diario di uno schizocritico andrew sarris

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diario di uno schizocritico andrew sarris
DIARIO DI UNO SCHIZOCRITICO
ANDREW SARRIS
Che film hai visto di recente?
Robetta, per lo più.
Ad esempio?
Quell'estate meravigliosa, La pelle che scotta, Luce nella piazza, Uno sguardo dal ponte, Le
parigine, Safari, Jessica, Il giorno dopo la fine del mondo, Venere in pigiama, La donna che
volevano linciare, Anime sporche.
Basta così, ho capito.
Si tratta di film relativamente poco importanti, in gran parte ignobili, e solo uno caratterizzato da un
qualche interesse autoriale.
Intendi Uno sguardo dal ponte di Lumet?
No. La donna che volevano linciare di Dwan.
Sei perverso.
Lo so, ma non ci posso fare niente.
Come vuoi. Fai il martire. Qual è il verdetto su La donna che volevano linciare?
La giuria non è ancora rientrata in aula. Dopotutto si tratta di un film Republic del 1953, pieno di vecchie
glorie: Joan Leslie, Audrey Totter, John Lund, Brian Donlevy. L'azione ha luogo in una città di confine,
per metà nel terreno dell'Unione e per metà in quello confederato. I giovani James e Younger si
dilettano in scorribande con i predoni di Quantrill. Joan Leslie è una raffinata donna dell'Est che eredita
la bisca del fratello ammazzato da John Lund, un funzionario dell'esercito sudista impegnato come
capo squadra nelle mine di piombo della zona. Lund uccide con ammirevole riluttanza, perché al
fratello di Joan interessa solo colpire la spregiudicata e alcolizzata Audrey Totter, che l'ha abbandonato
per diventare la donna di Quantrill. Sarebbe lunga spiegare perché Audrey Totter e Joan Leslie
finiscono a confrontarsi in un duello armato sulla strada principale o perché Miss Leslie viene quasi
linciata quando cerca di salvare Lund.
...o anche spiegare dove risieda l'interesse del film.
Lo so, ma c'è qualcosa di sorprendentemente franco nella maniera in cui Dwan tratta l'argomento. Non
riesco a capire se si tratti di vitalismo o volgarità, ma in ogni caso non si tratta di quei film sciatti che ci
si aspetterebbe provenire dagli strati più bassi dell’industria. Il problema è che è quasi impossibile
trovare qualcuno capace di lavorare come Dwan su un livello così ingenuamente pulp, dunque mi
riservo di esprimere in seguito il mio giudizio finale.
Alcuni critici francesi pensano che Dwan sia il fantasma di Griffith.
Solo dando un'interpretazione molto marginale alla sua carriera. I francesi sembrano sempre essere
molto affascinati da quei registi che rimangono inghiottiti nella dannazione della necessità. Se Dwan è il
fantasma di Griffith e Ulmer quello di Murnau, come giudicare l'opera completa di entrambi, più
spettrale che fantasmatica secondo qualunque standard convenzionale? È su questo fronte che la
teoria degli autori offre il fianco all'accusa di idiozia. Il critico sta in una posizione delicata. Se consiglia
la visione di La donna che volevano linciare a un pubblico poco esperto, rischia di creare false attese
d’eccezione. Per appezzare Dwan fino in fondo, si deve pensare a cosa sarebbero stati capaci di fare
centinaia di registi della Poverty Row con lo stesso materiale, e lo spettatore medio, che vede solo i film
essenziali, non è in grado di farlo. Non ha senso sostenere con troppa foga il caso di Dwan, ma da
qualche parte, un giorno, qualcuno potrebbe imbattersi in un suo film minore e ricordare che lo stesso
regista è stato degnato di un po' di attenzione, e il film potrebbe così rientrare a far parte di quel
piacevole tipo di arte un po' appannato. Ho spinto amici insospettabili verso il cinema di Dwan, con
risultati gratificanti.
Mi sembra che tu abbia una debolezza per i registi di una certa età.
Anche per quelli morti. Ophüls, Mizoguchi, Murnau, Griffith, Stroheim, Vigo, Eisenstein, Lubitsch,
Becker, Flaherty. Tra i vivi, Renoir, Dreyer, Ford, Hitchcock, Welles, Chaplin, Rossellini, Bunuel, Hawks,
solo per citarne una ventina che definiscono l’essenza del cinema. Ma ce ne sono altri, e altri ancora ne
verranno. Tra i nuovi arrivati punto su Godard, con la riserva di una possibile tendenza
all'autodistruzione.
Torniamo ai film che hai visto di recente.
Come desideri. Uno sguardo dal ponte di Lumet dimostra quanto sia cambiato il cinema negli ultimi
venticinque anni. Non è tanto il fatto che gli esterni da studio – che si tratti di Hollywood o dell'UFA –
abbiano fatto il loro tempo: il pubblico si è fatto più sofisticato, a livello visivo. Il realismo oggi è una
necessità commerciale anche quando il soggetto sembrerebbe spingere verso la stilizzazione.
Dwight Macdonald non ha apprezzato il contrasto tra le location newyorkesi e le convenzioni del
musical in West Side Story.
Lo so. Altri hanno difeso la totale falsità di DaCosta in Capobanda. Stiamo attraversando un doloroso
periodo di transizione, con ciascun critico impegnato a vaneggiare di estetiche personali. La linea sottile
che separa documentario e finzione è più esile che mai, e non ritengo che sia esclusivamente una
buona cosa.
Perché?
Se pubblico e critica sviluppano una resistenza nei confronti delle convenzioni stilistiche, il cinema
potrebbe venir sopraffatto da quello pseudorealismo che ha virtualmente distrutto il teatro come arena
creativa.
È tutto molto astratto. Come si applica a Uno sguardo dal ponte?
Lumet ha trasformato la pugnalata di Miller alla tragedia greca in un pezzo di vita fotografato in maniera
glaciale, compiendo nel complesso un intelligente lavoro di prosciugamento del pretenzioso. E il cast
internazionale, una volta tanto, ha funzionato come strumento di astrazione: Raf Vallone, Jean Sorel,
Raymond Pellegrin, Maureen Stapleton, Carol Lawrence sono talmente staccati da qualunque contesto
sociale da farsi relativamente universali. Vallone, in particolare, è una scelta molto azzeccata.
La sua forza virile e lo stile sottilmente comico mi hanno ricordato la Magnani ne La rosa
tatuata.
Sì, ma il film non funziona, perché il determinismo freudiano-stalinista di Miller svuota la tragedia di
strada di qualunque significato. L'idea di razionalizzare l'atto politicamente reazionario di Vallone come
prodotto di una repressione sessuale inconscia è un esempio di ragionamento confuso.
Aspetta: il Coriolano opera a livelli distinti su Freud, Marx e Machiavelli; il balletto di Chaplin
con il mappamondo ne Il grande dittatore è un'interpretazione freudiana di Hitler; e non
dimentichiamo Ivan che bacia l'assassino della propria famiglia in Eisenstein.
Per quanto riguarda Coriolano, Il grande dittatore e Ivan il terribile mi sento di invocare la ricchezza
delle loro ambiguità, le loro differenti “viste dal ponte”. In Miller ce n'è solo una. In ogni caso, ritengo
che quest'opera scadente abbia poco in comune con gli altri lavori di Miller, il cui merito va oltre il loro
significato. Ciò che mi interessa è la maniera in cui Lumet ha maneggiato questo materiale stilizzato nel
1962, totalmente opposta a quella operata da Santell nel 1936 con Winterset di Maxwell Anderson.
Ricordo che il verso sciolto terribilmente effeminato di Anderson avrebbe avuto bisogno di un
John Garfield che lo facesse a pezzi. Invece si è scelto di affidarlo a Burgess Meredith che l'ha
intonato come se si trattasse delle Sacre Scritture.
Meredith rientrava nel progetto poetico ideato dalla produzione. Ogni elemento del film era falso e
irreale, perché l'intento era fare vera poesia, in contrasto con quei film di gangster fatti solo per
incassare soldi. Il trattamento preciso e realistico di Lumet è superiore all'artisticità posticcia di Santell
soprattutto perché il primo si sta sforzando di trasformare una commedia flop in un film di successo.
Sfortunatamente Lumet non possiede una forte personalità e ne è venuto fuori un film che non è
all'altezza delle sue cose migliori né mal riuscito quanto le peggiori. Detto questo, si tratta di un regista
che vale la pena avere all'opera in un'epoca come questa, fatta di prodotti studiati a tavolino.
Quantomeno non ostruisce il lavoro dei buoni attori.
Com'era Carol Lawrence?
È una scelta azzeccata ma mi sembra un'attrice limitata, sul tipo di Anne Bancroft e Ina Balin.
Vale la pena vedere Anime sporche, a parte Saul Bass?
Non proprio, ma Bass sembra essere pronto a dirigere un film. I suoi titoli con i gatti sono molto
ambiziosi. Al di fuori di questo, si tratta di uno dei film più stupidi degli ultimi anni, anche se non nella
maniera che ci si potrebbe aspettare. La sceneggiatura è un pasticcio di compromessi con il volgare
romanzo d'origine, ma Dmytryk è un regista talmente piatto da rendere noiosa l'assurdità del testo.
Jane Fonda è l'attrice più interessante del cast, anche se molte delle sue scene sono paralizzate dalla
presenza intollerabile di Laurence Harvey. E non ho idea del perché il film abbia aggiunto il tema
lesbico al materiale di Algren.
Sidney Skolsky sostiene che nel film il gatto reciti meglio di Jane Fonda.
È ingiusto dire così. Il gatto era diretto da Saul Bass, la Fonda da Dmytryk. La teoria degli autori
funziona anche con gli attori.
Parliamo di La pelle che scotta.
Ci si aspetta che guadagni cinque milioni di dollari solo negli Stati Uniti, non è poco.
Ti stai scusando per averlo visto?
Più o meno. Volevo anche dare un'occhiata ai giovani interpreti che ne hanno preso parte.
Funzionano?
Michael Callan, Cliff Robertson e James MacArthur sono tipi servizievoli. Ma Suzy Parker mi ha deluso
nuovamente. Era così carina in Open End che avevo pensato qualche regista sarebbe stato in grado di
cavarne qualcosa di buono. Non è capace di recitare, ma in precedenza ciò non aveva rappresentato
un tale problema. Qui le hanno anche sbagliato l'acconciatura e per qualche motivo continuava a farmi
tornare in mente il cupo tormento di Tina Louise. Posso capire perché La pelle che scotta stia
incassando così bene, comunque, al di là dei legami con la televisione di Ben Casey e del Dr. Kildare.
Nella trama c'è un poco di tutto e non troppo di niente. Dopo il suo apprendistato alla Disney, David
Swift è abbastanza abile nell'impacchettare con gusto la robaccia. La questione dell'aborto mi
interessava particolarmente: Cliff Robertson ruba delle pillole per tirare fuori dai guai Suzy Parker, ma il
suo migliore amico, James MacArthur, lo tradisce e lo fa radiare. MacArthur è l'all-American boy
motivato dal nobile desiderio di mettere al mondo bambini e incontra un'infermiera decisa a viaggiare
finché è giovane. La costringe a scegliere tra i viaggi e il matrimonio e la fa rinunciare al sogno di una
vita per la comodità domestica. Gli altri personaggi, compreso Robertson, finiscono per ammirare
MacArthur per la sua integrità e il pubblico odia il suo coraggio. Lo trovo interessante.
Sembra la buona donna descritta da C. S. Lewis in Le lettere di Berlicche: “è il tipo di persona
che vive per gli altri: e riconosci gli altri dalla loro espressione atterrita”. Passiamo a Jessica.
Due parole: Angie Dickinson. Il film è scadente, come ci ha abituati Negulesco da quando è passato al
Cinemascope. Prima del Cinemascope era uno interessante, con I quattro rivali, L'idolo cinese e
Disperato d'amore, nettamente superiore a Delmer Daves, per esempio. Dopo, bisogna ammettere
che la cattiva bravura di Daves è più convincente della mediocrità di Negulesco. Il cast è un pasticcio
internazionale: Maurice Chevalier e Noel Noel fanno gli italiani, Gabriele Ferzetti viene da Antonioni,
Agnes Moorhead da Welles, Angie, naturalmente, da Hawks, Kerima da Sir Carol Reed, più varie attrici
italiane e francesi non accreditate. Mi secca dirlo, ma Angie ha reso meritevole di visione persino
questa trippa priva di gusto.
Stai mostrando una breccia nella teoria degli autori.
Non mi importa. Vorrei solo che Hawks avesse usato lei al posto di Elsa Martinelli in Hatari!. E se è
nuovamente in cerca di un'altra attrice francese, gli raccomando Alexandra Stewart. Tornando a
Hatari!: sapevi che in Safari, del 1956, con Janet Leigh e Victor Mature, danno la caccia a un leone
chiamato Hatari?
No.
Dovresti andare al cinema più spesso.
Preferisco leggere libri.
Snob!
Pattumiera cinefila!
Basta. Ho un'altra chicca, più sullo stile di Films in Review. Sapevi che Bessie Love compare in
Quell'estate meravigliosa nelle vesti di una turista americana? Stupida, naturalmente.
Non sapevo nemmeno questo, ma ricordo un critico di New York che lo eleggeva miglior film
dell'anno.
È ignobile. Il risveglio di una giovane donna di fronte all'ambiguità della vita adulta. Una partitura in
sordina di Addinsell e colori delicati da "paese che non c'è", un delicato romanzo di Rumer Godden, e ci
mancava solo Lewis Gilbert alla regia. Temi adulti: Danielle Darrieux e Claude Nollier hanno una
relazione lesbica.
Sono scioccato.
Anche i bambini nel film sono scioccati. Ecco perché il film è così sensibile, delicato, pregnante. In
parole povere: fa schifo. I critici che l'hanno amato per la sua delicatezza devono odiare il genuino
lirismo di La scampagnata di Renoir. Va detto che Susannah York offre una buona interpretazione e
che diventerà un'attrice interessante quando si libererà di quel rossore adolescenziale dalle guance. Ha
occhi interessanti, per un personaggio falso, e Danielle Darrieux sembra meno a fine corsa di Kenneth
More, benché la sceneggiatura preveda il contrario. Quanto a Luce nella piazza, Yvette Mimieux è
molto graziosa in un'altra parte di persona falsa. Potrebbe rivelarsi una buona erede di May Britt. Guy
Green è un regista capace finché non cominci a ragionare su quello che fa: un doppio gioco con lo
spettatore, portandolo dentro un problema che verrà risolto senza dolore. Il marchio e Luce nella
piazza si occupano di argomenti scabrosi facendo in modo che vittime di disturbi mentali paiano
idillicamente identificabili con lo spettatore. Non si capisce perché Stuart Whitman non possa essere un
buon marito e Yvette Mimieux una buona moglie, ma se i loro personaggi fossero stati tutti d'un pezzo il
pubblico si sarebbe annoiato perché, come molti registi minori, Green non è capace di rendere
interessante un personaggio senza l'intrigo di un problema ad esso legato. Un regista migliore avrebbe
trasformato Luce nella piazza in un paradosso, perché ciò che spesso è toccante negli adulti è legato
ai residui della loro innocenza.
Inoltre non è facile fare film problematici su persone fotogeniche. Le persone belle trascendono
la società per illuminare l'universo. Sono in grado di esprimere le più alte aspirazioni dell'uomo
comune ma mai le necessità pressanti delle masse anonime e delle minoranze afflitte.
Ma se dovessi scegliere tra la bella gente e i problemi dolorosi, probabilmente sceglierei la bella gente
e lascerei i problemi ai politici. Credo che per alcuni il problema più grande sia la bomba atomica, e Il
giorno dopo la fine del mondo è pieno di così tanta propaganda anti-bomba da asfissiare un cavallo.
Ray Milland l'ha girato come fosse un filmetto scabroso, con cinque omicidi e uno stupro a corredare il
tutto. Esattamente il trattamento che merita questo soggetto all'ordine del giorno.
Qualcos'altro prima di chiudere?
Sì: mi è piaciuta la nuova scoperta di Roger Vadim, Catherine Deneuve, nell'ultimo episodio di Le
parigine. Credo sia un passo avanti rispetto ad Annette e anche a Brigitte.
Ti do la possibilità di esprimere la tua concezione di cinema riflessa in questi brutti film per
mezzo di sole tre parole.
Ragazze! Ragazze! Ragazze!
Finalmente la verità è stata rivelata.
(Pubblicato sul New York Bullettin del 15 maggio 1962 e ristampato all'interno di Confessions of a
Cultist, 1970. Traduzione di Alessandro Stellino).