Rose di memoria e di speranza
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Rose di memoria e di speranza
Rose di memoria e di speranza Fiori per ricordare le vittime nel giorno in cui ha sfilato l’Italia sofferente In un volantino una poesia dedicata a bimbi e mamme che da venti mesi non ci sono più GIUSTINO PARISSE C’erano. Anche loro c’erano. In fila, in corteo, dentro il candore di una rosa bianca. Dentro i volti tristi ma non rassegnati di chi li ama e non li dimentica. Ventimila? No. Ventimila più 309: le vittime di quella notte che ha cambiato la storia dell’Aquila. Avevo anch’io una rosa bianca in mano lungo il corteo che doveva essere solo neroverde ma che si è tinto d’arcobaleno per i tanti ombrelli aperti a riparo da una pioggia insistente che ha stinto persino l’inchiostro sul taccuino degli appunti. E’ stata la giornata dell’Italia sofferente, dell’Italia che piange di rabbia e di dolore, che non si rassegna alle ingiustizie, che chiede di poter studiare e lavorare. Sì, ho visto anche qualche scalmanato, magari in cerca della miccia per far esplodere la rissa. Per fortuna non ci è riuscito. Poi c’era L’Aquila, non tutta. Molti sono stati fermati dal pomeriggio uggioso che ha tenuto in casa le giovani coppie con bambini e i nonni con qualche acciacco di troppo. Altri sono stati alla larga temendo scontri con la polizia (esemplare è stata la gestione dell’ordine pubblico). Qualcuno avrà obbedito al richiamo della politica che ormai si gioca sullo slogan “o stai con me o sei contro di me”. La Chiesa aquilana ufficiale ha disertato anche se a parole si era detta solidale. C’erano però i ragazzi della Caritas, quelli che non si nascondono dietro i fumi dell’incenso, ma sanno cosa significa stare vicino alla gente che ha certo bisogno di preghiere ma anche di un pezzo di pane e di un letto quando non ce l’ha. A piazza d’Armi ho guardato i balconi e le finestre dei palazzi che girano ad angolo alla fine di viale della Croce Rossa. Nessuno si è affacciato non perché non ci fosse curiosità ma perché in quegli edifici dal sei aprile del 2009 non ci abita più nessuno. Una ragazza mi ha consegnato un volantino color verde. Pensavo a un altro proclama di giornata e invece c’era il testo di una poesia di Roberta Magnante Trecco: «Boato di forze indicibili, tutto di blue incandescente, sirene rosse, urlate le grida di pianto, voci di bimbi, le loro mamme abbracciate. Frammenti d’anima ridotta a brandelli. Polvere, travi, cemento! Cenere..in fine». In fondo la dedica «a Fabrizia, Davide, Matteo, Stefano e alla loro mamme Claudia, Daniela, Giuliana, perchè non si dimentichi, perché non sia accaduto invano, per dare voce a chi non c’è più». Il corteo pian piano si è mosso. Mi sono accodato dietro allo striscione degli onnesi: «Onna, c’é... c’era». Incrocio amici, facce note, compagni di sventura. Saluto Vittorio Agnelli il “mitico” professore degli anni più belli passati all’istituto tecnico commerciale che aveva sede in quel palazzo Quinzi oggi triste e vuoto in attesa di tempi migliori. Poi incontro Guido. Lui è nato a Onna. Abbiamo giocato insieme “a pallone” alla fine degli anni Settanta di quello che è ormai il secolo scorso. Poi ci siamo un po’ persi di vista. Lui è un operatore del 118. Mi racconta di quella notte in via Roma dove abitava con la famiglia. Di quella scossa terrificante, del cemento, dei calcinacci, della polvere che impediva anche di vedere la punta del naso. Della moglie che scende dal letto ma il pavimento le frana sotto i piedi e vola giù di due piani. Gli si illuminano gli occhi quando racconta del coraggio del figlio, di quei ragazzi-studenti che, su via Roma, prima timorosi poi “eroi per caso” strappano letteralmente dalle macerie la moglie che si sentiva perduta. Poi parla di sé che scende con una scala dal balcone e si avvia verso l’ospedale passando per via Duca degli Abruzzi dove prende coscienza della tragedia collettiva. Dopo il ponte Belvedere passa per via Persichetti e arriva davanti alla Casa dello studente. E’ lì che il cuore alle 4 del mattino si ferma, pur senza ancora sapere delle tante vite strappate al futuro. Mentre parliamo, con le scarpe zuppe d’acqua e con i piccoli ombrelli che a fatica fermano la pioggia, arriviamo all’altezza di Fontesecco. Poco prima, davanti a un bar che ha riaperto da poco notiamo Livia Turco deputata del Pd. Viene presa di mira. Le vengono lanciate contro accuse pesanti. Si teme una reazione. Lei resta impassibile, non risponde e non si muove. Dopo pochi minuti tutto finisce e la tensione si abbassa. All’incrocio con Fontesecco la strada è bloccata ma molti decidono di passare lo stesso per risalire verso piazza Duomo da via Sallustio. Ci sono solo un paio di vigili urbani che si scansano e lasciano fare. L’ordine è stato quello di evitare il più possibile occasioni di scontro. Nel vuoto di quella che fu la Casa dello studente c’è chi si ferma a depositare la rosa bianca. Ma non c’è angolo di via XX Settembre dove non c’è un fiore, una frase, una fotografia. Ieri sono state raccolte firme per convincere il Comune a cambiare il nome alla strada: da via XX Settembre a via Sei aprile. Non è solo una questione di date. E’ memoria, cordoglio, ricordo, ammonimento. L’Aquila deve essere ricostruita ma bisognerà farlo bene. Non ci dovranno più essere rose bianche a punteggiare case e palazzi disfatti. Non ci dovranno essere più figli e genitori divisi dalla furia di sassi e cemento. Due fazzoletti che avevo in tasca cadono sull’asfalto e si bagnano. Sono da buttare. Cerco un cestino per l’immondizia. Non c’è. Nella città ridotta in macerie e senza rumori l’immondizia si butta a terra, confusa fra i fogli illegibili di un libro, il giocattolo spezzato di un bimbo in fuga, il termosifone appeso nel vuoto che non scalda più nessuno. In piazza Duomo c’è la fila per firmare la legge popolare. Lo faccio anch’io. Consegno il documento all’assessore Alfredo Moroni che riempie il modulo. Intorno vedo tanta gente che attende con pazienza il suo turno. Sul palco sta parlando Patrizia Tocci che scrive poesie ma sa anche colorare la voce di rabbia per la città perduta da 20 mesi. Poi me ne torno verso piazza d’Armi. Via XX Settembre è buia e semivuota. Continua a piovere. Guardo le due rose bianche in mano a mia moglie: sì, papà, torniamo tutti a Onna. E a quel punto non so più cos’è che mi bagna il volto.