obiettato che la "sgangherata prospettiva degli scenari architettonici" rende poco probabile l'ipotesi di un progetto di Gentile per questo polittico (Boskovits 1999, p. 340, nota 8), però è indubitabile che la figura ignuda di san Benedetto nel pannello del Museo Poldi Pezzoli, il piccolo angelo dalle vesti svolazzanti e il desolato scenario roccioso, che richiama immediatamente gli sfondi delle tavole con san Giovanni Battista e san Francesco stigmatizzato del polittico di Valle Romita (cat.III.1), non possono prescindere da un riferimento diretto all'opera del pittore di Fabriano. Anche gli sfondi architettonici delle altre tre tavole, seppure realizzati senza la sorveglianza diretta del maestro e in maniera senza dubbio un po' "sgangherata", mostrano tuttavia una nutrita presenza di elementi gentiliani e una notevole complessità compositiva, sicuramente superiore a quanto è possibile vedere nelle altre scene narrative eseguite da Nicolò di Pietro (ad esempio nella predella proveniente dal polittico agostiniano di Pesaro, di cui quattro pannelli sono conservati nella Pinacoteca Vaticana mentre un quinto elemento alcuni anni fa si trovava nella collezione di François Helm a Parigi: De Marchi 1997, pp. 9-10,19, nota 51). Sono state formulate diverse ipotesi circa la provenienza originaria di questa importante pala d'altare benedettina. È stata proposta una provenienza dall' area gonzaghesca, a causa dei colori bianco, rosso e verde delle frappe della veste indossata dal personaggio che offre il vino avvelenato a Benedetto (Paccagnini 1972a, p. 60; Paccagnini 1972b, pp. 130-140), che erano appunto i colori della divisa dei Gonzaga (anche se, in quanto colori delle tre Virtù teologali furono adottati pure da altre famiglie nobili, e anche se c'è chi ha obbiettato che poiché il personaggio che indossa tali colori è proprio quello che assume su di sé la maggiore valenza negativa, in quanto tenta di avvelenare san Benedetto, "appare difficile che una simile scelta potesse essere fatta in una chiesa appartenente ai territori dei Gonzaga": Boskovits 1999, pag. 340, nota 8). Fra le chiese del territorio mantovano è stata proposta l'importante abbazia di San Benedetto al Polirone (Piva 1981, pp. 85-86), che nel gennaio del 1419 era stata affidata da papa Martino V, durante il suo soggiorno mantovano, in commenda al protonotario apostolico Guido Gonzaga, fratello di Giovanfrancesco, perché la correggesse dal punto di vista disciplinare e la riformasse secondo i precetti della congregazione di Santa Giustina a Padova, alla quale verrà incorporata l' 11 ottobre dello stesso anno. Proprio nel 1419 potrebbe essere stato deciso di realizzare la pala d'altare della chiesa, in date che non contraddicono l'esame stilistico dei nostri dipinti. Il fatto che una delle tavole in oggetto sarebbe stata acquistata in "un villaggio nei dintorni di Mantova" (Richter 1914, p. 22) corrobora questa ipotesi di provenienza originaria. Anche l'abbazia benedettina di Sant' Andrea a Mantova è stata suggerita come possibile luogo di destinazione originaria del polittico (De Marchi 1992b, pp. 104, 110, nota 64); quest' ultima ipotesi appare però più problematica da sostenere, se non altro per la dedicazione della chiesa a un santo diverso da Benedetto, che avrebbe probabilmente dovuto comparire nella pala d'altare. Appoggiandosi sulla provenienza di due tavole del polittico da palazzo Portalupi a Verona, sono state formulate anche alcune interessanti proposte di un' originaria destinazione veronese per l'ancona: Francesca D'Arcais (1976, p. 30) e Miklòs Boskovits (1999, p. 332) ipotizzano genericamente che il complesso provenga dal territorio veronese. Keith Christiansen (1987, p. 130) ha suggerito che la pala d'altare in esame potesse coincidere con quella vista da Scipione Maffei in San Pietro in Castello a Verona, che era firmata Nicho/aus filius magistri Petri pictor pinxit hoc opus Veneciis (Maffei [1731-1732] III, Milano 1826 p. 225). Ma poiché San Pietro in Castello, che fu distrutta nel 1801 (Dalla Rosa 1803-1804, ed. 1996, p. 215), era una chiesa officiata da un collegio di sacerdoti (Biancolini 1749-1771, l, p. 102-108) e non apparteneva all'ordine benedettino, quest' ipotesi deve probabilmente essere scartata: soltanto per una chiesa dell' ordine, infatti, è verosimile che potesse essere concepita una pala d'altare di questo tipo, dedicata con tanta vistosa evidenza a san Benedetto e contenente la rappresentazione di monaci indossanti l'antico saio scuro benedettino. Restano valide come ipotesi di lavoro, in attesa dell'eventuale rinvenimento di qualche conferma documentaria, altre proposte che tendono a ricondurre a Verona le tavole del polittico: Enrico Maria Guzzo (secondo il quale l'origine veronese dell'ancona in esame sarebbe confermata dalla conoscenza che ne dimostra Giovanni Badile negli affreschi della cappella Guantieri in Santa Maria della Scala) suggerisce come possibile luogo di destinazione originaria la chiesa di San Benedetto in Monte (Guzzo 1989, p. 32); Fabio Marcelli (comunicazione orale) avanza invece la candidatura del sacello di san Benedetto in San Zeno, che sicuramente al momento della realizzazione del polittico doveva esse un luogo di notevole devozione e importanza. Infine, Anna Pizzati ha pensato, come possibile sede originaria del polittico in esame, al monastero certosino di San Girolamo del Montello presso Treviso, che all'inizio del Quattrocento era stato beneficiato da Francesco Sandei e Francesco Amadi, i quali furono committenti artistici di Gentile da Fabriano (e il secondo anche di Nicolò di Pietro). Anche questa proposta è sicuramente interessante e merita di essere approfondita ulteriormente (non dimentichiamo che l'ordine certosino riconosce la regola benedettina, e che nella predella del polittico di Ambrogio Bergognone dedicato a san Benedetto e un tempo esposto nella Certosa di Pavia, oggi divisa fra i musei di Nantes e del Castello Sforzesco a Milano, compaiono episodi analoghi a quelli rappresentati nelle tavole in esame), pur se presenta alcuni elementi di difficoltà: trattandosi di un convento dedicato a san Gerolamo, ci si potrebbe aspettare, ad esempio, che in una pala d'altare a esso destinata avrebbe dovuto trovare spazio anche l'autore della Vulgata. A. D. L. Bibliografia Catalogo d’asta della collezione Molinari, Milano 1885, n. 104. Museo artistico Poldi Pezzoli. Catalogo, Milano 1902, p. 69. B. Berenson, North Italian Painters of the Renaissance, New York-London 1907, p. 302. J.P. 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