La novella del buon vecchio e della bella fanciulla
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La novella del buon vecchio e della bella fanciulla
L’eredità di un commediante: La novella del buon vecchio e della bella fanciulla di Felice Rappazzo Premessa Nell’attività letteraria del “vecchio” Svevo, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla si ritaglia un suo spazio per la scrittura a un tempo diretta e allusiva, per una tematica nella quale convivono denuncia sociale e analisi psicologica, per la presenza appena abbozzata e subito stemperata di nodi problematici tipici della cultura modernista. Dopo un periodo di discreta fortuna presso i lettori, testimoniata anche da edizioni dedicate al singolo testo della novella, essa è entrata in un relativo cono d’ombra, cui si è sottratta negli ultimi anni con la ripresa del lavoro filologico e del rinnovato interesse critico e “culturale” su Svevo (testimoniato fra l’altro dalla pubblicazione, nel 2004, di Tutte le opere per la collana «I Meridiani» Mondadori). Si tratta di uno degli ultimi testi dello scrittore, che si offre a una lettura plurima per i molti piani e per le molte sfaccettature che presenta, ed è un testo sostanzialmente giunto a compimento ma forse qua e là ancora da rifinire, entro un laboratorio ancora in parte aperto e interrotto dalla improvvisa morte di Svevo. Ciò ha anche prodotto un dibattito filologico che rimarrà al di fuori di queste pagine. 1 Punterò invece la mia attenzione sulla presenza, nella Novella, di specifiche modalità enunciative, e sui 1 Nel secondo volume di Tutte le opere, Racconti e scritti autobiografici, curato da C. Bertoni, viene scelta una redazione contenente, oltre al canonici dieci capitoli presenti a partire dall’edizione Morreale del 1929, anche un frammento di XI capitolo, ricavato da un diverso dattiloscritto, che avvierebbe una nuova articolazione della novella. Mi sembrano persuasive al riguardo le osservazioni di M. Tortora, (Svevo novelliere, Giardini, Pisa 2003, pp. 72-76), che contesta tale ricostruzione e sposta oltre tutto al 1928 le ultime fasi di stesura della Novella, interrotta dalla improvvisa e tragica morte dello scrittore. Dello stesso parere è G. Palmieri, che ha fornito di recente un’edizione critica del testo (Sulla tradizione critica della «Novella del buon vecchio e della bella fanciulla» di Italo Svevo (con un’edizione critica), in «Filologia italiana», 7 – 2010, pp. 163216; la discussione si legge alle pp. 163-74, e in particolare quella sulla scelta del manoscritto alle pp. 160-70; il testo dell’edizione critica alle pp. 175-216. In questo lavoro seguirò, per l’appunto, questa edizione, limitandomi a indicare fra parentesi, alla fine di ogni citazione, la pagina o le pagine da cui essa è tratta, facendo precedere questa indicazione, tuttavia (per la limitata circolazione del testo, presumibilmente solo fra studiosi), dall’indicazione del capitolo in numeri romani, per una maggiore reperibilità del passo anche presso le edizioni commerciali disponibili. 1 modi in cui queste si intrecciano con alcuni temi letterari e culturali che essa offre al lettore. Fra apologo e antifrasi Fin dalle pagine iniziali, anzi proprio fin dal titolo, la Novella del buon vecchio e della bella fanciulla mostra e quasi esibisce modalità enunciative prevalentemente fondate e costruite su una linea di ambivalenza se non decisamente di ambiguità. La parola «novella» richiama antiche modalità di titolazione, italiane (si pensi a Boccaccio e a molti novellisti quattro-cinquecenteschi) ma non solo, che lasciano intravedere connotazioni ironiche o satiriche: in queste si assume il linguaggio dell’altro, dell’avversario, per contestarlo e decostruirlo. I sintagmi «buon vecchio» e «bella fanciulla», poi, nella loro beffarda semplicità, si chiariscono ben presto per quel che sono: vere e proprie forme antifrastiche. Perché anche il lettore più ingenuo comprende subito quel che il narratore sa bene: che il «vecchio» non è affatto buono, se non nella sua falsa coscienza; e che la «fanciulla», per quanto certamente bella, non ha nulla della freschezza che il sostantivo pretende di suggerire, se si esclude la vitalità che essa esprime nelle prime pagine. L’aggettivo, riferito al vecchio, e il sostantivo che designa la protagonista femminile sembrano discendere dalla demistificante e ironica voce del narratore. Entrambi i personaggi infatti giocano con spietatezza le loro carte in una relazione erotica e affaristica fondata su calibrati rapporti di forza e di potere, che sulle prime sono tutti a vantaggio del viscido e ipocrita «buon vecchio», e che man mano che si procede sembrano spostarsi piuttosto a vantaggio della cinica e opportunista «bella fanciulla». D’altra parte l’annotazione rematica del genere «novella», l’accenno dunque alla “forma semplice”, all’apologo, allude a caratteri di esemplarità della vicenda che s’intende narrare, a una sua organizzazione in vista di un significato, di un’acme, com’è proprio della novella moderna. 2 Ci troviamo, fin dalle soglie del testo, di fronte ad una delle molte possibili 2 Per le “forme semplici”, generi pre-letterari, il riferimento è naturalmente all’opera omonima di F. Jolles, Forme semplici [1930], Mursia, Milano 1980; ma la novella non è fra le forme individuate 2 varianti dell’opacità e della pluridiscorsività proprie del modernismo letterario. Gli stessi capitoli (o paragrafi) in cui essa è suddivisa appaiono piuttosto segmenti narrativi, legati e continui, certo, ma anche relativamente autonomi nell’elaborazione tematica. La materia della novella è presentata in modo apparentemente disordinato e certamente recursivo, quasi che l’autore voglia misurarsi con una tenue forma di montaggio. Regime prevalentemente ma anche imperfettamente antifrastico, dunque. E sappiamo ormai da tempo, soprattutto per merito di Francesco Orlando, quanto l’ambivalenza antifrastica comporti di conflittualità problematica nel testo letterario. Esso domina la prima parte della novella, e si mantiene, attenuandosi, anche nella seconda, quando tuttavia prevale la voce esterna, giudicante e commentante, e con essa un regime più pensoso e patetico; e tuttavia la modalità antifrastica interferisce, talvolta energicamente, con la costruzione a mo’ di apologo, o almeno di morality, della Novella, vanificando in parte il valore diretto e “pedagogico” di questa forma esemplare. Inoltre il passaggio dalla prima alla terza persona, dal piano autodiegetico a quello eterodiegetico, in apparenza più tradizionale, ha l’effetto permanente di mettere fuori causa l’inattendibilità del narratore-personaggio, e di ridurre quasi a zero la sovrapposizione dei vari tempi narrativi. Se si eccettua il “prologo” («Ci fu un preludio all’avventura del buon vecchio…», suona l’incipit), non troviamo esempi di prolessi e analessi. Non è escluso, invece, l’alternarsi di verità e di bugie, ma con una precisa distinzione di ruoli: il «buon vecchio» costruisce attorno a se stesso un cumulo di bugie autoassolutorie, contraddette talvolta da precisi lampi di sincerità; e altre verità, più essenziali, trapelano prima e si rafforzano poi a poco a poco. Al narratore spetta invece il piano della verità e dello smascheramento, soprattutto del principale personaggio. 3 E per la verità anche la malizia della «fanciulla» viene e studiate da Jolles. Sulla specificità della novella come genere distinto, basti qui richiamare i contributi di B. Ejchenbaum, Teoria della prosa, in I formalisti russi, a c. di Tz. Todorov, Einaudi, Torino 1968, pp. 231-47; e di A. Gailus, La forma e il caso: la novella tedesca dell’Ottocento, in Il romanzo, a c. di F. Moretti, Einaudi, Torino 2002, vol. II: Le forme, pp. 505-36. 3 Su questo aspetto ha richiamato di recente l’attenzione un contributo di Guido Baldi, Il «buon vecchio»: un anti-Zeno?, in Italo Svevo. Il sogno e la vita vera, a c. di M. Sechi, Donzelli, Roma 2009, 3 rivelata; ma essa è personaggio che vive a lungo, nel testo, quasi solo entro la mente e la percezione strumentale che ne ha il vecchio. Tuttavia il narratore è qua e là complice e “doppio” dei suoi personaggi. Ne è la coscienza, estraniata, certo, ma pur sempre presente e accanitamente, anche se nascostamente, aggressiva e giudicante. 4 Ha il compito di smentire duramente le pretese di bontà e moralità del vecchio (così come l’innocenza maliziosa della «fanciulla»): ma nel rovesciarne la posizione ne coglie il nucleo interno di verità, le quali si collocano, tuttavia, in luoghi decentrati e imprevisti, là dove il principio di piacere cade sotto i colpi della realtà. Il controcanto antifrastico della voce narrante sta alla Novella come il narratore inattendibile sta alla Coscienza di Zeno. La materia della Novella, infatti (così come avviene per altre opere tarde di Svevo: Rigenerazione e Corto viaggio sentimentale, innanzi tutto) sembra provenire da una costola del romanzo (la relazione fra Zeno e Carla, naturalmente), ma il suo trattamento tematico si modifica proprio per la prospettiva esterna, che comporta una forte resistenza all’indeterminatezza del giudizio rispetto ad esso. La voce del narratore ha il compito di ristabilire la verità, o almeno la sua direzione. Possiamo aggiungere che costruzione antifrastica ed eterodiegesi convivono con altri elementi contraddittori: lo sfondo realistico (i quadri cittadini, la guerra incombente alle spalle delle vicende private, gli affari del vecchio) da una parte, e, dall’altra, la tipizzazione stereotipa dei personaggi, privi, fra l’altro, di nome proprio (il vecchio, la fanciulla, la pp. 65-83. Nel saggio, con il quale le mie pagine sono in evidente dialogo, Baldi insiste, fra l’altro, sulla funzione centrale del narratore eterodiegetico, «punto di riferimento certo e stabile» per il lettore (p. 67), che si pone di fronte al personaggio come «istanza superiore», come una sorta di super-ego. 4 In proposito, col consueto acume, M. Lavagetto, ha annotato la presenza di una simulazione sveviana che si manifesta come un «timbro ironico di una voce narrativa che solo in apparenza si mostra solidale con i suoi protagonisti: in realtà non li risparmia, li insegue, li induce a scoprirsi con inesauribile e acuminata crudeltà. È quasi una costante di Svevo che, in quanto narratore, si tiene scrupolosamente tra le quinte […] E anche quando quel narratore (nella Novella del buon vecchio) sembra abbandonare momentaneamente la zona d’ombra in cui è solito acquattarsi, e prende la parola e si rivolge ai lettori (o con finta bonomia al suo protagonista) la natura del patto non muta e la sua voce resta la stessa: identica e inalterabile l’ironia, vale a dire (sul filo dell’etimo greco) la «simulazione». (M. Lavagetto, Notizie dalla clandestinità, saggio introduttivo al volume Racconti e scritti autobiografici, nella citata edizione di Tutte le opere, p. XXXIX). Anche G. Baldi, nel saggio sopra richiamato, sviluppa argomenti consimili. 4 governante, il medico) e dunque tendenti ad essere maschere, elemento che fa pendere la Novella piuttosto dalla parte dell’apologo e dell’exemplum. Il testo, insomma, presenta molti elementi conflittuali, “polifonici”, allude a un trauma, mentre lo cela. 5 Ma, a proposito della novella, è stata proposta anche la nozione di «multifonia», ossia di una modalità stilistica che rivela la «coesistenza senza supremazia di idee discordanti»; essa non si realizza nella Coscienza di Zeno a causa della modalità omodiegetica del racconto; in questo testo, invece, e in genere nelle novelle eterodiegetiche, la multifonia è prodotta dalle posizioni, sempre distinguibili, di personaggio e narratore.6 Un’ulteriore novità formale ritroviamo in alcuni forti segnali di extralocalità, del tutto coerenti con la modalità antifrastica dell’enunciazione, se non addirittura indicatori di questa: i commenti della voce del narratore, ora esterni rispetto alla coscienza del protagonista. Fin dalla prima pagina tale voce si distanzia, con un commento, dal personaggio: «Ciò prova che i vecchi sono ben vecchi quando hanno da fare» (I, 175); d’ora in avanti tali interferenze si susseguono una pagina dopo l’altra. E, fin dal secondo segmento narrativo, troviamo un segnale, una marca ancora più esplicita e quasi brusca: «Vi [sulla piattaforma del tram] si trovava anche il nostro vecchio» [II, 180]: dove l’aggettivo ha evidente funzione di deittico. Da questo momento più volte, qua e là, vedremo identificato il personaggio come «il mio vecchio», «il mio buon vecchio». Nell’ultimo segmento narrativo troviamo addirittura il pronome «io», riferito al narratore-testimone, che appare qui anche come detentore degli appunti del vecchio: «Queste prefazioni di cui io do solo il nocciolo…»(X, 213). La chiamata in causa del lettore serve innanzi tutto da distanziamento critico – e non solo ironico – dalle posizioni del personaggio; per di più essa non è compiacente ammiccamento, semmai richiamo a corresponsabilità interpretativa delle bugie e verità che il vecchio produce. Il narratore lo guida, con questo sottile procedimento di metalessi narrativa, alla formazione di un giudizio, alla 5 6 Cfr. C. Segre, Intrecci di voci, Einaudi, Torino 1991 , p. 37. Così M. Tortora, Svevo novelliere, cit., pp. 111-12. 5 presa di distanze, a uno sguardo anamorfico e dunque straniato, sulla materia narrata. Ha, insomma, una funzione di “regìa”. Questo insieme di tratti formali hanno dunque lo scopo e l’effetto di rendere a un certo punto esplicito, di inverare quasi, quanto in pagine consimili della Coscienza di Zeno rimane costantemente opaco e implicito. L’apologo ha senso in quanto contiene una componente di riflessione pedagogica. Che questo testo narrativo sia definito “novella” significa anche richiamare il suo taglio, la selezione di un tema, la prospettiva di scorcio che essa comporta, nonostante l’effetto rallentante che producono le tortuosità del suo dipanarsi: le digressioni, le riprese di motivi paralleli, i commenti, le ripetizioni, l’inserimento marginale di personaggi di secondo piano (la governante, il medico, la madre della fanciulla) e di episodi apparentemente eccentrici e divaganti, in realtà funzionali a fare da specchio e voce critica alla “coscienza” del vecchio. Un commediante C’è una figura sociale (o forse una figura di funzione, se non addirittura una condizione umana della modernità) che Nietzsche mette in evidenza in alcuni paragrafi (il 356 e poi il 361) del libro quinto («Noi senza paura») di La gaia scienza: la figura dello Schauspieler, del commediante, dell’istrione. Gli Europei moderni di sesso maschile, scrive Nietzsche nel primo dei due paragrafi, sono costretti dalle necessità della vita «ad assumersi un determinato ruolo, la cosiddetta professione» 7; il processo è tanto radicato che essi finiscono col non distinguersi più dal ruolo: «A guardare più in profondità, dal ruolo si è andato sviluppando realmente un carattere, dall’arte la natura»8. Lo sviluppo di questi argomenti porta alle consuete conclusioni di Nietzsche, spesso irritanti pur nel loro acume, sulla decadenza culturale della modernità e della democrazia. Ma le osservazioni che più sono appropriate al personaggio letterario che qui studiamo sono quelle, più leggere ed effervescenti, che troviamo al par. 361. Dalla figura del commediante («inizialmente il buffone, il 7 8 Cito da F. Nietzsche, La gaia scienza e idilli di Messina, Adelphi, Milano 1997, p. 275. Ibidem. 6 cantastorie, lo zanni, il giullare, il clown, ma anche il servitore classico, il Gil Blas»9) si perviene qui a quella dell’artista e del letterato. Il moderno Schauspieler, colui che si mette in gioco sulla scena del mondo, innanzi tutto il filisteo borghese o piccoloborghese, certo, ma poi chiunque giochi un ruolo nella società (tutti, dunque), vive «la falsità con buona coscienza, il piacere della contraffazione nel suo prorompere come potenza che spinge da parte il cosiddetto “carattere”, inondandolo, talora soffocandolo; l’intimo desiderio di calare in una parte, in una maschera, in una parvenza; un eccesso di facoltà d’adattamento»10, insomma, che, seppur nata da necessità di sopravvivenza, da inopia sociale, finisce col ricoprire tutte le funzioni e le identità dell’individuo – se mai ne restano – e caratterizza dispoticamente e irrazionalmente l’uomo moderno. Anche il letterato non è esente da questo processo: «giacché il letterato è essenzialmente commediante – difatti egli recita la parte dell’”esperto”, dello “specialista”»11. Ritorniamo al «nostro» vecchio. Egli ha tutti i tratti dello Schauspieler che abbiamo appena seguiti (compreso il trasformarsi in un letterato, esperto e specialista), ma è anche una figura degradata di Faust, seduttore e manipolatore, distruttore e costruttore, e proprio per questo massimo Schauspieler, soprattutto nella sua capacità di calarsi nella parte dell’inquieto e sofferente personaggio impegnato in una quête. Faust è insomma, com’è comunemente riconosciuto, un moderno archetipo, la cui traccia si diffonde in molte figure della letteratura moderna. Il vecchio della novella sveviana sembra accogliere alcuni tratti di Faust, ma, per l’appunto, in maniera degradata e dunque per molti aspetti “comica” anziché tragica, quotidiana e triviale anziché grandiosa e problematica. E il medico suo amico, nello svelargli talvolta, ironicamente e brutalmente, la verità sessuale e il sottinteso rapporto di potere con la fanciulla, ha a sua volta qualcosa di Mefistofele. I procedimenti antifrastici – di cui, come abbiamo osservato, si possono cogliere numerosi esempi soprattutto dalla prima parte della novella, ma che compaiono un 9 Ivi, p. 290. Ivi, pp. 289-90. 11 Ivi, p. 291. 10 7 po’ più radi ma più acri anche nelle parti conclusive – sono in qualche modo la spia di tale abbassamento parodico e lo strumento della extralocalità (e dunque del giudizio) del narratore, collocato certo all’esterno del suo personaggio, ma anche con lui in stretta prossimità. Il «buon vecchio» è un commediante in quanto si presta innanzi tutto a varie forme di occultamento. In primo luogo – ed è chiaro – egli occulta ben presto e a lungo la natura eminentemente erotica del rapporto con la fanciulla (con quel che comporta di ipocrisia e sopraffazione sociale), ammantandolo di altruismo, filantropia e spirito paterno12. Ma il narratore lo smaschera: «I vecchi quando amano passano sempre per la paternità e ogni loro abbraccio è un incesto di cui ha l’acre sapore» (II, 181); il vecchio, già sulla piattaforma del tram, «rideva di un riso falso»; anche la fanciulla, dal canto suo, mostra subito «un lampo di malizia»; i due personaggi s’intendono subito, il loro rapporto è subito uno scambio, un “affare”. Ma questo livello duplice e implicito della relazione è, in fondo, il più agevole da percepire. Il vecchio è un commediante perché mette in scena la sua moralità innanzi tutto sul palcoscenico della sua coscienza, rivendicando l’avventura come un diritto, il potere esercitato come un fatto statisticamente comune e dunque giustificato, l’educazione programmata per la fanciulla come una azione benefica anziché come una sublimazione e uno spostamento nei rapporti di potere. Più radicale e importante è la rimozione dalla coscienza del vecchio della relazione fra eros, da una parte, e denaro, dall’altra; il tutto sul proscenio di un’altra compensazione o rimozione, quello costituito dallo sfondo di guerra. La presenza del denaro e la centralità del suo potere nella Novella, per quanto dissimulate e propriamente occultate dal vecchio, che a lungo finge di credere di affascinare con la sua eleganza, col lusso e coi cibi la giovinetta, è ingombrante. Così l’erotismo di ritorno è per lui ammantato di illusione; egli s’impone di illudersi che il 12 Un commento a questi argomenti, che prende spunto dall’accenno al Re Davide nella Novella (II, 181), con al centro la tarda attività narrativa e teatrale di Italo Svevo, troviamo in Enza Lamberti, il paradigma di Re Davide. La “truffa alla vita” nei vegliardi dell’ultimo Svevo, in Gli scrittori d’Italia. Il patrimonio e la memoria della tradizione letteraria come risorsa primaria, Atti dell’XI congresso dell’ADI, Napoli 26-29 settembre 2007, Grottammare, Graduus 2008. 8 suo comportamento sia mosso da una sorta di benevola e gratuita generosità, e non può riconoscere che il denaro è potere alienato e differito, non solo di fronte alla fanciulla, ma anche di fronte a se stesso. Mentre è strumento di corruzione, funge comodamente anche da autoassoluzione: dopo il primo attacco di angina pectoris e la provvisoria rinuncia forzata alla fanciulla, il vecchio le scrive un pretestuoso biglietto di congedo; vi unisce del denaro «destinato a saldare il conto con la propria coscienza» (VI, 190). Ricorrendo costantemente nella novella, il denaro non soltanto è il mediatore nascosto della vicenda, il “basso continuo” tematico, ma è la vera forza rigenerante, il vero afrodisiaco del “vecchio”. Al personaggio è ben chiaro che nella relazione esso è un ingrediente necessario proprio per colorarla come preferisce e com’è più soddisfacente immaginarla, dunque per occultare il mercimonio: «L’avventura doveva restare “vera” ed egli collaborava volenteroso alla falsificazione» (III, 186), leggiamo in uno degli enunciati più taglienti dell’intero testo, evidentemente di pertinenza del narratore. E parecchio più avanti, già al cap. VIII, il vecchio riflette sul fatto che anche le sue elargizioni di denaro erano state ben misere. La fanciulla non avrebbe potuto essere appieno una mantenuta: «E gli parve che questo fosse il rimorso vero, non il fatto ch’egli, vecchio, si fosse attaccato ad una giovinetta» (IX, 203). Nel suo rapporto con Carla, Zeno era stato più sincero ed esplicito.13 Il denaro veniva conferito alla ragazza, infatti in una busta definita «dei buoni propositi» ; ed era il risultato – per l’appunto – dell’intenzione di Zeno di farsi, di Carla, “pedagogo”. Per la fanciulla della Novella la relazione col vecchio è vista esattamente all’inverso, e si rivela invece palesemente e serenamente insincera: «Per lei l’avventura era chiara tanto che non le era possibile di mentire come faceva lui». Di fronte alla gelosia preventiva del vecchio, reagisce negando risolutamente e con molti argomenti ogni possibile altro amante: «Cattiva retorica quella che s’appiglia a tanti argomenti, ma intanto dal vecchio sparivano l’amore e la gelosia e si poteva ritornare alla cena» (IV, 188). 13 G. Baldi, nel contributo sopra citato, sostiene appunto che «il “buon vecchio” sarebbe dunque un anti-Zeno, il contraltare negativo dell’eroe del precedente romanzo, con il quale verrebbe a costituire una sorta di dittico oppositivo» (Il «buon vecchio»: un anti-Zeno?, cit., p. 83). 9 Il denaro rende dunque da una parte possibile, ma dall’altra falsifica radicalmente, l’«avventura». Esso è infatti das allmächtiges Wesen, l’ente onnipotente dei rapporti umani, come sappiamo già dal Marx dei Manoscritti economici-filosofici del 1844, impegnato, in quelle pagine, in un celebre commento a Shakespeare e a Goethe. In quanto mediatore universale, il denaro si intromette fra l’uomo e gli oggetti, ma anche fra l’uomo e l’altro uomo, invertendone l’autenticità dei rapporti, rovesciando le qualità naturali. L’antico simpatizzante del socialismo, l’autore di La tribù, è ben consapevole di certo di questo potere del denaro, e gli conferisce chiaramente questo ruolo. E tale potere è noto non solo al vecchio – com’è agevole comprendere – ma anche alla fanciulla: sebbene, naturalmente, a ruoli rovesciati. Ogni volta che il denaro ricompare nella vicenda, esso falsifica, o ripaga provvisoriamente, il rapporto squilibrato. La dominante struttura antifrastica, il raddrizzamento degli enunciati del vecchio da parte del narratore (e in qualche caso del dottore-Mefistofele) sembra così una sorta di analogon formale della componente tematica legata al denaro e al suo effetto di pervertimento delle relazioni fra gli esseri umani, dunque anche dell’eros. Il denaro tuttavia ha anche un altro effetto: quello di occultare, rinviare la morte, nel duplice senso: quello letterale, e quello, metaforico, di insignificanza dell’esperienza. L’avventura, la «vera avventura», cade per il vecchio nello stato di vedovanza, ma ormai anche, verosimilmente, di una condizione di sterilità e inconcludenza vitale. Il vecchio appare come un vecchio solo, emblematicamente, allegoricamente. La sua figura, la sua essenza, è quella, solo e semplicemente, di vecchio. Egli è tale non solo per l’età, ma anche perché rappresenta una figura sociale, quella che, con il perseguire gli affari, l’arricchimento, la prestazione, ha inaridito le radici della vita e dello scambio umano. Il suo comportamento, le sue idee, il suo linguaggio, sono ripetitivi e coattivi, e producono la recursività dei motivi narrativi. Per queste ragioni, fin dall’inizio, fin dalla definizione del protagonista («vecchio», appunto), Thanatos incombe su Eros. Ma il protagonista non vuole ammetterlo; il suo sforzo, da affarista borghese, è quello di dominare e controllare il 10 declino fisico, il trascorrere del tempo. Infatti egli non è e non è stato, a differenza di Emilio Brentani, un inetto. Col denaro e con l’appagamento erotico che il denaro gli procura, egli vuole, certo, esorcizzare la vecchiaia e la morte; ma anche, al tempo stesso, illudersi di riconquistare uno spazio, un progetto alla sua vita, di colorarla di senso anche retrospettivo. Come spiegarsi, altrimenti, l’ostinato sforzo di trasformarsi in educatore? Più dissimulato, ma proprio per questo centrale, il ruolo della guerra. Come Zeno, il vecchio è un indiretto profittatore di guerra. Ma egli non giunge alla consapevolezza cui perviene Zeno sul finire della Coscienza. La vicenda, infatti, nonostante l’atemporalità in cui è immersa nella sua apparente modalità fiabesca, è con grande precisione ambientata – così come l’ultimo decisivo capitolo della Coscienza di Zeno – nei mesi di Caporetto. La “filantropia” del vecchio verso la fanciulla è esattamente della stessa natura che gli consente buoni affari dalla guerra, e la stessa avventura è un affare reso più agevole dalla miseria e dal crollo morale indotti dalla guerra. Questa gli consente peraltro anche l’autoassoluzione per mezzo di buoni sentimenti. Val la pena di citare per esteso il brano che segue: Ogni manifestazione di guerra cui il vecchio assisteva, gli faceva ricordare con uno stringimento di cuore ch’egli in seguito alla guerra guadagnava tanto denaro. A lui dalla guerra risultava la ricchezza e l’abiezione. Quel giorno pensò: - Ed io tento di sedurre una fanciulla del popolo che colà soffre e sanguina! – Era abituato da lungo tempo al rimorso dei buoni affari che faceva ed egli continuava a farne ad onta del rimorso. La sua parte di seduttore era nuova e perciò era più nuova e intensa la sua resistenza morale. I nuovi delitti non s’accordano tanto facilmente con le proprie moralissime convinzioni e ci vuole del tempo per fare adagiare pacificamente gli uni accanto alle altre, ma non c’è da disperarsene. Intanto là, al molo, in cospetto dell’Hermada in fiamme il buon vecchio abbandonò il suo proposito. Avrebbe avviata la giovinetta ad un sano lavoro e non sarebbe stato per lei altro che filantropo. (III, 184). La guerra è l’irruzione della realtà nel castello di razionalizzazioni e autoassoluzioni che il vecchio si costruisce. Ancora una volta egli rimane un gradino più in basso dello Zeno dell’ultimo capitolo del romanzo, che proprio di fronte alla guerra si libera del gioco perverso di verità e menzogne nel quale aveva voluto rimanere invischiato: 11 «è vero che finora il romanzo era riuscito ad azzerare scrupolosamente i referenti, ma da questo momento i referenti entrano prepotentemente nella macchina narrativa e ne prendono possesso, ne assumono la guida», è stato osservato. 14 Il narratore esterno della Novella non consente, al vecchio, questo spazio di consapevolezza e di riscatto. La «vita vuota» e l’«educazione»; l’esperienza impoverita Nella seconda parte della Novella, a partire dal VI capitolo, e poi in modo crescente nei successivi, la relazione erotica perde spazio e si fa più precaria a causa dell’attacco di angina pectoris (vera e propria punizione per la trasgressione), e si impone il secondo volto del vecchio Schauspieler, quello dello scrittore e, attraverso la scrittura, precisamente quello dell’educatore, ruolo che già, in Senilità, Emilio avrebbe voluto assumere con Angiolina. La scrittura diviene – appare banale dirlo – il sostituto forzato dell’Eros, il suo succedaneo. C’è tuttavia una fase di transizione, nella quale il vecchio oscilla fra compensazione psicologica e percezione della sua progressiva emarginazione dalla vita. Costretto a rinunciare all’Eros, egli si sforza di farlo aiutandosi con una reiterata denegazione: «lasciato solo, pensò subito alla giovinetta, per liberarsene definitivamente. Egli tuttavia ricordava che la giovinetta lo amava» (VI, 190); «E qualcuno, sospettoso, dal suo interno gli domandò: - Perché? Vuoi ricominciare? – Il vecchio si mise a ridere: – Desiderio? Ma neanche per sogno! – Però guardava sempre dalla stessa parte con l’atteggiamento del desiderio più intenso. – Io – pensò, convinto questa volta di dire la verità – sarei del tutto tranquillo se sapessi che quel giovanotto l’ama e vuole sposarla ». (VII, 193). Ma la finta ingenuità – illusoria e consolatoria – di questa motivazione (la giovane ricorrerà ancora di frequente nei suoi pensieri, e torna a frequentarlo poi più forte di lui, ribaltando decisamente i precedenti ruoli) non può nascondere la verità profonda della sua vita: l’inaridimento dell’esperienza, la perdita del significato, che erano state, forse, la spinta inconscia della sua ricerca erotica: «Così continuò la sua vita 14 R. Castellana, Realismo modernista. Un’idea del romanzo italiano (1915-1925), in «Italianistica. Rivista di letteratura italiana», A. XXXIX, n. 1, gennaio/aprile 2010, p. 43. 12 vuota» (VI, 191); poco oltre, troviamo questo breve quadro: «si sedeva davanti alla stufa e amava di gettarvi dei pezzi di carbone che guardava poi bruciare. Poi chiudeva gli occhi abbacinati e li riapriva per riprendere lo steso giuoco. Così passava la sera di giornate pur esse tanto vuote» (VI, 192-93): una chiara immagine allegorica del disfacimento, della consunzione e della morte, ma anche dello spreco insulso della vita: la vita che a questo punto può solo essere osservata, mentre il denaro non può acquistarla. Ed ecco apparire puntuale un topos letterario della modernità: la finestra, che, da questo momento, sarà uno dei luoghi privilegiati dell’azione narrativa. Per la sua presenza «l’interno si tipicizza come prigione, il cui varco verso l’esterno rappresenta un’alternativa fittizia all’insostenibilità del vivere quotidiano»: 15 La parte più importante della giornata era quella ch’egli passava ad una finestra nelle ore più calde. Quella finestra era un pertugio per cui si vedeva la vita che continuava a svolgersi sulle strade anche dacché egli ne era stato esigliato. […] Il vecchio compiangeva quella gente che aspettava con tanta ansietà un pane mal cotto che a lui faceva schifo, ma qui la sua pietà era una vera ipocrisia. Egli invidiava coloro che liberamente si movevano per le vie. (VI, 191-92). Il passo non dà luogo ad equivoci. Per quanto essa si arricchisca di una «valenza voyeuristica»,16 evidente anche in successive sequenze, la finestra-pertugio non è una specola che possa dar adito ad elaborazione di osservazioni, conoscenze, esperienze; essa designa invece una condizione claustrofobica, dichiara apertamente l’esclusione dalla vita: una tematica, forse, specifica della modernità. 17 Franco Fortini, commentando Brecht, ha dato, di questa «situazione alla finestra» una definizione, come spesso gli accade, di folgorante concentrazione: non solo essa è «simbolica di 15 Così nel recente studio di Patrizia Guida, pervenutomi in bozze per la cortesia dell’autrice in fase di stesura di queste note, Il varco (in)superabile: iconografia della finestra nella narrativa di Verga, Pirandello e Svevo, in «Otto/Novecento», 2/2011, pp. 177-91; la citazione è a p. 177. Per la parte su Svevo, il saggio guarda proprio alla Novella del buon vecchio e della bella fanciulla. 16 Ivi, p. 188. 17 Per quanto numerosi siano gli esempi che vanno in questa direzione (a cominciare dalla soffitta di Baudelaire), credo che un significativo antecedente in una forma breve ma distesa sia da ritrovarsi nel racconto di E. T. A. Hoffmann, Des Vetters Eckfenster, 1822 ca. (La finestra d’angolo del cugino, in trad. italiana presso Salerno, Roma 1996); in esso, più che altro un tableau, la vivacità della vita sulla piazza è contrapposta alla malattia in parte ipocondriaca del protagonista. 13 separazione e di esclusione», ma soprattutto rivela un «divieto di avvenire». 18 E difatti con la stessa situazione ha inizio, per l’appunto, il cap. VII: «Il vecchio era alla finestra a guardare sulla via» (VII, 193). Da questa estraneazione dal pulsare della vita, dunque, da questo arresto di percorso prende realmente avvio il progetto pedagogico del vecchio. Questi giunge all’idea, e poi alla affannosa e impossibile stesura del “trattato”, per gradi, a partire da un biglietto di scuse e giustificazioni alla fanciulla dopo che essa ha ripreso a frequentarlo, che via via si amplia fino a volersi trasformare in una sorta di teoria generale per i giovani. Ma con questo il ruolo del denaro si è frattanto spostato; finora esso serviva a garantire il piacere a vecchio, ed è stato il sostituto della forza di seduzione; da questo capitolo in poi esso serve a garantirgli un altro diritto, quello di liberarsi di ogni responsabilità e di trasformarsi subito in “educatore”: Egli vedeva chiaro che nel comportamento della giovinetta era implicata una propria responsabilità. Cercava di diminuirla ricordando ch’egli le aveva predicata la morale e cercava di obliare il resto. Per riconquistare la tranquillità egli doveva ripeterle più chiaramente (cioè adesso ch’egli per sé nulla domandava) i precetti di morale ch’essa poteva aver dimenticati. E v’era anche il pericolo che essa avesse dimenticato le sue parole e non le sue azioni. (VII, 194). E poco dopo: Le avrebbe dato del denaro. Quanto? Due… tre… cinquecento corone. Il denaro bisognava darlo se non altro per acquisire il diritto di educare. Poi l’avrebbe messa in guardia contro gli amori disordinati. Anche in passato aveva predicato contro quegli amori, ma bisognava far ora dimenticare ch’egli aveva tentato allora di mettere il proprio amore fra quelli permessi. (VII, 195) Queste grottesche associazioni proseguono anche in una fase successiva, quando il vecchio si sente ormai del tutto impegnato nel suo progetto di scrittore ed educatore, e pretenderà, a un certo punto, di rivolgersi a tutti i giovani. Ancora una volta denaro e educazione mostrano il loro legame. Valutato (anche dietro le stizzose osservazioni 18 F. Fortini, Brecht e il suo ladro, introduzione a B. Brecht, Poesie di Svendborg, Einaudi, Torino 1976, p. VIII. 14 della governante), che il compenso che dava alla giovinetta risultava molto lieve, decide di incrementare la cifra per non apparire ridicolo e avaro: Ordinò subito all’impiegato di fargli avere per il primo giorno appresso una somma vistosa di denaro. Poteva riparare anche ad altro. Provando per essa sono un affetto paterno poteva pur tentare di educarla. Se ne sentiva la forza. Solo doveva prepararsi bene prima d’incontrarla: […] Ed è proprio così che nei suoi tardi anni il mio buon vecchio divenne scrittore […].(IX, 204] 19 La giovinetta, probabilmente amante e mantenuta di un giovane bellimbusto che ella presenta come un cugino, si è trasformata frattanto in una elegante damina sempre più arrogante, dai comportamenti seduttivi e dalle pretese crescenti (è il tema che si svolge nel cap. VIII). Le prime pagine del cap. IX, il più lungo della novella, ci fanno assistere ai dubbi del vecchio sulla propria precedente generosità. Per educare occorre solo «un affetto paterno» (IX, 204), da una parte; ma dall’altra, per acquisire appieno questo diritto occorre, come si è visto, «una somma vistosa di denaro» (ibidem), che si trasformerà ben presto in un regolare stipendio e poi nel lascito testamentario. La fanciulla diverrà appieno una mantenuta, per paradosso solo dal momento in cui, attenuatosi l’eros per necessità, essa sarà oggetto di «prediche»! Due saranno, d’ora in poi, i modi di pagare, due gli obbiettivi: «Pagare con denaro e pagare di persona, cioè educarla e tutelarla» (ibidem). Il pedagogo e il filantropo non possono nascondere, in nessun caso, la pretesa al possesso e al controllo, l’acquisto tanto del corpo quanto della mente. 19 M. Tortora propone una lettura della Novella più orientata proprio sugli ultimi due capitoli piuttosto che sulla prima parte. Alla luce di una interpretazione che vede al centro del testo lo scacco del «puro teorista», il critico ritiene che è proprio in quest’ultima parte «che si ritrova il nucleo centrale del racconto vada ricercato proprio nelle parti finali, «mentre le sezioni precedenti rivestirebbero la funzione strumentale di produrre il necessario materiale, ossia il vissuto, che il “buon vecchio” sottoporrà al suo vaglio critico» (M. Tortora, Svevo novelliere, cit., p. 84). La questione è interessante, ma non mi sembra cruciale. Per quanto d’accordo sull’importanza del «ripensamento degli eventi» nella Novella, non mi pare che la prima parte possa avere solo una «funzione strumentale». 15 4 – Eros, il sogno e l’incubo C’è un’area tematica poco appariscente, nella Novella, nella quale l’irregolarità e la trasgressione sociale trapassano, mediante alcuni segnali, nella sfera dell’inquietante e del sinistro. Vi si perviene attraverso il sogno, o la trasformazione di sintomi e allusioni propri dell’immaginario erotico, o ancora attraverso scene che colpiscono il vecchio durante il suo scrutare dalla finestra; da quel «pertugio» che, anche per questa ragione, si rivela motivo cruciale nel testo. Se l’irrisione antifrastica del narratore eterodiegetico nei riguardi del personaggio è lo strumento e il segno dello smascheramento sociale e psicologico e si pone, per così dire, sopra le righe, essendo il frutto di una “superiore” razionalizzazione critica e intellettuale, la sfera dell’immaginario non governato, o senz’altro governato dall’inconscio, si pone all’estremo opposto, sul piano onirico, o della visione allucinata (o percepita come tale) o della somatizzazione. Nella Novella si susseguono quattro sogni. Il primo, al quinto capitolo, è un sogno angosciante, annunciatore e rivelatore del primo grave attacco di angina pectoris, effetto e forse punizione inconscia per l’incontro amoroso con la fanciulla della sera precedente. Il secondo (preceduto e annunciato da una scena alla finestra che vedremo più avanti) e il terzo, dal contenuto erotico manifesto e interpretato dal personaggio, si trovano rispettivamente al cap. VII e al cap. IX, ed hanno per protagonisti la fanciulla, il vecchio e un contorno di figure anonime, per lo più maschili. La fanciulla è anche al centro del più breve e generico quarto sogno, anch’esso al cap. IX. I sogni sono seguiti o preceduti da elaborazioni di immagini interiori o esterne da parte del vecchio, o da momenti di eccitata visionarietà, o da catene di riflessioni. L’importanza di questi sogni non sta nella loro interpretabilità, peraltro non accessibile e ingannatrice, come sappiamo, trattandosi non di sogni reali di persone reali, ma di materiale letterario. Vero è che Svevo, ben addentro com’è alla psicoanalisi e ben informato delle acquisizioni freudiane, può aver intenzionalmente prodotto e costruito materiali e linguaggi tipici del sogno, e situazioni tipiche del 16 risveglio. Un esame minuto potrebbe dimostrare agevolmente come questo processo sia stato realizzato e montato ad arte. Ma qui sogni e materiali dei sogni non possono esser letti se non come elementi, volontariamente elaborati, dell’immaginario culturale, e così pre-interpretati dall’autore. Quel che conta, insomma, sono gli effetti che la materia del sogno produce nel personaggio, nella sua mente e nelle sue reazioni, e verificare come i sogni stessi si connettano alla costruzione tematica. Essi sono importanti non solo in quanto «luogo di emersione della psicologia dei personaggi, ma anche perché condizionano l’intero processo diegetico». 20 Si è già detto che i sogni sono sempre collegati alla fanciulla, anche se nel primo essa non appare. È il sogno che introduce il motivo del dolore fisico e quello della paura della morte. Esso ricopre per intero il breve V capitolo. Vi appare un topo, dapprima irridente e sarcastico, poi sinistro, che penetra nel braccio sinistro del vecchio e gli produce un dolore acuto, sintomo dell’angina pectoris percepita al conseguente risveglio. La tessitura ironica, il linguaggio divagante di Svevo, subiscono qui una metamorfosi: i motivi dell’angoscia e della morte si fanno strada nel lessico. Ricorrono più volte, talora ossessivamente, sostantivi come «dolore», «spada», «oscurità», «terrore», «pietà», «morte» (naturalmente); ma anche «colpa» e «peccato»; e verbi come «squarciare», «urlare», «ledere», «tagliare», «strangolare». Il tutto concentrato in poche righe. Come sappiamo, l’attacco di angina produce il proposito di interrompere la relazione con la fanciulla, e dà l’avvio (rivelandosi così un turning point nella Novella) alla lunga fase di elucubrazioni del vecchio, d’ora in avanti potenziale scrittore e «puro teorista». Tuttavia, proprio la concentrazione in breve spazio di motivi e spie lessicali legati all’angoscia, isolano provvisoriamente, occultandolo, questo campo semantico, e questo tema, entro il testo. Se il vecchio prova dopo un po’ a rimuovere l’episodio, il lettore è a sua volta indotto a porre poca 20 V. Baldi, Il sogno come contenuto e come forma in Vino generoso e nella Novella di Italo Svevo, in «Strumenti critici», a. XXV, n. 2 - 2010, pp. 289-308. Baldi osserva persuasivamente anche che i sogni sembrano seguire uno stesso schema «che è anche una “sceneggiatura onirica” dell’intera diegesi». 17 attenzione all’apparire di motivi legati, attraverso il martellamento linguistico, al campo tematico dell’angoscia e della morte. Diverso il ruolo del secondo e poi del terzo sogno. La materia erotica vi domina nel contenuto manifesto. Nel primo dei due, successivo e conseguente a una scena osservata dalla finestra (sulla quale torneremo), nella quale un fanciullo guida un adulto ubriaco che poi lo picchia, la giovinetta, bellissima e invitante, vestita dei «cenci colorati» nei quali l’aveva conosciuta, cammina davanti al vecchio che la segue affannato, e fa risonare un campanello (segno distintivo dei lebbrosi e talvolta delle prostitute, come in questo caso). Il vecchio non riesce a raggiungerla e cade, chiedendosi, mentre la fanciulla si allontana «come un automa» senza nemmeno guardarlo, se essa «portava il sesso ad altri». Poi l’angosciato risveglio: Sozzo! Oh! Sozzo! – gridò addirittura spaventato del proprio sogno. Volle chetarsi ricordando che il sogno non apparteneva a chi lo fa ma che gli è mandato da potenze occulte. Ma la sozzura evidentemente era sua. Ebbe certo maggior rimorso per il sogno fatto di quanto ne avesse avuto per quella recente realtà cui aveva consciamente collaborato. (VII, 197) Il vecchio si sforza di credere che il sogno non gli appartenga. Ma il narratore sa bene, al contrario (e sa che anche il lettore implicito ne è presumibilmente informato) che le «potenze occulte» non sono altra cosa dal sognatore. Si ribadisce così il ruolo del narratore come demistificatore, antifrastico, del personaggio. Per questa ragione l’importanza del sogno non sta nel suo contenuto ma nelle riflessioni a margine che di conseguenza compie il sognatore: la consapevolezza della sua «sozzura», l’identificazione, sospettata dal vecchio, fra la «fanciulla del sogno» e «il ragazzo atterrato e battuto» della scena osservata dalla finestra, in favore del quale egli non aveva, il giorno prima, mosso un dito: l’apparire, insomma, del senso di colpa, la consapevolezza di una responsabilità. E, naturalmente, in primo luogo la rimozione, la negazione (in senso propriamente freudiano) di questi materiali: il sogno non appartiene a chi lo fa. 18 C’è di più. La materia, la «sceneggiatura» di questo sogno, dipendono e si collegano evidentemente alla scena osservata dalla finestra durante la veglia, presentata da Svevo secondo una minuta scansione degli eventi: Un fanciullo di forse otto o dieci anni, scalzo, scendeva la via traendosi dietro per mano un uomo evidentemente ubbriaco. Pareva che il fanciullo fosse conscio della sua responsabilità. Procedeva con un passo piccolo ma risoluto. […] Certo egli sapeva di dover consigliare e dirigere. Così giunsero sotto le finestre del vecchio. A quel punto il fanciullo scese dal marciapiedi per camminare meglio e non fu subito seguito dall’uomo. […] Costui fu preso da un improvviso furore. Si svincolò dal fanciullo e subito gli menò un calcio atterrandolo. […] Il fanciullo, a terra, si celava puerilmente la faccia col braccio per proteggersi e piangeva, guardando terrorizzato l’ubbriaco […]. (VII,195) Svevo sembra voler accortamente guidare il lettore al classico processo del sogno secondo Freud: quello per cui i materiali manifesti dipendono in ogni caso da uno stimolo, talvolta insignificante, recepito durante la veglia e poi elaborato nei pensieri del sogno. A questi stimoli dichiarati, e solo a questi, possiamo accedere in un testo letterario, essi soltanto possono esserci suggeriti dal narratore. La scena del fanciulloguida picchiato provoca nel vecchio che la osserva un «terrore» forse eccessivo per spiegarlo con la semplice ripugnanza per quel che vede. Grida e chiama aiuto, ma poi ricade boccheggiante. La notte successiva si ha il sogno già richiamato. Anche il risveglio improvviso è all’insegna dello spavento, ed è lo stesso sognatore a collegare scena e sogno: «fra il ragazzo atterrato e la fanciulla del sogno che come un automa offriva la propria bellezza esisteva un’analogia. – E fra me e l’ubbriaco? – indagò il vecchio». (VII, 197). Il quadro sembra realistico, non onirico né fantastico. Eppure si tratta, a ben guardare, di una digressione vagamente allucinata, non motivata dalla necessità del racconto, e i suoi connotati rappresentativi, ma soprattutto la reazione esagerata di angoscia che prende il vecchio, la fanno appartenere piuttosto al campo del sinistro, o, come si dice, del perturbante. Quel che il vecchio ha rimosso (operazione necessaria perché il perturbante poi si riveli), appare poi attraverso il sogno e le associazioni del personaggio. L’Eros malato si rivela una colpa attraverso il raffronto con l’episodio osservato dalla finestra, brutale ma banale. La violenza 19 sociale del possesso della fanciulla appare “rappresentata” en abîme dalla scena del bambino e dell’ubriaco. Non necessario ai fini della costruzione della trama, l’episodio sembra appartenere alla serie dei motivi “liberi”. Ma proprio per questo esso appare connesso, in profondità, con il meaning della novella, il nucleo di significato che genera le situazioni testuali. Il fanciullo picchiato che guida l’ubriaco, una sorta di puer aeternus, di Hermes che conduce all’oltretomba le anime dei morti, richiama alla superficie contenuti psichici angosciosi attraverso una digressione. Nel secondo sogno, come nel terzo e poi nel quarto (sul quale non ci soffermeremo), la fanciulla appare sempre vestita dei suoi «cenci» multicolori, anche se ormai nella realtà si è raffinata e, con denari guadagnati presumibilmente attraverso una disinvolta vita sessuale, se non senz’altro di prostituzione, veste elegantemente. I «cenci» sono il segno dell’antica semplicità e immediatezza? Forse, ma certo qui anche di trasgressione e libertà. C’è, nel richiamo a questi abiti colorati, come un richiamo al mondo del circo, dei clown. Fin dalla sua prima apparizione, alla guida del tram, essa appare, per il suo abbigliamento multicolore, quasi travestita. Percepita attraverso il varco imprevedibile dell’inconscio, la trasgressione è, innanzi tutto, quella sessuale. Lo sospetta il vecchio al risveglio dal secondo sogno, e il terzo lo rivela quasi ancor più chiaramente: la fanciulla sta aggrappata a un trapezio collegato a un trolley, si muove quasi in volo, offrendo alla vista e alle mani degli astanti le sue gambe; anche il vecchio le attende invano, per carezzarle. Un grido, un urlo che chiede aiuto, prelude alla sveglia improvvisa. Risulta impossibile, di questi sogni, occultare i contenuti sessuali da cui sono generati, così come le coloriture e le connessioni con questi (potere, gelosia, inadeguatezza fisica). Ma dopo il terzo sogno, ancora un «sozzo sogno», è l’immagine della fanciulla tout-court, non più quella del topo del primo, a provocare un nuovo attacco di angina. La sua presenza stessa, dunque, da una parte è immagine della vitalità e della rinascita (adesso viene chiamata per lo più «giovinetta» e non «fanciulla»), ma dall’altra si associa più volte alla malattia, alla morte, come se essa ne fosse un messaggero, trasformandosi in una gelida Kore: 20 Come era importante quella giovinetta nella sua vita! Per causa sua s’era ammalato. Ora essa lo perseguitava nei sogni e lo minacciava di morte. Era più importante di tutti e di tutto il resto della sua vita. Anche quello che in lei disprezzava era importante. Ecco che quelle gambe che in realtà lo avevano indignato, nel sogno lo avevano corrotto. Nel sogno essa era apparsa vestita di cenci, ma le gambe erano proprio quelle del giorno prima, coperte di calze di seta. (IX, 206) 5 – Eredità e tradizione Una volta persuaso di aver trovato il bandolo dell’arruffata matassa dello scritto da destinare all’educazione dei giovani, il vecchio pensa a corredare il suo saggio di una illustrazione sulla copertina: […]quando s’accinse alla prefazione, pensò che per la pubblicazione avrebbe dovuto far disegnare una bella vignetta illustrativa del titolo.[…] Poi ebbe un’ispirazione (non gli mancava neppure l’ispirazione): la vignetta doveva rappresentare un fanciullo decenne che conduce un vecchio ubbriaco. Chiamò anche un disegnatore che eseguisse subito il disegno. Ne ebbe uno sgorbio e il vecchio lo rifiutò… (IX, 208-09) Il passo è solo apparentemente secondario. Qui il «puro teorista», il vecchio saggio, si contraddice da solo. Vorrebbe presentarsi, e offrire il suo trattato, come un contributo della vecchiaia alla giovinezza. Ma la vignetta rivela il contrario, e il contrario è la verità, che zampilla fra i contenuti negati. La verità dell’illustrazione pensata dal vecchio si manifesta come antitetica rispetto al progetto “educativo”, anche perché quest’ultimo, volendo compensare lo spregiudicato uso del potere e del denaro nel rapporto erotico, si rivela velleitario e ipocrita. La pretesa di dominare la temporalità, propria del vecchio affarista, manifestatasi nel possesso della giovinetta ma anche, non va dimenticato, nei profitti tratti dall’economia di guerra, vera proiezione del godimento al di là dell’orrore, gli sfugge dalle mani. Non è il vecchio a guidare i giovani, ma accade il contrario. L’eredità non si conferisce ad libitum: essa viene scelta dagli eredi e da essi fatta rivivere. È il bambino, una sorta di puer aeternus, a condurre il vecchio ubriaco. La vignetta è chiaramente ispirata dalla scena osservata dal vecchio qualche tempo prima dalla finestra, la scena che tanto l’aveva turbato. E non a caso, comprendiamo ora. La scena prefigurava la rivelazione finale dei veri 21 rapporti fra Padri e Figli, che appaiono ormai invertiti. La trasmissione dell’eredità culturale, nella società dell’inautentico, dominata dagli interessi e dall’avidità, ma anche dal controllo dei tempi di vita, cade con la caduta stessa della Tradizione, ossia con l’impossibilità del suo rinnovarsi e della sua reviviscenza. La civiltà del dialogo, ossia dello scambio dell’esperienza con le nuove generazioni, sembra sopraffatta. La sola tradizione che è possibile trasmettere è dunque quella che i giovani decideranno di assumere dai Padri, rinnovandola radicalmente, e se necessario distruggendola. È un tema che attraversa il Novecento, e che Franco Fortini ha saputo riproporre, sul finire del secolo, in maniera duramente icastica e profonda: Rivolgo col bastone le foglie dei viali. Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. Proteggete le nostre verità. Con questi versi estremi21 Fortini sembra voler riassumere non solo un proprio umano e politico testamento, ma anche un tema elaborato dalla poesia nel corso del Novecento. Il rapporto fra le generazioni, le eredità che esse si scambiano (perché, per paradosso, anche i giovani lasciano una eredità ai vecchi, nel “leggere” e interpretare la loro vita), è il contenuto del frammento: proteggete le nostre verità, ossia trasformatele, fatele vostre e diverse. Sebbene «mesti» i ragazzi della poesia costruiranno la loro verità, rileggeranno la loro tradizione. Da Saba delle poesie della vecchiaia, al tardo Ungaretti, al Montale di Satura (soprattutto della sequenza Dopo una fuga), dal maturo Rebora fino ad autori di una generazione successiva (Betocchi, Caproni, Pasolini, Morante fra gli altri), quanti scrittori non hanno affrontato questo tema? Esso è tipico dell’età del modernismo e delle sue protensioni storiche più recenti, e non a caso: esso è un indicatore, un segno delle crisi di civiltà, dei transiti, delle strade percepite senza uscita. Se guardiamo alla Novella da questa prospettiva, non l’unica, ma una delle facce del prisma che essa costruisce, ne notiamo la rispondenza a certe riflessioni dovute a Walter Benjamin, non a caso stese negli anni stessi dell’affermarsi della sensibilità modernista; nella 21 F. Fortini, «E questo è il sonno…», in Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994, p. 63. 22 serrata e conflittuale analisi della tradizione culturale e della sua necessaria – ma problematica e forse impossibile – trasmissibilità, il giovane Benjamin conduce anche una dura critica dell’«esperienza» dei vecchi come filisteismo borghese: La maschera dell’adulto si chiama «esperienza». È inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest’adulto ha già vissuto tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. […] Ma cerchiamo di sollevare la maschera. Quale esperienza ha fatto questo adulto? Cosa ci vuole dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui […] Ridacchiando con sufficienza ci dirà che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di dolci cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria. 22 Le soffici e avvolgenti sabbie della prosa di Svevo sembrano lontane da questi temi. Sembrano, appunto. La Novella, insieme ad altri testi coevi, fa emergere dai tortuosi meandri della scrittura, della beffarda irrisione, dalla sottile corrosione dell’ipocrisia borghese, un nucleo duro e irriducibile di pensiero critico, l’apparire di un solido referente culturale e storico. La malattia e la morte mettono fine alla messinscena della virtù e della saggezza. Lo Schauspieler non può più recitare davanti a se stesso. Resta solo lo spazio per occuparsi dell’eredità da trasmettere. Non credo sia un caso che, al centro del penultimo capitolo (il IX), l’eredità in quanto materiale patrimonio e l’eredità in quanto «educazione» siano vivamente connessi in due successivi capoversi: dapprima il vecchio, riconoscendosi colpevole di aver indotto a corrompersi la giovinetta, e proponendosi di aiutarla a riscattarsi, fa testamento lasciandole quasi tutto il patrimonio; subito dopo ricomincia il progetto educativo rivedendo e poi distruggendo per insoddisfazione i suoi appunti: «Egli ora sapeva esattamente dove stava l’errore commesso da lui e da lei e che aveva procurato a lui la malattia a lei la corruzione. […] Egli aveva sbagliato quando l’aveva accostata a quel modo. Era quello l’errore che bisognava studiare. Perciò 22 W. Benjamin, Metafisica della gioventù, Einaudi, Torino 1982, p. 64. Su questo tema in Benjamin (e in Kafka), cfr. anche G. Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità. Un percorso biografico e concettuale, Einaudi, Torino 2001, pp. 44-45, 252-58. 23 cominciò a stendere nuove note sui rapporti che dovevano e potevano correre fra giovini e vecchi» (IX, 207). Nonostante la terza persona, la focalizzazione sui pensieri del vecchio ripropone l’insieme di verità e bugie ben noto ai lettori di Svevo. Eppure, per quanto dominato sempre dalla voglia di legittimazione, per quanto egli appaia ostinatamente velleitario nella pretesa di essere «l’alto, il puro teorista nettato dalla sua sincerità da ogni malizia» (IX, 208), lo scopo del vecchio sembra sincero, quasi che egli sia depurato dalla morte imminente: «Guardava l’orizzonte dove tramontava il sole, con tutt’altro occhio – a lui pareva – di quello che aveva avuto in passato per le bellezze della natura. Gli pareva di esserne più intimamente parte ora che meditava su alti problemi invece di fare affari. E guardava il mare colorito e il cielo terso associandosi in certo modo a tanta purezza perché se ne sentiva degno» (IX, 209). «Dei rapporti tra vecchiaia e gioventù» (IX, 208). Questo è il titolo, molto pretensioso, del trattato. Ora, tali rapporti, l’abbiamo visto appaiono oscillanti: talora essi si configurano come quel che il vecchio può dare al giovane; talora nel contrario, sui diritti spettanti alla vecchiaia. Ma alla fine l’una e l’altra variante si rivelano vuote, e la giovinezza si prende i suoi diritti senza chiedere permessi, né guida. Gli argomenti del trattato, scritto e riscritto, rifatto e distrutto più volte, sono sempre opachi; e certamente non possono che esser tali. Tuttavia essi ruotano sempre – per l’appunto – attorno al tema dell’eredità da conferire e da fare propria. Ed è per questo che la vera fine della Novella non è tanto la morte del vecchio (prevedibile e attesa, e più grottesca che tragica), ma la parola scritta più volte e «affannosamente» in risposta alla domanda ossessiva su ciò che spetti ai vecchi da parte dei giovani. La rivelazione finale della verità, «Nulla», lo svelamento e l’accettazione di quanto sia illusoria la trasmissibilità della tradizione e della sapienza, anche perché in realtà mai acquisite e impossibili nella società del denaro e della prestazione, sono la ragione della morte del vecchio, ma anche il suo unico, possibile riscatto. 24