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Dalla parte di chi è in fuga
La mostra «Fuggire» presso il Museo nazionale svizzero di Zurigo chiede al
visitatore di vestire i panni del profugo e di mettersi in cammino per conoscere le
tragedie che si nascondono dietro ai numeri
/ 09.01.2017
di Luca Beti
È una doccia gelata quella che ti sorprende all’entrata dell’esposizione. È una doccia fatta di scene
di violenza, di urla, spari, sguardi vuoti rivolti verso l’ignoto, verso il mare simbolo di speranza. Le
immagini scorrono su tre schermi in una sala in penombra. Sparsi sul pavimento nel disordine
lasciato da un bombardamento, blocchi squadrati dove il visitatore può prendere posto. Sono
sgabelli scomodi, quasi graffianti per scalfire la corazza di indifferenza che abbiamo indossato per
proteggerci dalle troppe tragedie umane. I nostri radiogiornali e telegiornali ne sono pieni e così non
ci turbano più per legge di assuefazione e finiscono risucchiate nel frenetico vorticare della nostra
quotidianità.
È con le emozioni forti che la mostra «Fuggire» al Museo nazionale svizzero a Zurigo vuole scuotere
il visitatore. «L’obiettivo del mio film è di smuovere, ma anche di spiegare che i profughi non sono
numeri, bensì persone come noi, come i nostri vicini, che ridono e piangono, che provano i nostri
stessi sentimenti», illustra il produttore e regista curdo-siriano Mano Khalil, autore della
videoinstallazione. «In questa mostra per una volta è possibile abbandonare il ritmo dei radiogiornali
e dei telegiornali che in venti minuti ci raccontano il mondo», continua il regista del film
documentario «L’apicoltore» con cui ha vinto il premio delle Giornate di Soletta nel 2013.
L’esposizione «Fuggire» non racconta brandelli, bensì vite intere, anche se fittizie. Sono le biografie
di cinque profughi, due donne e tre uomini, fuggiti dal Libano, dal Sudan del Sud, dalla Somalia,
dalla Siria e dall’Afghanistan, narrate in maniera interattiva e didattica perché la mostra è pensata
per le scuole. Sono le storie che si nascondono dietro ai numeri. Sono oltre 65 milioni i profughi al
mondo, a cui ogni giorno se ne aggiungono circa 35mila (pari a quasi due volte la popolazione di
Bellinzona). Più della metà sono minorenni.
«Nascondiamo questi destini dietro ai numeri e alle statistiche. Creiamo così una certa distanza tra
noi e loro. Una distanza che ci permette di sorseggiare tranquillamente il caffè alla mattina, mentre
nei territori in guerra i bambini vengono sepolti dalle macerie», ha ricordato la consigliera federale
Simonetta Sommaruga in occasione del vernissage della mostra. «Sono rare le occasioni in cui ci
lasciamo prendere dalla tristezza. È successo quando abbiamo visto l’immagine di Aylan, bambino di
tre anni sospinto dai flutti su una spiaggia turca. Oppure la fotografia di Lamar, bambina afghana di
cinque anni ritratta mentre dormiva per terra, in una foresta in Serbia alle porte della frontiera
ungherese chiusa».
L’esposizione «Fuggire», frutto di un progetto comune della Commissione federale della migrazione,
della Segreteria di Stato della migrazione, dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite e della
Direzione dello sviluppo e della cooperazione, chiede al visitatore di indossare i panni del profugo e
di mettersi in cammino.
Lasciate le macerie della prima sala, si supera un corridoio umanitario costituito da pareti nere,
d’inchiostro, graffiate dai disegni di bambini traumatizzati dalle esperienze vissute in guerra o
durante la fuga. Ad attenderci dall’altra parte, cinque volti: quelli di Hayat, Mohammed, Aziz, Abdi e
Malaika. Accompagnando questi profughi durante la fuga, scopriamo passo dopo passo le loro vite.
Noi seguiamo per un’ora le vicissitudini di Malaika, una ragazza di etnia Dinka fuggita dal Sudan del
Sud, Paese dilaniato da una guerra civile dal 2013. L’adolescente lascia il suo villaggio per cercare
rifugio in un campo profughi in Kenya. «Mentre raccolgo la legna per il fuoco di campo, vengo
aggredita e stuprata. È stata la cosa più terribile che io abbia mai vissuto», si legge nel suo diario di
viaggio. Consapevoli del fatto che verranno molto probabilmente violentate, le donne che possono
permetterselo si fanno delle iniezioni di ormoni prima di mettersi in viaggio per evitare almeno una
gravidanza indesiderata. Malaika si ritrova invece con un bimbo che gli cresce in grembo.
Nel campo profughi di Kakuma, in Kenya, una città di tende che accoglie circa 185’000 persone, la
giovane sud-sudanese impara a leggere, scrivere e far di conto e segue un corso di formazione per
sarte. È il progetto pilota «Skills for life» di Swisscontact, finanziato dalla Direzione dello sviluppo e
della cooperazione della Svizzera, che intende dare una prospettiva e un reddito ai profughi per
affrancarli dalla dipendenza dagli aiuti umanitari. Fintanto che non cesserà la guerra civile in Sudan
del Sud, Malaika non potrà abbandonare il campo profughi di Kakuma; la sua sarà una vita sospesa
senza possibilità di integrarsi nel Paese d’accoglienza o di ritornare in quello d’origine. I profughi
trascorrono in media 17 anni in questa specie di limbo.
Per altri, invece, il viaggio continua. Mohammed e Aziz raggiungono la Svizzera. L’Alto
commissariato delle Nazioni Unite conferisce a Mohammed, ingegnere siriano, lo statuto di rifugiato
e viene inserito nel programma di reinsediamento. La domanda d’asilo di Aziz viene invece rifiutata.
Il profugo afghano viene ammesso provvisoriamente e ottiene il permesso F.
Siamo giunti nell’ultima stanza, in cui viene presentata in maniera dettagliata la procedura d’asilo
della Confederazione. In un angolo un letto a castello, alla parete cinque armadietti di metallo
contenenti alcuni oggetti personali, uno schermo trasmette le scene di un’audizione sui motivi di
asilo da parte della Segreteria di Stato della migrazione (SEM).
«Con questa esposizione vogliamo informare in maniera oggettiva la popolazione su uno degli
argomenti maggiormente dibattuti negli ultimi anni», indica Gieri Cavelty, membro della direzione e
capo della comunicazione presso la SEM. «A scadenze regolari i cittadini devono esprimersi su
oggetti in votazione riguardanti l’asilo oppure sono confrontati con l’apertura di un centro
d’accoglienza. Per questo motivo è importante che la gente possa informarsi in maniera dettagliata
su questo tema estremamente complesso e di stretta attualità».
Che cosa significa essere in fuga? L’obiettivo dell’esposizione al Museo nazionale svizzero era di
dare una risposta a questo interrogativo. C’è riuscita? Non poteva riuscirci. La mostra «Fuggire»
suscita forti emozioni, soprattutto con la videoinstallazione di Mano Khalil, e ha il pregio di
accompagnare il visitatore, in maniera didattica, lungo l’intero viaggio, permettendogli di comporre
tassello dopo tassello un quadro completo di questo complesso tema. Non riesce però a farci entrare
nei panni di un profugo. Chi non ha mai sofferto la fame, non ha visto la morte negli occhi, non ha
vissuto i traumi della guerra, non può nemmeno lontanamente immaginare che cosa significhi essere
un profugo. Inoltre, l’esposizione si dimentica di interrogare il pubblico su alcuni controversi temi
dell’attuale politica d’asilo elvetica. Per esempio, sull’abolizione della possibilità di presentare una
domanda d’asilo presso le ambasciate svizzere oppure sulla mancata istituzione di un corridoio
umanitario per permettere ai migranti bloccati alla frontiera di Chiasso di raggiungere i propri
familiari in Germania o nei Paesi del Nord. Anche questi temi avrebbero contribuito a formare
l’opinione pubblica in Svizzera.