2008 completo - Associazione Augusta

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2008 completo - Associazione Augusta
Augusta
Sommaire
2008
COMITÉ DE RÉDACTION
Président
Lucienne Faletto Landi
Directeur résponsable
Elena Landi
Membres
M. L’Abbé Ugo Busso
Michele Musso
Imelda Ronco
Rivista disponibile online
www.augustaissime.it
[email protected]
Photo de couverture
Toeifi – Vallone di San Grato,
un esempio di rapporto equilibrato
ed armonico fra uomo e natura.
In primo piano la mulattiera e il canale d’irrigazione.
Foto di Edmondo Ronco.
La photo de la quatrième de couverture,
Issime, Cartolina, anni ’50 del ‘900.
Il capoluogo - Duarf e i villaggi della Costa
con i loro tipici terrazzamenti.
Autres photos: Archivio Pession-Linty, Archivio Paola Busso, Archivio Floriana Linty, Attilio Tampan, Francesca
Sgrò, Michele Musso, Paola Cipriano, Sara Ronco,
Sebastiano Ronco, Guido Cavalli, Valerio Cantamessi, Roberto Fantoni, Luigi Busso, Willi Monterin.
Tous droits réservés pour ce qui concerne les articles
et les photos.
Autorizzazione Tribunale di Aosta n° 18 del 22-05-2007
AUGUSTA: Rivista annuale di storia, lingua e cultura alpina
Proprietario ed editore: Associazione Augusta
Amministrazione e Redazione: loc. Capoluogo, 2 - 11020 - Issime (Ao)
Stampa: Tipografia Valdostana, C.so P. Lorenzo, 5 - 11100 Aosta
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LUCIENNE LANDI – UGO BUSSO
LUIGI BUSSO – MICHELE MUSSO
Quarant’anni con la gente walser
per cercare le nostre migliori radici
ed impegnarci insieme ad averne cura.
2
DONATELLA MARTINET
I segni del paesaggio culturale
6
GERHALD FITZTHUM
Bonifica dei terreni nella Valle d’Aosta
12
BATTISTA BECCARIA
Vescovi controriformisti e comunità walser
22
GUIDO PESSION
Una nobile famiglia di Issime: i Biolley
31
IVANO REBOULAZ
Issime: la vieille cure - d’oaltun köiru
35
PAOLA BUSSO
L’Abbé Jean-Jacques Christillin
38
JOLANDA STEVENIN – GUIDO CAVALLI
Antichi oggetti devozionali:
un elemento d’arredo domestico
41
TIZIANA FRAGNO
L’abbigliamento ad Issime:
i copricapi, il windlu e la katuarba
45
BARBARA E SARA RONCO
Anandre vartöischu weerch – l’aiuto reciproco:
il sentimento sociale
47
VALERIO CANTAMESSI
‘Braci’: dalla comunità di Ornavasso
54
ROBERTO FANTONI
La Val Vogna (Alta Valsesia)
57
LUIGI BUSSO
I tumulti di Issime del 1685
63
EUGENIO SQUINDO
Le miniere d’oro alla base del Monte Rosa
66
VITTORIO BALESTRONI
La anime dannate confinate alla Pisa di Danai
68
WILLI MONTERIN
Gressoney-La-Trinité
Osservatorio meteorologico di D’Ejola
70
IN MEMORIAM
71
ANNA MARIA BACHER
Schpätä Herbscht
72
A U G U S T A
Virzg Joar mit dan walserlljöite
um süjen ündsch béschtu wurzi un
n’ündsch brouhen z’seeme z’nen heen z’acht
Quarant’anni con la gente walser per cercare le nostre
migliori radici ed impegnarci insieme ad averne cura
LUCIENNE FALETTO LANDI - UGO BUSSO - LUIGI BUSSO - MICHELE MUSSO
uarante ans: la moitié de ma vie! Et c’est
pourtant l’espace de temps qui nous sépare
du premier numéro de la revue. Officiellement, René Willien s’en était pris la charge
mais il nous avait dit: Débrouillez-vous, moi
j’ai déjà pas mal à faire avec le patois et n’y connais rien à
votre langage. Et, en disant “vous” il s’adressait à ce petit
nombre de personnes réunies dans la salle du conseil de
la commune: à savoir Mario Goyet, le doct. Renato Christillin, Albert Linty, Sabino Consol, sa fille Wilma et moi
qui avions eu le courage de “mettre un commencement”.
Et le deuxième numéro avait fait suite (sans René Willien)….. Les premiers temps ont été durs et il était difficile
de répérer des articles, mais, lentement, la revue a pris
de l’essor, des personnages comme le prof. Gysling, l’architecte Galloy, Grittle Scaler, Mme Schulé, M. et Mme
Aliprandi, nous ont donné leur apport, et la voilà mainte-
Q
nant toute belle et toute riche dans son quarantième anniversaire.
Que de changements ont eu lieu au cours de ces années
écoulées!
Je sais bien qu’à mon âge on est porté à surestimer le
passé, mais que la jeunesse ait la bonté de reconnaître que
quelque chose s’est perdu en route.
Je pense premièrement aux liens d’amitié et de coopératon qui existaient lorsque tout le monde se donnait à faire
pour aider celui qui en avait besoin et c’était par exemple
la “rudda” du fumier au clair de lune, le transport du foin
ou du bois d’un mayen à l’autre, l’épluchuée des pommes
de terre pour faire les boudins ou bien la grande lessive
printanière….Et les chemins muletiers étaient propres
tout comme les petits ruisseaux et les murs soutenant les
lopins de terre gagnés à la cultivation étaient de suite réparés s’ils faisaient mine de s’effondrer… Maintenant on
parle de les abattre tous
pour effectuer les remaniements parcellaires
qui permettront de faire
usage des tracteurs sur
toutes les surfaces.
Moi, j’en ai froid dans le
dos et je vois la laideur
atroce des endroits où
cela a été effectué souhaitant que l’on réfléchisse bien avant de
détruire ce que les Walser ont su faire dans le
passé et qui leur a valu
l’estime de la postérité.
Parvenue au but de ma
vie, je suis fière d’avoir
contribué à mettre en
Issime, 30 luglio 1967.
Il sindaco Edmond Trenta
e alcuni dei fondatori
dell’Associazione Augusta.
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A U G U S T A
valeur les traditions et les usages de mes ancêtres moyennant cette revue et d’avoir suscité des enthousiasmes auprès de la jeunesse qui a pris la relève, mais je n’arrive pas
à m’insérer totalement dans ce monde nouveau que l’on
est en train de créer.
Permettez-moi encore un exemple qui commence par “de
mon temps”…
De mon temps les chats se nourrissaient de souris et de
restes de soupe, de lait ou de croûtes de fromage mainte-
nant, à en croire à la télévision, il leur faut des pâtés de
gourmets servis sur des assiettes en argent!
Après toutes ces considérations, afin d’éviter des lamentations style Jérémie, il est temps que je prenne ma retraite, que je remercie ceux qui m’ont aidée, ceux qui ont
eu la patience de me lire et que je souhaite un bon travail
à ceux qui m’ont suivie et dépassée au cours de ces décennies.
Quarant’anni con la gente walser…”. Con
queste parole il Presidente dell’associazione Augusta, don Ugo Busso, ha invitato i soci e la popolazione di Issime a festeggiare, domenica 17
giugno 2007, i quarant’anni dell’associazione. In
quell’occasione don Ugo ha voluto sottolineare i valori e
gli ideali dell’incontro e dell’unione con l’altra comunità
walser, quella di Gressoney, l’orgoglio dell’opera compiuta
in questi lunghi anni, la fedeltà ad un’impresa sentita
come propria, ed il proposito di continuarla assieme alle
nuove generazioni. Se nel lontano 1967 sventolavano, sul
balcone del neonato edificio comunale di Issime, le bandiere tricolori e quelle rosso-nero della Valle d’Aosta, oggi
con fierezza si espone un’altra bandiera, con i colori rossobianco e al centro un cuore sormontato da una ‘croce ad
angolo’, con la scritta “Walser Gemeinschaft Greschòney - Éischeme”, simbolo della Comunità walser: una
presa di coscienza dell’importanza della salvaguardia e
della valorizzazione di un patrimonio culturale inestimabile e dal valore unico.
La celebrazione dell’importante anniversario è iniziata con
la Messa nella chiesa di Issime, durante la quale i canti,
l’omelia ed alcune preghiere sono stati recitati in töitschu.
In particolare, don Ugo ha sottolineato ai fedeli che “non
è sufficiente tenere bene la chiesa e le cappelle, far battezzare i figli, sposarsi in chiesa e portarvi i morti prima
di seppellirli, poiché il Signore guarda di più come la
gente sa vivere bene gli uni con gli altri.
Il Signore vuole gente piena di buon cuore che accoglie
volentieri anche i forestieri, senza guardare troppo che
lingua parlano e quale colore ha la loro pelle; gente che
rispetta ciò che è degli altri, che sa perdonare e non parla
male di nessuno; gente che sa, come dice un nostro vecchio proverbio, che non si può dare uno schiaffo a tutte le
mosche mu mat nöit geen a laffezu allene da villjoeigu;
gente sempre pronta a dare una mano, che tiene bene la
propria casa e custodisce bene il paese e le sue risorse,
che sono di tutti, e le proprie migliori radici.”
Dopo la Messa è stata benedetta ed inaugurata la nuova
sede dell’Augusta, realizzata nella ex casa parrocchiale,
zar oaltun köiru, grazie alla collaborazione dell’Istituto
Diocesano per il Sostentamento del Clero, proprietario
dell’edificio, e alla Soprintendenza per i beni e le attività
culturali della Regione Valle d’Aosta.
Nel pomeriggio si è tenuta l’assemblea annuale dei soci dell’associazione, durante la quale il presidente ha presentato
una relazione sui quarant’anni di attività, evidenziando le
numerose pubblicazioni edite dall’Augusta, anche in collaborazione con il Centro Culturale Walser, al fine di raccogliere e trasmettere il patrimonio culturale della nostra
comunità, realizzate grazie alla collaborazione tra i testimoni della nostra cultura ed i ricercatori universitari.
Don Ugo non ha parlato solo dei successi ottenuti, ha
anche ricordato che l’Augusta aveva sostenuto due progetti delle amministrazioni comunali e regionali dei primi
anni ’90; il primo volto a realizzare una Residenza Sanitaria Locale per anziani nell’ex Albergo Mont-Néry, che è
invece stato in seguito venduto a privati che ne hanno ricavato degli appartamenti oggi in vendita; il secondo volto
a realizzare un parco naturale nel vallone di San Grato ed
in quello di Bourinnes, che avrebbe indubbiamente apportato grandi benefici all’agricoltura ed al turismo, così
come è realmente avvenuto nelle zone interessate dal
parco del Mont Avic e dalla riserva del Mont Mars. Esistono differenze ritenute problematiche ma meritevoli di
essere risolte mediante un comportamento solidale ed esiste una consapevolezza e un responsabilità delle parti in
gioco. Durante l’assemblea si sono inoltre susseguiti gli
interessanti interventi, rispettivamente del dott. Flavio
Zappa, che ha presentato il lavoro sulle baite sotto roccia
di Stein e Bétti, lavoro realizzato dalla nostra associazione
nell’ambito di un progetto finanziato da un programma Interreg IIIA Italia-Svizzera, insieme ad altre comunità walser italiane e svizzere, dal titolo “Paesaggio culturale
rurale alpino walser” e che sfocerà in una pubblicazione
nel prossimo autunno; e gli interventi della prof.ssa Silvia
Dal Negro e della dott.ssa Monica Valenti, che hanno illustrato il fenomeno di contatto linguistico tra il töitschu
e le altre lingue parlate nella nostra comunità, risultato di
una ricerca finanziata dalla nostra associazione e che ha
visto le stampe nel mese di maggio del 2008 grazie al contributo dell’Assessorato istruzione e cultura della Regione
autonoma Valle d’Aosta. Nel corso del 2007 si è anche concretizzata la pubblicazione della raccolta dei ‘detti, espressioni, filastrocche, preghiere, aneddoti di Issime, in
töitschu e nelle altre lingue usate dalla comunità’, frutto di
un lavoro di ricerca, durato oltre venti anni, e condotto da
due membri del direttivo dell’associazione Augusta,
Imelda Ronco e Michele Musso.
Infine è stata presentata la rivista dell’associazione, ricca
di interessanti articoli sul nostro patrimonio culturale, tra
i quali spicca per la sua attualità quello a firma di Donatella Martinet sul “paesaggio di tutti”, che può offrire interessanti spunti di riflessione a proposito del futuro del
“
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Lucienne Faletto Landi
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vallone di San Grato e dell’intero territorio di Issime. La rivista giunge quest’anno al suo quarantesimo numero e
continua, con lo spirito che l’ha animata fin dai primi anni,
la promozione e il pluralismo culturale, pubblicando articoli puntuali relativi alla conservazione e valorizzazione
del patrimonio linguistico, storico-architettonico e paesaggistico.
L’associazione Augusta ringrazia tutti coloro, testimoni locali e professori universitari, che hanno collaborato in questi quarant’anni per la tutela del patrimonio linguistico,
ambientale e culturale della nostra comunità walser e li invita a proseguire insieme questo importante obiettivo.
La salvaguardia e la valorizzazione, ecco lo spirito che ci
ha animato e guidato. Abbiamo imparato ad amare il nostro ‘patrimonio’, perché è quando incontriamo che possiamo conoscere, quando conosciamo che possiamo
capire, insomma incontrare per conoscere, per capire, per
amare, per rispettare.
Quale il futuro per la comunità walser? Tutto da scrivere,
con la coscienza che le decisioni di oggi influenzeranno il
domani e la vita delle generazioni future. Ci sentiamo
anche di poter affermare, con un pizzico di malcelato orgoglio, che se oggi la Comunità walser è capace di accompagnare e sostenere lo sviluppo del suo territorio
dando risposte a un numero crescente di domande, una
parte del merito è anche dell’associazione Augusta.
1967-2007. Zseeme - Zar Mesch
Um génh bsinnen wiar hennundsch
gloa un nöit vargesse wua war hen z’goa
Per ricordare sempre chi ci ha lasciato e non dimenticare dove dobbiamo andare
Omelia di don Ugo Busso, alla messa del quarantesimo
della Fondazione dell’Associazione Augusta. 1967-2007,
nella parlata “Töitschu” di Issime
(Domenica 11a del T.O. – Anno C)
War vinnenündsch in disch schienu chilhu un bettun
z’seeme; wa bettu wild nöit nua seen hoeischun etwas
dam Lljibi Gott. Iawu hoeischu musmu luase was dar wild
n’ündsch see.
Ci troviamo in questa bella chiesa per pregare, ma pregare
non vuol solo dire domandare qualche cosa al Buon Dio.
Prima di domandare bisogna ascoltare che cosa ci vuol dire.
Wén war séin sinh chinn séiwer gsinh mia guti z’hoeischu
dén z’luase. Wa auch nunh das war séin éltrigi, nöit gén
chonnuwer luasen dar Lljibi Gott das het gén etwas
nausch z’nündsch see um das war glljéjumu gén mia, wi
a su sölti glljéje dschéim atte; un den Atte das war hen im
hümmil tut z’scheinen d’sunnu ubber d’dschwachu un
ubber d’lljibu un tut z’wettruu ubber d’rechtu un ubber
d’kwerru.
Quando eravamo bambini, eravamo sempre più capaci di
chiedere che di ascoltare. Ma anche adesso che siamo adulti
non sempre sappiamo ascoltare il Buon Dio che ha sempre
qualche cosa di nuovo da dirci perchè gli rassomigliamo sempre di più, come un figlio dovrebbe rassomigliare a suo padre;
e quel Padre che abbiamo in cielo fa risplendere il sole sui
cattivi e sui buoni e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti.
Wén ündschen Gott het glebt in disch weelt a lebtag wi
ündsche, an gséllju das ischt gsinh vil devuat hennen
kheen avittrut esse z’dschéim hous.
Wa an huru das ischz gcheemen a wissu ischt
kannhen, dschöi auch, mi as vasilti schmakh um
darva salbun dschéin vüss
noa dschu heen gnézt mi
dschéin trieni un dschu
gwüscht mi dschéin
lokha.
Quando un Dio [l’uomo
Dio Gesù Cristo] ha vissuto, in questo mondo, una
vita come la nostra, un amico che era molto devoto, l’aveva
invitato a mangiare a casa sua.
Ma una prostituta che era venuta a saperlo, è andata anche lei
con un vasetto di profumo per ungerne i suoi piedi, dopo averli
bagnati con le sue lacrime ed asciugati con i suoi capelli.
Wén dar gséllhu het gsian dinhi sua, hédder gmüssurut
inter im: wén wiar ich hen avittrut wierti an Got wi war
dénghjen, tétteder wol wissu witte fümmala ischt déja.
Wa eer das het antschtanne was dar gséllju het gmüssurut, hemmu gséit: “Séin déi das hennen gsia varzuagnu
d’gruaschtu schuldini das wéllje mia wol dem das hennudschu kwénkt.
Quando l’amico ha visto cose così, ha pensato tra sé: se
quello che ho invitato fosse Dio, come pensiamo, saprebbe
che donna è quella.
Ma lui che ha capito ciò che l’amico pensava, gli ha detto.”
Sono quelli che si sono visti condonati i debiti più grossi che
amano di più coloro che glieli hanno tolti.
Wén ich bin kintrut z’déim hous, dou hescht mich nöit
antfannhe wol wi disch fümmala. Darrum seenichder das
dschéin sünni séin varzuagnu atweegen das dschi hem-
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A U G U S T A
Il piellje (soggiorno)
dell’antica casa parrocchiale,
oggi sede dell’Associazione Augusta.
mer wéllje wol noch mia dén dou.
Quando sono entrato in casa tua tu
non mi hai accolto bene come questa
donna. Per questo ti dico che i suoi
peccati sono perdonati perchè ha saputo volermi bene ancor più di te.
Ischt was dar Lljibi Gott hennünsch gseit höit wén war hen
chonnu lausen z’ Évanschilli das
war hen khüart leese
È ciò che il Buon Dio ci ha detto
oggi se abbiamo saputo ascoltare il
Vangelo che abbiamo sentito leggere.
Wén as vrüafz chint z’ Éischeme d’iestu vért, un gsit disch
gruassu un schienu chilhu volli heilaga un sua wol phapti
un vlieti, un wén van a séitu zar andra z’landsch unz villjen
z’ vurku vinz dréizen tscheppili, déju auch wol phaptu, un
wén z’chint a wissu das in diz lann troandsch noch ellji taufen un prismun d’chinn un goansch noch ellji dschi ielugun
zach chilhu, wua dschi troan auch ellji üriun tuatu iewun
dschi vargroabe um zu noch n’en tun z’see meschi, mat tel
müssuru z’heen gvunnen as lann wua leeben lljöit das klaupen, das hen noch broha das khémendsch wilt unnerbrechen, un gwintschenündsch das z’gannhi noch vürsich sua.
Se un forestiero viene ad Issime per le prime volte e vede
questa grande e bella chiesa piena di santi e così ben tenuta
e pulita e quando da una parte e dall’altra del paese, su
fino quasi al colle, trova ben tredici cappelle anche quelle
ben tenute, e quando viene a sapere che in questo paese portano ancora tutti a battezzare e cresimare i loro bambini e
vanno ancora tutti a sposarsi in chiesa dove portano ancora tutti i loro morti prima di seppellirli per ordinare poi
per loro delle messe, può facilmente pensare che in questo
paese vive della gente che crede, che ha ancora delle buone
abitudini che nessuno vuole interrompere ed auguriamoci
che vada ancora avanti così.
Wa mi alz das, dar Llljibi Gott wilt noch anner, antweegen
das Eer lugt mia wi d’lljöit chönni leebe wol, eini mit dan
andre.
Eer wilt lljöit volli guz heers das antfoan geere auch d’vrüeftu oan z’vil lugu wi dschi schwétzi un witte voarwu heji
üriu hout; lljöit das resputurun was ischt dar andru, das
chonnu varzin un vargesse, un tun nöit ubber khemendsch; lljöit das wissu, wi seet ünz oalz proverbi, das
mu mat nöit geen a laffuzu allene da vlljoeigu; lljöit gén
z’weg z’geen a han, das phen wol üriun ketschi, das hüten
wol z’lann, dschéin réichtnuha das séin alluru, üriun
béschtu wurzi.
Ma con tutto ciò il Buon Dio vuole ancora dell’altro. Perché
lui guarda di più come la gente sappia vivere bene gli uni
con gli altri.
Lui vuole gente piena di buon cuore che accoglie volentieri
anche i forestieri senza guardare troppo come parlano, e quale
colore abbia la loro pelle; gente che rispetta ciò che è degli altri,
che sa perdonare e non parla male di nessuno; gente che sa,
come dice un nostro vecchio proverbio, che non si può dare
uno schiaffo a tutte le mosche; gente sempre pronta a dare
una mano; che tengono bene le loro case e custodiscono bene
le sue risorse che sono di tutti e le loro migliori radici.
Höit mi d’gséllji van l’Augusta bsinnewer d’virzg joar va
wén dschi hen gsücht z’seeme um tun dam noa, auch mi
d’endri walser van Greschonei un van wéitur, um das wiar
ischt gwuarte, lebt, ol passrut in dischi lénner vinnidschi
wi hen gmerruturut wiar het gweerut un gschtroafut i
mitsch in disch schürfi un déi das hen mussun awek, wa
das hen gloa héi üriu heers.
Oggi, con gli amici dell’Augusta, ricordiamo i quarant’anni
da quando hanno cercato di fare insieme, il possibile, anche
con gli altri walser di Gressoney e di più lontano, perchè chi
è nato, vive o passa in questi paesi vi si trovi come meritano coloro che hanno lavorato e tribolato in mezzo a questi dirupi o che hanno dovuto andare via ma che hanno
lasciato qui il loro cuore.
Un das dar Lljibi Gott geeji n’ ündsch génh guz mut um
zin vürsich, d’ackuard mi elljene, un das d’béschtu wurzi
dérri nöit, wa das dschi lieji sortrun un bljüschte was ellji
wéltisch noch vinnen in as lann walser un was dar Lljibi
Gott wilt van ellji ündschen andre.
E che il Buon Dio ci dia sempre buon coraggio per tirare
avanti, d’accordo con tutti e che le migliori radici non secchino ma che lascino germogliare e fiorire ciò che tutti vorrebbero ancora trovare in un paese walser e ciò che il Buon
Dio si aspetta da tutti noi.
Mi dischem gwintsch wélljewer auch bettu höit vür ellji
déi das hennündsch gloa,in dischi virzg joar, un das war
wélljen an tag vidergsia. Amen
Con questo auspicio, vogliamo pure pregare oggi per tutti
coloro che ci hanno lasciati in questi quarant’anni e che un
giorno vogliamo rivedere. Amen.
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A U G U S T A
I segni del paesaggio culturale
DONATELLA MARTINET
l territorio della nostra regione è stato abitato da tempi remoti: numerose testimonianze sono date dai reperti archeologici
ritrovati in vari siti.
Il paesaggio, così come lo vediamo oggi, è il
frutto di numerose trasformazioni avvenute nel corso dei
secoli per rendere coltivabile e utilizzabile un territorio
arido, scosceso e rude; è il risultato del lavoro di innumerevoli generazioni che ha condotto ad un’organizzazione
agraria ricca di elementi.
Fin dall’età romana le strade e gli acquedotti sono le componenti caratteristiche della struttura territoriale.
Per tutto l’alto medioevo il paesaggio è dominato soprattutto da pascoli e boschi; quali sistemi colturali prevalgono
il debbio (pratica colturale consistente nell’appiccare
fuoco alla vegetazione) e il maggese, con lungo periodo
di riposo pascolativo. Si seminano, di conseguenza, cereali
inferiori, meno esigenti e più rustici del frumento.
I
A partire dal secolo XI, grazie anche alle iniziative dei signori feudali, in tema di sicurezza delle campagne e di incentivi “fiscali”, tra cui il patto di dissodamento, nonché
all’introduzione di nuove tecnologie agricole, come quella
del sistema della trazione animale, i coltivi aumentano.
Sono ora intraprese grandi opere collettive di bonifica, di
irrigazione, di dissodamento, con nuove forme di organizzazione sociale.
Dopo il culmine, toccato nel XVI secolo, nel corso del XVII
secolo, causa soprattutto la terribile peste del 1630, vi è
un processo di nuova estensione delle selve e del pascolo.
Nel corso del settecento vi è uno sviluppo mercantile che
conduce ad una ripresa delle coltivazioni e l’introduzione
della patata, tubero non soggetto alle intemperie, favorisce
la crescita demografica. La maggior espansione di coltivazioni sul territorio regionale si ha verso la fine del XIX
secolo, periodo in cui iniziano le grandi emigrazioni permanenti, con l’inesorabile abbandono della montagna. La
Cloaschgassi, un tratto dell’antica mulattiera che risaliva la Valle del Lys. Ieri.
— 6 —
A U G U S T A
Cloaschgassi oggi!
Il prato denominato Prumutumattu coronato dai muretti di sostegno e dalla mulattiera che conduce al Vallone di San Grato
nei pressi del villaggio di Kruase (Crose) della ‘Costa’ di Issime.
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A U G U S T A
Salita all’alpeggio, Hubelmatti, Vallone di San Grato.
fotografia dell’epoca ci è data dal Catasto d’Impianto dello
Stato italiano, realizzato tra il 1898 e il 19141.
Il costante intervento delle comunità sul territorio, atto ad
ampliare le superfici da sfruttare dal punto di vista agricolo, a realizzare le vie di spostamento e l’approvvigionamento idrico, ha costruito nei secoli quello che noi
vediamo: il paesaggio culturale.
Oltre alla pendenza naturale dei declivi, tra gli elementi
che definiscono il paesaggio rurale, soprattutto per chi lo
vive2, vi sono i percorsi storici. Strade per i colli, a carattere intervallivo, mulattiere di connessione dei villaggi,
vie di monticazione e sentieri che permettono, a tutte le
quote, l’accesso ai coltivi, i boschi, i pascoli, talvolta le miniere: è qui che corre la vita economica della montagna. E
non solo commerci, ma transumanze estive e invernali,
1
2
pellegrinaggi e processioni religiose.
Se i percorsi sono le maglie di una fitta trama irregolare,
i nuclei storici ne sono i nodi. La configurazione degli abitati dipende sia dall’orografia sia dal tipo di relazione con
l’asse viario.
La funzionalità dei percorsi era assicurata durante tutto
l’anno grazie alle corvées: prestazioni di lavoro obbligatorie e gratuite, alle quali gli abitanti di una comunità dovevano periodicamente assoggettarsi.
Oltre al tracciato vero e proprio e all’importanza funzionale, i percorsi storici si distinguono per la loro struttura.
La parte immediatamente visibile è senza dubbio quella
delle delimitazioni, atte ad evitare che il bestiame uscisse
dal sentiero e si immettesse nei coltivi, dalle più semplici
palizzate in legno (in töitschu kiéndi), alle più ricercate re-
La Soprintendenza per i beni culturali e ambientali, grazie al coordinamento dell’arch. Flaminia Montanari, nel 1987 ha iniziato una serie di corsi di formazione per rilevatori del patrimonio architettonico minore. Issime è stato censito nella campagna 1997-2000. Sotto la guida attenta dell’arch. Claudine Remacle, hanno lavorato, a vario titolo, sul territorio: Fabrizio Giatti,
Denise Vercellin-Nourrissat, Mauro Paul Zucca.
Durante la campagna di censimento sono stati consultati numerosi documenti antichi riguardanti il Comune, tra cui il Catasto di origine dello Stato. Si ringrazia la R.A.V.A., Assessorato Istruzione e Cultura, per l’accesso alla consultazione dei risultati del censimento.
R. Gambino, in Il senso del paesaggio a cura di P. Castelnovi, ed. IRES, Torino, 2000.
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A U G U S T A
Prati sopra il villaggio di Grand Champ, gli antichi muri di sostegno bantschi
esaltano la morfologia del territorio senza cancellarne il profilo.
Terrazzamenti bantschi sopra il villaggio Grand Champ.
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A U G U S T A
Vallone di San Grato, in primo piano gli Hubelmatti con i muri di spietramento realizzati come barriera alle valanghe. I valori d’immagine e di scenario costituiti dall’eccezionale morfologia, dalla successione degli ecosistemi (bosco, pascolo, prateria) e dagli elementi
storici di antropizzazione, rendono la conca di San Grato, con i villaggi di Chröiz, Zöin e Bühl, assieme alla vicina zona di Toeifi e Gradinérp, fra i più affascinanti paesaggi del Vallone, un rapporto storicamente non conflittuale tra “paesaggio naturale” e “paesaggio culturale”.
cinzioni, dette walser, in pietra e legno, ai “cumuli” di pietre a formare muri d’ala, alle pietre piatte verticali conficcate nel terreno (blatti), a costituire quelli che a Issime
vengono entrambi chiamati ‘d’gassi’. A completare l’immagine data dal disegno dei tracciati, vi sono i muri a
secco a sostegno del terreno, a valle e/o a monte, eventualmente dotati di rudimentali scalette realizzate con pietre sfalsate, sporgenti dal paramento. A volte sussistono
file di aceri o frassini le cui foglie servono a nutrire e a riparare dal sole le bestie.
Altra caratteristica è il piano di calpestio: semplice terra
battuta, accoltellato per stabilizzare il fondo, acciottolato e
lastricato per impreziosire i passaggi, gradini e gradoni lapidei per superare i dislivelli, massicciate per orizzontare
le pietraie.
Accanto ai sentieri, i rus, che segnano il paesaggio non
solo per il loro solco - nelle zone più asciutte reso più impermeabile da massicciata di fondo e pareti in lastre di pietra - ma soprattutto per la differenza di colture: quella
irrigua a valle del corso (caratterizzata da coltivazioni foraggere), quella secca o il bosco a monte.
Altri segni forti, che sono stati determinati dal sistema di
utilizzo del suolo, sono i terrazzamenti, strutture murarie
di sostegno delle terre che servono a mitigare la pendenza, migliorare l’esposizione, fermare il dilavamento
delle acque. Sono in gran parte paralleli alle curve di livello, realizzati in modo discontinuo o per lunghe fasce,
in alcuni tratti anche perpendicolari, a chiudere l’appezzamento.
Vicino ad essi sono spesso presenti i cumuli di pietre derivanti dallo spietramento (mürdscheri), dalla pulizia dei
prati e, soprattutto, dei campi: sono disposte lungo le linee
di confine degli appezzamenti, lungo la massima pendenza, o a mucchi, soprattutto su rocce preesistenti.
Tali elementi strutturanti il territorio sono visibili anche a
Issime, soprattutto per le zone non interessate dalla meccanizzazione, la quale richiede spazi più vasti per il passaggio dei mezzi.
I percorsi storicamente più importanti del Comune sono
quello del fondovalle, ormai quasi completamente cancellato dalla strada regionale e quelli intervallivi del vallone di San Grato, di collegamento con Challand,
attraverso il colle del Dondeuil (Mühnu Vurku), e del vallone di Tourrison, che conduce in Piemonte, attraverso il
Col du Lou.
Dai percorsi principali, per raggiungere i nuclei insediativi
e gli spazi per l’attività agro-pastorale, si dipartono innumerevoli sentieri, pedonali o utilizzati anche per lo spostamento del bestiame, il cui diritto di accesso era
regolato dal ritmo delle colture stagionali. Le strutture di
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A U G U S T A
pregio sono numerose nel territorio di Issime, tra queste
si ricordano a titolo di esempio le due direttrici viarie interne al Vallone di San Grato, ‘dan undre Weg’ e ‘dan uabre
Weg’, rispettivamente il ‘sentiero basso’ pedonale e la ‘mulattiera alta’ utilizzata anche per la monticazione del bestiame.
In una vallata dove la percentuale annua di precipitazioni
è nettamente superiore a quella media della regione, la
rete di irrigazione non è notevolmente sviluppata. Persi
in parte i reticoli del fondovalle, cancellati dalla nuova antropizzazione, permangono nella piana alcuni canali antichi3, tra i quali si ricorda il Ru de Fontaineclaire (irrigava
sei ettari di territorio agricolo, in sinistra orografica del
Lys a valle del Capoluogo), Ru des Allemands (irrigava
oltre dieci ettari a monte del Capoluogo) e Ru de Rollie (irrigava quindici ettari di terreni coltivati a prati e campi dei
villaggi di Rollie, Crose, Grand Champ e Cugna).
La conformazione a U della media valle del Lys ha fatto sì
che, per essere coltivata, la zona pianeggiante non necessitasse di grandi opere di sostegno delle terre, per contro
i costoni, particolarmente ripidi, sono stati recuperati alla
montagna solo grazie ad opere di vera ingegneria, con
muri in pietra a secco, possenti e ripetuti, che disegnano
i pendii. Nella zona di fondovalle i muri di sostegno, se-
Un tratto del Ru de Rollie
nei pressi del villaggio di Grand Champ.
guendo le curve di livello esaltano ed evidenziano la plasticità e ‘morbidezza’ del territorio, come è apprezzabile
nella zona definita ‘la Costa’ (dove sorgono i villaggi di Ricourt, Rollie, Crose, Riva e Grand Champ); mentre i versanti più ripidi sono caratterizzati dai tipici terrazzi come
ad esempio nelle zone di Biolley e Prasevvin.
Villaggio Riva. Scaletta in pietra sporgente
per risalire il terrazzamento.
3
Il disegno a fasce dei terrazzamenti è accompagnato da
quello verticale, o puntinato, delle murgères realizzate sì
per lo spietramento dei terreni, ma a volte posizionate
quali deviatori di valanga. Tra queste ricordiamo il bellissimo esempio della piana di San Grato ‘Hubelmatti’ dove
le murgères assumono il nome proprio della loro funzione,
in töitschu ‘d’barru’, la barriera per la valanga.
L’organizzazione agraria, stratificata lungo i secoli, ha costruito un paesaggio ricco di elementi di particolare valenza estetica e culturale, che ci fa riconoscere e
apprezzare in modo diretto la fatica dei nostri antenati,
che ci trasmette una sapienza antica, profonda e irripetibile. Segno della civiltà più profonda e radicata della nostra bella terra.
G. Vauterin, Gli antichi rû della Valle d’Aosta, Le Château Aosta, 2007.
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A U G U S T A
Alpine Flurbereinigung nella Valle d’Aosta
Anche ad Issime si finanzia la
distruzione del paesaggio montano
GERHALD FITZTHUM
atto di accusa viene dalla Germania. Gerhard Fitzthum, giornalista, da circa vent’anni ogni primavera
guida comitive di escursionisti tedeschi attraverso i sentieri della media montagna della valle d’Aosta. Nel
corso degli anni ha visto il declino della media montagna valdostana, l’abbandono dei sentieri, il trionfo del
cemento e dell’asfalto. Ha poi visto un’applicazione estesa dell’Alpine Flurbereinigung (Riordino dei Territori) una pratica di spianamento dei terreni che si faceva in Germania trent’anni fa, ma che poi è stata abbandonata per evitare la distruzione del tradizionale paesaggio rurale.
Gerhard Fitzthum l’Alpine Flurbereinigung l’ha reincontrato in Valle d’Aosta e non riesce a capacitarsi. Ne ha scritto sui quotidiani e periodici di lingua tedesca in Germania ed in Svizzera.
Pubblichiamo il suo ultimo articolo sull’argomento uscito su «Panorama» il mensile ufficiale del Deutscher Alpenverein
(DAV), organo del Club Alpino Tedesco, un settimanale con oltre 600.000 abbonati.
L’
BULLDOZER IN MONTAGNA
È difficile credere ai propri occhi: due bulldozer spianano il
vasto fianco di un’intera montagna. Impietosamente buttano
giù i vecchi muretti a secco e spingono le pietre su un muc-
chio di alberi sradicati e rovesciati. Sotto il villaggio i lavori
sono già terminati. Laggiù dove poco tempo fa si estendeva
un paesaggio collinare di terrazzi pittoreschi, adesso si vede
un deserto senza alberi né cespugli, da cui sono sparite le ir-
Terrazzamenti nei prati del villaggio di Grand Champ. Le modifiche ad opera dell’uomo - come la costruzione di muretti di sostegno,
di mulattiere, di ru - in passato furono adattate alla morfologia del terreno senza causare danni e scompensi ambientali. Un progetto
di valorizzazione agricola, pur introducendo necessarie e quanto mai utili modifiche, dovrebbe porre adeguata attenzione e salvaguardare i segni storici, culturali e ambientali del patrimonio rurale.
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A U G U S T A
regolarità del terreno come ogni traccia della storia umana.
Questo avviene non in una zona montagnosa del Terzo
Mondo, ma nel centro dell’Europa; nella Valle d’Aosta, nell’Italia settentrionale, nello spazio economico dell’agricoltura
montana tradizionale, a 1400 metri sul livello del mare. Al
primo impatto si pensa di aver a che fare con un fenomeno tipicamente italiano: il potere di qualche imperatore locale o investitore esterno che è in grado di aggirare le leggi della
protezione paesaggistica. Nel caso specifico si tratta però di
un’altra cosa. L’amministrazione regionale non solo copre lo
scempio ecologico ignorandolo o dando permessi senza effettivi controlli, com’è successo tante volte altrove. Invece è
la Regione stessa che promuove e finanzia il disastro. I programmi in merito dell’Assessorato all’Agricoltura si chiamano “miglioramento fondiario” o ancora “bonifica dei
terreni”. Sono varianti della Flurbereinigung che fu effettuata
al di là delle Alpi negli anni sessanta e settanta, nella pianura
e nelle zone collinari.
L’Assessorato competente parla della necessità di una «razionalizzazione» del lavoro contadino nelle regioni montanare. Secondo questa argomentazione, si tratta non solo di
rendere possibile una lavorazione più efficace del terreno,
ma di nientedimeno che della sopravvivenza dell’agricoltura
nelle zone di alta montagna, da molto tempo minacciate dall’esodo della popolazione.
Il problema principale, a parte il clima alpino, in quest’ottica
è la frammentazione della proprietà terriera, che rende impossibile lo sfruttamento delle terre secondo la logica economica. Il progetto più vasto prevede perciò che un
consorzio di contadini interessati metta insieme un certo nu-
mero di piccole proprietà per crearne un insieme più grande.
Viene poi steso un progetto di «riordino», pagato dalla Regione come anche i costi notarili per il passaggio dei titoli di
proprietà. Una volta raggiunta l’intesa, il programma viene
applicato. In pratica l’amministrazione si fa carico di tutti i
costi. Ufficialmente si tratta di garantire l’adeguata accessibilità ai terreni, di liberarli dalle pietre, di eliminare le irregolarità e di pulire superfici rimaste sotto i rovi. In realtà ciò
significa il completo spianamento del terreno, con l’eliminazione di siepi, alberi, storici canali di irrigazione ed altri elementi ‘disturbanti’, naturali (massi erratici o affioranti etc.) e
ad opera dell’uomo. Muraglioni alti fino a dieci metri sostituiscono adesso i numerosi vecchi muretti a secco che per
molti secoli hanno protetto la terra dall’erosione e dalle slavine.
Contemporaneamente si installa una rete sotterranea di tubi
per l’irrigazione automatica e si costruiscono strade per l’accesso ai terrazzi creati ex-novo, sicché i terreni possano essere lavorati con gli stessi macchinari adoperati nell’industria
agraria delle pianure. Non si coltiva comunque niente. Almeno il 90% del terreno omologato si usa solo per il fieno; i
terreni adoperati per i frutteti e la vigna sono esclusi da questi fondi.
Ad ogni socio del consorzio viene poi attribuito un pezzo
della superficie corrispondente alla superficie totale della sua
proprietà terriera inizialmente apportata. Gli può essere completamente indifferente se il suo pezzo si trova a destra o in
mezzo, siccome sono state eliminate tutte le differenze qualitative.
Secondo l’Amministrazione regionale in questo modo fino al
I prati di Grand Champ irrigati, un tempo, dal Ru de Rollie. Sullo sfondo il monte Huare.
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A U G U S T A
I prati della ‘Costa’ di Issime
gli elementi naturali e gli elementi apportati
dall’uomo si combinano in perfetta armonia.
2003 sono stati trasformati 70 ettari di terreno di agricoltura tradizionali - distribuiti su 5 progetti - in terreni «uniformati». Fino alla scadenza del programma del 2006 si
prevedono altri 10 progetti e una spesa complessiva di 9
milioni di euro, non contando i vari altri interventi, molto
più numerosi, che non comprendono cambi di proprietà.
Per avere chiarezza sull’entità totale della distruzione
del paesaggio, i Verdi ultimamente hanno fatto due interrogazioni al governo regionale. È venuto alla luce
che negli ultimi 5 anni sono state approvate e finanziate
514 pratiche di «miglioramento fondiario» e che sono
state fatte domande per ulteriori 900 spianamenti. Non
sono state date informazioni sulla estensione della superficie trasformata. È stato indicato il costo di 38 milioni di euro per i 514 progetti nominati, di cui solo una
piccola parte era stata sottoposta all’esame di compatibilità ambientale.
TANTO NON CI COSTA NULLA!
La popolazione locale vede in genere l’eliminazione del
paesaggio tradizionale con occhio critico, l’accetta però
come un destino inevitabile. Ad esempio a Grand Villa,
I prati di Grand Champ e sullo sfondo
la cima Wéiss Wéib innevata. Le linee tracciate dall’uomo
(muretti di sostegno) e le linee della natura
corrono e degradano in parallelo.
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A U G U S T A
un piccolo villaggio situato sopra la valle in un paesaggio da
sogno, le sei famiglie di contadini che ci vivono tutto l’anno
hanno fatto spianare insieme a 17 proprietari che vivono in
altre zone, una superficie di circa 20 ettari.
Piero Chapellu che abita a Grand Ville e che durante l’inverno vive a valle parla di un «paesaggio lunare» lasciato dai
bulldozer. Egli dubita che a lunga scadenza le misure intraprese saranno utili.
Scettici sono anche gli stessi contadini, almeno quelli che finora non hanno partecipato ai progetti, ma anche quelli che
partecipano non sono veramente convinti. Dice un contadino
che vive in un villaggio vicino. «Però non costa niente e aumenta il valore commerciale dei terreni perché ormai ci si accede anche coi macchinari di un industriale dell’agricoltura».
Vantaggi concreti come il risparmio di tempo sono altri argomenti in favore: «Se finora si adoperavano sette giorni all’anno adesso si risparmia forse un giorno».
Dall’altro lato dopo la bonifica si perde la raccolta per quattro
o cinque anni. In più la semente, non autoctona, peggiora la
qualità del latte e di conseguenza i prodotti, la cui vendita è
comunque già difficile. Il giovane dice che per queste ragioni
il «miglioramento fondiario» non è un progetto dei contadini,
ma dei burocrati dell’Assessorato all’Agricoltura. «Ancora
una volta nessuno ha chiesto la nostra opinione».
Infatti nella Valle d’Aosta l’interesse per i contadini montanari non è più grande che nel resto dell’Italia. I sussidi della
Regione per l’agricoltura vengono distribuiti non tenendo
conto della quota e del profilo dei terreni. Ciò significa uno
svantaggio per i contadini di alta quota.
Le bonifiche non equilibrano questo svantaggio, dice Jurg
Meyer, responsabile per la protezione della natura nel Club
Alpino Svizzero. «Con spianamenti e agricoltura intensiva ci
si indirizza sulla strada sbagliata, perché l’agricoltura della
pianura sarà sempre avvantaggiata». In più, secondo Meyer,
queste misure sono ecologicamente insensate ed in forte
contrasto con il Protocollo per l’Agricoltura di montagna»
della Convenzione Alpina firmato anche dall’Italia.
IL MONTANARO PAGATO
PER DISTRUGGERE IL PAESAGGIO
Sembra che nella piccola Valle d’Aosta questo Protocollo sia
sconosciuto. Il montanaro non viene pagato, come nella vicina Svizzera, per la conservazione del vecchio paesaggio
(Kulturlandschaft) ma per la sua distruzione. Attualmente
non sono concessi particolari sussidi ai contadini della Regione a parte alcune piccole agevolazioni. Ormai quasi nessuno in montagna può sopravvivere solo col lavoro da
contadino ed il trend va verso il lavoro a tempo perso che si
effettua di fretta la sera e nei fine settimana. Manca l’aiuto finanziario ma anche morale da parte della politica.
Gli allevatori e produttori di latte si sentono lasciati soli, gli
mancano i segni concreti di riconoscimento della loro attività. Non c’è da meravigliarsi che ormai generalmente sentono il lavoro come un peso, senza essere più convinti della
sua utilità sociale. Il lavoro del contadino ormai deve essere
fatto nei tempi più brevi e con meno fatica possibile.
Bellissimo scorcio dal prato chiamato in töitschu d’Lasuru, delimitato dal profilo dei muri a secco
costruiti a sostegno della linea di crinale fra i villaggi di Crose e della Riva (la ‘Costa’ di Issime). Sullo sfondo il monte Huare.
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A U G U S T A
I prati sotto il
villaggio di
Crose. La
‘Costa’ di Issime presenta
alcuni terrazzamenti, un
tempo probabili campi
di segale,
sopraelevati
rispetto al
suolo naturale.
Sono spazi di
elevato valore
storico e
culturale.
“La tutela e la
valorizzazione
del paesaggio
salvaguardano
i valori che
esso esprime
quali manifestazioni
identitarie
percepibili”
(art. 131, c. 2
‘Codice dei
beni culturali
e del
paesaggio’
legge emanata
nel gennaio
del 2004).
Il lungo muro a secco a sostegno della linea di crinale fra i prati di Rollie, esposti a sud, e la zona chiamata Fey
esposta a nord. Il muro era anche la divisione fra due distinte proprietà come risulta da documenti antichi.
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A U G U S T A
In primo piano una porzione del territorio della ‘Costa’ di Issime, compreso fra i villaggi di Crose, Riva, Bennetsch e tsch‘Hieruhous, percorso dalle due antiche mulattiere per il Vallone di San Grato: via di transumanza e quella chiamata z’Wertsch mouru, in parte sopraelevata rispetto al suolo naturale, diretta al villaggio di Rollie superiore. Sono evidenti le divisioni dello spazio con muretti a secco, segno
dei diversi sistemi di produzione agraria (prati, campi, pascolo) e dell’organizzazione delle diverse proprietà private: uno spazio d’elezione della microstoria, oggi attraversato da una carrozzabile. Ogni paesaggio può essere osservato come un fenomeno unico e concreto, frutto di un equilibrio fra l’azione naturale e quella antropica, dove i luoghi assumono caratteristiche distintive e qualificanti il
contesto ambientale.
In queste condizioni nessuno si chiede cosa significa per
l’ecologia un’agricoltura intensiva a 1000-1500 metri sul livello del mare con una concentrazione massima di concimi.
Sempre di più per i contadini montanari della Regione conta
solo il denaro.
TROPPI SOLDI
Una tale trasformazione dell’agricoltura montanara è costosa.
L’amministrazione regionale della Valle d’Aosta però se la
può permettere. Grazie allo Statuto di Autonomia del 1948 la
più piccola regione d’Italia gode di privilegi senza pari. Il 90%
delle tasse restano nella Regione sicché l’amministrazione è
diventata il più importante datore di lavoro. Due su tre Valdostani lavorano ormai nell’amministrazione regionale o comunale o nel servizio forestale.
Sono notevoli anche gli introiti di uno dei più frequentati Casinò d’Europa, a St-Vincent, di proprietà della Regione.
Il guadagno senz’altro più importante però deriva dal transito di camion. Dopo l’accordo di Schengen non si potevano
più incassare dazi di importazione ed esportazione, ma il governo nazionale ha concesso per contratto ai Valdostani di
sopperire a tutti gli introiti da tariffe doganali e iva persi. In
questo modo il traffico pesante continua a portare una piog-
gia di soldi alla piccola Regione nelle Alpi. Quasi un terzo
degli introiti dell’amministrazione regionale proviene da questo tipo di risorsa.
«L’economia della Regione ha perso qualsiasi contatto con la
realtà», dice Elio Riccarand. Secondo l’ex-assessore regionale all’ecologia, traffico e trasporti (fino al 1998) nella Valle
d’Aosta si vive di soldi che non corrispondono più a reali prestazioni e si ignorano sempre di più le condizioni geografiche. Le risorse locali non vengono utilizzate in modo
appropriato, tanto meno in modo sostenibile. Riccarand dice:
«Invece di collegare turismo, protezione della natura ed agricoltura in una prospettiva ragionevole si costruiscono grandi
edifici di rappresentanza, palazzi dello sport giganteschi e
larghe strade in ogni angolo della montagna».
Infatti dappertutto s’inciampa nei cantieri con dei macchinari
enormi e modernissimi. Irresistibilmente nasce l’impressione che in Valle d’Aosta c’è una ruspa o un caterpillar ogni
10 abitanti. Questo parco macchine gigantesco chiaramente
dev’essere utilizzato per la costruzione di seconde case oppure, appunto, per la trasformazione di zone montagnose una
volta estensivamente coltivate in superfici coltivate dall’industria agraria.
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A U G U S T A
Rollie inferiore, una caratteristica nonché
antichissima mürgera di pietre accumulate in
seguito allo spietramento del territorio circostante.
POLITICA TURISTICA SBAGLIATA
Manca invece ogni traccia di uno sviluppo ragionato del
turismo. La Regione continua a concentrare soldi e pubblicità su una manciata di stazioni invernali per il turismo
di massa come Breuil-Cervinia, Courmayeur e La Thuile.
Il paesaggio storico (Kulturlandschaft) sui terrazzi assolati fra 1000 e 1800 metri di quota invece diventa dal
punto di vista turistico sempre di più una terra di nessuno, benché, per quanto riguarda tranquillità bellezza
dei paesaggi, essa non sia inferiore alle zone di gran pregio turistico nelle Dolomiti. Questo probabilmente non è
dovuto al caso, ma il segno inconfondibile che la politica
non è riuscita a creare le condizioni necessarie per un
turismo sostenibile.
Imposte e regolamenti burocratici per la gestione di un
albergo sono talmente alti che negli ultimi anni in tutte le
zone escluse dal turismo di massa una impresa su due ha
chiuso le porte.
Sul bellissimo, tranquillo altopiano intorno a Gran Villa
(che verrebbe continuamente inondato dai turisti se
fosse in Alto Adige) ormai esiste una sola struttura ricettiva, di proprietà di una famiglia di contadini. Riescono
a tenere a galla il loro piccolo albergo a una stella solo
perché eseguono anche altri lavori e si aiutano a vicenda.
Non sono riusciti ad ottenere il permesso per la trasforParticolare del muro a secco di sostegno alla mulattiera
detta Wertsch mouru diretta a Rollie superiore.
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A U G U S T A
Particolare di un antico muro di terrazzamento; appena sopra il muro di sostegno
all’attuale strada carrozzabile per i villaggi della ‘Costa’.
Elementi naturali e manufatti: equilibrio fra uomo e natura.
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A U G U S T A
Fiori su un
muretto a secco.
La grande varietà
di micro-ambienti
che il territorio
offre, non alterata in passato
dagli interventi
invasivi dell’uomo, anche in
considerazione
della diversa
esposizione al
sole dei terreni,
conferisce una
grande varietà di
flora e fauna. Per
contro, l’utilizzo
di macchine operatrici per sbancare, livellare
e appiattire la
superficie del territorio, oltre
a cancellare per
sempre i segni
della storia agraria della comunità walser,
determinerebbe
anche una
rilevante
diminuzione
del patrimonio
vegetazionale,
dovuto anche
all’introduzione di sementi non autoctone. Chi in primavera gira per i prati a raccogliere le erbe per la minestra si rende immediatamente conto dell’alta varietà di essenze vegetali proprie della cultura locale, non solo paesaggistica, ma anche alimentare.
Un masso
affiorante dal
terreno e un
muro a secco.
L’inserimento
del manufatto
nell’ambiente
naturale è
pressoché
perfetto tanto
da rendere non
immediatamente individuabili i due
elementi.
Anche in
considerazione
del fatto che
l’opera ha il
vantaggio di
essere stata
costruita in
pietrame
raccolto nei
dintorni
e quindi dello
stesso colore
delle circostanti rocce.
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A U G U S T A
L’antica mulattiera ‘gassu’,
nella zona compresa fra i prati di Grand Champ e di Crose,
che conduce ai beni comunali “almini” e a Tschampuret
(località al di sopra della frazione Grand Champ).
mazione in un agriturismo - che avrebbe aperto prospettive più
convenienti -siccome la casa, costruita negli anni sessanta ha
un piano di troppo rispetto al regolamento.
Chiave di questa politica è il «miglioramento fondiario». Elimina
il vecchio paesaggio storico (kulturlandschaft) con i caratteristici muretti e file di alberi e riduce così il valore turistico del
paesaggio. Siccome da nessuna parte delle Alpi è possibile vivere senza introiti dal turismo, in questo modo prima o poi spa-
Gran Tschampsch Blattu, nei prati sopra Grand Champ.
In questi anfratti naturali sono stati ricavati dei vani da destinare
alle diverse funzioni legate alle pratiche agropastorali
per lo stoccaggio di fieno, foglie secche, legna e attrezzi agricoli.
Anche in questo caso pietra naturale e pietra lavorata
sono in perfetta armonia.
riranno anche gli ultimi abitanti dei paesi.
Restano proprietari delle secondo case
che lasciano il loro immobile vuoto per undici mesi all’anno e contribuiscono così
alla morte dei villaggi, più alcun grandi
proprietari terrieri che si sono presi i terreni dei piccoli contadini.
Se questa politica continuerà i paesi della
montagna valdostana potrebbero fra poco
diventare villaggi fantasma, circondati dai
siti uniformi di produzione dell’industria
agraria, senza traccia di natura e storia. Lo
stesso miglioramento fondiario creerebbe
così il problema che avrebbe dovuto risolvere.
Brissogne, un paesaggio completamente trasformato, dalla totale eliminazione delle stratificazioni storiche
del territorio a favore di una moderna agricoltura meccanizzata e “veloce”.
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A U G U S T A
Vescovi controriformisti e comunità
walser tra Piemonte e Valle d’Aosta
(1528-1601)
I rapporti tra i vescovi postridentini delle due diocesi di Novara e di Aosta e le Comunità walser di Valle Formazza (Pomatten), di Valle Antigorio (Salecchio Inferiore e Salecchio Superiore, Agaro, ecc.), di Valle Sesia (Rimella Valsesia, Alagna
Valsesia), di Valle Strona (Campello Monti), di Valle Anzasca (Macugnaga) e
della Valle del Lys (Issime e Gressoney) nella seconda metà del Cinquecento.
BATTISTA BECCARIA
n uno dei miei due saggi pubblicati nel recente volume sulla storia di Rimella Valsesia ho voluto trattare dei rapporti tra il vescovo Carlo Bascapè
(1593-1615), il più grande, oltre che il più noto, presule novarese d’Età moderna e segnatamente postridentina, e le Comunità walser della diocesi di Novara. Il
Bascapè, prima “preposito generale” dei Barnabiti e stretto collaboratore e segretario del cardinale Carlo Borromeo, fu creato
vescovo di Novara proprio da San Carlo. Questo ecclesiastico,
peraltro studiatissimo e dall’imponente mole bio-bibliografica, è
anche balzato agli onori della cronaca dopo che lo scrittore Sebastiano Vassalli ne ha fatto uno dei tre maggiori protagonisti di
un suo celebre romanzo, La Chimera, vincitore del prestigioso
“Premio Strega” nel 1990. Ora vorrei ampliare, anche se di poco,
l’orizzonte di storia ecclesiastica sull’areale walser italiano per
vedere se vi siano concomitanze oppure discrasie nell’atteggiamento dei presuli della più immediata Controriforma cattolica
verso queste popolazioni di lingua alamannica. Istituiremo dunque un confronto tra le due confinanti diocesi di Novara e di
Aosta e le Comunità walser comprese rispettivamente all’interno
delle due giurisdizioni ecclesiastiche nella seconda metà del Cinquecento.
Premesso che, prima della Riforma protestante, sia i vescovi novaresi che quelli augustani si curavano né poco né punto di queste popolazioni montane ai margini del loro gregge di fedeli,
limitandosi, attraverso i loro Vicari generali o Luogotenenti episcopali, alla normale amministrazione burocratica e al prelievo
di decime ed emolumenti a favore della Mensa vescovile, standosene comodamente a bivaccare a Roma o in altre Corti italiane (quella papale, quella sabauda o quella sforzesca, poco
importa); la loro attenzione verso queste Comunità germanofone cominciò invece a crescere man mano che l’incombente pericolo protestante, soprattutto calvinista, si andò affacciando
minaccioso al di qua dei confinanti Cantoni elvetici. Il fatto di
parlare una lingua germanica e quindi di poter capire (ed eventualmente leggere, per i meno illetterati) il messaggio di Lutero
e di Calvino, oltre al fenomeno del loro continuo andirivieni di
migrazioni stagionali nei Paesi d’Oltralpe, fece sì che queste po-
I
polazioni ai confini proprio con alcuni Cantoni riformati fossero
particolarmente “tenute d’occhio” sia dai vescovi, dopo Trento
obbligati alla residenza nelle loro rispettive Chiese, sia, ove fossero attivi, dai Tribunali della Santa Inquisizione papale.
A Novara, verso la metà del XVI secolo sono attive non una ma
ben due Inquisizioni parallele nell’ambito dei territori della diocesi, che a nord si spingono fino ai confini con Berna e col Vallese, incuneandosi con le valli ossolane di Antigorio e di
Formazza nel cuore dei Cantoni calvinisti. Novara, ricordiamolo,
è da secoli territorio appartenuto alla Lombardia sia politicamente, che culturalmente e linguisticamente (entrerà a far parte
del Piemonte solo a metà del Settecento circa) e pertanto a quest’epoca si trovava pienamente inserita nel Ducato di Milano, che
dopo il 1535 era oramai caduto sotto il dominio della Spagna. Orbene l’Inquisizione papale romana, rappresentata a Novara dai
domenicani, deve fare i conti con l’autonomia che la Spagna garantisce ai “propri” tribunali nei territori italiani sotto il suo dominio. Diversamente che in Sicilia e Sardegna dove regna
sovrana l’Inquisizione spagnola (la “Suprema di Madrid”), la
quale non ammette rivali o doppioni, a Napoli come a Milano si
trova un compromesso fra Roma e Madrid. La Spagna protegge
l’Inquisizione vescovile delle Curie episcopali contro lo strapotere di quella papale, che in molti Stati della Penisola la fa da padrona con immunità riconosciuta per l’inquisitore romano nei
confronti della giurisdizione dell’Ordinario diocesano. Dove il
vescovo non sia cedevole, l’inquisitore domenicano o francescano deve solo “collaborare” con il tribunale di Curia, o meglio
ancora “cogestire”, di comune accordo, tutto ciò che riguardi
materia in causis fidei. Questo, come si potrà subito arguire, poteva creare conflitti di competenza o frizioni di concorrenza fra
i due tribunali inquisitoriali, anche perché i roghi o le condanne
alle pubbliche abiure di eretici, streghe e altri contestatori implicavano la confisca dei beni del condannato con risvolti economici non indifferenti. Per evitare ciò, era stata riesumata
una Bolla papale del XIV secolo, la Multorum quaerela, che prescriveva che sì il reo fosse processato dall’inquisitore che per
primo lo avesse pizzicato e se lo fosse perciò aggiudicato, ma né
le sedute processuali con “rigoroso esame” o con “applicazione
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A U G U S T A
delle questioni” (leggi, in ambedue le eufemistiche perifrasi, con
“tortura” del reo), né le sentenze definitive di condanna a morte,
o di “auto da Fé” solenne e pubblico, potevano essere condotte
in proprio da ciascuno dei due tribunali se non fosse stato presente anche uno o più rappresentanti del tribunale concorrente.
Anzi, quasi sempre, per decidere un rogo, i due Santi Tribunali
delle due distinte Inquisizioni si riunivano in “seduta congiunta
e plenaria”, presieduta a Novara dal vescovo e dall’inquisitore
domenicano simultaneamente. La rivalità costante nella città
gaudenziana tra frati (inquisitori papali) e preti (Vicari generali
prima e, più tardi, vescovi residenti) paradossalmente spense
non pochi roghi. Pur di non darla vinta agli avversari, soprattutto
per opposti interessi di bottega, molte volte i domenicani invalidavano i processi di Curia, non avvallandone le sentenze capitali, e viceversa i Vicari e i vescovi non concedevano l’exequatur
per i roghi degli avidi frati novaresi, intenti ad ingrandire ed abbellire il loro convento di San Quirico con le confische dei beni
dei condannati o le laute “bustarelle” estorte per commutare i
roghi in carcere perpetuo o anni di esilio. Per evitare danni economici ad entrambi i Santi Tribunali, sotto gli episcopati di alcuni presuli, come Romolo Archinto (1574-1576) o Francesco
Bossi (1579-1584), entrambi milanesi provenienti dalla scuderia
di Carlo Borromeo, si addivenne a vere e proprie spartizioni
delle “competenze” da riservare a ciascuno dei due tribunali. A
Novara, dunque, i vescovi che si succedono sulla Cattedra di san
Gaudenzio nel ventennio tra 1570 e 1590 spartiscono con il venale e terribile inquisitore domenicano Domenico Buelli da
Arona le competenze processuali in materia di fede (in causis
fidei). Ai vescovi il ripristino della disciplina nei confronti di un
clero secolare scostumato e la riforma di vita dei religiosi e delle
religiose nei conventi, dove si viveva una vita lassa e talvolta
scandalosa, l’attenzione alla circolazione di libri e idee eterodosse, l’emigrazione in cerca di lavoro dei fedeli cattolici (Walser compresi) verso i territori riformati. Nel frattempo il losco
personaggio del romanzo La Chimera - così realisticamente ricostruito da Sebastiano Vassalli - padre Domenico Buelli imperversava nelle valli dell’Ossola a caccia di streghe e stregoni
e dei pochissimi eretici, perlopiù parroci tra i più colti e istruiti
in campo teologico, rare perle in mezzo a un clero ignorante e
moralmente canagliesco. Nell’interminabile ventennio in cui fu
inquisitore papale per l’heretica pravità, processò decine e decine di donne e uomini delle valli Antigorio, Formazza, Diveria
(Sempione), Anzasca, ma anche della Valsesia. E molti roghi accese soprattutto negli anni Settanta, preferendo poi, col passare
del tempo, commutare le condanne a morte con anni di carcere
o di esilio in cambio del denaro estorto. Anche molte Comunità
walser ne rimasero coinvolte (Pomatten, Macugnaga, Agaro,
Alagna di Valle Sesia). Nel 1591 il terribile domenicano - “che
aveva fatto dell’Ossola le sue Indie”, come scriverà poi il Bascapè
a un suo stretto collaboratore - fu fermato dal vescovo Pietro
Martire Ponzone che gli invalidò la condanna al rogo per una
decina di streghe ossolane, “ree confesse” per non aver saputo
resistere alle terribili torture da lui fatte infliggere alle medesime, proprio perché, alle sedute dei “rigorosi esami”, non era
stato invitato anche il rappresentante del tribunale del vescovo.
Nel 1592 arrivò a Novara Carlo Bascapè (anche lui protagonista
di spicco ne La Chimera del Vassalli), che mise la museruola definitivamente al feroce “mastino della fede” (i domenicani erano
chiamati anche Domini canes cioè “cani di Dio” da qualche linguaccia irriverente che li aveva etichettati come mastini a guar-
Altare della cappella del Biolley (XVIII secolo).
dia della fede romano-cattolica). Con questo vescovo “garantista” e illuminato, che era stato - suo malgrado - confessore di
streghe mandate al rogo da san Carlo Borromeo nelle Valli Leventina e Mesolcina, ora Svizzera italiana, e nella zona sopra
Lecco (si parla di circa trecento roghi fatti accendere durante
l’episcopato di Borromeo), cessano le condanne a morte per
stregoneria in diocesi di Novara, e anche la “tortura” viene prevista e “regolamentata” per pochi casi gravi ed evitata il più possibile sul corpo delle donne.
La situazione in diocesi di Aosta sembra essere alquanto diversa
rispetto a Novara. Mentre nella cittadina piemontese, dopo il
lungo e contumace episcopato del cardinale Antonio Serbelloni
(1560-1574), nipote di Pio IV e cugino di san Carlo, che si fece
vivo in città in un paio di fugaci occasioni per ritirare laute prebende per sé e i propri voraci nipoti, tutti i vescovi predecessori
del Bascapè risultano provenire dal Milanese, scelti dal Borromeo e dal suo entourage, ad Aosta i vescovi sono inviati in Valle
su indicazione della Corte sabauda di Torino che li sceglie accuratamente tra le più cospicue famiglie piemontesi fedeli ai Savoia, indipendentemente dalla loro volontà e capacità di attuare
i dettati tridentini. L’importante è che si dimostrino fedeli e leali
alla Casa regnante e garantiscano ugual fedeltà ai Savoia da
parte delle loro pecorelle. Proprio nel pieno della Riforma protestante in Europa, è presule di Aosta Pierre Gazin (1528-1557)
di origine vercellese, più uomo di guerra e di missioni politicodiplomatiche che pastore d’anime. In effetti è spesso assente
dalla sua diocesi per incombenze che interessano di più i Savoia
che non gli affari della sua Chiesa. Lo seguirà Marc’Antonio
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come Agaro, ecc.); Macugnaga
Bobba (1557-1568) un altro piein Valle Anzasca; alcuni altri almontese, di Casale Monferrato,
peggi a ridosso del Sempione;
fortemente caldeggiato e quindi
poi, in Valle Sesia, Alagna ai
cooptato dal duca Emanuele Fipiedi del Rosa, Rimella in Val
liberto quando ancora non
Mastallone; Campello Monti in
aveva ricevuto non solamente
Valle Strona sopra Omegna (figli ordini maggiori (suddiacoliazione di Rimella), ma anche,
nato, diaconato, presbiterato)
più in basso, Ornavasso col suo
ma neppure quelli minori (ostiasantuario del Boden. Insomma
riato, accolitato, esorcistato, letproprio le strade e i passi, che
torato), bensì era solamente
conducevano più celermente e
tonsurato, cioè chierico. Fu cosi
direttamente ai Cantoni elvetici
che il cardinale Gian Angelo
divenuti “infetti” - come rilevava
Medici, zio di san Carlo, poi diquesto vescovo - a causa della
venuto papa Pio IV, dovette riRiforma protestante, erano in
vestirlo degli ordini sacri extra
prossimità di zone abitate da potempora. Costui, preso dai nupolazioni “todesche”. Insieme
merosi impegni per il suo duca,
alla preoccupazione per l’“infetnon ebbe tempo per compiere
tione” che era possibile penedi persona le Visite Pastorali al
trasse da Nord, il Bascapè
suo gregge che volentieri depercepiva la diversità etnica, linlegò al suo Vicario, e poi sucguistica e culturale di quelle pocessore, Monsignor Ferragatta.
polazioni ai margini della sua
Di Marc’Antonio Bobba esiste
diocesi, che richiedeva un apuna biografia compilata dal veproccio pastorale affatto diverso
scovo di Novara cardinale Giue tutto da reinventare.
seppe Morozzo ai primi
Contrariamente alla situazione
dell’Ottocento, naturalmente di
Affresco rinvenuto, durante i lavori di restauro,
di Novara e di tutto lo Stato di
stampo celebrativo e quasi agiodietro la pala d’altare della cappella
Milano, oramai sottoposto ai crigrafico. Gli successe sulla Catdel Biolley (XVII secolo).
stanissimi re di Spagna, la diotedra di san Grato, come già
cesi di Aosta non vede al suo
accennato, Gerolamo Ferrainterno una pluralità di Inquisizioni in concorrenza fra loro, ma
gatta (1568-1572) nativo di Carmagnola che, invece, si dedicò
solo il tribunale di Curia del vescovo. In effetti, come rilevava lo
con più attivismo sia a visitare le Comunità dei suoi fedeli valstesso presule novarese Bascapè, grande giurista oltre che
dostani, sia a riformare la sua Chiesa locale, convocando, fin dalgrande storico e teologo - cui andava stretto il nuovo centralil’anno della sua elezione, una Sinodo diocesana. Al Ferragatta
smo romano dei papi ex-inquisitori controriformisti, che tensuccede, subito dopo, Cesare Gromis (1572-1585) di antica fadevano a ridurre i vescovi diocesani a semplici loro “prefetti” e
miglia patrizia biellese. Anche costui, indicato e caldeggiato a
passaordini - “l’inquisitore di una diocesi è naturaliter il vescovo
Roma dalla Corte sabauda, non era che un suddiacono e non
stesso”. Solo in subordine l’inquisitore romano, inviatogli da
aveva ancora ricevuto né il diaconato né il presbiterato, cosicché
fuori e perciò “corpo estraneo” a quella data Chiesa locale, può
il papa Gregorio XIII gli dovette concedere in data 20 novembre
agire, e solamente col permesso e l’autorizzazione dell’Ordina1572 l’indulto d’extra tempora. Ordinato preliminarmente diario diocesano e cioè ancora del vescovo legalmente sedente sulla
cono e prete, fu unto vescovo il 1° luglio 1573 per mano dell’arCattedra del protovescovo fondatore. Ma, cosa assai strana e in
civescovo di Torino. Dopo il Gromis è la volta di un valdostano,
controtendenza con quasi tutte le sedi episcopali italiane, i veJean Geoffroi Ginod (1586-1592), che avrà a che fare con alscovi aostani non solo non si dimostrano contenti della loro piena
cuni episodi di eresia in seno alla sua diocesi. Trascorso poi il
autonomia in casa propria, ma tendono subdolamente, e senza
brevissimo episcopato di Onorato Lascaris (23 marzo-11 luglio
dar troppo nell’occhio dell’autorità laica sia augustana che tori1594), diventa presule di Aosta Bartolomeo Ferreri (1595nese, a far entrare in diocesi di soppiatto l’inquisitore romano1607), altro piemontese questa volta di Mondovì. Con lui e con
papale.
l’episodio del processo al diavolo di Issime (1601) termineremo
L’inizio della Riforma (siamo ancora negli anni Venti del XVI sequesta nostra ricerca. Tra l’altro, il Ferreri è proprio contempocolo) viene percepita dai vescovi piemontesi, e quindi anche da
raneo del vescovo novarese Carlo Bascapè, un pastore vero quequello di Aosta, non tanto, o non solo, come un pericolo di cast’ultimo, che non solo riforma la sua Chiesa gaudenziana, ma si
rattere eminentemente religioso dottrinale quanto invece come
pone per primo, e in maniera drammatica e sentita, una “queun sommovimento sociale e politico che può creare disordini fra
stione walser” nei confronti delle sue numerose Comunità di
il popolo, se non addirittura mettere in ribellione i sudditi contro
idioma “todescho” sparse sulle località montane più impervie
i Savoia. L’11 aprile 1529 il vescovo Pierre Gazin si reca con
dell’Ossola e della Valle Sesia, e non solo. La diocesi di Novara,
tutti gli altri vescovi degli Stati sabaudi a un’assise a Chambéry
in effetti, comprendeva tutta la Valle Formazza abitata da Valleperché bisogna prendere serie misure in vista dell’oramai imsani; parte della Valle Antigorio (Salecchio Superiore e Salecminente penetrazione protestantica al di qua dei confini del duchio Inferiore, inoltre alcuni alpeggi sopra Croveo e Baceno
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indirizzato in special modo a
cato. Anzi, afferma Gazin, gli
preti e intellettuali, vietava di teeretici sarebbero già penetrati
nere in casa propria “libri prohiin Valle d’Aosta infiltrandosi
biti” o comunque non
dalla Borgogna superiore e
preventivamente censurati ed
dalla contea di Neufchâtel. Il
approvati dall’Ordinario diocecongresso dei vescovi riuniti a
sano. Sotto questo presule nel
Chambéry, al termine delle didicembre 1568 si verificò un imscussioni, decide così di inviare
portante avvenimento a Gressocome ambasciatore a papa Cleney, dopo che era stato scoperto
mente VII proprio il Gazin, il
un gressonaro “eretico”, ma di
quale deve chiedere al pontefice
ciò diremo più avanti. Proprio
aiuti concreti per impedire l’inverso la fine della sua vita, il Fervasione riformistica. Il papa riragatta tentò di introdurre
sponde con una lettera
anche in diocesi di Aosta, e
indirizzata a tutti i vescovi saquindi in tutta la Valle, l’Inquisibaudi e poi incarica il Gazin di
zione papale romana! Prima del
riferire al duca circa alcuni peri1572 gli inquisitori romani non
colosi sobillatori penetrati in Saavevano potuto fare che sporavoia. Il Gazin riporta in
diche apparizioni nella diocesi
ambasciata i desiderata papali e
augustana e comunque non avechiede al duca di far decapitare
vano potuto esercitare alcuna
12 gentiluomini che hanno adeufficiale giurisdizione ordinaria.
rito alle nuove dottrine. In efVenivano fatti entrare in Valle
fetti, interi villaggi coi loro
alla chetichella e non ufficialcurati avevano oramai sposato
mente, in occasione di certe
la Riforma. Gli uomini di Toremergenze processuali particognon e di Antey erano passati al
larmente gravi e delicate. In reprotestantesimo. Cosa fare?
altà era poi il vescovo, e solo lui,
Usare il bastone o la carota?
Particolare dell’affresco raffigurante l’inferno
che pronunciava sentenze uffiNon si potevano sterminare
(sec. XVII sec.) sulla facciata della parrocchiale
di San Giacomo Maggiore di Issime.
ciali in causis fidei. In quell’anno
certo intere Comunità di sudditi
(1572), il 16 di febbraio, Frane fedeli con una crociata santa.
cesco Umberto Locato di Bagnorea, Commissario Generale del
Li si minacciò in vari modi cosicché ritornassero. Cosa che quei
Sant’Uffizio di Roma, nominò l’inquisitore di Vercelli, il padre
montanari fecero, non senza esser stati, prima della riammisdomenicano Cipriano Uberti, “inquisitore papale per la diocesi
sione, sottoposti a uno spettacolare, solenne e collettivo “atto di
di Aosta”. In più gli veniva conferita l’immunità nei confronti delabiura” nelle mani del canonico Gonbandel, Vicario generale del
l’Ordinario diocesano e cioè del vescovo, per cui poteva procevescovo Gazin. Il presule, accortosi finalmente dello stato di
dere a indagini, raccolta di delazioni o “pubblica voce”,
estrema ignoranza religiosa in cui erano stati abbandonati, dai
interrogatori anche col “rigoroso esame” (sotto tortura), prosuoi curati, i fedeli della diocesi, prescrisse, in una Sinodo connuncia di sentenze, senza alcun intervento o autorizzazione del
vocata il 13 agosto 1533, a tutti i parroci di istruire i fedeli alvescovo aostano. Paradossalmente il Ferragatta, anziché protemeno sui rudimenti della fede cristiana. In tale assise
stare per tale indebita interferenza di un tribunale estraneo alla
comminava a tutti i curati una ammenda di 60 soldi per ogni volta
sua giurisdizione episcopale, ci aveva messo il suo personale
che di domenica, all’offertorio della Messa Grande, non aveszampino per introdurre questo “cavallo di Troia” anche nella diosero proclamato dal pulpito e poi fatto ripetere a memoria dai fecesi di Aosta, fin allora immune da tale scomoda e inquietante
deli i dieci Comandamenti di Dio nella lingua volgare (verbis
presenza. La cosa dovette passare all’inizio quasi inosservata,
maternis).
ma non per molto… Vedremo che sotto il suo immediato sucSotto il suo successore, Marc’Antonio Bobba (1557-1568) non
cessore l’Autorità pubblica laica di Aosta, molto gelosa delle sue
si trovano episodi relativi a roghi o processi contro eretici. Queprerogative di autonomia, si inalberò per la presenza di questo
sto vescovo, invece, come diremo più innanzi, è importante nel
“corpo estraneo”. Già nel 1575 un francescano, Jean Chenier,
contesto della storia religiosa di Gressoney e Issime per un
che aveva predicato il Venerdì Santo in Cattedrale, fu denunciato
evento abbastanza ben conosciuto dalla storiografia locale, acda alcuni canonici per aver pronunciato alcune frasi contro l’esacaduto durante una delle Visite Pastorali che il suo Vicario gegerato potere temporale della Chiesa. Sarebbe intervenuto penerale, monsignor Ferragatta, compì nel 1567 nella valle del Lys.
santemente contro di lui l’inquisitore domenicano-papale, se il
Divenuto vescovo, a sua volta, Gerolamo Ferragatta (1568“cordelier” non avesse minacciato di ricorrere al Senato di
1572), l’attenzione verso la penetrazione delle idee protestanti si
Chambéry qualora, per le sue giuste esternazioni in pulpito,
acuì. Già in un suo decreto del 17 novembre 1568 questo pastore
fosse stato perseguito dal medesimo inquisitore romano. Fu così
obbligava chiunque, in coscienza, a denunciare al tribunale epiche il vescovo Gromis dovette lui di persona, e non già l’inquiscopale coloro che fossero in qualche modo “sospetti nella fede”
sitore vercellese-aostano inviato da Roma, interessarsi al caso,
e quelli che nelle loro dichiarazioni pubbliche attaccassero “i miandando a interrogare il padre guardiano del convento di San
steri della nostra santa religione”. In altro decreto, questa volta
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San Giovanni Evangelista, anta interna dell’antico altare cinquecentesco della cappella di San Grato nel Vallone omonimo.
Francesco, certo padre Pignet, sul conto di frate Chenier. Ma
l’episodio più emblematico accadde tra il 1579 e il 1581. Secondo
i feudatari del luogo, degli abitanti di Challant si erano dati a pratiche stregoniche. Il conte Federico di Madruzzo, che governava
la contea di Challant a nome di sua moglie Isabella di Challant,
scrisse direttamente a Roma il 14 novembre 1579 all’Inquisizione
centrale pontificia: “Desidero si proceda a rigoroso castigo contro quei scelerati di Chialant, per edificatione de’ buoni et per
espavento degli altri tristi”. Ai primi mesi del 1581 il vescovo Gromis, d’accordo col Madruzzo e la contessa Isabella, non solo gli
diede il permesso, ma invitò caldamente l’inquisitore di Vercelli
(e Aosta), il padre domenicano Daniele, a istruire processo contro gli abitanti di Challant accusati di stregoneria. L’inquisitore
arrivò durante la Settimana Santa dello stesso anno e cominciò
a “esaminare” parecchie persone. Quattro donne furono frustate
a sangue e poi condannate a essere murate vive, ovvero messe
in stanzette con un pertugio dal quale potevano solo ricevere
acqua, cibo e far fuoriuscire il bogliolo con gli escrementi. Benché convinte di stregoneria, le quattro donne si ostinarono a non
pentirsi. L’autorità civile della Valle, e cioè il Conseil des Commis
di Aosta, trovò anomalo questo modo di procedere “senza l’intervento di alcun ufficiale di sua Altezza né dei Signori Pari”. Il
Conseil des Commis non intendeva certo sposare la causa delle
streghe, ma non tollerava che un corpo estraneo e “uno straniero” (l’inquisitore papale) venissero a interferire in casa propria. Le torture, le frustate, le pene corporali erano sì
riconosciute anche dai tribunali civili, ma avrebbero dovute es-
sere comminate dalla legittima autorità, che aveva giurisdizione
su quegli abitanti meritevoli di castigo. Uno dei condannati, anzi,
interpose appello al Senato di Savoia a Chambéry. Subito gli Stati
Generali sabaudi protestarono vibratamente contro l’apparizione
di “questo tribunale intruso”. A tal proposito, lo storiografo monsignor Duc, apologeta del retto e santo agire dei suoi predecessori, così commenta: “Les magistrats valdôtains, en rejetant
l’autorité d’un inquisiteur étranger, se laissent aveugler par un
faux patriotisme et outrepassaient les limites de leur jurisdiction”.
E veniamo al vescovo Jean Geoffroi Ginod (1586-1592) che memore della giusta avversione del Conseil des Commis, degli
Stati Generali sabaudi e del Senato di Chambéry verso improprie interferenze di un tribunale sovranazionale - pensò bene e
saggiamente di gestire in proprio la giurisdizione sui delitti contro la fede, facendo funzionare il Tribunale di Curia locale, altrimenti detto, Inquisizione episcopale. Nel 1589 monsignor Ginod
condanna a pubblica e solenne abiura Antoine Charrière, colpevole del crimine di manifesta eresia. Il tribunale dell’Inquisizione
episcopale aostana aveva solitamente come pubblico ministero
il Fiscale di Curia (che poteva anche essere un laico) e come giudice, più normalmente il Vicario generale del vescovo, talvolta
anche l’Arcidiacono del Capitolo dei canonici della Cattedrale.
Nel processo contro lo Charrière abbiamo una delle molteplici
sedute processuali in cui vengono interrogati gli inquisiti ed
escussi i testimoni. In essa siede come giudice per il vescovo
Ginod il suo Vicario generale Maffei, che interroga il teste Georges Panchod. Costui depone che un giorno del mese di marzo
del 1580 (sotto l’episcopato del Gromis), a Martigny nel Vallese,
aveva ascoltato cose oltraggiose contro la religione cattolica dalla
bocca di Rodolfo, figlio del nobile Jean de Cerise, di Michele, figlio di Gilles Charrière e di Barthélemy, figlio di Mathieu Deffeyes. Costoro si facevano beffe del Sacramento dell’Eucarestia
e delle cerimonie della Chiesa. Negavano poi l’esistenza del Purgatorio e la legittimità del culto dei santi e della Vergine. Poiché
il teste Panchod, in tale occasione, si era premurato di difendere
con trasporto i dogmi della fede cattolica, lo Charrière gli sferrò
un pugno sul naso… Di lì la denuncia al tribunale episcopale e
quindi l’istruzione del processo. Veniamo ora finalmente all’ultimo vescovo che abbiamo messo in elenco, Bartolomeo Ferreri (1595-1607) contemporaneo del Carlo Bascapè novarese.
Interessante sarà la Visita pastorale da lui compiuta nel 1596 alle
parrocchie della Valle del Lys, di cui diremo fra breve. Anche
sotto questo vescovo la Santa Inquisizione romano domenicana, benché mai ufficialmente riconosciuta su tutto il territorio
della Valle dall’Autorità laica, interviene con la connivenza di un
ufficiale del vescovo, l’Arcidiacono, il più importante e prestigioso canonico del Capitolo della Cattedrale, una carica che prelude quasi sempre, nella carriera ecclesiastica, alla promozione
a vescovo. Nel 1595 il padre domenicano Maurizio Neiro, Vicario dell’inquisitore di Vercelli, fece arrestare e tradurre nelle carceri ecclesiastiche il prete Porsan, predicatore ordinario del
vescovo e rettore ordinario delle scuole della città. Subito il Conseil des Commis di Aosta, vedendo in ciò una ulteriore e patente
violazione degli “usi” del ducato sabaudo, ricorse al sovrano.
Nella lettera al duca si denunciava che “…il signor Arcidiacono,
avendo ottenuto la carica di Gran Vicario dell’Inquisizione, cercava di introdurre nella Valle un nuovo tribunale e cercava di
creare delle nuove prigioni nel Palazzo dell’Arcidiaconato”. Inoltre il Conseil des Commis non mancava in altra lettera, stesa in
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un pittoresco francese d’epoca, di fare la storia di tali interferenze in Valle da parte dell’Inquisizione romana con la connivenza e l’aiuto dei vescovi locali: “L’esvesque Gromis voulut sous
prétexte de quelques sorciers introduire l’Inquisition, et ce en
picque (dispetto) du Sr. de Vilarset pour lhors gouverneur qu’el
avoit pour contraire, mais le pays s’opposa à cette nouveaute…”.
Dunque, ancora una volta, tutto venne bloccato sul nascere. Ma
monsignor Ferreri, sulla medesima scia dei suoi predecessori,
scrisse, a sua volta, una lettera al duca Carlo Emanuele in data
13 dicembre 1596 in cui, in modo molto diplomatico e subdolo,
tentava ancora di persuadere il sovrano sull’utilità di avere,
anche in Valle d’Aosta, l’Inquisizione romano domenicana. In
tale missiva, il presule proponeva “avec prudence” di introdurre
un emissario del Sant’Uffizio romano, “il quale appare necessario per preservare la Valle dall’infezione dell’eresia dei Cantoni
svizzeri”.
Mi pare che a riguardo dell’Inquisizione esistita in Valle d’Aosta, che si evidenzia essere una sola, e cioè il tribunale della
Curia del vescovo o Inquisizione episcopale, non ci possano
essere dubbi. Certo, come ho più volte avuto occasione di osservare, vi è il costante tentativo dei vescovi augustani di far entrare di soppiatto un viceinquisitore papale dopo il 1532 e, prima
di quella data, un viceinquisitore degli Ordini mendicanti, a partire almeno dalla fine del Medioevo (metà del XV secolo). In ciò
mi trovo in piena sintonia con quanto già avevano rilevato, a suo
tempo, Jean-Baptiste de Tillier (1678-1744) e, dopo di lui, Tancredi Tibaldi (1851-1916) e Jean-Aimé Duc (1835-1922). Recentemente è però apparso uno studio di Silvia Bertolin
(giurista, studiosa degli aspetti legati alle procedure del processo inquisitorio) e di Ezio Emerico Gerbore (storico dei fenomeni socio-economici) dal titolo La stregoneria nella Valle
d’Aosta medievale. In questo lavoro si vorrebbe tentar di dimostrare, oltre al resto, come l’Inquisizione (con la “i” maiuscola)
francescana fosse stata presente e operante in Valle prima dell’istituzione di quella papale-romana, istituita da Paolo III nel
1542, la quale avrebbe, a propria volta, continuato la sua opera
servendosi sempre di viceiquisitori francescani durante gli episcopati del periodo Controriformistico a partire dal vescovo
Gazin (1528-1557). In realtà questi cosiddetti “viceinquisitori”,
che generalmente provengono dal tribunale dell’Inquisizione di
Vercelli, sono degli “infiltrati”, chiamati dal vescovo aostano quasi di soppiatto - in occasione di processi contro eretici o streghe, mal tollerati dall’Autorità laica di Aosta, che protesta vibratamente col monarca sabaudo, e, ancor più, dai vari feudatari e
castellani della Valle. Il carcere della Inquisizione si trova solo in
vescovado, non nel convento francescano di Aosta. Il che già dimostra che non vi è una sede tribunalizia dell’Ordine mendicante presente in Valle. Le sentenze sono pronunciate tutte o dal
vescovo, o dal suo Vicario generale o ancora dall’Arcidiacono
della Cattedrale, ambedue funzionari episcopali. Anche il pubblico-ministero è il Fiscale della Curia vescovile augustana. Il
frate viceinquisitore è dunque, più che altro, un “consulente”
chiamato alla bisogna, essendo generalmente più preparato ed
avvezzo a trattare tali tipi di reati contro la fede (eresia, apostasia delle streghe, ecc.). Anche perché si tratta di procedure straordinarie che capitano molto saltuariamente e a distanza di anni,
quando non addirittura di decenni, tra un episodio “ereticale” o
“stregonesco” (in causis fidei) e l’altro. Più normalmente il tribunale del vescovo si occupa di matrimoni, di impedimenti dirimenti o impedienti, di nullità o di irregolarità per
consanguineità, ecc., oppure di eredità, di usura, di moralità e
di comportamenti anòmali nel campo della sfera sessuale. Anche
l’approccio verso il problema stregonico è datato e oramai superato, essendo ancora di tipo illuministico-razionalistico, come
usava fino a trenta-quarant’anni fa. Resta il merito di aver individuato non pochi procedimenti in epoca piuttosto risalente (prima
metà del XV secolo) e di aver frugato fonti poco frequentate da
storici precedenti. Basti pensare, infatti, alla storiografia ecclesiastica del Duc, la quale, oltre che inficiata di intento apologetico, non tiene conto di fonti archivistiche come il Foro
ecclesiastico e sottace quindi volentieri questi scomodi episodi.
I VESCOVI DELLA CONTRORIFORMA
DI FRONTE ALLE COMUNITÀ WALSER
Veniamo ora a vedere cosa accadeva nell’alta Valle del Lys, più
o meno negli stessi anni e nella medesima temperie controriformistica. Per brevità non tratteremo ex professo dell’organizzazione ecclesiastica di questa Valle e delle varie filiazioni di una
parrocchia dall’altra. Diremo solo, per accenno, che nel XII secolo Issime dipendeva dal priorato di Sant’Orso di Aosta, nel XIII
secolo il priore Aimone cedette questa cura d’anime al preposito
della Chiesa collegiata di Verrès. In origine la cura di Issime era
unita indissolubilmente con Gressoney, essendo tenute queste
due comunità a pagare “pro indiviso” la decima, ma il curato risiedeva sempre a Issime. Anzi Issime ebbe sempre ecclesiasticamente una preponderanza sulla vicina Comunità di
Gressoney, anche quando questa, dopo distacchi e riunioni e
ancora tentativi di distacchi, si emancipò definitivamente da Issime. Erano i curati di Issime a nominare e inviare i cappellani a
Gressoney. Ancora a metà del Quattrocento, quando il curato di
Issime “prendeva possesso” della sua chiesa di San Giacomo,
subito dopo saliva a Gressoney per prendere possesso anche di
quella di San Giovanni Battista. Era lui il curato di entrambe,
anche se poi subdelegava un vicecurato o cappellano per la cura
d’anime dei Gressonari. Gressoney-Saint-Jean si stacca una
prima volta da Issime nel 1502 con bolla di papa Alessandro Borgia, ma già nel 1532 torna sotto la giurisdizione del curato di Issime. Sarà solo sotto l’episcopato di monsignor Ferragatta che ci
sarà il secondo stacco, ma di questo parleremo subito qui di seguito, perché tale episodio fa parte proprio del tema che stiamo
trattando.
Il vescovo Pierre Gazin nell’ottobre del 1528 sale la Valle del
Lys per la sua prima Visita pastorale alle varie Comunità e
chiese. Comincia dall’alto per poi scendere in basso. L’8 ottobre
visita la chiesa di San Giovanni Battista di Gressoney, che nel
frattempo era stata staccata, come detto sopra, da papa Borgia,
dalla sua Matrice di Issime. La chiesa è retta dal curato Generis
coadiuvato dal suo vicario o vicecurato Jean Vanitaz. Il giorno
seguente, 9 ottobre 1528, discende a Issime dove visita la chiesa
di San Giacomo, accolto dal curato Jean Christiani. Gazin non
sembra dimostrarsi preoccupato degli eventuali problemi che
possono avere gli Issimesi né di quelli dei Gressonari, li tratta
alla stregua di qualsiasi altra Comunità di fedeli della sua Valle,
senza quasi notare alcuna differenza. Compie il suo mero dovere buracratico e si cura di enumerare e descrivere i cinque altari della chiesa di San Giacomo coi loro arredi, di vedere se
siano stati regolarmente provvisti di pietra sacra, se l’edificio
della chiesa sia stato, e quando, consacrato, se il curato Christani sia stato regolarmente ordinato, ecc. Ma nessuna preoccupazione o meraviglia per il fatto che gli Issimesi parlano una
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lingua molto vicina a quella di Lutero o Calvino. Stesso comportamento tenevano, come abbiamo sopra fatto notare, i vescovi gaudenziani per le Comunità walser del Novarese.
Il Gazin tornò a Issime per un’altra Visita nel 1556. In quell’anno
Gressoney era oramai tornata, da quasi un quindicennio, sotto la
giurisdizione della sua Matrice originaria, e cioè San Giacomo di
Issime, dopo un trentennio d’indipendenza, perciò il parroco,
tale Bernardo di Freppa, era unico e aveva contemporaneamente
la cura d’anime d’ambedue le Comunità. Il presule si informava
se il curato tenesse un regolare “registro dei battesimi”, come
prescritto nella Sinodo dell’11 giugno 1532. Stava nascendo la
prima “anagrafe” moderna, che verrà poi estesa a tutte le diocesi dai decreti del Concilio di Trento. Si informò pure se in parrocchia vi fossero stati dei matrimoni “clandestini”, com’era
prassi indagare in tutte le parrocchie della Valle. Una semplice
annotazione finale. I parroci di Issime e di Gressoney, in questo
inizio di secolo, sono francofoni o italofoni: per il vescovo il problema pastorale della comprensione della lingua da parte di questi germanofoni, soprattutto i Gressonari, non si pone simpliciter.
Marc’Antonio Bobba, successore del Gazin, inviò nel 1567 in
Visita pastorale il suo Vicario generale monsignor Ferragatta, il
quale, provenendo da Brusson, passò la montagna e arrivò a
Gressoney-Saint Jean. In quest’occasione gli si fece incontro una
delegazione di capifamiglia, i cosiddetti “sindaci del Comune”,
ovvero sindaci della Comunità. Costoro gli riferirono che il loro
curato, che era poi lo stesso parroco di Issime, Bredelin de la
Salle, aveva pattuito, con atto pubblico, di procurare ai Gressonari un prete di lingua tedesca che li potesse capire, cosa che
puntualmente poi si era ben guardato dal fare, forse paventando
una nuova separazione o una diminuzione della propria prebenda parrocchiale. Si era perciò limitato a trovar loro un vicecurato o cappellano, ma che non era in grado di capire una sola
parola della loro lingua. Di più, né il curato Bredelin, né il suo
cappellano, tenevano residenza in parrocchia, ed erano spesso
uccel di bosco, talché, non una volta sola, era capitato che i morti
dei due paesi fossero stati seppelliti senza funerale. Bredelin
cercò di giustificarsi dicendo che, nonostante le sue ricerche,
un prete che parlasse il tedesco proprio non era riuscito a trovarlo. Se lo cercassero essi stessi e lui, ben volentieri l’avrebbe
accettato come suo vicecurato. Monsignor Ferragatta non si lasciò menare per il naso. Ingiunse al Bredelin di procurar loro, il
più presto possibile, un prete di lingua germanica, il quale
avrebbe dovuto subire un esame preliminare di idoneità davanti
al Vicario generale e, una volta ottenuta l’approvazione, sarebbe
stato nominato non già cappellano del medesimo Bredelin, ma
Vicario perpetuo di Gressoney con tutti gli emolumenti e le prerogative di rito e con obbligo di residenza. Quanto al curato Bredelin de la Salle fu privato di tutti i guadagni del “beneficio
ecclesiastico” di San Giovanni Battista di Gressoney. In attesa
che il prete germanofono fosse a disposizione dei Gressonari,
nominò Vicario provvisorio o pro tempore Jean Vuillermod, perché reggesse, in sua vece, la nuova parrocchia. Verrebbe subito,
a questo punto, da chiedersi il perché di un prete germanofono
per i Gressonari e non anche, invece, per gli Issimesi. La risposta sta nella diversa situazione di inserimento delle due Comunità nel contesto degli altri vicini della Valle. Mentre i Gressonari
frequentano i paesi d’Oltralpe di lingua tedesca, gli Issimesi sono
avvezzi a emigrare nei paesi di lingua francese e comunque ‘immersi’ in contesto francofono.
Praticamente poi nessuna donna di Gressoney è in grado di com-
prendere altro che il proprio dialetto locale. Con queste premesse è facile capire che i Gressonari avevano esigenze completamente diverse dai comparrocchiani di Issime e, pertanto,
il problema linguistico era vissuto con urgenza solamente da
loro. Il Vicario del vescovo, visitata la chiesa di San Giovanni Battista e risolto, almeno in linea di principio, il problema dei Gressonari, si avviò verso Issime dove fu accolto, come di rito, dal
parroco Grat Bredelin, religioso di Saint Gilles, e dal suo vicecurato Giovanni Violeta di Tavagnasco. Era il 20 di agosto 1567
e, dopo aver amministrato le Cresime, visitò i cinque altari della
chiesa parrocchiale di cui solamente tre erano stati regolarmente consacrati. Avendo constatato che l’edificio era piuttosto
malconcio e pericolante diede al Bredelin due anni di tempo per
ricostruirlo completamente e condannò il medesimo curato a
versare, come primo contributo alle spese per la riedificazione,
la considerevole somma di 40 scudi.
Divenuto vescovo Gerolamo Ferragatta nel 1568, poco dopo la
morte del Bobba, si ha con questo presule una particolare attenzione verso la penetrazione in diocesi delle idee protestanti. A
Gressoney tale Damien Ronchot aveva “negato la presenza reale
di Nostro Signor Gesù Cristo nell’ostia consacrata”, aveva messo
in discussione l’esistenza del Purgatorio, irrideva il precetto del
digiuno e dell’astinenza, e, dulcis in fundo, ritenuta eresia ancor
più grave, “negava il Primato del Sommo Pontefice”! Ce n’era abbastanza per arrostirlo vivo sul rogo. Ma il Gressonaro, tenendo
alla sua vita più di ogni altra cosa, si professò tempestivamente
pentito e pronto a ritrattare gli errori in cui era caduto. In tal caso
la pena del rogo veniva commutata con altre “salutari penitenze”
previa, però, una solenne e pubblica abiura. Il 4 dicembre 1568 fu
allestito nella Cattedrale un grande palco scenografico (theatrum)
per il solenne “auto da Fé”. Rivestito dell’ “abitello” degli eretici,
una specie di paramento sacro, rosso e dorato, ricamato a diavoli
e draghi, con in testa una specie di mitra vescovile, alla presenza
del presule Ferragatta, dei canonici e delle autorità, con grande
concorso di fedeli e di curiosi accorsi all’edificante spettacolo, il
Ronchot recitò in lingua volgare il testo della sua ritrattazione,
preventivamente approntato dalla Cancelleria di Curia e che un
suggeritore nascosto sotto il palco gli anticipava de verbo ad verbum. In esso “malediva, dannava, abnegava, revocava, detestava,
abiurava… ogni e qualsivoglia heresia dannata da la santa matre
chiesa Romana” (notare la maiuscola messa non davanti a
“chiesa”, ma all’aggettivo “Romana”…). Promise poi solennemente di attenersi sinceramente alla fede romana nella sua integrità. Assolto quindi dalle scomuniche e censure canoniche in
cui era incorso, fu assoggettato alla penitenza di quaranta messe
da ascoltarsi per quaranta giorni consecutivi e, dulcis in fundo,
dell’obbligo di fare una elemosina di 25 scudi alla chiesa del convento di Santa Caterina di Aosta. Non sappiamo se la cerimonia,
come avveniva a Novara, fosse stata poi reiterata anche nelle zone
di residenza dell’eretico e cioè dentro le chiese di Issime e di
Gressoney. Il fatto dovette fare non poco rumore in tutta la Valle
d’Aosta, ma soprattutto nella Valle del Lys e, naturalmente, in
seno alle due Comunità walser. La vicenda di Damien Ronchot
meriterebbe un congruo approfondimento. Chi era costui? Era
un vallesano che emigrava annualmente nei Paesi d’Oltralpe “infetti”? Dove si era “convertito” alle idee della Riforma? Chi l’aveva
delato al Santo Tribunale?
Al Ferragatta era succeduto nel 1572 Cesare Gromis, che
l’anno seguente richiamò Issimesi e Gressonari al pagamento
delle decime dovute alle parrocchie e, per esse, alla Mensa ve-
— 28 —
A U G U S T A
scovile di Aosta. Ancora una volta redarguì i preti che concedevano le chiese alle Comunità per riunioni profane, proibì loro di
frequentare osterie, passatempo normale soprattutto nei lunghi
e nevosi inverni, di fare giochi d’azzardo in pubblico nelle medesime osterie. I due parroci di Issime e Gressoney, su ordine di
questo presule, dovettero fare dettagliati elenchi dei beni mobili
e immobili delle loro chiese, dovettero inoltre segnalare per corrispondenza alla Curia tutti i loro fedeli pubblicamente riconosciuti per adulteri, coloro che non si confessavano e
comunicavano a Pasqua, coloro che lavoravano di domenica.
È sotto l’episcopato del Gromis (1572-1585) che viene diffuso e
reso obbligatorio il matrimonio canonico in Chiesa in tutta la diocesi di San Grato. Prima il matrimonio in chiesa era “riservato”
solo alle famiglie di alta e collaudata nobiltà ad solemnitatem,
mentre i nobili di serie B e i plebei dovevano accontentarsi di un
più laico matrimonio davanti a un notaio e a due testimoni, recitando i verba de praesenti.
Sotto il vescovo Bartolomeo Ferreri (1595-1607) troviamo finalmente, a Gressoney, come parroco, sia pure provvisorio, un
prete di lingua tedesca, Pierre Ginod, “allemand, desservant provisoire” (Visita Pastorale dell’estate 1596). In quell’occasione il
vescovo, una volta tanto, si dimostra seriamente preoccupato
dell’andirivieni migratorio di questi vallesani, ancor più di quanto
lo fosse stato il suo predecessore Gromis. Questo avanti e indietro, con contatti, sia pure per commercio o per lavoro, coi protestanti, doveva essere sorvegliato attentamente. D’altronde il
caso del gressonaro Damien Ronchot era ancora ben presente
alla memoria del vescovo e delle due Comunità.
“Quia multi in diocesanis nostris solent se conferre extra patriam
et longo tempore ibi morari…” il presule vuole che gli emigranti,
al loro ritorno, si presentino non più solo al loro curato, ma addirittura in vescovado per rendere conto della loro condotta religiosa e delle loro idee. Gli stranieri, poi, debbono, al loro arrivo
in parrocchia, esibire un certificato attestante la loro professione
di “cattolici romani”. Sembra poi alludere a delle usanze che richiamano i “charivaris” in occasione del matrimonio di un vedovo o di una vedova, che vengono rigorosamente proibiti.
Sotto il vescovo Bartolomeo Ferreri, nel 1601, si celebrerà il memorabile “processo al diavolo Astarotte di Issime e alla sua legione di 6666 diavoli”. Un processo probabilmente costruito per
tenere lontana l’inquisizione dalla valle di Issime.
CONCLUSIONE
Le analogie tra le due confinanti diocesi sono molte ma ancor
più le differenze, soprattutto in relazione al tema che ci siamo
prefissati: i Walser della seconda metà del Cinquecento e i loro
vescovi controriformisti. In ambedue le realtà l’attenzione dei
presuli a queste Comunità germanofone è molto tardiva, sia in
relazione alla percezione del pericolo protestante, sia ancor più
in relazione al problema pastorale che esse pongono all’organizzazione ecclesiastica vuoi diocesana che parrocchiale nella
cura d’anime. A Novara è il vescovo stesso (Carlo Bascapè) che
si pone il problema, ad Aosta sono le Comunità a porre problemi
ai vescovi in Visita pastorale. Nella Valle del Lys le due Comunità
walser tendono a separarsi e a rendersi autonome fra di loro,
anche ecclesiasticamente; tra Rimella e Campello succede
l’esatto contrario: il vescovo, per ragioni pastorali, vuole staccare
i Campellesi da Rimella (solo ecclesiasticamente, non amministrativamente o civilmente), ma questi oppongono una fiera resistenza, anche se la messa festiva e i sacramenti sarebbero più
comodi da raggiungere nella vicina e confinante parrocchia di
Forno di Valle Strona. I vescovi di Novara sono in frizione continua con la parallela e coabitante Inquisizione papale-romana
dei domenicani novaresi; i vescovi di Aosta, autonomi, e in ciò
molto protetti e garantiti dal Conseil des Commis augustano e
dal Consiglio Generale dello Stato sabaudo, cercano di introdurre in casa propria l’inquisitore romano, garantendogli addirittura la piena e totale autonomia d’azione e rendendolo così
esente o “immune” dall’autorità episcopale locale!
Mi fermo qui, sperando con la fulminea mia incursione di soli
tre giorni nell’Archivio vescovile della Curia di Aosta e nell’altrettanto celere spolverata data ad alcuni volumi della Bibliotèque Regionale de la Vallée, di avere potuto offrire una (molto)
sommaria (e lacunosa) panoramica del periodo controriformistico nella Valle d’Aosta e in particolare nella Valle del Lys con
le sue due Comunità germanofone di Gressoney e Issime. Certo
la Storia della Chiesa novarese e delle sue numerose Comunità
walser mi è più famigliare e presente, mi auguro perciò di non
aver preso soverchi abbagli per la realtà valdostana e, nel caso
così fosse, ne chiedo fin d’ora venia. Approfitto per ringraziare
Franco Tognetti, archivista della Curia, e il dottor Omar Borrettaz, direttore della Biblioteca Regionale, per la gentilezza usatami e i preziosi consigli.
Battista Beccarla, (Membro del direttivo dell’Associazione di
Storia della Chiesa Novarese e del Comitato di redazione di “Novarien.”, rivista di Storia della Chiesa)
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE:
Fonti documentarie
ASDN - Acta Visitationum (dal 1580 al 1620. Vescovi: Antonio
Serbelloni, Romolo Archinto, Francesco Bossi, Cesare Speciano,
Pietro Martire Ponzone, Carlo Bascapè, Ferdinando Taverna);
ASDN - Actorum Curiae (dal 1515 al 1615);
ASDN - Lettere Episcopali di Carlo Bascapè (Voll. I-XII: 15931615);
ASDN - Teche parrocchie (Comunità walser in diocesi di Novara);
ASDN - Foro Ecclesiastico, XII, 2, 5, Libri Constitutorum in causis fidei;
ASDN - Foro ecclesiastico, XII, 2, 2, Libri Informationum et quaerelarum;
ACVA - Visite Pastorali (dal 1528 al 1601. Vescovi: Pietro Gazino,
Marc’Antonio Bobba, Girolamo Ferragatta, Cesare Gromis, Goffredo Ginod, Onorato Lascaris, Bartolomeo Ferrero);
ACVA - Acta Curiae;
ACVA - Lettere episcopali;
ASCG (Archivio storico del Comune di Gressoney-St-Jean) - Archivio Storico:1458-1963, a cura di Laura Decanale (archivista).
Fonti Bibliografiche
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con note aggiunte a cura di Lino Colliard, Aosta-Roma 1966;
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Centenario dell’ingresso in diocesi del vescovo Carlo Bascapè;
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B. Beccaria, Inquisizione episcopale e inquisizione romano doCatholic University of America Press, pp. 403-421;
menicana di fronte alla stregoneria nella Novara post-tridentina
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College di Dublino, in “Novarien:” (Riv. Storia Chiesa Nov.) N. 34
History, 1978;
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P.G. Longo, Problemi di vita religiosa nella diocesi di Novara
A. Borromeo, Contributo allo studio dell’Inquisizione e dei suoi
prima dell’episcopato di C. Bascapè (1593) e con particolare rirapporti con il potere episcopale nell’Italia spagnola del Cinqueferimento al periodo 1580-1590. Tesi di laurea, Università di Tocento, in “Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età morino, Facoltà di Lettere e Filosofia, anno accademico 1969-1970
derna e contemporanea” XXIX e XXX (1977 - 1978), pp. 219-276;
(relatore Franco Bolgiani), vol. I, p. 150 e sgg. (in ASDN - T. 23);
S. Bruno, Biblioteche ecclesiastiche e cultura del clero in diocesi
F. Mattioli Carcano - V. Cirio, S. Maria della Gelata di Soriso
di Novara. La Valsesia nel primo Seicento. Tesi di laurea, Uninel contesto europeo dei santuari “fonte di vita”, Bolzano Novaversità Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Facoltà di Lettere e
rese 1993.[Il “repitt” dei Walser];
Filosofia, anno accademico 1993-1994 (relatore Nicola Raponi),
R. Mortarotti, Il mondo leggendario dei Walser dell’Ossola, in
pp. 696-712;
“Novarien” 9 (1978-1979) pp. 275-325. Vedi, inoltre, le annate
D. Sironi, La formazione del clero nella Diocesi di Novara dal
della rivista “Oscellana” dove si trovano, qua e là, analoghi rac1630 al 1660 in “Novarien.” 14 (1984), pp. 169-191;
conti folklorici;
B. Beccaria, Il vescovo Carlo Bascapè e i walser del Novarese
E. Rizzi, Gli “intrighi delle montagne”. La caccia alle streghe nelle
(1593-1615), in Storia di Rimella in Valsesia.“Alpes ville comune
Alpi walser, in Le streghe nelle Alpi, Fondazione Monti-Anzola
parochia”, a cura di A. Vasina, Borgosesia 2004, pp. 123-146;
d’Ossola 2002, pp. 113-137;
B. Beccaria, Le origini della Comunità ecclesiale di Campello
S. Vassalli, La Chimera, Torino 1990.
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A U G U S T A
Una nobile famiglia
di Issime: i BIOLLEY
GUIDO PESSION
Famille qui tire son origine de la Paroisse d’Issime au
mandement de Valleise d’où une partie est venu habiter
en Aoste”. Così recita Jean Baptiste De Tillier (16781744) nel suo Nobiliaire du Duché d’Aoste per le pagine
dedicate ai Biolley. La loro meteora attraverserà e brillerà più di tre secoli per spegnersi nei primi anni del XIX secolo
con la loro estinzione. Essi erano originari del villaggio di Biolley, situato sulla sinistra orografica del Lys, dal quale avevano
preso anche il nome. La famiglia era molto antica. Già nel 1477
un Jaques di Jaques riconosce al nobile Claude François de Valleise ed a suo padre di tenere dei terreni a Plane ed a Biolley.
Essi si occupavano con fortuna anche di commerci, specialmente un Pierre vivente verso la metà del 1500. Si erano molto
arricchiti tant’è che, sia per comodità sia per prestigio il figlio
Jaques, ancora vivente il padre, acquista “une maison sise dans
le village d’Issime, confinant le chemin public”. L’atto viene stipulato il 27 novembre 1616, nella maison forte d’Arnad” poiché
chi vende è la Dame Octavie de Saint-Martin, vedova del Barone
Jean Frédéric de Valleise. Quasi tutta la famiglia si traferirà nel
capoluogo e questa sarà la loro dimora fino alla fine della casata.
Attualmente è proprietà dei Signori Bastrenta, fu acquistata dal
loro bisnonno alla fine del XIX secolo dagli eredi di Jean Lin
Christillin che ne erano venuti in possesso precedentemente.
Le abitazioni sono situate lungo il vicolo che porta verso il Letz
Duarf che, al momento della vendita consistevano solo in una
casa con “poile, cuisine et une chambre”. Negli anni successivi
verranno ingrandite dai Biolley con la costruzione di altri edifici.
Jaques ebbe due figli: Egrège
Jean Notaire et Mathieu son
frère. Essi figurano nel catasto del
1645 sia per le Tiers de la Plaine
sia per le Tiers de la Montagne.
Per la Plaine sono proprietari a
Rollie del prato detto Dschardin,
al villaggio del Biolley, Lasiti, Preit
(Gasser érp), Favru Mattu, Ceresole, Sann, Buade, Grand Champ
e del Pré des Allemands, ove sono
anche proprietari e legatari della
Chapelle des Olivés (scomparsa
nell’alluvione del 1755) che hanno
voluto dedicare a “Saint Ambroise
de Milan”, nel vallone di Tourrison posseggono gli alpeggi della
Torretta e di Tourrison (di sotto).
Per la Montagne possegono nel
“
Stemma
dei Biolley
Vallone di Bourinnes l’alpeggio di Mühnu.
Potrebbe esserci un altro fratello nella persona di Jean Pierre
Biolley, Parroco di Issime dal 1682, egli succedeva a Pierre
François Biolley, che aveva retto la Parrocchia per il solo 1681.
Questo sacerdote ebbe il merito di dare inizio con la collaborazione e l’approvazione di tutta la famiglia Biolley alla completa ricostruzione della Chiesa, opera che verrà terminata dal Parroco
Jean Praz, suo successore. Nel 1692, nominato Canonico della
Cattedrale si trasferì ad Aosta ove morì nel 1695.
Nel catasto è presente anche Jean Biolley fu Mathieu, probabile loro cugino, con beni soltanto a Biolley.
Un atto di vendita del 1674 stipulato da un Notaio Jean Pierre
Biolley, non presente quale contribuente nel catasto del 1645, fa
pensare che egli sia stato un altro figlio del Notaio Jean o dei cugini, così come un altro “Jean Jaques Notaire”, menzionato
come “mon frère” nello stesso atto e già morto all’epoca.
Una tradizione orale riportata anche dall’Abbé Jean Jacques
Christillin nel suo “Légendes et Récits” racconta dell’assassinio
di un nobile Biolley avvenuto ad Issime. Gli archivi Valleise lo
confermano. Il delitto avvenne intorno al 1685 con l’uccisione
del loro Castellano, Jaques Biolley, compiuto per una vendetta.
Del crimine venne accusato un certo Gabriel Albert.
Il Notaio Jean, fratello di Mathieu, visse sempre ad Issime. Ebbe
un figlio, Jean Jaques, che assieme al figlio Avvocato Jaques
detto Jaquelin, venne fatto nobilitare nel 1704 dal cugino Avvocato Jaques Biolley.
Jaquelin, sposatosi, ebbe una sola figlia, Marie Christine. Verso
Ex-voto del 1755 raffigurante
il capoluogo di Issime,
sulla destra vicino alla casa
parrocchiale si riconoscono
le case Biolley.
— 31 —
A U G U S T A
Maison Biolley ora Bastrenta.
Aosta, ove si fece accettare come “Citoyen” ed iniziò un’ambiziosa carriera. Nell’ambito cittadino, egli
ricopre uffici sempre più importanti.
Per diversi anni è uno dei Luogotenenti del Balivato ed infine Procuratore Generale del Ducato, carica che
conserverà fino alla morte. Per questi motivi e, per molti altri meriti, il
Duca Vittorio Amedeo II di Savoia gli
concede nel 1704 le patenti di nobiltà,
che egli chiede di estendere ai suoi
fratelli, a suo cugino Jean Jaques e al
di lui figlio Jaquelin.
Negli anni della sua permanenza ad
Issime Jaques aveva comprato la casa
prospiciente la piazza, chiamata dei
Christillin Suinanz, dal nome dei precedenti proprietari. Egli restaurandola fece costruire verso il 1681-1682
le grandi volte del piano terra e rinil 1711, per una questione di debiti, venne imprigionato ad Arnad
nel Castello dei Signori di Valleise, ove malgrado le sue proteste
e rimostranze per l’ingiusta detenzione che, secondo lui violava i
regolamenti del Coutumier, rimase rinchiuso per più di un anno.
Tornato libero verso il 1713, tutti i suoi beni furono ipotecati. Morì
ad Issime il 23 settembre 1734. La sua vedova Jeanne si trovò in
una situazione tristissima poiché era nell’impossibilità di far fronte
al recupero dei beni. Solo nel 1746 riuscirà ad uscirne con il riscatto della casa da parte della cugina Marie Thérese Mollo.
Mathieu, il secondo figlio di Jaques, fu uomo molto influente e
stimato nel paese. Egli continuò con profitto gli affari della famiglia. Da tre differenti matrimoni nacquero i seguenti figli:
Christine, la primogenita, poi Jaques, Jean, Mathieu, Jean Jaques e Jaquème.
Anche se già a partire dalla metà del XVI secolo la famiglia vantava uno stato sociale eminente, con tanti Notai e sacerdoti, con
l’aumento delle ricchezze i Biolley, diventano la prima famiglia
locale, i loro figli saranno tutti Avvocati e le figlie faranno ricchi
matrimoni.
Christine sposa l’Avvocato Jean Jaques Squinobal di GressoneySaint-Jean, essi risiederanno quasi sempre ad Aosta poiché il marito vi possiede diversi beni e ricopre anche cariche importanti.
Abitavano nella Rue Saint-Grat ove possedevano una grande
casa.
Il 23 luglio 1705 Christine è presente ad Issime nella maison
Biolley per avere dai fratelli quanto, con atto del 20 luglio 1679,
François Sezian Notaire, il padre Mathieu le ha lasciato in eredità: 1500 livres, molti mobili ed un corredo. Jean Jaques Squinobal sottoscrive un contratto, voluto dai fratelli Biolley a tutela
della sorella, nel quale dà, a garanzia della dote, alcuni immobili
siti a Gressoney- Saint-Jean: alcune case a Verdobia, un mulino,
una tannerie, un bosco e dei prati a Greschmatta, dei terreni a
Bode e lungo la Charrière Lombarda, più un grande terreno ed
un bosco, confinante con la proprietà dei Nobili Battiani, chiamato “les Grandes Vernes” ed altro ancora.
Da queste nozze nascerà una sola figlia: Anna Maria, che sarà la
moglie dell’Avvocato Jean Pantaléon Linty.
Jaques, secondo figlio di Mathieu, fu il primo a trasferirsi ad
novò tutto l’interno.
Purtroppo esclusa la parte bassa, dei piani superiori non è rimasto nulla dell’epoca a causa di un grande incendio che la distrusse quasi completamente la notte del 12 dicembre 1898.
Da un primo matrimonio aveva avuto due figli, uno muore studente a Besançon ed un secondo Joseph, che sarà Avvocato e
gli premuore.
Da un secondo matrimonio con la Signora Angela Maria Sola di
Ivrea due altri figli: François morto ragazzo e Charles che continuerà la casata.
Ad Aosta Jaques Biolley abitava nel suo palazzo nella Rue SaintFrançois, di fronte al Convento dei Cordeliers che, allora occupava quasi tutta l’area della Piazza Chanoux e del Palazzo
Municipale attuale.
Egli possedeva anche una casa nella “Rue méridionale” della
città appartenuta al Seigneur La Grive o Grivonis, famiglia estintasi agli inizi del 1600.
Jaques muore ad Aosta il 29 luglio 1715. Per le sue esequie, celebrate nella forma più solenne e secondo l’uso dei nobili, data
l’importanza della cerimonia il figlio ed erede Charles ordina al
marchand Empereur sontuosi abiti da lutto per lui e la consorte
Cristina.
Charles Biolley, unico figlio superstite di Jaques, aveva sposato,
forse tramite le parentele canavesane della madre la figlia del
Conte Carlo Taglianti di Lessolo, Cristina.
Era un matrimonio prestigioso che serviva ad innalzare maggiormente la posizione della famiglia nella nobiltà valdostana.
Da queste nozze nasceranno sette figli, sola sopravviverà la figlia Marie Françoise, gli altri moriranno tutti in tenera età.
Charles muore nel 1743 ad Aosta nella sua casa di Rue Marché
Vaudan.
Verso il 1735 aveva venduto la casa di Issime, acquistata dal
padre, all’Avvocato e Giudice Jean Pantaléon Linty. Era una vendita simulata per sfrattare l’affittuario che non gli era gradito.
Tuttavia la vendita verrà perfezionata e resa effettiva solo qualche anno dopo, poiché ancora nel 1740 Christine Taglianti faceva inserire in un camino del suo appartamento nella casa della
piazza una placca con il suo stemma.
— 32 —
A U G U S T A
Con la morte del marito, Christine non salirà più ad Issime, un poco
per la distanza ed un po’ per l’età. Tutti i suoi interessi saranno curati dall’Avvocato Jean Pantaleon Linty che ne avrà la procura.
Il secondo figlio di Mathieu, Jean Avvocato anch’egli, visse sempre ad Issime. Come tutti i suoi famigliari era persona molto colta
e ricopriva la carica di Giudice della Vallesa. Nella sua abitazione
si svolsero per anni tutte le più importanti attività del Comune.
Dopo un primo matrimonio, essendo rimasto vedovo, si risposò
con Marie Christine Biolley figlia dello sfortunato cugino l’Avvocato Jaquelin.
Egli morì verso la fine del 1733, forse di dolore poiché l’anno
precedente il 20 febbraio era deceduta l’amata moglie.
Nobile Avvocato Mathieu Biolley, terzo figlio di Mathieu visse
anch’egli ad Issime. Di lui si ricorda la grande amicizia che lo legava al Parroco Jean Praz con il quale collaborò attivamente per
la totale e definitiva ricostruzione della Chiesa. Egli offrì i due
quadri a lato dell’altare maggiore rappresentanti la Madonna Incoronata e San Giuseppe nel 1715, in occasione della dedica della
Chiesa alla Vergine SS.ma Incoronata, la cui ricorrenza è l’ultima domenica di agosto.
Non si era sposato. Morì il 1 agosto 1741.
Jean Jaques era l’ultimo figlio di Mathieu e della sua terza moglie, Antonia, morta nel 1717.
Anch’egli Avvocato, segue le orme del fratello maggiore Jaques
e si trasferisce ad Aosta ottenendone la cittadinanza. Sarà Luogotenente del Balivato, Consigliere, e Sindaco della Città per
l’anno 1703 e per il Bourg nel 1732. La sua abitazione è nel
“Bourg de Saint Ours” nel palazzo che la famiglia possiede, adiacente al Convento delle Chanoinesses de Lorraine.
Da un primo matrimonio con la Signora Elisabetta Bus non avrà
figli. Risposatosi con la signora Marie Thérese Mollo di Valperga
ne nasceranno diversi: la maggiore Marie Christine sposerà il
Nobile Sulpice Savin de Bosse, altre figlie saranno religiose,
qualcuno muore bambino, rimarranno soltanto due maschi Jaques Antoine e Jean Louis Joseph.
Maison Biolley ‘La Grive’ ad Aosta.
Maison Biolley ad Aosta nel Bourg de Saint Ours.
Alla morte del marito, Marie Thérese prende le redini degli affari della famiglia. Sarà lei che nel 1746, riscatterà le case pignorate alla sfortunata Jeanne, la vedova di Jaquelin. Ben presto
i due figli rimasti si trasferiranno ad Issime definitivamente. Jaques Antoine si sposerà con una Signora di Gressoney e Jean
Louis Joseph rimarrà scapolo. La loro madre sarà sovente da
loro con il genero Savin de Bosse e la figlia Marie Christine per
i battesimi dei tanti figli di Jaques Antoine che, malauguratamente moriranno bambini.
Di Jaquême, figlia di Mathieu e di Antonia, il ricordo è giunto
fino a noi per il suo generoso lascito alla Chiesa ed al Comune.
Essa aveva sposato un Louis Linty di Jean Jaques ed abitava nella
frazione di Rickurt dove i Linty avevano molte proprietà. Il marito
era un uomo molto facoltoso e devoto e, morendo raccomandò
alla moglie di lasciare, alla sua morte, una parte dei beni da lui ricevuti in eredità, per l’istituzione di una scuola per i giovani.
Rimasta vedova, Jaquême si risposa con Sire Jean Linty, anch’egli benestante e parente del primo consorte. Ammalatasi,
rendendosi conto del peggiorare della sua salute, decide di dettare le sue ultime volontà, alfine di soddisfare quanto promesso
al suo primo marito.
È il 24 dicembre 1737. Essendo un testamento importante per il
lascito e per la condizione sociale della testatrice sono presenti
come testimoni alcuni maggiorenti del paese: Christillin, Alby,
Troc, Chouquer ed altri.
Come in tanti testamenti essa inizia affermando di essere pienamente cosciente, solo il suo corpo è oppresso dalla malattia. Inizia
con il segno della Croce e poi a viva voce raccomanda la sua anima
ed il suo corpo a Dio, alla gloriosa Vergine Maria, a san Giacomo
suo buon patrono ed a tutta la corte Celeste e li invoca, affinché
siano presenti e l’assistano nel momento del suo trapasso. Desidera di essere sepolta nel vas dei suoi antenati nella Chiesa.
— 33 —
A U G U S T A
Armoiries de Angela
Christina Taillant des
Comtes de Lessolo
veuve du Noble
Charles Biolley.
Firma del notaio Jean Biolley 1644.
Vengono elencate poi tutte le messe di suffragio che dovranno
essere celebrate, con distribuzione ai poveri il giorno del suo funerale e negli anniversari di pane, formaggio e castagne “cuittes en soupe”. Dovrà essere offerto un pranzo agli amici ed ai
parenti che saranno alle sue esequie. Per l’istituzione della
scuola lascia un “grangeage” a Plane e a Tallon, più alcune case
e prati dei quali lei ed il suo defunto marito hanno goduto (parte
del lascito venne alienato nel 1860 con le leggi Siccardi e venduto a privati). Delegati ad amministrare quanto istituito saranno
il Reverendo Parroco di Issime ed i Sindaci dei Tiers.
Al suo attuale marito lascia tutto quanto convenuto nel contratto
nuziale più il rimanente.
5oo Livres a “noble spectable avocat Jean Jaques Biolley de sieurs
conseiller de ce duché: mon frère”. Essa era molto legata a questo fratello poiché figli della stessa madre. A tutte le sue nipoti,
Marie Françoise e Jeanne Cervier e Barbara Christillin, lascia 50
Livres ciascuna; ad Anna Maria Linty anche il suo abito più bello.
Sono passate diverse ore, la povera donna, tormentata dal male
e stremata da tanta fatica forse si è addormentata per un poco.
Per sempre, il giorno dopo. È Natale! Pauvre Jaquême!
Nel registro delle morti, di lei poche scarne righe: “Linty Jacobea, uxor discreti Joannis Linty obiit, diem 25 decembris 1737 et
sepulta fuit in ecclesia”.
Marie Françoise Biolley era nata ad Aosta nel 1728 ed era l’unica
erede di Charles e Cristina Taglianti di Lessolo. Essa sposa in prime
nozze il nobile Jean Antoine Gippa d’Hône, la famiglia del quale era
stata nobilitata nel 1744 con l’acquisto di una parte della Signoria di
Hône. Erano “Citoyens” ed abitavano un palazzo in rue Saint-François. Da queste nozze erano nati cinque figli: Jean Antoine Gaudens
che sarà Luogotenente nel reggimento di Saluzzo, Joseph César,
cordelier, che al momento di entrare in religione lascerà la parte di
eredità paterna alla madre, Pierre Joseph canonico di Saint Ours e
due figlie Christine Thérèse e Marie Virginie.
Rimasta vedova trentenne, si risposa con il Conte Fraqnçois
Louis Sarriod de la Tour de Bard. Quella dei Sarriod era una
delle più importanti ed antiche famiglie nobili del Duché, risalente al XIII secolo. Da questo matrimonio nasceranno altri quattro figli: Marie Anne, Marie Julienne et Marie Antonie ed il figlio
maschio Pierre Louis François.
Con tanti figli di due diversi matrimoni ci saranno state piccole e
grandi gelosie e, forse per evitarle, Françoise ha allora 57 anni,
nello studio del Notaio Pesse in rue du Collège, redige il suo testamento e chiaramente dice che desidera farlo perché non sapendo l’ora della nostra morte poiché essa può arrivare improvvisa,
non volendo dare occasione di discordia fra i suoi eredi desidera disporre della successione dei suoi beni temporali dei quali il Signore
ha voluto favorirla.
Essa lascia a Jean Antoine Gaudens Gippa
d’Hône l’anello di diamanti che possiede,
più quanto ha avuto
dal figlio cordelier e
dal suo primo marito,
le Seigneur Gippa
d’Hône. Alle due figlie nulla, poiché la loro parte di eredità l’hanno
avuta quale dote andando spose. A suo figlio Pierre Louis François
de la Tour la maison “la Grive” lasciatale da suo nonno e che il suo
caro sposo ha restaurato ed abbellito, con tutti gli arredi, il giardino
ed il bel verger. Alle sue tre figlie Sarriod lascia 1500 Livres ciascuna. Come temeva i figli o il marito insisteranno per qualche cambiamento. Sette anni dopo, è il 1792, essa si decide a farlo. Forse è
ammalata, poiché questa volta è il Notaio Pesse che viene da lei nell’amata “la Grive” dove abita ora. Viene aggiunto un codicillo alle
precedenti volontà. La preziosa “Bague de diamant” non andrà più
a Gippa ma al figlio Sarriod, forse protestano anche le figlie Sarriod,
così a loro andranno “les nappes et le linge de la maison”.
Essa muore quello stesso anno.
Sarà sepolta nella Chiesa di Saint-Pierre, ove era la tomba della
famiglia Sarriod de la Tour de Saint- Pierre et de Bard, senza
sfarzo, come aveva disposto, seguita solo dai ceri dei Fratelli
della misericordia.
Nel più breve tempo le saranno celebrate le trecento messe di
suffragio come era suo desiderio.
Il Conte Sarriod morirà tre anni dopo nel 1795.
Con la morte di Marie Françoise si spegne tutta la fase ascendente e più illustre di una famiglia che ha onorato Issime e la
Valle d’Aosta.
Per qualche decennio ci saranno ancora i cugini issimesi, figli e
discendenti di Jaques Antoine, essi saranno tranquilla nobiltà rurale e tutto si spegnerà nei primi anni dell’ottocento con la morte
del leggendario e misterioso bambino nel pozzo.
Requiescant in pace.
NOTA: I nomi propri sono stati riportati così come compaiono
sui documenti d’poca.
FONTI
Grat Vesan, Congresso eucaristico, 1942.
Jean Baptiste de Tillier; par les soins d’Andre Zanotto, Historique
de la Vallee d’Aoste, Aoste 1968.
Jean-Baptiste De Tillier, Nobiliaire du Duché d’Aoste, Aoste 1970.
Lin Colliard, Familles nobles et notables du Val d’Aoste : notes de
genealogie et d’heraldique, Aoste 1984.
Lin Colliard, Vecchia Aosta, Aosta 1986.
Rivista Augusta
Arch. Comunale di Issime, Livre Terrier d’Issime, 1645.
AHR : Archivio Storico Regionale.
Arch. Sarriod de la Tour.
Arch. Lucienne Landi
Arch. Linty-Pession
Arch. Parrocchiale di Issime
Arch. Orfeo Zanolli
Arch. Claudine Remacle
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A U G U S T A
ISSIME:
la vieille cure - d’oaltun köiru
IVANO REBOULAZ
a maison que tout le monde connaît comme “la
cure”, tout court, est divisée en deux blocs, bien
distincts entre eux, quoique unis et en communication l’un avec l’autre: la vieille cure vers le
torrent Lys, et le bloc sur le devant, vers la
place. Il n’est pas aisé de distinguer les phases de leur
construction, car non n’a pas encore fait des sondages sous
le crépi pour discerner la jonction des murs, et en plus les
documents d’archives sont incomplets et apparrement
contradictoires.
L
1. La vieille cure est située au nord et à l’est de l’immeuble,
et a son accès sur le front sud, qui à son tour est caché par la
muraille septentrionale de l’église: sa construction date vraisemblablement de la fin du XVII ou du début du XVIII siècle, donc à l’époque de la reconstruction de l’église actuelle,
qui fut édifiée à partir de 1683. Mais dans les caves et au pre-
Complesso della casa parrocchiale di Issime,
a sinistra la parte più antica.
mier étage il y a cependant des traces d’une construction
bien antérieure. Les corridors et les escaliers qui mettent en
communication les pièces et les divers étages sont bien agencés et caractéristiques, avec des dalles en pierre et des balustrade en fer. On peut même passer à la partie supérieure
de la sacristie, et par là rejoindre l’église: le clocher sépare et
unit en même temps l’église et la vieille cure.
Au niveau inférieur de la maison, il y avait autrefois l’étable,
parce que le curé pouvait compter sur plusieurs prés qui permettaient de nourrir trois vaches: dans les inventaires des
bien-fonds, on lit en effet, d’un grand pré au sud de l’église,
et que “la cure a une emphitéose d’un moulin situé au fond du
même pré…”, et qu’elle “possède encore diverses pièces de terre
en pré, pâturage, glair et une petite montagne…”
A la fin du XVIII siècle, en suite des travaux de la Royale Délégation “ pour la vérification des biens exempts et la fixation
des portions congrues des curés”, on décida de vendre la plus
grande partie de ces biens-fonds afin de constituer une rente
fixe pour le curé. A la disposition directe de celui-ci on garde
“une petite pièce de pré d’environ cent toises, attigu au presbytère, imputé en congrue pour la somme annuelle de L. 6”, et
“un jardin d’environ deux cent toise, qui n’est pas imputé”. Autrement dit, le curé devait vivre avec 333 lires annuelles, en
portion congrue, que lui fournirait la Commune, récemment
constituée, diminuée des 6 lires dont on a parlé.
BOX 1. Ce que pensait Mgr J.-A. DUC de la vente des
bien-fonds (Histoire de l’Eglise d’Aoste, tome VIII,
page 552-553)
“Malgré les efforts de Mgr de Sales pour améliorer la condition économique faite aux curés par la Délégation, leur portion congrue resta fixée à 333 livres, y compris le produit des
biens-fonds retenus par les curés, et les censes imputées en
congrue.
Les curés furent laissés en pleine liberté de retenir les biensfonds de leur bénéfice ou de les vendre pour se contenter de la
rente de 333 livres. Plusieurs curés, surtout dans la Valleise, se
départirent de leurs biens-fonds. Agirent-ils sagement? On peut
en douter. Un certificat de rente est bien propre à exciter les
convoitises d’une autorité peu scrupuleuse. Survienne un embarras financier, une crise économique, une révolution, les gouvernements, les communes sont tout prêts à mettre la main sur
la rente, c’est si commode! Tandis que les immeubles ne sont
pas de prise facile, ils opposent une certaine résistance à l’action spoliatrice; une confiscation de biens-fonds demande du
temps, la sanction expresse d’une loi et ne trouve pas toujours
de rapides acquéreurs. Il y plus, le chiffre de la rente est presque
stationnère; il ne s’élève pas avec les conditions économiques du
pays; il tend plutôt constamment à baisser, tandis que les productions du sol acquièrent une valeur progressive avec les an-
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A U G U S T A
barrière qui arrête aujourd’hui le torrent. Monseigneur Solar
approuva cette vente en se réservant de faire remplacer le dit
pré dans un endroit plus solide, ce qu’on n’a encore jamais mis
en exécution. On a pensé dans un temps de remplacer ce même
pré par celui de la Mission, à condition que le curé en paye annuellement une certaine somme afin de pouvoir tenir la Mission dans son temps ordinaire et ce seraient les voeux du
soussigné que Sa Grandeur voulut bien l’autoriser à prendre
lui-même et ses successeurs les biens dits de la Mission, moyennement paye annuellement à la fabrique telle somme qui sera
fixée par Monseigneur.
En continuant la description de l’immeuble, au niveau de la
porte d’entrée on trouve la cuisine avec sa grande cheminée,
et une petite salle à sa gauche. C’est la chambre où couchait
le curé Vesan. La salle de bain est là, tout à coté. Par une
autre porte, à droite de la cuisine, nous passons dans la
grande et belle salle boisée à la manière de la Valleise: c’est
maintenant le siège et la bibliothèque de l’Association AUGUSTA. Une autre pièce boisée est au-delà.
A l’étage au-dessus, il y a plusieurs chambres, avec des agencements compliqués, qui révèlent des aménagements successifs. De ce même étage, on accède à trois chambres que
l’on nomme “capucines” et qui sont aménagées sur la voûte
du bas-coté septentrional de l’église. On accède aussi à plusieurs pièces sous les combles du toit de la vieille cure. Ladessus il y avait autrefois le fenil, où on accédait aussi par un
escalier extérieur.
Lato est dell’antica casa parrocchiale, oggi sede dell’Augusta.
In primo piano il sambuco bicentenario.
nées, et le prix des denrées et partant des locations augmente
sans cesse.
C’est un fait d’expérience que, si les immeubles occasionnent
quelques embarras pour leur régie, ils offrent par contre une
plus grande stabilité pour leur durée. Le gouvernement italien
n’a fait qu’accomplir un devoir de justice, en portant, en ces
dernière années, à un chiffre supérieur la portion congrue des
curés.
BOX 2. Etat de la paroisse d’Issime donné par PierreJoseph Chincheré, curé de la dite Paroisse, à Monseigneur Jourdain Evêque d’Aoste, lors de sa seconde
visite pastorale, 18 février 1838:
Il n’y a point d’autre rentes, on ne donne rien pour les baptêmes
et il n’y a point d’offrande dans toute l’année. Il faut cependant
acheter tout excepté l’eau. Le bois y est très cher ainsi que le
transport des denrées, ce qui absorbe déjà une partie de la
congrue. Autrefois le bénéfice-cure possédait un beau pré attigue au jardin et au midi de l’ église qui donnait du foin pour
entretenir trois vaches, il y avait en même temps une grande
quantité de vernes sur le bord du torrent ce qui fournissait au
curé une partie de son bois, et en autre il y avait la chaleur de
l’étable qui est dans les paroisses de montagne, si non absolument nécessaire, au moins d’une très grande utilité.
En 1786 la Commune vendit le pré sous prétexte qu’il en coûtait trop pour réparer les dégâts qui y faisaient souvent les fréquentes inondations avant qu’on eut construit cette fameuse
2. Est-ce que la partie de l’immeuble qui regarde sur la
grande place à l’ouest date des années 1838-1840? C’est ce
que pensait l’architecte Domenico Prola en 1975: “L’edificio di
cui si tratta è una costruzione a tre piani nata come casa parrocchiale e che sulla piazza prospetta con una facciata sinmetrica di quattro finestre per piano più una porta in asse che
conduce ai balconi in ferro batturo. Sul balcone del primo
piano è anche indicata la data 1839 (sempre in ferro battuto)
che corrisponde alle notizie in nostro possesso e che ne fanno risalire la costruzione al reverendo Giovanni Pietro Goyet, parroco di Issime dal 1829 al 1866. La forma architettonica è
estremamente semplice e discreta, i disegni in linea coi modi
neoclassici. Da notare al secondo piano i motivi a rosailles inclusi in soli irragianti che preludono ai più tardi ricuperi revivalistici di motivi di arte popolare.”
Cependant le tableau “ex voto” qui se trouve à Oropa et rappelle l’inondation du 14 octobre 1755, nous montre la façade
de la maison presque dans l’état actuel. Donc en 1838-40 on
a plutôt travaillé à reconstruire la vieille cure, celle-là vers le
Lys et vers le nord. Le curé Chincheré ( et non pas J-P. Goyet,
qui était alors curé de Gaby) demandait “d’obtenir l’autorisation d’établir sur la façade du nouveau bâtiment en construction, et au second étage, un balcon qui occuperait toute la
longueur de la façade, ou tout au moins une partie seulement
d’une longueur de trois toises…. avec disponibilité du corridor
qui y conduirait depuis l’escalier, en remplacement de celui
qu’il doit établir au midi de la cure visant sur l’église….”
La Commune ne donna pas l’autorisation: de là on peut
conclure qu’il s’agissait de la restauration de la façade sep-
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A U G U S T A
tentrionale qui encore de nos jours n’a pas de balcon au second étage, tandis que la façade vers la place est garnie de
deux balcons, un par chaque étage. En plus, il existe toujours
“l’escalier au midi de la cure visant sur l’église…”. Le rez-dechaussée et le premier étage de cette partie visant sur la
place appartenaient dès les débuts à la Commune d’Issime,
tandis que le deuxième étage a toujours été de compétence
de la Paroisse.
Malgré les travaux de 1838-40, qui d’autre part ne sont pas
spécifiés, il reste beaucoup de choses à faire. Un rapport de
1870 nous dit que “dans tout le presbytère il y a pour le moins
19 vitres cassés et ne servent plus. La plupart des serrures sont
en mauvais état et demandent une réparation. Le tout est visible à qui de droit.” L’inventaire du mobilier de la cure est vite
fait: “trois coffres en bois, deux tables en bois blanc, un tonneau
de dix charges environ, à quatre cercles en fer, deux autres tonneaux… en état de vetusté et de dégradation…” il y a encore
“une crémaillère à trois bras attachée au foyer de la cuisine,
une petite jarre en pierre”…et, dulcis in fundo, “un beau bureau à quatre tiroirs”.
A la fin du XIX siècles, il y a du nouveau pour la maison de la
cure: “En 1895 le nouveau curé fit exécuter entièrement à ses
frais dans le presbytère des restaurations très importantes que
lui ont coûté la somme de 1.000 francs. Il s’agissait de repasser une grande partie du toit de la cure dont le mauvais état
avait laissé l’eau s’infiltrer dans les murs et les plafonds qu’on
dû en conséquence être remis à neuf. Quatre nouvelles chambres ont été créées par le moyen de cloisons établies dans deux
vastes salles hors de service, et toutes les autres chambres ont été
recrépies, reblanchies, tapissées etc…” (relation du 15 avril
1898, F. Collomb, curé).
3. Il nuovo secolo registra delle manutenzioni, tra le quali
l’adduzione di acqua potabile, e la stesura di anonima biacca
sul boisé della grande sala e di quella successiva.
Poi si arriva al 18 giugno 1968: non è il maggio francese, ma
è la data del terremoto che scuote la vallata del Lys, e che lesiona seriamente l’edificio della casa parrocchiale e del Comune, cioè la parte che prospetta sulla piazza. Tutto viene
sgombrato: il Comune,che era già trasferito nella sede attuale
all’angolo nord/ovest della piazza, e il parroco, che va ad abitare nel sottotetto del municipio.
Si pensa di demolire per poi ricostruire, ma l’architetto Domenico Prola, sovrintendente alle “Antichità e Belle Arti”
come si diceva allora, non è d’accordo. Per fortuna, diciamo
ora: “la demolizione di questo edificio per far luogo a una probabile anonima o peggio “caratteristica” nuova costruzione più
funzionale “sarebbe estremamente deprecabile”.
Così si decide per il restauro. Prima però c’è un passaggio di
proprietà: il Comune cede alla Parrocchia tutto il primo piano
e metà del piano terreno, e la Parrocchia cede al Comune il
prato che per 6 lire di rendita era computato per la formazione della congrua nel 1786, e che ormai era diventato un
piazzale.
Nel gennaio 1979 il parroco don Candido Montini presenta
domanda per la “sistemazione della casa parrocchiale di Issime” secondo il progetto dell’Ing. Alberto Devoti. Al piano
terra viene realizzata la cappella feriale e invernale (l’altra
metà del piano è rimasto di proprietà comunale) e al secondo
Facciata ovest della nuova casa parrocchiale, risalente al 1839.
piano l’alloggio per il parroco. Non è completato invece il recupero del 1° piano, né la sistemazione del fabbricato più antico, quello verso il torrente Lys, conosciuto tradizionalmente
come “vieille cure, d’oaltun koiru”.
Nel 1985 altro terremoto, questa volta di natura legislativa: la
legge dello Stato Italiano n° 222 del 20 maggio stabilisce che
tutti i benefici parrocchiali sono estinti e confluiscono nell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero. Una parte
della casa quindi cambia di proprietà.
Dopo qualche incertezza, dovuta alla non chiara identificazione catastale e al fatto che la vendita operata dal Comune a
favore della Parrocchia, non è stata nè trascritta nè volturata
nei relativi registri immobiliari e catastali, finalmente nei
primi anni del nuovo secolo, il XXI, la situazione è definita: la
parte prospiciente la piazza è di proprietà della Parrocchia di
San Giacomo in Issime, la parte sul retro e verso il Lys, è dell’Istituto Diocesano.
Il progetto di utilizzare tutto il complesso, per una casa di accoglienza per gli anziani, viene abbandonato sul nascere.
L’idea successiva del Comune di realizzare un piccolo museo
al 1° piano della casa, ora sicuramente della Parrocchia,
sfuma altrettanto presto. Il nuovo parroco don Saverio Vallochera, ne completa allora la sistemazione allestendovi l’ufficio e l’archivio, e realizzando l’aula per il catechismo.
Invece la parte rimasta in capo all’Istituto Diocesano è ora
sede dell’Associazione Augusta che ne ha curato il recupero,
relativamente al piano rialzato. Il piano superiore e il sottotetto attendono ancora di essere sistemati e utilizzati.
— 37 —
A U G U S T A
L’Abbé Jean-Jacques Christillin:
personnalité polyvalente
1
et extraordinaire
PAOLA BUSSO
ean-Jacques Christillin est né à Issime le 13
juilliet 1863 de Jacques Nicolas et de Marie
Hélène Christillin.
Il était couramment appelé Abraham, mais il
signe ses “Légendes et récits recueillis sur les
bords du Lys”2 Jean Jacques et ses contes dans “La Tradition” Jacob. Dans un petit manuscrit intitulé “Medicine” il signe Johannes Jacobus. Pour ses correspondances au “Mont Blanc” il utilise parfois le pseudonyme
Lavallys.
Il avait un frère Hilaire er trois soeurs: Hélène, Marie et
Pauline, à laquelle il était particulièrement lié.
Il entre au séminaire diocésain et accomplit ses études
régulièrement avec volonté, énergie et intelligence.
Ordonné prêtre en 1886, il aurait dû célébrer sa première Messe à Issime le jour de Noël, mais une tempête
de neige l’oblige à renvoyer de deux jours la cérémonie
(un frappant symbole?)
Il collectionne en peu de temps un nombre impressionnant de vicariats: Valgrisenche, Verrayes, Pontboset,
Chambave, Introd, Challand Saint Anselme, Morgex,
Avise, Villeneuve, Saint Marcel.
Ses idées ouvertes vers un catholicisme libéral éclairé
nuisent sans doute à sa carrière ecclésiastique et sont
probablement à l’origine de ses pérégrinations, signe
évident de manque de syntonie avec la hiérarchie ecclésiastique valdôtaine.
En décembre 1893 il estr nommé recteur de La Trina,
village de Gressoney Saint Jean, où il restera jusqu’en
1904, occupant ainsi la place qui avait été de J. B. Cerlogne (1889-1891).
Elevé au milieu des montagnards, son enfance a été bercée par leurs récits, leurs légendes, leurs contes de veillées, leurs chansons; il connaissait les mille et une
croyances ou superstitions qui les menaient dans la vie;
il était au courant de leurs fêtes, de leurs réjouissances;
il avait en lui-mme l’âme du peuple.
C’est donc en cette période qu’il écrit les “Légendes et
récits recueillis sur les bord du Lys” édités en 1901,
hommage à S. M. la Reine Marguerite, qui lui demanda
un jour quelques chose à lire sur la Vallée d’Aoste. Elle
apprécia beaucoup les légendes et se chargea des frais
d’édition.
J
1
2
Jean-Jacques Christillin.
La Valleise est la plus fertile en légendes, contes, superstitions, traditions, coutumes et l’Abbé Jean-Jacques
à voulu pieusement recueillir ces souvenirs du passé de
Si ringrazia Alexis Bétemps per le prezioso contributo al presente articolo.
Quest’anno ricorrono i cento anni della versione in italiano ‘Leggende della Valle del Lys’ con la prefazione di Antonio Fogazzaro.
— 38 —
A U G U S T A
Villaggio di Tontinel, sulla destra la casa natale di Jean-Jacques Christillin.
la vallée natale, et il nous a donné une considérable et
très importante étude sur le Traditionnalisme.
Cet ouvrage a un excellant accueil dans les milieux
scientifiques et il est tellement favorable que “Légendes
et récits” eut l’honneur en 1908 d’une édition italienne
préfacée par Antonio Fogazzaro et le fit connaître au loin
à tous les amis du folklore, et lui créa un courant de sympathies profondes parmi les gens de letres. Peu d’auteurs valdôtains peuvent afficher l’honneur d’avoir été
traduits.
C’est à la même période que nous devons la collecte des
dix contes de Cogne parus dans la revue parisienne “La
Tradition”.
De grande taille, il était surnommé par ses amis “La
Tour Eiffel”. De caractère jovial, doué d’un tempérament calme et réfléchi, il entretient d’excellentes relations avec son entourage. Esprit obser vateur,
curieux et ouvert, il se passionne des disciplines les
plus diverses: sciences naturelles, notamment à la géologie et à la botanique; ainsi que: chimie; archéologie;
physique; technique; météorologie; médecine populaire; littérature; langues; recettes; stylistique; héraldique; paléographie; collectionisme (minéraux, herbes
et fleurs, timbres poste, images sacrées et de fairepart, calembours…).
Alpiniste intrépide, il a gravi tous les sommets, en particulier toutes les pointes du Mont Rose; parcouru
toutes les vallées, visité tous les glaciers; étudié les
ruines de 37 châteaux du moyen âge, se livrant à ses recherches favorites, étudiant la Flore et la Faune alpines,
notant la marche des glaciers, recueillant de précieux
spécimens de roches, rassemblant un herbier des plus
intéressants, notant les particularités de la langue ou des
idiomes dans certaines vallées ou l’allemand est resté
implanté.
Mais les jours tranquilles et laborieux de La Trina se
conclurent désagréablement et, n’ayant pas trouvé pour
lui des places libres en Vallée, il émigre à Turin. Ici,
après la faim, le froid, les persécutions, les contradictions et tous les tours de la mauvaise fortune (il pratique
aussi la boxe pour sa défense personnelle), enfin il devient précepteur des enfants de deux familles nobles piémontaises: le conte de S. Marzano à Vische et le
marquis de La Tour à Orio.
Homme d’une culture encyclopedique, il parlait à la perfection le français, l’allemand, l’italien et l’anglais, tout
en pratiquant aussi son dialecte walser, le francoprovençal et le piémontais.
Il a l’opportunité de suivre ses employeurs dans leurs
voyages en Europe: il visite la Suisse, l’Allemagne, la
France et l’Angleterre et à peu près toutes les capitales
et les principales villes.
Il devient ensuite missionaire de l’“Opera Bonomelli”
qui exerçait son apostolat auprès dés émigrés italiens
— 39 —
A U G U S T A
Jean-Jacques Christillin
sul sagrato della chiesa di Issime.
en Europe. Il occupe les secrétariats de Briey et de Tucquegneux en Meurthe et Moselle, puis est nommé directeur de l’oeuvre bonomellienne à Grenchen en
Suisse où la mort le surprend en 1915 à l’âge de 52 ans.
Ses cahiers sont fourrés d’anectodes, d’aphorismes, de
jeux de mots, de définition humoristiques, de noms curieux de personne, de comptes domestiques, d’adresses,
de notes pour articles, de brouillons de lettres, de chansons (il aimait chanter et jouer de l’harmonium et du violon)…
Il fut corréspondant attitré de plusieurs journaux valdôtains, italiens et français (l’hebdomadaire “Le Mont
Blanc”, l’Almanach du Ramoneur de 1895, la revue “Le
Monde Alpin et Rhodanien” de Grenoble et la revue parisienne “La Tradition”). Il entretent aussi une correspondance nourrie avec ses confrères et avec des personnalités du monde de la culture.
Le Dictionnaire Biographique International des Ecrivains, des Artistes, des Membres des Sociétés Savantes,
des Collectionneurs de Paris a rédigé et publié sa biographie.
M. Edouard Duc, qui a eu le plaisir de le connaître intimement, a résumé en ces quelques lignes, le jugement
qu’il avait été à même de porter sur l’Abbé Christillin:
“Le charme exquis de sa conversation, l’activité de sa
vie, la noblesse de ses sentiments
patriotiques, placent l’Abbé J. J.
Christillin au premier rang parmi
les hommes de haute valeur qui
illustrent notre chère Vallée
d’Aoste.” L’homme est à la hauteur du savant et de l’écrivain.
On trouve beaucoup d’articles de
son décès dans “Le Duché
d’Aoste”, “Il Corriere subalpino”
et d’autres journaux piémontais,
mais le Chanoine Romain Vésan
consacre dix pages riches et
émouvantes à la mémoire de
l’ami Abraham Christillin.
Drôle de destin que celui de JeanJacques Christillin.
Il y a des figures qui sortent du
cadre ordinaire et rayonnent par
des traits d’originalité et caractéristiques.
Un des traits des plus saillants
était celui du contraste: chez l’Abbé Christillin les extrêmes se touchaient, non seulement dans la figure morale et physique, mais aussi dans les évènements de sa
vie.
Toujours élégant et aristocratique il cachait une âme
humble et simple.
Il imposait de la gêne, mais quand on avait un peu de familiarité, il devenait l’ami le plus simple et le plus confident.
La joie et la douleur, l’espérance et la déception, alternative d’émotions ont été des tourments de sa vie.
La fortune et la misère, deux autres contrastes.
L’humilité et la gloire, autres contrastes de cette existence singulière.
Ses goûts idéalistes se rencontraient à merveille avec le
calme, la solitude et le silence et d’autre part il eut l’occasion d’habiter des palais et de s’assesseoir à des tables
princières.
Il aimait la tranquillité et sa vie fut pleine de mouvement.
Le comique et le tragique se confondait partout.
Ses archives familiales sont une mine irremplaçable
pour comprendre ses intérêts intellectuels, ses connaissances variées et un peu hétéroclites, son goût pour
l’art, son sens de l’humour, sa passion pour tout ce qui
se rapporte à son Pays, la délicatesse de ses sentiments.
— 40 —
A U G U S T A
Antichi oggetti devozionali: un
elemento di arredo domestico
JOLANDA STÉVENIN - GUIDO CAVALLI
ella nostra casa tradizionale il vano principale
era, com’è noto, il pilliou (piellje, wohngade),
adibito a soggiorno e a camera da letto.
Il locale suddetto aveva di solito le pareti e
il pavimento di grosse tavole di larice, di
abete o di cirmolo e un arredamento quanto mai semplice
e funzionale: un letto abbastanza largo con sottostante
letto retrattile (tscherret) munito di rotelle di legno, un armadio a muro, una tavola ribaltabile per ragione di spazio,
delle lunghe panche di legno, alcuni sgabelli, un filarello,
una stufa, spesso in pietra ollare, atta a mantenere il calore e ad equilibrare il grado di umidità dell’ambiente.
Nel piellje la più significativa nota di colore era rappresentata da una lunga successione di quadri, di simboli religiosi, di oggetti benedetti che sovrastavano in particolare
la zona-letto e costituivano nel loro insieme una testimonianza della fede professata, un segno di protezione e un
invito alla preghiera.
I quadri di devozione erano formati da una cornice arti-
N
gianale, spesso in legno di noce e talora artisticamente intarsiata, e da una stampa raffigurante un soggetto mariano, oppure Gesù Eucaristico, o la sacra famiglia, o
ancora i Sacri Cuori di Gesù e Maria, la crocifissione,
o i santi protettori del villaggio e della chiesa parrocchiale.
C’erano poi delle immagini che avevano un particolare valore affettivo e documentale, legato a un luogo di pellegrinaggio raggiunto dopo un lungo percorso a piedi per
monti e valli (tra questi i santuari di Oropa, di Varallo, di
San Giovanni d’Andorno, della Guardia erano i più frequentati).
Altre stampe in cornice potevano essere il ricordo della
prima comunione o della cresima di un membro della famiglia, oppure un oggetto-premio attestante lo studio diligente del catechismo.
Da non trascurare infine gli attestati di benemerenza, i diplomi e i quadri ricamati a punto croce, raffiguranti un
soggetto religioso, vero motivo di orgoglio, questi ultimi,
della padrona di casa.
Antico piellje (soggiorno), l’angolo sacro sopra il letto.
— 41 —
A U G U S T A
Tuttavia, la maggior parte delle
stampe a carattere devozionale, in
particolare quelle risalenti alla seconda metà del XIX° secolo, provenivano dalla Germania, dai Paesi
Bassi, dalla Francia, dall’Italia e da
altre regioni più o meno remote.
Per quali vie esse erano giunte fino
a noi?
Si possono avanzare delle ipotesi
legate al fenomeno dell’emigrazione stagionale che costringeva all’espatrio molti capi-famiglia, ma è
probabile che le immagini fossero
acquistate tramite venditori itineranti o presso i santuari, in occasione di feste o ricorrenze
religiose.
È risaputo poi che i mercanti gressonari, i cosiddetti Krämer, privilegiavano il commercio delle stampe
perché molto richieste sul mercato
e molto agevoli da trasportare nei
loro lunghi percorsi a piedi.
le chiavi del regno dei cieli tra
le mani, il secondo col rotolo
delle epistole.
M San Michele Arcangelo (29 settembre), patrono di Gaby. Raffigurato mentre trafigge il maligno e regge la bilancia per pesare il bene e il male.
M Sant’Antonio abate (17 gennaio), patrono di Fontainemore
e di Pont-de-Trentaz, molto popolare tra la nostra gente contadina perché protettore degli
animali domestici; lo accompagna un roseo porcello.
M Sant’Antonio di Padova (13 giugno). Talora confuso con il precedente a causa dell’omonimia.
Tiene teneramente tra le braccia Gesù Bambino ed è venerato per i prodigi meravigliosi
che opera e perché fa ritrovare
le cose perdute.
M Santa Barbara (4 dicembre), paSanta Barbara.
trona di Niel. Raffigurata accanto ad una torre mentre
LE STAMPE PIÙ FREQUENTI
regge tra le mani la palma del martirio. Protettrice di
NELLE NOSTRE ANTICHE CASE
tutti coloro che maneggiano il fulmine creato dalTra le raffigurazioni più significative troviamo quelle della
l’uomo: artificieri, fochisti, cannonieri, pirotecnici, miMadonna venerata sotto varie sem- bianze:
natori e vigili del fuoco.
di Oropa, di Lourdes, di Pompei, di Loreto, della Guardia,
M Santo Stefano (26 dicembre), primo martire cristiano,
della Salette, di Maria Ausiliatrice, Notre-Dame des Grârappresentato mentre viene ucciso a colpi di pietra.
ces, della Consolata di Torino e altre ancora.
M Vengono poi Santa Bibiana, San Biagio, San GioaVengono poi le immagini della tradizione evangelica e crichino, Sant’Anna, Santa Lucia, Santa Teresa del Bamstiana, tra cui:
M San Giuseppe (19 marzo), il custode della sacra famibino Gesù, San Giovanni Bosco, San Lorenzo e tanti
glia e pertanto protettore della famiglia, raffigurato
altri che è impossibile citare.
spesso nella sua attività di falegname, patrono di alI Santi raffigurati nelle antiche stampe erano per i nostri
cune nostre cappelle di villaggio.
nonni i testimoni e i protettori della vita domestica, fatta di
M San Giovanni Battista, di cui si solennizza la nascita il
fatiche e di gioie, di speranze e di delusioni.
24 giugno, rappresentato con indosso una veste di
pelle di cammello mentre stringe tra le braccia un
I SANTI NELLA NOSTRA TRADIZIONE
agnello. Un santo non solo venerato a GressoneyPOPOLARE
Saint-Jean in quanto patrono, ma anche affettivamente
Nel buon tempo andato i Santi erano così vicini al sentire
presente in tutta la nostra realtà agro-pastorale.
della gente da entrare, a buon diritto, nel vissuto quotiM San Sebastiano (20 gennaio), patrono di Issime, dalla
diano e in tante forme di espressione dell’antico sapere.
figura bellissima immediatamente riconoscibile, con
È il caso, ad esempio, di proverbi e motti popolari, derile mani legate dietro la schiena, esposto nudo e travati dall’osservazione sistematica di fenomeni della natura
e di altri eventi capaci di interferire nelle umane vicende.
fitto dalle frecce.
M San Giacomo il Maggiore (25 luglio), patrono di IsA titolo indicativo riportiamo alcuni di questi detti proverbiali, legati al culto dei Santi, scaturiti dall’esperienza
sime, vestito da pellegrino, col bordone in mano, la
ed ancora attuali in tutto il territorio walser e non solo:
zucca dell’acqua e la conchiglia per bere.
M San Nicola (san Kloas, 6 dicembre), in abito vescovile,
M A Gaby, un detto popolare, di probabile derivazione
accompagnato da una schiera di bambini a cui porta i
piemontese, recita così:“San Sebastian touhr la viola
doni; molto venerato nell’area walser.
M San Rocco (17 agosto), vestito da pellegrino, con capin man”.
Verso il 20 di gennaio, nonostante il rigore stagionale, è
pello largo per ripararsi dalle intemperie, mantello a
possibile trovare, nei luoghi più riparati, i primi anemoni
mezzagamba, un bordone in mano con appeso una
epatici che da noi sono erroneamente chiamati, per via del
zucca per l’acqua. Lo accompagna un cagnolino.
colore, violette (1).
Molto venerato dopo la peste del 1630.
M I Santi Pietro e Paolo apostoli (29 giugno), il primo con
Sant’Orso, (1° febbraio), patrono della collegiata omo— 42 —
A U G U S T A
nima. Precursore di San Francesco
Se piove il giorno di San Medardo,
di Assisi per l’intenso amore dimopioverà per quaranta giorni se San
strato verso tutte le creature.
Barnaba (11 giugno) non gli taglia i
Per la gente contadina è giorno di
piedi (1).
presagio (rémòrca): infatti se in
Lo stesso detto è presente a Issime
quel giorno fa bel tempo, l’orso si
‘S’il pleut le jour de Saint-Médard,
sveglia dal letargo invernale, esce
pour quarante jours nous en aurons
dalla tana portando al sole il suo papart, à moins que Saint Barnabé ne
gliericcio, per poi la sera tornare ad
vienne lui couper les pieds’ (3).
addormentarsi per quaranta giorni.
San Bernardo (15 giugno), segnava
Se invece piove o nevica, l’orso fa
una data importante nel mondo conancora una dormitina di pochi
tadino perché, in quel giorno, si regiorni e quindi si sveglia definitivagolavano i conti.
“Arrèndjèn tout a sèn Bèrnòr” (1).
mente annunciando così la primaSan Giovanni Battista (24 giugno)
vera (1). A Issime si dice: ‘Dar
coincideva con un tempo freddo e piobeeru sunnut z’strau, noch virzg
voso detto
toaga winter’, l’orso asciuga la paL’inverno di San Giovanni.
glia al sole, ancora quaranta giorni
Secondo la tradizione, qualcuno
di inverno (3).
aveva commesso un infanticidio in
Anche il giorno della Candelora (2
quel giorno e, da allora, il Signore
febbraio) e di San Biagio (3 febscatenava
delle perturbazioni atmobraio), patrono del mal di gola, sono
San Michele arcangelo.
sferiche affinché nessuno dimentigiorni di previsione; si dice infatti.
casse il misfatto compiuto (1).
“Chandeleur, clair et serein, garde
San Pietro (29 giugno), era accompagnato da un vento
ton foin car tu en auras un grand besoin”.
che spazzava il cielo dalle nubi e permetteva quindi di iniCome dire che se fa bel tempo ci sarà penuria di foraggio
ziare la stagione dei fieni sotto i migliori auspici.
(1-3).
A Gaby si dice:“L’oura dè Sèn Péirou” (1), ad Issime“ Sen
Sant’Agata, (5 febbraio), protettrice degli incendi e delle
Pietersch winn ol wetter” A San Pietro tira vento o piove (3).
stalle. A Gaby si dice:
“Sènta Guetta la merenda tsè la saquètta”. Per Sant’Agata
San Pietro era una data importante per il conduttore deli bambini cominciavano ad uscire per raccogliere un fal’alpeggio perché in quel giorno si pesava il latte di ogni
stello di legna ed avevano perciò diritto alla merenda (1).
mucca e si valutava la somma da corrispondere al proSan Valentino, (14 febbraio), patrono della splendida capprietario.
pella di san Valentino a Issime.
Visitazione di Maria a Santa Elisabetta, (2 luglio), anIl detto suonava così:popolare
tico patrono del santuario di Voury. La saggezza popolare
Zam Valentin ischt ias halbe winter = A San Valentino l’insoleva ripetere:
verno è solo a meta percorso (3).
“Si la Vierge des foins, au petit matin, franchit le sommet,
San Mattia, (24 febbraio) rompe il ghiaccio, se non lo
une lanterne à la main, rentre ton foin car il pleuvra avant
trova lo fa.
demain”.
Der heilég Matthias brächt z’isch, fént er keis, macht er
La Vierge des foins era una falce di luna che allorché si afeis (2).
facciava dietro la montagna della Vecchia preannunciava
Sen Mattias wénn z’vint z’eisch chints z’is breche, wénn z’
il cattivo tempo (1).
nöit ischt chints.
San Giacomo, (25 luglio), portava finalmente un po’ di
San Mattia se trova il ghiaccio lo rompe, se non lo trova lo
pioggia alla terra arsa dalla calura estiva. Ma era poca
fa (3).
cosa, soltanto il contenuto della sua zucca da viaggio.
San Giorgio (23 aprile) e San Marco (25 aprile) erano
A Gaby si dice: “Sèn Djòcou touhr la sóoua cóoutsa” (1), e
forieri di cattivo tempo (1).
a Issime: “Sent Joapucksch Kouzi” e anche ‘Z’ laub ischt
réifs z’ Sent Joapuk’, Il fogliame è maturo a San Giacomo.
Saint Mamert, Saint Pancrace e Saint Ser vais la cui
Questo succedeva nel tempo in cui si raccoglieva il fofesta cadeva l’undici, il dodici e il tredici maggio, erano
gliame per darlo alle capre durante l’inverno (3).
considerati i Santi del ghiaccio perché in quella data si veSant’Anna, (26 luglio) mandava anch’essa una pioggerificava un brusco abbassamento della temperatura, acrellina benefica che però era del tutto insufficiente perché
compagnato da piogge e raffiche di vento (1).
corrispondeva alla sua modesta dote.
San Medardo (8 giugno) era anch’egli legato stretta“Sènt’Anna touhr la doüta (1).
mente alla meteorologia.
San Pantaleone, (27 luglio), aggiungeva di suo il conteA Gressoney si dice:
nuto di un bottiglione.
Regnòtz em Medardschtag, regnòtz noch vierzig tage (2).
“Sèn Pantaléon touhr lou bouttiyon”.
Se piove a San Medardo pioverà quaranta giorni.
San Bartolomeo, (24 agosto), venerato come il grande
A Gaby il detto era il seguente:
seminatore della parola di Gesù. Il detto proverbiale sen“Sé il pioû a sèn Médar, il pioû caranta djór e pòrt, sé sèn
tenzia:
Bernabé yi tòyia po’ yi pi”.
— 43 —
A U G U S T A
Z’ Sent Bartolomé zé ab de huet: häscht késchòt òn griert so
nedetti, spesso risalenti al XIX° secolo, che trovavano la
häbs fer guet = A San Bartolomeo levati il cappello,se hai
loro collocazione sul comodino da notte o sulle lunghe
fatto formaggio e burro sii contento (2).
mensole di legno che correvano lungo le pareti.
San Michele, (29 settembre), contrassegnato da piogge
Si trattava di statuette della Madonna, o di questo o quel
forti e persistenti.
santo, realizzate in gesso, ceramica, terracotta, cartapeCosì a Gaby si dice: Yi pioudjir dè Sèn Mitchél, le piogge
sta, legno o altro materiale.
intense di San Michele.
C’erano inoltre delle medaglie-ricordo di un pellegrinag“La pioudja dè Sèn Mitchél la rihta po’ in tsél” La pioggia
gio ad un santuario, delle campane di vetro contenenti una
di San Michele non sta in cielo. (1). La stessa espressione
statuina decorata con fiori secchi, dei globi di vetro con la
è conosciuta anche ad Issime (3).
Madonna della Neve : bastava scuotere per vedere un’abA Gressoney si osserva:
bondante nevicata che deliziava i bambini, delle spille e
Sent Michél heiter, schlächtz wätter erbeiter.
dei ciondoli ornamentali, delle cartoline-ricordo, degli scaSe a San Michele è sereno,
polari formati da due rettangolini
aspettati cattivo tempo (2).
di stoffa, raffiUn’osservazione sul tempo
guranti i Sache corre vecri Cuori di
locemente:
Gesù e MaA voart Sen
ria, uniti da naKroa,
Sen
stri, da indossare
Mchiel ischt doa =
a determinate conGiunti a San Grato
dizioni, dei libri di preè subito San Michele.
ghiere contenenti delle imDetto popolare di Issime (3).
magini bordate di pizzo, oppure una
Tazzine recanti immagini sacre.
San Gallo, (16 ottobre), persopiccola reliquia di un santo protettore (un
naggio assai popolare nella Svizzera, nella Baviera e nelframmento di un indumento, della terra, dei petali di rosa)
l’Alsazia. Nella sua festa si dovevano ultimare le provviste
con relativa preghiera, (sia i messalini che le immaginette
per l’inverno imminente.
erano spesso logorati dall’uso!), dei minuscoli altarini muA Gressoney il proverbio dice:
niti di antine, delle acquasantiere per l’acqua benedetta,
Sent Gall, geisfall = A San Gallo si macellano le capre (2).
degli astucci portatili contenenti Madonnine e Santi da
San Martino, (11 novembre), un santo anch’egli legato
tasca, dei rosari con relativo porta-rosario, delle ciotole e
alle osservazioni del tempo.
dei bicchieri su cui era raffigurata la Vergine venerata in
A Gressoney si dice:
un particolare santuario.
Sent Martén è tueter dangò, wenn der ofe häscht emprannte
Il bicchiere soprattutto richiamava antichi culti arcaici le= San Martino ti ringrazia se hai la stufa accesa (2).
gati all’acqua, simbolo del battesimo e della vita.
Non sempre nelle nostre case si è dato il giusto valore a
Santa Caterina (25 novembre) era spesso contrassequesti oggetti-simbolo di una religiosità perduta. Parecgnata dalle prime nevicate.
chi di questi oggetti benedetti sono andati smarriti nel
A Gaby si suole dire:
trambusto conseguente ai lavori di ristrutturazione delle
Sènta Caterina la sémèina la farina = Santa Caterina seantiche dimore.
mina la farina (1).
Siamo coscienti che i rari oggetti di devozione privata, inA Issime si dice: ‘Santa Caterin-a installa la bovin-a’ (A
dividuale e familiare, che sono sopravvissuti fortunosaSanta Caterina installa la bovina) ed anche ‘A la Saintemente alla modernizzazione, rivestono oggi un preciso
Catherine tout bois prend racine’.
valore etnografico in quanto sono rivelatori della mentalità
Santa Barbara, (4 dicembre), A Gaby, e nei paesi limidominante delle persone a cui sono appartenuti.
trofi, un detto proverbiale dice:
“Sènta Bòarbera e Sèn Simon, vardinou dou feuc, dè l’èva,
NOTE:
dè la pèira, dou trón = Santa Barbara, San Simone, preservateci dal fuoco, dall’acqua, dalle pietre, dal tuono (1).
(1) Stévenin Jolanda, Gens de Gaby, Les mentalités, ImpriSan Silvestro, (31 dicembre), l’ultimo santo del calendamerie Valdôtaine, 1997 pag.121, 122, 130, 134, 135,
rio ci da l’opportunità di prevedere il raccolto dell’anno
136,137,138,141,146,147.
che sta per incominciare.
(2) WALSERKULTURZENTRUM, Spréchwòrté òn gseité òf
Così a Gressoney si dice:
titsch vòn Greschòney, Tipografia Valdostana, 2007, pag,
Wénnòtz én der Silvesternacht, if hei òn chòre géb acht = Se
25, 26, 27, 28, 31, 97.
a San Silvestro tira vento, a fieno e grano sta attento (2).
OGGETTI BENEDETTI E RELIQUIE
Nelle case di un tempo, oltre ai quadri a carattere religioso
di cui si è ampiamente parlato, c’erano molti oggetti be-
(3) ASSOCIAZIONE CULTURALE AUGUSTA, Ronco
Imelda, Musso Michele, ÉISCHEMGSEITI: LES DICTONS VAN A VOART, Tipografia Valdostana, 2007,
pag.42, 43, 45, 46, 51,103, 105, 186, 217, 241, 242.
— 44 —
A U G U S T A
L’abbigliamento ad Issime:
i copricapi, windlu e la katuarba
TIZIANA FRAGNO
all’avvento del cristianesimo, per le donne celare
i capelli e coprirsi il capo è stata un’esigenza più
morale e religiosa che funzionale. Le donne indossarono, nelle diverse epoche, in casa, fuori
casa e di notte, cuffie di diversa forma e dimensione. E, sebbene la cuffia, in ambito popolare, sia uno degli elementi più identificativi di una comunità, cioè che ne determina
l’appartenenza, questo non sembra essere valido per la comunità walser d’Issime. Qui infatti, nella seconda metà dell’Ottocento, come documentano le immagini fotografiche del periodo,
è in uso una cuffia morbida, realizzata in filet di cotone ricamato,
con l’ala in merletto fittamente pieghettato e l’arco nucale decorato da foglie e fiori. La katuarba, così è definita dalla popolazione locale, entra a far parte, a fine Ottocento inizio Novecento,
dell’immaginario collettivo come copricapo tipico delle donne di
Issime. In realtà questo copricapo, simile per la sua tipologia a
quelle savoiarde, è diffuso anche tra la popolazione di cultura
francofona come dimostra il costume di Fontainemore, acquistato da Alessandro Roccavilla nel 1910 per l’esposizione internazionale del 1911 di Roma. Questo costume, ora conservato al
museo delle arti e tradizioni popolari di Roma, insieme ad altri
abiti e oggetti della tradizione, raccolto per rappresentare insieme ad altri quattromila oggetti la cultura valdostana all’interno di un’esposizione etnografica che voleva far conoscere, ma
anche “mettere in luce”, gli usi e i costumi dei popoli che costituivano l’Italia. Esso si compone di un abito scuro in panno, di
uno scialle e un grembiule coordinati di colore viola, di una cuffia morbida in filet di cotone e di un velo in tulle meccanico. Questa cuffia si distingue dalla katuarba, indossata dalle issimesi,
solo per l’ornamento: quella di Issime, come già detto, presenta
l’arco nucale decorato con fiori e foglie, quella di Fontainemore
ha la calotta decorata con nastri di seta colorata. Entrambe le
cuffie sono corredate da un ampio velo realizzato in tulle meccanico, che viene posto sopra di esse ed è lasciato ricadere liberamente sulle spalle, in modo da lasciare vedere il ricamo più
importante sulla schiena. Questi veli in tulle meccanico, indossati nei giorni di festivi o nel giorno del matrimonio (come si
può vedere, questa volta, dalle cartoline d’epoca), hanno un
grande successo in tutto il mondo popolare e hanno un uso generalizzato tra l’Ottocento e il Novecento in tutte le ragioni italiane (ad esempio è molto in diffuso in Sardegna), grazie alla
possibilità di essere prodotto in modo meccanico, dunque a costi
più accessibili. Non stupisce pertanto che veli simili siano stati
indossati anche dalle donne di Perloz o di altre località della
Valle, vista la disponibilità sul mercato. Diventa significativo ai
nostri occhi come questo elemento del vestiario, abbandonato
assai presto delle donne di cultura francofona, si sia conservato
presso le donne di cultura walser e sia diventato un elemento
importante della tradizione delle donne di Issime, trascurando
altri elementi più intrinsecamente legati a questa cultura e alla
D
comunità in questione. Vi sono elementi del vestiario che nel
passato hanno identificato l’appartenenza all’area walser della
comunità di Issime e la caratterizzavano rispetto a quelle limitrofe in modo più significativo ad esempio nella prima metà dell’Ottocento, un viaggiatore di cultura tedesca, Albert Schott,
viaggiando lungo la valle del Lys individua nell’acconciatura femminile un fattore di distinzione di cultura. Questo fine osservatore, nel suo Die Deutchen Colonien in Piemont, annota con
precisione affinità e differenze da lui riscontrate tra le acconciature delle donne francofone e quelle walser, valutando le pettinature come uno degli elementi fondamentali per individuare
assonanze e dissonanze tra i diversi paesi e villaggi. A suo avviso, connotava le comunità walser l’usanza di intrecciare i capelli con nastri, e di fissare le trecce così ornate sul capo a mo’
di corona o nella parte posteriore della nuca in modo da formare
un semicerchio1. Inoltre segnala come le donne walser coprano
— 45 —
D’Kindlu. (Foto di Attilio Tampan)
A U G U S T A
Il copricapo proveniente da Fontainemore
acquistato da Alessandro Roccavilla nel 1910.
La Katuarba.
sempre i loro capelli con dei fazzoletti colorati (tuckillji nome
con cui ad Issime si indica il fazzoletto per il capo). Egli riscontra anche che il colore più comune per questi capi a Gressoney
era il rosso, mentre a Issime erano per lo più a quadretti di colore rosso, blu, marrone per i giorni feriali e sempre bianco per
i giorni festivi. Il viaggiatore è particolarmente colpito dal fazzoletto di colore bianco indossato dalle issimesi il dì di festa per
recarsi alla messa, che si distingue per il modo anomalo con cui
è annodato, ch’egli descrive così: «…esse non legano il loro fazzoletto secondo l’usanza italiana, né come quella dei francesi, bensì
una via di mezzo: due lembi vengono annodati sull’occipite, gli
altri due pendono liberamente al di sopra e coprono la nuca»2.
Questo particolare modo di annodare il fazzoletto fa pensare che
si tratti del windlu, nome che le donne di Issime avevano dato al
fazzoletto bianco, ricamato nella parte posteriore che ricade sulla
nuca, fermato lateralmente su un lato del viso con i due lembi
resi rigidi da una accurata apprettatura a caldo. Quando, a fine
Ottocento, le donne inizieranno a sostituirlo con fazzoletti colorati
e annodati sotto il mento, i parroci del paese, prima Collomb poi
Vesan, annoteranno con rammarico questa nuova tendenza nelle
memorie della parrocchia: «Innanzi tutto ciò che colpisce i forestieri che assistono per la prima volta alla Messa grande ad Issime
è il costume particolare delle donne, costume che rappresenta una
1
2
vera e propria curiosità. Questo costume è formato da un velo
bianco, molto lindo, ripiegato in forma di cuffia che termina a
punta ed è tenuta rigida da una forte inamidatura. Questo velo è
in uso da tempo immemorabile e vale la pena di ricordare i vantaggi che offre. Innanzi tutto favorisce la pulizia per le cure tutte
particolari che sono necessarie per temerlo candido e lindo. In secondo luogo, ispira, alle giovani, soprattutto, dei pensieri di raccoglimento e di modestia nel Sacro Luogo. Infatti, dal momento che
il suo colore e la sua forma sono uguali per tutte, diventa impossibile alle giovani di farne ornamento di lusso e motivo di vanità,
un abbigliamento con cui distinguersi dalle altre, come farebbero se
si trattasse di fazzoletti, fichus, o di foulards. Spiace quindi che dopo
tanti anni non sia più di moda portare il velo bianco in Chiesa durante i vespri serali, a cui invece le donne si recano con i loro fazzoletti comuni legati alla nuca, fatta eccezione per i giorni di
grande solennità quando il velo bianco viene portato anche di sera.
Da qualche anno a questa parte, malgrado le rimostranze più volte
espresse dal curato, alcune giovani si permettono di sostituire al
velo bianco dei fichus di lana o dei foulards di seta, probabilmente
per distinguersi o per piacere di più. Come spesso avviene, queste
vanitose si trovano tra le persone più straccione della parrocchia».
Questo copricapo molto semplice fa capire come abbiamo perso e
dimenticato il linguaggio intrinseco di una comunità legato all’abbigliamento, e abbiamo invece investito con valori nuovi e diversi da
quelli originali alcuni elementi del vestiario, perdendo il reale significato che gli abiti e i loro accessori avevano per chi li indossava.
T. Fragno, a.a. 1994-1995.
A. Schott, 1842, pp.109-113.
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A U G U S T A
Anandre vartöischu weerch
L’aiuto reciproco: il sentimento sociale
BARBARA E SARA RONCO
olidarietà e montagna un connubio inscindibile: le condizioni di svantaggio legate alla natura del territorio
alpino rispetto ad altre regioni, soprattutto nel passato, hanno favorito una condotta solidale delle popolazioni locali. Le pratiche comunitarie di sostegno e di aiuto reciproco, utili alla collettività intera, erano un
tempo impiegate soprattutto nelle attività agricole. L’intera comunità era coinvolta con azioni svolte alla manutenzione e alla tutela dello spazio rurale (es. manutenzione dei percorsi pedonali e per gli animali). Accanto a queste forme di collaborazione ve ne erano altre legate alla vita dei singoli villaggi, che creavano momenti di
socialità e di aggregazione, in parte mantenutesi ancora ai giorni nostri. L’impegno e la responsabilità del singolo erano
indispensabili per la crescita della comunità e permettevano anche di costruire quel senso di appartenenza che forse oggi
tende a scomparire. Le pagine di intervista, qui riportate, pongono l’accento sull’importanza della collaborazione, sull’empatia verso gli altri e sul valore dell’aiuto reciproco, insomma quello che oggi è definito ‘sentimento sociale’.
S
Kruasi, le 9 avril 2008
Crose, il 9 aprile 2008
LixandrischVituari (*1921) un Margitisch Barbara (*1974)
Vittoria Busso e Barbara Ronco
V. So hewer avitrut, ja wir zam hous wir z’merteil hewer vill
troa mischt im moane unzana zwei ol dröi moal zam… ja
d’hérbscht wissischt. Ankwe war hen kheen allu d’matti ingier héi, allu wéit van dar ketschu un dé hewer avitrut
ündsch gséllji un hentschnündsch, sénnündsch gcheen helfen un hewer troagen da mischt, brunnhen ingier da mischt
in d’matti un doa di zwei iestu war hen génh troagen ankeege
un, di zwei iestu hen gvoagen a a vassu, un té zu d’endri das
sén blljibben imitsch hen gvassut amum ürriun tor, un té zu
hewer gvassut, d’létschtu hen gvassut un déi doa sén kannhen, hen nöit kheen z’machun gruasch, an gruas, gruasse
stuckh wissischt. Un dé wéilu voart hewinindsch unzana arrivurut z’nündsch khéjen etwas steina z’undruscht da chuarb, das doa ischt kapputurut vill vérti, un dé sua wir
mogoara oan nöit z’is wissu sicher nöit ankwe, un dé sua. As
söiri van eim comunque z’is troagen unz in d’mattu, un dé
doa, un té zu hewunünsch auch, wéilu voart, hewunündsch
gvunnen auch an anner fümmala vür zétten da mischt in
d’mattu, sua hewer nöit kheeben, hewer nöit nè troagen nè
z’vil nè z’lljütschil. Un a misura dasch, a misura das war sén
kannhen, das war hen troagen ambri hentsch, hetsch zét, un
té zu hewer sua, sua zwia stünni z’merteil ischt gsinh, zwia ja
unzana dröi stünni wéilu voart selon wi d’mattu war hendscha wélljen troan alli ganzi, troan alli d’mattu ol nöit wissischt. Wa z’merteil darnoa wider di zienu, zianu un halba
hewer gloan. Gloan doa wissischt, hewer kitturut, un té zu
d’mamma hennündsch ghannut broate cheschtinji, hetschnündsch ghannut broate chéschtinji un bruat un wust un
d’kaffi mi milch un tringjen wier das het wélljen tringjen un
darnoa wider mittarnacht z’merteil war hen allz kheen glljéivrut. Hewer muan goan schloafen. Un, un té zu ischt gsinh,
ischt gsinh z’bschlljissen inna auch d’chuarba, wéilu voart
hewinündsch bschlossen inna d’chuarba ankwe süscht ischt
V. Così invitavamo, sì noi a casa di solito, portavamo tanto letame al chiaro di luna, anche, due o tre volte … sì in autunno
sai. Perché avevamo tutti i prati giù qui, tutti lontano da casa,
e allora invitavamo i nostri amici e ci hanno, sono venuti ad
aiutarci e abbiamo portato il letame, portato giù il letame nei
prati e lì i primi due li abbiamo sempre avvicinati e i primi
due iniziavano a caricare e poi gli altri che restavano in mezzo
caricavano di nuovo a loro volta, e poi caricavano, gli ultimi
caricavano e loro sono andati, non avevano molto da fare, un
grosso, un grosso pezzo sai [uno portava un carico di letame
fino ad un certo punto e poi lo consegnava ad un altro che lo
portava a destinazione]. Così ogni tanto ci siamo anche riusciti a buttarci un pò di pietre in fondo alla gerla, questo è
successo parecchie volte, e così noi magari senza saperlo sicuro perché, e così. Un po’ per uno comunque lo portavamo
fino nel prato, e poi lì, e poi ci siamo anche, qualche volta, ci
siamo trovati anche un’altra donna per spandere il letame nel
prato, così non avevamo, non portavamo nè troppo nè poco.
E a misura che, a misura che andavamo, che portavamo giù
spandevano, spandeva, e poi abbiamo così, così, così due ore,
di solito erano due o anche tre ore qualche volta, a seconda
di come il prato volevamo portarlo tutto, farlo tutto o no sai.
Ma di solito dopo, verso le dieci, dieci e mezza lasciavamo.
Lasciato lì, sai, smettevamo, e poi la mamma ci preparava le
caldarroste, ci preparava le caldarroste e pane e salame, e il
caffelatte, e bere, per chi voleva bere, e poi a mezzanotte, di
solito, avevamo tutto finito. Potevamo andare a dormire. E, e
poi c’era, c’era da chiudere a chiave dentro le gerle, qualche
volta ci siamo chiusi a chiave dentro, le gerle, perché se no
c’era magari sempre qualcuno che lo sapeva e ce le rubavano, le rubavano, le prendevano e ce le portavano anche in
piazza per cui le trovavi appese su, su in quei grossi aceri.
Di solito eravamo io e Busso Lina, anche Christillin Valen-
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Fienagione. Imelda Ronco mentre
aiuta il fratello Fréddi a legare il persal.
génh sinh mogoara deeru das hents gwisst séntschnündsch
dschu kannhen stellen, séntschu kannhen stellen, séntsch
dschu kannhen gia un hentschnündschu troagen unzana in
d’Piatzu darwil hescht dschu gvunnen ghankhtu ouf in, ouf
in déi gruassu aheri.
Z’merteil séwer gsinh ich un Héntsche Lina, auch Keerisch
Valentini. Ich kannhe auch vill helfen, ja auch vartöischut un
dé séwinindsch kannhen, hewer troagen witt un troage hoei,
auch brunnhe hoei, doa, ich un Héntsche Lina hen… sén
kannhen, is ischt mergcheemen helfen brinnhen witt van in
… van in Valbounu un, un doa darnoa ich bin mu kannhen argeen z’troan, z’brinnhen hoei van im Bühl un dé dan oabe
séwer kannhe sua wider samstag, z’merteil hets z’is gleit im
sunnatag… im miantag da muarge, ja im miantag. Un da muarge vür tag, ja, sübit das mu het gsian, wissischt, séwer parturut van im Bühl un hewunündsch dschu brunnhen unz zan
Benikoadu, zan Benikoadu hewünundsch.. war hen gmachut
dröi vojadschi van im Bühl zan Benikoadu.., van zan Benekoadu zan Preite. Dröi léddini, la! Chacun het troagen
dschéin léddini, dröi léddini sén gsinh. Hescht dschu brunnhen unz zan Benikoadu hescht gmachut zwia vojadschi unz
zam Benikoadu, zu bischt kannhen amouf gian d’létschtu.
D’léddi un hescht dscha troagen unz zam Preite un té séwer
kannhen essen z’ambéisse, un té zu sewudschu kannhen
amouf gian noamittag, hewer kheeben as söiri minnur
z’goan, séwer kannhen zwurru unz zan Benikoade.
B. van chroutun
V. ah, chroutun, auch chroutun hewer auch vill va.. doa vartöischut, auch vartöischut doa di toawana, séwer kannhen
ouf, ouf in, wi seentsch mu ouf doa, séwer kannhen in Oarbustein. Oarbustein ischt doa van, ischt unner, dunque doa
sua was ischt, doa sua ja, ja doa ennut, a poar di Zöin dürr, a
poar di Zöin dürr. Doa ischt an gruasse stein, an gruassen
block, un an oarbu, un hentsch mu gleit noame Oarbustein.
Eh, doa séwer kannhen auch vill chroutun doa vür Goyetsch
tina. Andavo anche molto ad aiutare, sì
anche scambiato e così ci siamo andati, abbiamo portato legna e portato fieno, anche
portato fieno, lì, io e Busso Lina abbiamo …
siamo andate, lei è venuta ad aiutarmi a portare legna da … da Valbounu e, e poi dopo
io gli ho reso di portare, di portare fieno da
Bühl e poi la sera siamo andate, così verso
sabato, di solito lo metteva la domenica …
il lunedì mattina, sì al lunedì. E la mattina
dopo prima che facesse giorno, sì subito
quando si vedeva, sai, partivamo da Bühl e
ce le portavamo fino a Benecade, a Benecade ci siamo … facevamo tre viaggi da
Bühl a Benecade…, da Benecade a Preit. I
carichi li portavi fino a Preit, poi andavamo
a mangiare e poi tornavamo su a prenderli
nel pomeriggio, avevamo un pò meno
strada da fare, andavamo due volte fino a
Benecade. Tre carichi,là, ciascuno portava
il suo carico, tre carichi erano. Li portavi
fino a Benecade, facevi due viaggi fino a Benecade e poi tornavi su aprendere gli ultimi.
B. Del falciare
V. Ah, falciare, anche falciare avevamo anche molto, … lì
scambiato anche ricambiato lì i lavori, andavamo su, su a,
come dicono su lì, andavamo a Oarbustein. Oarbustein è lì
da, è sotto, dunque lì cos’è, lì, sì, sì, lì oltre, all’altezza di Zöin
in là, all’altezza di Zöin in là. Lì c’è una grossa pietra, un
grosso masso e un pino cembro, e l’hanno chiamato Oarbustein. Eh, lì andavamo anche tanto a falciare lì per Goyet Vittoria e poi per Consol Modesta, anche sempre su per quegli
incolti. E allora siamo andate poi il giorno dopo, siamo andate il giorno dopo e siamo andate lì, siamo andate sotto al
Querratsch giù, loro avevano il loro incolto, era lì sotto il
Querratsch, poi abbiamo, dopo siamo andati ad aiutarli a portare giù il fieno, il fieno, è andato ad aiutarli a caricare. E poi
portato giù e siamo andati a Schoche, portato a Schoche, il
fieno abbiamo portato a Schoche, poi da lì lo hanno messo
giù a Prassevin e poi dopo giù sull’altro filo a sbalzo, basta,
ognuno lo ha poi portato a casa.
B. E aiutare a traslocare?
V. Ah, aiutare a traslocare, aiutare a traslocare era, di solito
era per Natale, aiutare a traslocare quando c’era la neve.
Quando c’era la neve quelli nei mayen alti, il più era per passare i valloni lì a Buart e su a Lansenere, sai, se avesse dovuto, se avesse dovuto venire una valanga, sai. Lì c’era da
fare attenzione, perché molti lì qualche volta staccavano la
mattina presto, la mattina quando non era ancora, quando,
mentre era ancora gelato, sai, perché il pomeriggio non si
fidavano più lì di venire via con le mucche perché poteva,
sai, staccarsi più facilmente la neve. Sai la valanga, mi ricordo che un anno c’era, era venuta tanta neve, e su lì, su
Léon, Stoffultsch Léon e la signora Justéini erano sù, sù a
… a Zöin e hanno, sono scesi, sono scesi a cercare uomini
per poter andare su e venire via al più presto perché di notte
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A U G U S T A
Vituari, un té zu vür Stoffultsch Modesti, auch génh ouf tur
déi schelbiti. Un dé séwer dén kannhen dan tag drouf, séwer
kannhen dan tag drouf un séwer kannhen doa séwer kannhen unner am Querratsch ingier dschiendri hen kheeben ürriun schelbit ischt gsinh doa unner am Querratsch, zu hewer,
darnoa séwer auch kannhen ne helfen brinnhen ingier hoei,
z’hoei ischt nen kannhen helfen vassun. Un té brunnhen ingier un sewer kannhen im Schoche, z’is troage im Schoche,
z’hoei hewer troagen im Schoche, zu vam doa hentsch z’is
gleit ingier im Prassevin un tè zu ingier vom andre voade,
basta, chacqun hets troage dén zam hous.
B. un helfen voare?
V. ah, helfen voare, helfen voare ischt gsinh, z’merteil ischt
gsinh vür d’Winnacht, helfen voare wén ischt gsinh da
schnia. Wén ischt gsinh da schnia déi ouf in d’uabrun beerga,
z’meischta ischt gsinh vür passrun in d’schlüchtini doa im
Buart un ouf za Lansunuru, wissischt, wén is hetti, hetti
z’cheemen ingier a lawunu, wissischt. Doa ischt gsinh z’machun attention, ankwe villuru doa wéilu voart hentsch antseilt da muarge phent, da muarge wén noch nöit ischt gsinh,
wén darwil das ischt noch gsinh gvruarenz, wissischt, ankwe
noamittag hentschich nümmi gféjurut doa z’cheemen awek
mit da chüne ankwe hetti muan, wissischt, dschi antseilljen
tellur da schnia. Wissischt d’lawunu, un ich bsinnimich das
as joar ischt gsinh, ischt gcheemen vill schnia, un ouf doa,
ouf Léon, Stoffultsch Léon un Gotta Justéini sén gsinh ouf,
ouf in … zan Zöin un hentsch, séntsch gcheemen ingier,
séntsch gcheen ingier süjen manna um muan goan ouf un
cheen awek zam phentschte um das doa nachtsch hettindsch
… anzana schouvlun da schnia, wissischt. Un doa, un dé
séntsch kannhen, hentsch ghoeischut voarara, séntsch kannhen süjen voarara antwiar un, un wéilu voart ischt anzana
gsinh z’lécken zwei chacque chu. Wén ischt gsinh gvruaren
ich bsinnimi wén hewer kheen a voart as joar das séwer
gcheen ingier van im Tschachtelljer, ah ben hewer mussun
sinh zwei chacque chu ankwe das het kheen, ischt gsinh nass
un té zu gvruare un d’chü sén gsinh, hentsch un té anzana
d’chü vrüchten, ankwe… nöit, nöit dschi, nöit amudurut, wén
dschiendri hen gsian hentsch gsian mia le danger dén dou.
Ich bsinnimi das joar doa van im Tschachtelljer ingier das
ischt gsinh allz in as éisch, ankwe doa sua ischt anzana gsinh
gsortrut wasser, doa in an uart un té, ah ben, doa d’chü,
d’chü hen astenturut z’goan un dé hewünündsch gleit zwei
chacque chu.
B. un dé, van métzkun un wustun? Wérti auch gsinh
d’rüddu, ja
V. wissischt, a voart ischt, ischt gsinh Ronhsch Ferdinand
das het gmétzkut vür ellji, ter allz z’lann. Eh, un té zu darnoa
ischt dén gcheemen ous Tai, ja wir auch hen aschuan kheeben lénhi joari, ja hewer kheen dar Gottu Ferdinand un den
doa ischt kannhen awek phieri eh. Ronhsch Ferdinand.. eh!
Un doa ischt gsinh auch, zu depend auch z’schwéin das
hescht kheeben, wéilu voart ischt kannhen unz noa mittarnacht ievun hejischt kheen glljiéivrut. Wir hen génh gmachut stül. Stül buddinh un wust, ankwen, ja wir hen génh
kheen as ganz schwéin un té noch as chalb, z’merteil war
hen génh gmetzkut noch as chalb. Am bitz séwer sinh a
squoadru eh! Hewer mussun sinh wol un dé hewer génh
kheen ouf stül buddinh un wust, gruassi, gruassi vésser volli
buddinh, mon Dieu! zu Onore ischt gsinh auch, Onore ischt
Issime, Rollie settembre 2000, discesa dall’alpeggio.
Tutti si ristorano con un buon caffè da una tazza comune.
potessero … anche palare la neve, sai. E lì, e lì sono andati,
hanno chiesto traslocatori, sono andati a cercare traslocatori, qualcuno per, e qualche volta c’era anche da metterne
due ogni mucca. Quando era gelato, io mi ricordo quando
avevamo una volta un anno che siamo scesi da Tschachtelljer, ah, ben abbiamo dovuto essere due ogni mucca perché
aveva, era bagnato e poi gelato e le mucche erano, avevano
e poi anche le mucche hanno paura, perché non partivano,
quando loro hanno visto, hanno visto più il pericolo di te. Mi
ricordo quell’anno lì da Tschachtelljer giù era tutto ghiacciato, perché lì era anche uscita dell’acqua, lì in un posto e
così, ah ben, lì le mucche, le mucche stentavano di andare e
così ci siamo messi due per mucca.
B. E allora, di macellare e fare salami? Era anche una corvé,
sì
V. Sai, una volta era, c’era Ferdinando Ronco che macellava
per tutti, per tutto il paese. Eh, poi dopo è uscito Tai, sì anche
noi abbiamo già avuto per tanti anni, sì avevamo il signor Ferdinand e lui andava via dappertutto. Ferdinando Ronco.. eh,.
E poi lì c’era anche, poi dipende anche dal maiale che avevi,
qualche volta ci voleva fino a dopo mezzanotte prima che
avessi finito. Noi ne facevamo sempre dei mucchi. Mucchi
di sanguinacci e salami, perché, sì, noi avevamo sempre un
maiale intero e poi anche un vitello, di solito macellavamo ancora un vitello. Un pò eravamo una squadra, eh! Dovevamo
stare bene e allora avevamo sempre su mucchi di sanguinacci e salami, grandi, grandi barili pieni di sanguinacci, mio
Dio! e poi Onore era anche, Onore era anche in gamba a fare,
aiutare, aveva forza. E poi abbiamo, abbiamo, sì, lì, ecco,
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A U G U S T A
auch gsinh in gamba vür maecco, quello che io sono andata molto
chun, helfen, is het kheen
ad aiutare, aiutare a legare i budelli,
d’stérrji. Un dé hewer, hewer,
pelare le patate.
ja, doa sua, ecco, ecco, was ich
Ah, poi una volta una corvé l’abbiamo
bin kannhen awek ich vill helanche fatta, beh adesso ti racconto
fen, helfen binnen doarma, peeanche quella. Lì, sì, io non c’ero ad
lun trüffili.
aiutare, si ero ad aiutare, sì di là, la siAh zu a voart a rüddu hewene
gnora Stella, la mamma di Mario e di
auch gmachut, beh nunh zélljeAugusto, sì il loro papà, il papà di Auter déja doa auch. Doa, ja, ich
gusto e Mario hanno un alpeggio su
bin nöit gsinh z’helfen, ja ich
lì a Bourines, su da Bourines su, e, e
bin gsinh z’helfen, ja dürr doa
hanno dovuto cambiare il trave maed’Gotta Stella, ouf doa Stellasch
stro, hanno dovuto cambiarlo, rifare
Mario, Stellasch Augusto, ja üril tetto. E allora avevano, ecco, fatto
riun pappa, dar pappa van Auuna corvé, e avevano chiesto a tanti
gusto nu Mario hen an alpu ouf
uomini, io so che c’erano forse dieci
doa zam Burrunu, uab d’Buro dodici uomini, perché dovevano tirini ouf, un, un hentsch mussun
rare, lì, il trave maestro da sotto in su,
widertöischun d’vist, hentsch
sai, il legno che avevano avevano tamussun widertöischun, widergliato, perché era su nell’alpeggio più
machun z’tach. Un té dé
alto e quella lì non ha più visto, su lì
hentsch kheeben, ecco, gmanon c’erano più, sì non c’erano più alchut a rüddu, un hentsch kheeberi. Hanno tagliato giù, più in basso,
ben ghoeischut a vill manna,
e poi trascinare da sotto in su questa,
ich wiss das ischt etwa gsinh zia
questa trave maestra, e poi la signora
ol zwélf manna, ankwen dschi
Stella mi ha detto una volta, una volta
hen mussun zin, doa, d’vist
mi ha detto “vieni su ad aiutarmi a
unna ouf, wissischt, z’holz das
preparare da mangiare”, sai! E anhentsch kheen trommut ankwe
data su ad aiutare, aiutare a prepaAlpeggio di Léi kier, vallone di Tourrison
il pranzo offerto in occasione della messa
ischt gsinh ouf in d’uabruschrare da mangiare, so che avevano
in
ricordo
di persone care purtroppo non più fra noi.
tun alpu un déja doa het nümmi
messo su un grande paiolo di carne
gsian, ouf doa ischt nümmi
per fare bollito, e allora ho anche imgsinh, ja ischt nümmi gsinh bauma. Hen trommut ingier, toparato a schiumare perché il brodo diventasse più chiaro, e,
eifur, un té zu zoanun unna ouf disch, disch vist, un dé d’Gotta
sai, lì sempre aggiungere dentro un piccolo goccio d’acqua.
Stella het mer kheen gseit a voart, a voart hetsch mer keen
Acqua fredda, sempre aggiugere dentro un goccino di
gseit “chimm uger mer helfen machun z’essen”, wissischt.
acqua fredda quando, quando bolliva, sai, e poi lì, lì il brodo
Un kannhen ouf helfen, helfen machun z’essen, wiss das
diventava più chiaro, e lì, quello, quello l’ho proprio impahentsch kheen gleit ouf an gruass chéssnutu vleisch um marato su lì, era la prima volta che me lo dicevano. E poi lì mi
chun bouilli, un du hennich auch gleernit das vür doa tun z’asricordo che venivano sempre anche gli alpigiani che erano
kümmurun das d’brüji tétti cheemen louturur un, wissischt,
qui nel vallone di San Grato, andavano fino di là a Bourindoa génh arsétzen dri as lljicks tröpfji wasser. Choalts wasser,
nes. So che erano un mucchio di uomini, e, e lì dovevano
génh arsétzen dri as tröpfji choalts wasser wén, wén z’het,
anche, sai, anche avere forza per tirare una trave maestra da
z’het gsotten wissischt, un dé doa, doa d’brüji ischt gsinh
sotto in su. Eh, e poi, e quella baita lì hanno anche dovuto
gcheemen louturur, un dé, das doa, das doa hennich franh
rifarla perché era entrata, era crollata per colpa della neve,
gleernit ouf doa, ischt gsinh dan iestu voart das dsch’hemche forse, sai, una volta veniva sempre molta neve. E poi,
mes gseit. Un dé doa bsinnimich das ischt gsinh gcheemen
lì, avevano, c’era Annelie e hanno dovuto rendere, e lì erano
auch déi alpara das sén gsinh dangher héi in Sen Kroasch
venuti, mi ricordo che c’erano Ilario Ronco e Goyet, lì Begumbu, sén kannhen unz dürr zam Burrunu. Wissich das sén
niamino e Bruno Linty, Bruno era ancora giovane ma, e poi
gsinh a stul manna, un, un doa hentsch mussun auch sinh,
c’era qui mio fratello, sì so che erano tra dieci o dodici uowissischt, auch heen stérrji um zoanun a vist unnaouf. Un té,
mini, ecco, per tirare su, per tirare su quella trave maestra.
un déi goavenu doa hentsch mussun auch widermachun ankQuello che potevo aiutarti, più o meno, altro no perché, porwen das ischt kannhe i, ischt gsinh vallen i antwegeen vam
tare legna, portare letame al chiaro di luna. Siamo spesso anschnia, dasch etwa, wissischt, wéilu voart ischt génh gcheedati anche a lavare i soggiorni, mi ricordo. Andavamo a
men vill mia schnia. Dé, doa, hentsch kheeben, ischt gsinh
lavare i soggiorni in giro, sai! In primavera di solito tutti laAnnelie un hentsch mussun widertöischun, un doa ischt
vavano il loro soggiorno, ognuno lavava il proprio soggiorno
gsinh gcheemen, bsinnimich das ischt gsinh dürr Péteratsch
e poi andavo anche tanto ad aiutare a lavare soggiorni su
Ilaire un Goyetsch, doa z’Nottrisch Beniamino un z’Nottrisch
dalla signora Justéini e giù a Crose dai Busso, e giù da ConBruno, z’Nottrisch Bruno ischt gsinh noch junhs ma, un té
sol Modesta mi ricordo lì anche andavo ad aiutare a lavare il
zu ischt gsinh héi méin bruder, ja wiss das sén gsinh unner zia
soggiorno e lì era uno grosso, era un soggiorno grosso e alto,
ol zwélf manna, ecco, um zin ouf, um zin ouf déi vist.
ma dovevi mettere il tavolo e andare dritto sul tavolo, con una
— 50 —
A U G U S T A
Was dar hen der muan helfen, più o meno, anner nöit ankwe,
troan witt, troan mischt im moane. kannhen doa, awek z’toawan vill séwer kannhen. Auch weschen d’piellji bsinnimich.
War sén kannhen weschen d’piellji dabhieri, wissischt! D’oustaga z’merteil hentsch ellji gweschen ürriun piellje, chacun
het gweschen dschéin piellje un dé binnich auch kannhen
vill helfen weschen piellji ouf doa zar Gottu Justéini un ingier
doa in Kruasi z’Schützerdschoandsch, un ambri in Stoffultsch Modesti bsinnimich doa auch binnich kannhen helfen
weschen dan piellje un doa ischt gsinh an gruasse, ischt
gsinh an gruassen hüejen piellje ma hescht mussun lécken
z’tisch un goan schlechts vom tisch mit am oalten strallenen
beesmer. Un té das doa het, het gribbe wol, eh. Un wir auch,
wir sén auch gsinh a schupputu doa auch zam hous un, ma
in d’iestu joari hennemer wol tun doa z’helfen vartöischut un
kannhen ich helfen doa, ambri z’Goyetsch Vituari binnich
auch kannhen eh… vill vérti nunh bsinnimich nianka halb
woa ich séggi kannhen. Weschen dan piellje d’oustaga z’merteil hentsch ellji gweschen sua ischt der gsinh vlieti vür da
summer. Un té zu génh gleit im nawe moane, dé im nawe
moane ischter gcheen louturur…oh mon Dieu … vüvvil
piellji, mon Dieu, hennich gweschen, mah!
Fornaz, le 24 avril 2008
Hantsch Pina (*1936), Hantsch Imelda (*1935) un Margitisch Barbara (*1974)
I. Jia, bsinnischt dich déi voart das war sén kannhen ouf das
Hantschloeisch séntsch nündsch gcheen helfen lécken ingier witt, strumpfun mit dem kuliss im sakh…im chuarb…
B. Was ischt il kuliss…
I. Z’dinh um lécken vom
voade, das schlittut uber
am voade zu dra hentsch
ghénght d’léddi, doa
ischt gsinh d chirrili un
kuliss…
P. Di dschirrulu ischt
gsinh siwillji unz’kuliss
ischt gsinh…
I. Eis het gchiert um un
z’andra het gschlittut,
ischt gsinh franh wi…
hescht d chi mussun
troan ouf, allz éise déi
dinnhi doa, zu ischt
gsinh…
B. Troan ouf vür loaden…
P. Vür loaden da witt…
I. War sén kannhen im
Tschachtelljer…
P. Da witt ol z’hoei, là, comunque…
vecchia scopa di saggina. E poi quello strofinava bene, eh. E
anche noi, noi eravamo in tanti lì anche a casa e, ma i primi
anni mi sono ben fatta aiutare, ricambiato e andata ad aiutare
lì, giù da Goyet Vittoria sono anche andata eh … tante volte
adesso non mi ricordo neanche la metà di dove sia andata.
Sì anche lavare il soggiorno in primavera di solito tutti lo lavavano così era pulito per l’estate. Poi sempre messo nella
luna nuova, allora nella luna nuova diventava più chiaro …
oh mio Dio … quanti soggiorni, mio Dio, ho lavato, mah!
Fornaz, il 24 aprile 2008
Ronco Giuseppina, Ronco Imelda e Ronco Barbara
I. Sì, ti ricordi quella volta che siamo andate su che gli Hantschloeisch sono venuti ad aiutarci a portare giù legna, camminare nella neve, con quelle carrucole nel sacco…nella
gerla…
B. Cos’è la carrucola…
I. Il coso per mettere sul filo, che slitta sul filo poi a quello appendevano il carico, lì c’erano carrucole e…
G. La carrucola era rotonda e l’altra era…
I. Uno girava e l’altro slittava, era proprio come…li dovevi
portare su, tutti di ferro quei cosi lì, poi c’era…
B. Portarli su per caricare…
G. Per caricare la legna…
I. Siamo andate a Tschachtelljer…
G. La legna o il fieno, là, comunque…
I. Quella volta lì era legna e noi eravamo senza legna, Alfredo
si era fatto male…
G. No era stato operato quell’inverno
I. Un po’ l’ha portato Luigi Ronco, era più forte di noi…poi
Centenario della banda
musicale di Issime, 2006.
— 51 —
A U G U S T A
I. Déi voart doa ischt gsinh witt un wir sén gsinh oan witt,
Fréddi het d chi kheen arlémpt…
P. Na, ischt gsinh opéré, du, de winter…
I. As söiri het troan Hantschloeisch Luéi, ischt gsinh stoarhur dé wir…zu hewer mussun strumpfun ouf tur da weg um
goan im Tschachtelljer, strumpfun ischt dén noch hérts
auch, eh…
P. A vuss ous un dan andre i, jia, a voart…zu wir sén kannhen argeen z’roumen, ischt gsinh Péteretsch Maria, woa
d ch’hen ghüt bürren d’grampi un wéitur goan as söiri béssur, zu Albert het gmachut, ja, frikandò mi piselli…
I. Wir sén kannhen gian hoei z’Sen Kroa, ouf in d’Écku vür
Arduino un Téini, vassun trussi un…wiss nümmi vüvvuluru
war séji gsinh, etwa zieni ol zwélvi…
P. Ich bin gsinh z’alpu…
B. Ah ben zieni ol zwélvi…
I. Jia, jia, ischt gsinh Marta, ischt gsinh Modestisch, bin
gsinh ich, ischt etwa gsinh héi ouf Silvia ol Elena, wiss nöit
ich wélli sén gsinh…a schupputu.
B. Génh d’fümmili, dé, z’weerch
P. A voart ouf tur d’alpi wénn d ch’hen gmachut d’rüddi,
hentsch gleit ouf d’vist, wissischt was will seen…
B. Jia, Vituari het mer zéllt
P. Ischt gsinh d’fümmili mit das…d’brentu, d’halbun brentu
vom palljit, kannhen ouf…
I. Troan ouf z’tringhjen…
I. Ah hoejun auch…a voart héi zam Fornaz, du hentsch nöit
kheen ellji la falciatrice…
P. du ischt nöit gsinh Giacinto
I. Na, dé Fréddi ischt kannhen miejen vür Honore, vür Vituari, vür Stefana…zu séntsch mu ellji gcheen argeen, an tag
héi z’troan i ischt gsinh Fortini, Honore, Vituari, doa Valentine Tassunu, Stefana…ellji gcheen troan i héi, den tag doa
Fréddi ischt kannhen noch chaufen rechi un ich…ich hen
gchiert, dan tag darvür hennich gchiert allz noamittag antweegen dou, ischt gsinh alli d’mattu hinnarna un héi an bitz
vuarna, war hen troan i etwa virzg…vünv un virzg, vöfzg léddini, ja wénn ischt lljöit was willt un süscht… passrut z’sielig
Félix, hen mu gseit “Etwa tuts nöit wettru? Hets keen zwian
tropfa”, “Ah na, na dé…nunh ischt di dröiu, dé hettis aschuan
gwettrut”…
B. Un té métzkun un wustun?
I. Auch…hentsch dan andre vartöischut…
P. Du ischt gsinh allz zar hann.
I. Un antwier nachpiri helfen, hackhun de wust za lljiéischtu,
ischt gsinh z’chieren um la macchina zar hann, hentsch dan
andre vartöischut, as mumandji van eim antweegen ischt
gsinh hérts, eh!
P. Ischt gsinh hérts de wust za höitunu…
B. Doa sén gsinh d’manna z’chieren um?
I. Eh jia, d’manna, d’manna, oh d’fümmili ischt gsinh z’vlietrun allu di doarma…
P. Du gweschen allu d’schwéinun doarma un dan schwéinun
panz, a vroscht an d’hénn…
I. Siden z’penzli, siden d’lunki, wélle voart…
B. Ischt gsinh ousna zam brunne weschen?
P. Dür in d’ weschi doa…
I. Z’grobschta jia, jia, zu het mu d chi passrut mit as söiri woarms wasser, zam hous wélle voart…
P. Ierur passrun da still z’méssersch um nöit d chu chroap-
abbiamo dovuto camminare nella neve su per il sentiero per
andare a Tschachtelljer, camminare nella neve è ancora dura
anche, eh… I passi diventano pesanti…
G. Un piede fuori e l’altro dentro, sì, una volta…poi noi siamo
andate a rendere il favore di pulire i prati, c’era Maria Ronco,
dove pascolavano raccogliere i rami e altrove andare un po’
meglio, poi Alberto ha fatto, sì, spezzatino con piselli…
I. Noi siamo andate a prendere il fieno a San Grato, su a Écku
per Arduino e Cristina, a caricare fasci di foraggio e…non so
più quante eravamo, forse dieci o dodici…
G. Io ero in alpeggio…
B. Ah ben dieci o dodici…
I. Sì, sì, c’era Marta, c’erano le ragazze di Modesta, c’ero io,
c’erano forse qui su Silvia o Elena, non so io quali c’erano…
molte.
B. Sempre le donne, allora, al lavoro
G. Una volta su per gli alpeggi quando faceva-no le corvée,
mettevano su il trave maestro, sai cosa voglio dire…
B. Sì, Vittoria mi ha raccontato
G. C’erano le donne con quel…la brenta, la mezza brenta
sulle spal-le, andavano su…
I. Portavano su da be-re…
I. Ah fare i fieni an-che…una volta qui a Fornaz, allora non
tutti avevano la falciatrice…
G. Allora non c’era Giacinto [con la macchina per le rotoballe]
I. No, allora Alfredo è andato a falciare per Onorato, per Vittoria, per Stefana…poi sono venuti tutti a restituire il favore,
un giorno qui a ritirare il fieno c’erano Fortunato, Onorato,
Vittoria, lì Valentina Tassunu, Stefana…tutti a ritirare qui,
quel giorno lì Alfredo è andato ancora a comprare rastrelli e
io…io ho rivoltato il fieno, il giorno prima ho rivoltato tutto il
pomeriggio perchè tu, c’era tutto il prato dietro e un po’ qui
davanti, abbiamo ritirato forse quaranta…quarantacinque,
cinquanta carichi, sì quando c’è tanta gente cosa vuoi e altrimenti…è passato buon’anima Felice, gli ho detto “Non pioverà mica? Cadevano due gocce”, “Ah, no, no…adesso sono
le tre, allora avrebbe già piovuto”…
B. E poi macellare e fare salami?
I. Anche…si scambiavano il favore…
G. Allora era tutto a mano.
I. E qualche vicino ad aiutare, tritare quel cotechino, c’era
da girare la manovella a mano, si scambiavano, un momento
ciascuno perchè era duro, eh!
G. Era duro quel cotechino…
B. Lì c’erano gli uomini a girare?
I. Eh sì, gli uomini, gli uomini, oh le donne avevano da pulire
tutte le budella…
G. Allora si lavavano tutte le budella del maiale e la pancia
del maiale, un freddo alle mani…
I. Cuocere il rumine, cuocere i polmoni, qualche volta…
B. Era fuori alla fonte lavare?
G. Di là al lavatoio…
I. Il grosso sì, sì, poi si sciacquavano con un po’ d’acqua
calda, a casa qualche volta…
G. Passare piuttosto il manico del coltello per non graffiarli
troppo…
I. Adesso non le usano più, buttano tutto via…
B. Adesso è tutto sintetico, quindi…
I. Adesso con l’insaccatrice, una cosa o l’altra in un giorno
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A U G U S T A
Alpe Chléckh (2422 m.),
vallone di Bourinnes
autunno 2006. Inaugurazione del bivacco
“Aldo Cravetto”.
fun z’vill…
I. Nunh brouchuntsch
d chu nümmi, khéjentsch allz awek…
B. Nunh ischt allz sintétik, dé…
I. Nunh mit l’insaccatris, as dinh ol z’andra in
an tag tünd ch allz, du
hescht mussun…héi
hentsch dén wol toan in
an tag, wa ischt nöit
gsinh sövvil sövvil zu
zan zwein, dröin d’nacht
séntsch nünd ch kannhen arwékhjen um
chorrun z’buddinh…
B. Richten zseeme, Vituari het mer gseit séji
gsinh la létéréi ouf za Rollju
P. però wir hen etwa nöit troan za Rollju antweegen du ischt
nöit gsinh le macchine goan…
I. Na, na, ischt nuan gsinh…das ischt nuan gsinh sua vür
d’nachpara…
P. Ja, ja, unner d’nachpara…
I. Héi Hantschloeisch, déi héi ouf aswas…
P. Jia, Modestisch…
B. Süscht wérti gsinh auch ouf dabbiri z’richten zseeme, ja
z’beerg?
I. In Bech.
P. Jia, Clara un ich, Clara…Silvio het mu gseit “Was willt doa
richten an gull milch, tuscht khés dinh, trach d cha ouf im
Blatti”, wir hen noch kheen di zuchü, grech gmachut…
gchied chut, het d chi gmarkurut, ich hen kheen sövvil, dou
sövvil…
B. Sua ischt gcheen ous etwas mia.
P. Ja, un ich du hennich kheen dar brouch…hentsch gseit
lécken a hampfulu soalz in di tschouduru, wénn di léckischt
z’choaslub da chiesch bcheemi phentur, zu hennich gseit
Clara, “Ah, tu wi d’tuscht vür dich”, zu dan tag das war sén
gvoarit Clara ischt arrivurut zan dröin mer pickun an
d’fenschtru, ischt gsinh dar moanu, is het aschuan kheen
gmolhen d chéin chu ol…zu is ischt kannhen melhjen
Mad chjura, Mad chjura hejis glugut a…ievun an andra,
basta… zu hewer amoddurut z’chied chun un rüren
un…wénn d’voarara sén arrivurut ouf wir hen allz kheen
zweg!
I. Jia, zu hewer auch gseit…ben, das ischt njanka… hentsch
wélle voart töischut as schüssilinh milch, wier het kheen allz
meerwu milch, un déi das hennen kheen alli aschuan as söiri
oalti, das d’chü hen kheen gchalburut sit lannhuscht, ischt
nümmi tell gcheen z’chübbji ol…dé hentsch töischut as
schüssilinh milch, kiet as schüssilinh meerwa un keen as
schüssilinh andra.
fanno tutto, allora dovevi…qui facevano ben in un giorno, ma
non ce n’era tanto tanto poi alle due, tre di notte sono andati
a svegliarci per assaggiare il sanguinaccio…
B. Colare insieme, Vittoria mi ha detto che c’era la latteria su
a Rollie …
G. però noi forse non portavamo a Rollie perchè allora non
c’erano le macchine…
I. No, no, c’era solo…quello era solo così per i vicini…
G. Sì, sì, tra i vicini…
I. Qui i Ronco, quelli qui su qualcosa…
G. Sì, quelli di Modesta…
B. Altrimenti era anche da colare insieme su lì, sì, alla malga?
I. Al mayen di Bech.
G. Sì, Clara e io, Clara…Silvio le ha detto “Cosa vuoi colare
un goccio di latte, non fai niente, portalo su a Blatti”, noi avevamo ancora le mucche per il latte, forse fatto…fatto formaggio, si segnava, io avevo tanto, tu tanto…
B. Così ne veniva fuori un po’ di più.
G. Sì, e io allora avevo l’abitudine…dicevano di mettere una
manciata di sale nella caldaia, quando metti il caglio la toma
si forma prima, poi ho detto a Clara, “Ah, fai come fai per te”,
poi il giorno che abbiamo traslocato Clara è arrivata alle tre
a bussarmi alla finestra, c’era la luna, aveva già munto la sua
mucca o…poi è andata a mungere Magiura, Magiura la guardava…prima di un’altra, basta…poi abbiamo cominciato a
fare formaggio e a burrificare e…quando gli aiutanti sono arrivati su noi avevamo tutto pronto!
I. Sì, poi abbiamo anche detto…beh, quello non è neanche…qualche volta cambiavano un secchio di latte, chi aveva
tutto latte fresco, e quelli che ce l’avevano tutto un po’ vecchio, dato che le mucche avevano fatto i vitelli da molto, non
veniva più facilmente il burro o…allora scambiavano un secchio di latte, prendevano un secchio di fresco e davano un
secchio dell’altro.
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A U G U S T A
‘Braci’
Dalla comunità di Ornavasso
VALERIO CANTAMESSI
entre si vanno estinguendo, lungo le vallate alpine nord occidentali, gli ultimi
fuochi della lingua walser, nonostante
l’indefessa cura di pochi tenaci appassionati, dalle braci di quelle che furono un
tempo comunità alemanne, s’innalzano ancora sottili disegni di fumo. È la forza vitale delle Civiltà, quella che
oggi, spesso fatalmente tardi, viene considerata un patrimonio dell’Umanità.
È questo il caso, nelle sue debite proporzioni, di Ornavasso. Fino alle ultime testimonianze certe dell’esistenza
in vita di Ornavassesi parlanti quell’alemanno vallesano
che oggi unisce sotto un ombrello dallo stiracchiato concetto di “popolo” villaggi sparsi nelle valli dalle Pennine
alle Retiche, dalla mite Val d’Aosta all’industrioso Vorarlberg, Ornavasso fu Urnafasch, o meglio Ornavasso fu
anche e soprattutto Urnafasch.
Colonia walser atipica per la sua collocazione nel fondovalle ossolano, a 217 metri di quota, atipica nella sua derivazione, non frutto dell’opera relativamente autonoma di
pastori-allevatori in cerca di nuove terre come avvenne
nella totalità degli insediamenti walser, ma più verosimilmente oggetto di un disegno strategico del feudalesimo
alpino. Correva il XIII secolo e le Alpi erano in fermento,
M
specie nell’area che parte proprio dal nord vallesano e si
spinge fino alle valli dell’Adige, cuscinetto naturale tra
nord e sud Europa il cui valore portava a intense frizioni
egemoniche.
Nasceva l’idea della Svizzera in quel XIII secolo, e i von Urnafasch, stabilitisi a Naters nel Vallese centrale, decidevano di presidiare il proprio antico feudo ossolano con
uomini fidati, tipologicamente affini ai coloni che da decenni avevano debordato verso la Formazza e da lì lungo
la Valle del Reno ma, diversamente da questi, quali devoti
sudditi del loro mandante.
Quando tutto ciò avvenne non ci è ancora dato sapere nè
sta a me, generico elucubratore, confondere le acque della
ricerca storica, sebbene essa sia ancor oggi frutto anche
di intuizioni e considerazioni superficiali; eppure nonostante siano emersi motivi per ritenere il primo decennio
del XIV secolo come data plausibile della migrazione di
coloni da Naters e il suo contado (specie da quel Sempione cui gli Ornavassesi furono legati fino al XVII secolo), tuttavia permangono elementi che lasciano
propendere per una data anteriore di due decenni almeno.
Nè sorprenderebbe infine che un giorno si venisse a conoscenza della connessione non solo recente tra Ornavasso e Rimella, che sono praticamente confinanti, quale
frutto di un passaparola tra immigrati (coatti) ornavassesi di
Naters e rimellesi di Visp, i quali
per libera scelta invece vi si insediarono nel lontano 1255. Ne
deriverebbe dunque che Ornavasso ben prima della data presunta sarebbe stata abitata da
Vallesani, ma ciò non cambierebbe di molto, per noi che l’osserviamo a distanza di secoli, la
natura di questo flusso storico
secolare.
Dell’Ornavasso che fu Urnafasch oggi, a fuoco spento, a
brace fredda, la lingua tedesca
fuma ancora. Le cronache e le
deduzioni dalle ricerche sia linguistiche che genealogiche aiutano ad inquadrare il destino di
quella che fu un tempo la comunità walser più popolosa e compatta a sud delle Alpi. Tedesca
Ornavasso il monte Hejahora.
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A U G U S T A
L’aleggio di Rossonbalma.
per definizione già nel 1396, a un
secolo dall’insediamento in un
paese abitato da Italiani, Ornavasso vi si mantenne tale lungo i
tre secoli successivi. Aiuta an- notare come ancora a metà del Seicento il parroco confessasse in
punto di morte uomini che non
conoscevano l’italiano con l’aiuto
di testimoni tedeschi forestieri.
Comunità e lingua rimasero altamente refrattari alle intrusioni
esterne fino al Settecento,
quando mutate condizioni politiche ed economiche portarono ad
un’apertura che in meno di un secolo avrebbe condotto il paese
verso un completo bilinguismo,
con l’italiano ad assumere il ruolo
di maggior prestigio, così come
verso un’irreversibile tendenza al
ricongiungimento sociale con il
circondario; tendenza cui la forte chiusura etnica supportata dal presidio linguistico si era opposta con successo
per secoli.
Osteggiata dalla Chiesa prima attraverso un parroco che
per quasi quarant’anni vessò l’uso del tedesco, poi con la
rimozione dell’ultimo parroco capace in quella lingua, don
Tosseri di Rimella, nel 1771, la parlata locale perse un fondamentale pilastro e rovinò in pochi decenni, relegata al
ruolo nostalgico di lingua dei vecchi. Passò Schott nel
1840, nel suo viaggio di esplorazione intorno al Rosa ricco
di riferimenti alle parlate alemanne che annotò con cura e
competenza, ma per questioni di tempo mancò di fermarsi
ad Ornavasso a parlare con quei vecchi tanto preziosi. Nel
1863, data dell’ultima segnalazione di parlanti tedeschi, di
quei vecchi non erano rimasti che sparuti sopravvissuti; la
parabola del tedesco, del walser ornavassese, era giunta al
termine. Non scritta, non ricordata, parve ai più che non
fosse mai esistita. Non si lasci distrarre chi, leggendo il
Bianchetti nella sua Storia dell’Ossola Inferiore, credesse
alle conclusioni di un antesignano della ricerca storica il
quale citava il tedesco di Ornavasso scomparso da tempo
immemorabile. Non gli si faccia neppure grande colpa poiché, nato sì ad Ornavasso ma da famiglia sia forestiera che
ricca, e sarebbero già due grosse tare per qualsiasi studioso locale, visse fuori paese larga parte della sua importante vita.
Proprio dal Bianchetti e da quanti in maniera acritica si rifecero alle sue pubblicazioni discende la convinzione che
Ornavasso avesse perso già nel Settecento il tedesco, se
mai tedesca fosse stata. Dubbi maliziosi se ancor oggi di
tedesco, oltre alla toponomastica ed al patrimonio lessicale, oltre a quella spiccata cadenza e a quel singolare accento che rendevano e in parte ancor oggi rendono
l’ornavassese una mosca bianca nel panorama dei dialetti
ossolani e lombardi in generale, di tedesco rimangono tra-
dizioni come il formidabile carnevale, abitudini sociali
come il fortissimo associazionismo, e una certa romanzesca aria di serietà e intraprendenza che emana dalle contrade di questo borgo antico.
Espierò quest’ultimo passaggio emotivo conducendo il discorso per sentieri di montagna. Segnalo che in questo
percorso i nomi saranno a volte frutto di un compromesso
linguistico tra le loro versioni antiche e quelle ormai fossilizzate nella lingua italiana, spesso storpiate in favore di
assonanze improbabili. Ad Ornavasso il monte più alto
(2132 m) ha nome Hejahora, chiaro ai Walser di ogni
dove, che significa Alto Corno, ovvero Corno Alto. È in verità un appuntito dente che sovrasta il Tal, la Valle. Dalle
sue pendici elevate sgorgano il Grossenbach (Rio
Grande) e il Gärmer (Veratrio, un vegetale). Ricongiuntisi
a In Ter-Mitsch-Eckå (al Dosso di Mezzo) essi scavano la
montagna con il mutato nome di Stagalo (ruscello del
Ponte) che, dopo aver diviso il paese in Dorf (Villaggio)
sulla destra e Roll (da Racholdig, Ginepro) sull’altra
sponda, sfocia placido al Rialbett (Letto del Riale) nella
Toce, in quella stessa Toce che decine di chilometri più a
nord sgorga nel territorio altresì walser del Pomatt (Val
Formazza).
Il circo montuoso che abbraccia Ornavasso da sud a nord
sul lato occidentale genera altri corsi d’acqua di minore
importanza, dal Kuckerchïnn (Gola del Cuculo), alla
Måntal (Mantello) al Miliachïnn (Gola dei Mulini), ai
Bach (Ruscello), Bertschisbach (Ruscello dei Bertschi),
Botschisbach (Ruscello dei Botschi), al Båå (Via), allo
Halb nunchïnn (Gola Smezzata).
In cresta circondano la vetta le cime del Hobul Frej (Poggio libero), dello Scheramberg (Monte Cerano), del Rotahora (Corno Rosso), e del Fïnhora (Corno della Gola).
Sorgenti che non diventano corsi d’acqua importanti sono
tra le altre il Wuostbrunnen (Sorgente del Deserto), lo
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A U G U S T A
La borgata di Mittelstawal
Cortemezzo.
Heilbrunnen (Sorgente Santa) e il Wåssbruni (Sorgentella d’Acqua). Incastonati nei boschi cedui, tra castagni e
faggete d’alta quota, ricavati dall’incredibile operosità dell’uomo, si incontrano nella montagna ornavassese decine
di alpeggi, quale miglior riprova dell’intima discendenza
da quella stirpe di montanari che furono i Walser.
Montamboda (Pianoro del Monte), Farranboda (Pianoro delle Felci), Stockfå (Ceppi), Åltåschwendi (Vecchio
Dissodamento), Steit (Sassi), Ålmeini (Terreno Comune),
Breitenwång (Pendio Largo), zer Wisangårtå (al Giardino Bianco), zer Kholentannen (agli Abeti Carbonizzati), Åltastawal (Corte Vecchio), Mittemstawal (Corte
Mezzo), Trengi (Abbeveratoio), zer Ledi (al Carico),
Gruba (Fossa), Frasmatta (Prato del Pascolo), Tirranb che (Faggi Secchi), Rossonbålmå (Balma dei Cavalli), Schinunbiel (Bel Colle) e tanti altri.
Molti di questi toponomi, come preavvisato, oggi sono
conosciuti con una pronuncia che li italianizza forzatamente, così abbiamo che Åltåschwendi è diventato
j’Utuscvèndi o che zer Wisangårtå si pronuncia l’Isangorto. Altri hanno spesso perso una localizzazione precisa e risuonano da reminescenze imprecisate o da
documenti d’archivio; numerosi sono i prati come zer
Weittenmattun (al Prato Largo), Stainmattun (Prato
del Sasso), Schwärzmattun (Prato Nero), Schlienchenmattun (Prato delle Bisce), Puschmåttelti (Praticello del Faggio), Bändermatta (Prato dei Nastri); i
pianori come il famoso Boden (Pianoro), Frauwenboden (Pianoro delle Donne), Lankamboda (Pianoro della
Lanca), Obranboda (Pianoro Superiore); i boschi come
lo Håselbosk (Noccioleto), il Bielwald (Bosco del Colle),
il Mittlererbosk (Bosco di Mezzo), lo Stockåwåldschi
(Boschetto dei Ceppi). Tipicamente vallesani il termine
Ekå/Eggå, a significare dosso, morena, anche grosso
masso, ad Ornavasso diffusissimo ad esempio in Ife-
reckå (Dosso superiore), Kiiseckå (Dosso Ghiaioso), in den
Eckiltinen (nei Dossetti) ed il
termine Tschuggu/Schucku
(Roccione), presente in Romantschuck (Roccione dei Romani), Steitsch cki (Roccette dello
Steyt), Dirensch cki (Roccette
Secche).
Il patrimonio toponomastico tedesco, tra Ornavasso e Migiandone, ammonta a circa 600
località, di cui 400 circa nel capoluogo di questo singolare binomio. Migiandone fu infatti comune autonomo e mai legato ad
Ornavasso fino al 1923, ma vi
crebbe una comunità tedesca vallesana che si mantenne distinta
da quella ornavassese per tutta la
sua esistenza, terminata presumibilmente intorno alla metà del
XVIII secolo. Poiché la toponomastica è simile ma il dialetto ossolano alquanto diverso nelle sonorità, è facile far
risalire alla precoce italianizzazione di Migiandone la differenza linguistica e la separazione anche culturale tra le
due località che oggi sono un’unica realtà amministrativa.
Percorsa dal rio Blät (Foglia/Pioda), Migiandone annoverava località come Grawusteini (Sassi Grigi), Tomasmattå
(Prato di Tommaso), z’Underschuckun (al Roccione Inferiore), zer Hittun (alle Casere), zer Knabenblatten (alle
Piode dei Fanciulli), zum Bilki (alla Collinetta), Kwärtschamatta (Prato dei Folletti), Bach weri (Argine del Ruscello) e una sua frazione, oggi nota come la Villa, era
denominata un tempo Dorf. Del resto le frazioni e le località in piano di Migiandone, oltre a testimoniare la caratteristica disposizione aperta degli insediamenti alemanni, e si
noti che qui siamo in presenza di una morfologia molto limitante, che comprime gli spazi tra una montagna ripida e
un fondovalle soggetto a inondazioni, tradiscono un’origine
spesso tedesca, come tra le altre Teglia da Teile (Frazione),
Wadi (Sentierino), Belti (Collinetta), etc.
Tale disposizione aperta si riscontra ancora prestando una
certa attenzione nella stessa Ornavasso, pure cresciuta
oggi e diventata un agglomerato urbano fitto di costruzioni. Specie sulla riva sinistra del torrente, nel Roll, non
è infrequente notare ampi spazi tra le case, spesso dotate
di giardino e orto proprio e raramente addossate le une
alle altre come nei paesi circostanti.
Basterà questo, oltre al notare i poderosi tetti in piode di
molte case anche rimodernate e indicatore del carattere
montanaro del borgo, per indurre l’occhio curioso ad una
più attenta riflessione, a fermarsi, se di passaggio, al veder
quel fumo sottile salire da una brace fredda, allo scostarne
i tizzoni spenti salvo poi accorgersi che proprio fredda,
questa civiltà walser dalle mille voci e dai mille colori, proprio non è.
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A U G U S T A
La Val Vogna (Alta Valsesia)
Un insediamento multietnico tardomedievale
sul versante meridionale del Monte Rosa
ROBERTO FANTONI
INTRODUZIONE
La val Vogna, che si estende da Riva Valdobbia ad est (1112 m) allo spartiacque con la valle del Lys ad ovest, costituisce una delle
più lunghe valli laterali dell’alta Valsesia, La parte inferiore della valle è caratterizzata dalla presenza di insediamenti permanenti; quella superiore da maggenghi e alpeggi. La storia del suo popolamento è stata sinora limitata all’analisi di alcuni documenti
dei primi decenni del Trecento (MOR, 1933),, assunti come atti di fondazione (RIZZI, 1983 e segg.). La quantità di documenti disponibili, in gran parte inediti, permette anche la ricostruzione delle fasi immediatamente successive, estremamente interessanti
per riesaminare le modalità di occupazione degli spazi disponibili sul versante meridionale del Monte Rosa.
LA COLONIZZAZIONE DELLA MONTAGNA VALSESIANA
Il processo di popolamento della montagna valsesiana, che concluse la fase di dissodamento iniziata attorno al Mille nelle aree
di pianura, si realizzò in un periodo abbastanza lungo ad opera
di coloni walser e valsesiani (fig. 1). Il progetto colonico è chiaramente espresso negli atti di fondazione dei nuovi insediamenti
(FANTONI, 2007). Nel 1270 il capitolo di S. Giulio d’Orta concedeva a titolo enfiteutico a coloni walser l’alpe Rimella affinché vi
potessero costruire case e mulini e impiantare prati e campi
(FORNASERI, 1958, d. CXIII). Un’espressione simile era utilizzata
nel 1420 dai testimoni al processo informativo sulle alpi del Vescovo di Novara in alta Valsesia, che asserivano che su queste
alpi trasformate in insediamenti permanenti i coloni creavano
casamenta et haedificia ac prata et campos (FANTONI e FANTONI,
1995, d. 13).
L’attuazione di questo progetto, avvenuta tra la metà del Duecento e l’inizio del Quattrocento, permise il popolamento delle testate delle valli sul versante meridionale del Monte Rosa.
L’insediamento di coloni latini a Fobello risale ai primi decenni
del Duecento (FANTONI, 2003a, con bibliografia). La fondazione
collettiva di Rimella, avvenuta a metà Duecento da parte di coloni walser, è documentata dalle pergamene del 1256 e del 1270
(FORNASERI, 1958, dd. C, CXIII). Nello stesso periodo avvenne
presumibilmente la colonizzazione di Macugnaga. Ad inizio Trecento è documentato il popolamento delle frazioni alagnesi, da
parte di coloni provenienti da Macugnaga, e delle frazioni della
val Vogna, da parte di coloni gressonari (RIZZI, 1983). Solo a fine
Trecento si realizzò, su beni del vescovo di Novara e di famiglie
legate alla mensa vescovile, la colonizzazione multietnica di Carcoforo, della val d’Egua e della val Sermenza a monte di Rimasco
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(FANTONI e FANTONI, 1995; FANTONI, 2003b) e la fondazione collettiva di Rima da parte di dieci capifamiglia alagnesi (FANTONI e
FANTONI, 1995, dd. 8, 16; RIZZI, 2006).
1217: RIVA E LE FRAZIONI LUNGO IL SESIA
Il giuramento di cittadinanza vercellese prestato dai capifamiglia
valsesiani nel 1217 (MOR, 1933, dd. XXIX-XXX) consente una ricostruzione approssimativa del limite tra aree con insediamenti
permanenti ed aree occupate da alpeggi. Pur con le incertezze
ed indeterminazioni dovute alla non obbligatoria coniugazione
del nome a una località, alla omonimia di toponimi ed alla stessa
variabilità temporale dei toponimi, l’elenco dei firmatari offre utili
indicazioni sulla distribuzione degli insediamenti permanenti a
monte di Varallo a inizio Duecento. L’ampiezza del campionamento (612 firmatari) permette il riconoscimento di una caratteristica generale del popolamento in Valsesia in questo periodo:
l’elevata densità di firmatari nella bassa e media valle e la rarefazione (o l’assenza) nell’alta valle. A monte di Varallo sono documentati 22 firmatari di Valmaggia (472 m), 3 della Balangera (un
tempo Camarolo, 481 m), 2 di Morca (?; 558 m), 2 di Vocca (500
m), 1 di Isola (524), 4 di Guaifola (552 m), 2 di Balmuccia (560 m),
6 di Scopetta (601 m), 14 di Scopa (662 m), 14 di Scopello (659
m), 4 di Pila (686 m), 3 di Failungo (704 m), 1 di Piode (752 m),
2 di Campertogno (827 m) ed 1 di Riva1 (1112 m).
Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento sono attestate quasi
tutte le frazioni di Riva ubicate lungo il corso del Sesia (fig. 2)2.
LE ALPI DI RIVA E DELLA VAL VOGNA
Nel territorio di Riva e della val Vogna in epoca tardomedievale
erano presenti quattro grandi alpeggi.
Guidetus filius Iohannis de Petris zumellis.
1282. Miletus Imet Guilielmetius de supra Ripa de petris Zumellis riconosce un canone annuo da corrispondere a Berta figlia del fu Giovanni
Arrio di Pietre Gemelle per un appezzamento di terra e un mulino a Bucorio ed un pascolo a Isolla (MOR, 1993, d. LVIII).
1300. Maria filia condam Iohanis de Pe de Alzarela riceve da Petro Ferrario de Pe de Alzarela un mutuo di 20 soldi imperiali. Tra i testi compare Zanolus de Pe de Alzarela de Petris Zumellis (MOR, 1933, d. LXIII).
1308. Petrus filius quondam Milani del pont de l’Isolello vende al presbiter Gaspardo filius quondam Zaneti Lantie de Quarona, curatus et beneficialis ecclesie sancti Michaelis loci de Petris Zumellis, un campo canepale cum plantis ceresiis intus nel territorio di Isolello ubi dicitur
apud tectum Dominici sive aput furnum (MOR, 1933, d. LXVIII).
1316. Valente di Tonso di Varallo rilascia ad Albertolo de Gabio de Petris Zumellis quietanza di un suo credito (MOR, 1933, d. LXXIII).
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A U G U S T A
L’alpe Alzarella, ubicata sul versante idrografico
destro della Valsesia (fig. 2), apparteneva al vescovo di Novara; i suoi confini, citati in documenti d’inizio Quattrocento, erano costituiti
dall’alpe Artogna, dalla comunità della Valsesia
e dalla gulla rubea (FANTONI e FANTONI, 1995,
dd. 6, 13). Secondo RIZZI (2004, p. 118) l’alpe Alzarella, assegnata dal vescovo di Novara ad inizio Quattrocento a Martonolio Della Rocca e
Giacomo Clarino, comprendeva anche i valloni
laterali della val bassa Vogna (fig. 2).
L’alpe Peccia, ubicata in alta val Vogna, era gestita dalla famiglia Bertaglia/Scarognini/d’Adda3. I suoi confini sono indicati in un documento
del 1325 (MOR, 1933, d. LXXX): a mane rialis Pixole, a meridie rialis de Calcestro, a sera aqua
pendentis et alpis que appaellatur Caminus et a
monte alpis que appellatur laregius (fig. 2). Di
quest’alpe faceva parte anche i valloni ubicati sul
lato idrografico destro della valle; in un documento del 1465 viene infatti citato un alpe “Fornalis superioris de la pecia” (Briciole, p. 46). Le
stesse coerenze sono ancora confermate in un
documento del 1634 (sASVa, FCa, b. 8h)4.
L’alpe, come molte altre unità tardo-medievali
valsesiane, si estendeva dunque sui due lati idrografici della valle.
Tra le coerenze della Peccia era citato l’alpe Larecchio, la cui proprietà tardomedievale non è
sinora nota.
I diritti dell’alpe Camino, che occupava tutto il
vallone del Maccagno, nel 1337 appartenevano
a Tommaso da Boca (Briciole, p. 32; RIZZI, 1983,
d. 17)5.
I percorsi di colonizzazione della montagna
valsesiana in età tardomedievale
Alpeggi ed insediamenti permenenti a
Riva e in val Vogna in età tardomedievale.
1325: I COLONI GRESSONARI ALLA PECCIA
La colonizzazione della val Vogna fu, almeno in
parte, opera di coloni di origine gressonari documentati alla frazione Peccia (1449 m) a partire dai primi decenni del Trecento. Le relazioni
genealogiche e i percorsi di colonizzazione)
sono ricostruibili grazie alla declinazione negli
atti notarili del luogo di provenienza, del luogo
di residenza (quando risultava diverso dal precedente) e della discendenza patrilineare (con
relativa località di origine).
In un documento del 29 settembre6 1325 compare un Guiglincinus de la Peccia filius quondam Gualci de Verdobia7, che vende
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ai suoi fratelli Zanino e Nicolino la metà della nona parte dell’alpe Peccia (MOR, 1933, d. LXXX). Alla Peccia si era trasferita,
In un documento del 1334 relativo alla cessione di una quota di beni nel territorio della Peccia viene rimarcato l’obbligo del pagamento del
canone annuo di 11 soldi e due denari imperiali e in 2 libbre e 1/3 di formaggio da versare il giorno di S. Martino agli eredi di Giacomo Bertaglia di Varallo (MOR, 1933, d. LXXXIV). Sulle origini della famiglia e sul suo ruolo nella gestione degli alpeggi cfr. FANTONI e FANTONI (1995).
Nella parte superiore il pons aque pendentis, in quella inferiore il croso di Cambiaveto (precedentemente nominato come croso pissole), a
mattina montes Artonie; verso ovago la sumitates montium Otri Alanie.
“Alpis Caminus … cui coheret a mane Montata larechi in parte et in parte aqua pendent et in parte pecia, a meridie artogna et a sero culmen (?) sive alpem Laude”
Questo contratto e quello successivo del 1334 furono stipulati il 29 settembre, giorno dedicato a S. Michele, santo patrono di Riva. In questa data, nel secolo successivo, è documentata un fiera (RIZZI, 1988).
In un documento del 1302 compare un Petrus Gualcius de Petris Gemellis che riceve da Anrigetus Alamanus de Aput Mot la dote di sua figlia Imelda ( MOR, 1933, d. LXIV). Il documento mostra la presenza di un Gualcio di Pietre Gemelle (probabilmente della Peccia) che crea
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probabilmente con lo stesso Gualcio di Verdobbia, tutta la sua discendenza.
In un documento di pochi anni dopo anche Nicolino flius quondam Gualci de Aput Verdobia si dichiarava infatti habitator Pecie
(MOR, 1933, d. LXXXIV). In questo atto del 1334 Nicolino, suo figlio Giovanni e i figli di suo fratello Zanino (Giovanni e Giacomo), acquistano la terza parte dei beni e una torba di un altro
abitante della Peccia proveniente da Gressoney: Johannes filius
quondam Perni Zamponali de Graxoneto. Nello stesso documento compare infine come teste anche un altro rappresentante
di quest’ultima famiglia di Gressoney trasferitasi nel territorio
di Pietre Gemelle: Johannes filus quondam Anselmini Zamponali.
Il 27 aprile 1337 il notaio Alberto Bertaglia e suo nipote Antonio
del fu Milano investono Nicholinus filius quondam Gualci de
Apud Verdobiam e suo figlio Giovanni, i fratelli Giovanni e Giacomolo figli del fu Zanino Gualcio, Giovanni detto Iano, i fratelli
Girardo, i fratelli Giacomo e Guglielmo figli del fu Anselmino
Zampognari (anche a nome di Petrino loro fratello), Giovanni fu
Giovanni detto Zenero, di una petia terre alpis que appellatur la
Pezza in val Vogna per il canone annuo di 20 lire imperiali e cento
libbre di formaggio a san Martino (ASVa, FdA, s. I, b. 9). In documenti dell’ultimo decennio del Trecento (MOR, 1993, dd.
CXIX, CXXII) viene confermata la presenza alla
frazione della discendenza di Nicolino.
I documenti di questo periodo, ed in particolare
l’atto di investitura del 1337, permettono l’individuazione del gruppo dei fondatori dell’insediamento sorto all’interno del comprensorio
tardo-medievale della Peccia, a cui appartenevano:
• i figli di Gualcio, provenienti da Verdobbia,
con la loro discendenza8.
• due appartenenti al casato degli Zamponali,
che si dichiarano provenienti da Gressoney
• Giovanni de Zano e Giovanni fu Giovanni
detto Zenero9 che non dichiarano una provenienza diversa dal luogo di residenza.
La provenienza gressonara dei coloni è individuabile anche nei segni culturali, come l’intitolazione a S. Grato della cappella della Peccia,
documentata sino dalla fine del Quattrocento10. In
questo settore della val Vogna, in cui è documen-
tata la fondazione di insediamenti permanenti da parte di coloni
gressonari, sono ancora presenti toponimi di origine tedesca11.
L’ESPANSIONE DEI COLONI GRESSONARDI
DALLA PECCIA ALLE PIANE
Entro i confini tardomedievali dell’alpe Peccia compaiono anche
le Piane, due insediamenti permanenti ubicati su un ampio terrazzo morfologico sul versante idrografico sinistro della val
Vogna (1480 e 1511 m).
Il primo documento in cui compare la frazione risale al 1437 e l’insediamento è citato come “Planis de la petia” (Briciole, p. 150); la
stessa forma compare anche in un altro atto nel 1503 (sASVa, FCa,
b. 15, c. 199). L’appartenenza della frazione al consorzio della Peccia è continuamente ribadita nel tempo; nel libro del “Livello della
Peccia” (sASVa, FCa, b. 8h), in cui sono annotati i pagamenti effettuati agli agenti della famiglia d’Adda e al parroco di Riva compaiono
sino al Settecento pagamenti effettuati dai “consorti della Peccia e
Piane di Vogna”.
Anche il primo abitante documentato, “Zanonus Antonietus de
Cauza” (1475, Briciole, p. 46) riafferma la connessione con la
Peccia, ove la famiglia Calcia è documentata dal 1388 (Briciole,
pp. 46, 146).
Prati e campi tra le frazioni Piana e Peccia;
sul fondo l’oratorio di S. Grato alla Peccia.
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una famiglia con la figlia di un colono della frazione alagnese di Pedemonte, che in altri documento coevi si rivela proveniente da Macugnaga. La scomparsa della discendenza di questo Pietro dalla val Vogna è imputabile al fatto che si impegna a far parte della comunione
famigliare.
Uno di loro, Nicolino, trasmetterà alla discendenza il primo cognome documentato in val Vogna.
Anche Giovanni detto Zenero trasmetterà il suo soprannome alla sua discendenza.
In un documento del 1491 comapre “in territorio de la petia subtus capellam S. Grati cui coheret ab una parte strata comunis ab alia strata
antiqua” (Briciole, p. 152). L’altro edificio, una cappella che conserva la sua architettura tardomedievale, è dedicata a S. Nicolao, un santo
particolarmente diffuso tra le comunità tedesche presenti sul versante meridionale del Monte Rosa.
I toponimi erano già citati da Carestia (Briciole), che copiava senza commento da documenti della seconda metà del Cinquecento i toponimi “intus Biju (alla Peccia)”, “ad stoch (alla Peccia)”, “ad pratum del Vaut” e “intus Theige” (sempre alla Peccia), “ad pasquerium de
grirte”, “a schos”, “ad Stoz”, “intus venghes (In Dinti)” e da GALLO (1881, p. 379), che segnala le voci Wassre, Hoch, Platte, Grabo, Tanne,
Stotz, Garte e Scilte. Recentemente alcuni toponimi walser (fat, fiela, garte, grabo, tanne, venghe) sono stati segnalati anche da CARLESI
(1987, 1988). Per alcuni toponimi citati esiste anche un’antica attestazione documentaria. La voce grabo, fosso, compare in un documento
del 1571 relativo al territorio della Peccia (sASVa, FNV, b. 10420). La voce “tanne”, abete (GIORDANI, 1891, p. 174) compare in un altro atto
del 1491 nel territorio della Montata (Bricole). Inoltre due documenti del 1483 (Bricole, p. 23) e del 1589 (sASVa, FCa, b. 17) nominano rispettivamente un appezzamento di terra a prato e campo e un croso de Staffo oltre Vogna.
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Seppur in assenza di un’evidenza documentaria diretta si può plausibilmente ritenere quindi che la fondazione delle Piane sia avvenuta da parte dei coloni stanziati alla Peccia ad inizio Trecento.
GLI INSEDIAMENTI A MONTE DELLA PECCIA
In documenti di fine Trecento e Quattrocento compaiono anche
un paio di insediamenti ubicati a monte della Peccia, inseriti all’interno del comprensorio tardomedievale dell’alpe Larecchio
(fig. 2).
Da metà Quattrocento è attestata la Montata (1638 m)12. Nei documenti il nome della frazione (Montata larechi) è sempre abbinato a quello dell’alpe di appetenza.
In un documento del 1399 sembra essere citato come insediamento permanente anche il Larecchio (1900 m)13, successivamente retrocesso prima ad insediamento stagionale e poi ad
alpeggio.
I documenti, successivi alla fase di fondazione, non forniscono informazioni sulla provenienza di questi coloni, che non sembrano
legati da rapporti di parentela con quelli presenti alla Peccia.
LA BASSA VAL VOGNA E L’ARRIVO DEI COLONI VALSESIANI
DALLE FRAZIONI LUNGO SESIA
Un altro polo d’insediamento è costituito dalla bassa val Vogna.
Dal 1325 compaiono persone che si dichiarano de Vogna; con
questo nome si identificava probabilmente tutto il territorio che
raggruppa le frazioni inferiori (fig. 2).
Già nel 1325 i suoi abitanti dichiarano solo la residenza, senza indicare una diversa provenienza, indicando un insediamento risalente perlomeno ad una generazione precedente.
Solo dalla fine del secolo iniziano a comparire indicazioni specifiche dei singoli insediamenti. In un documento del 1390 è citato
per la prima volta un abitante de vogna inferiore (l’attuale Vogna
sotto). Nel 1399 domo inferioris (che assunse poi il nome S. Antonio). Nel 1399 compare il cognome Gaya, indicando probabilmente l’esistenza dell’insediamento che dalla famiglia prese il
nome, ubicato poco prima di S. Antonio. Nel 1415 compare un
colono che si dichiara de Morcha de Vogna, che probabilmente
trasmise a sua volta il nome alla frazione in cui risiedeva. Nel
1380 compare “Johannes dictus piaxentinus … de Vogna” che
trasmise il suo soprannome all’insediamento omonimo, che com-
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pare in forma esplicita per la prima volta solo nel 1505 (“domum
illorum de piaxentino”). Rabernardo è documentato per la prima
volta nel 1440. La prima documentazione di Cambiaveto risale
al 1459, di Oro al 1475. L’insediamento “super saxum” compare
solo nel 1474 (Briciole; sASVa, FCa, bb. 15-16).
Anche per questi insediamenti l’età relativamente tarda della
prima documentazione non fornisce informazioni sulla provenienza dei fondatori. Tutte le frazioni sono però caratterizzate,
anche nel Quattrocento e Cinquecento, da continui spostamenti
di coloni dalle frazioni lungo il Sesia. Nel 1475 si dichiara “habitator ori vogne” Giacomo Giacobini di Pe de Alzarella (Briciole,
pp. 46-47). I Verno, documentati alla frazione Balma dal Trecento
raggiunsero la val Vogna nel 1516, quando è documentato Pietro
Verno del Sasso di Vogna (sASVa, FCa, b. 15, c. 239). Pochi anni
dopo comparirà per la prima volta la frazione Ca Verno (1552,
sASVa, FCa, b. 16, c. 280)14.
La famiglia Carmellino giunse in val Vogna dalla frazione Boccorio. Il cognome si trasmise probabilmente dal soprannome di
Inco de Bersano detto Carmellino (1521, sASVa, FCa, b. 16, c.
261)15. Dalle frazioni inferiori giunsero anche gli Jacmino della
frazione Boccorio16.
LA FONDAZIONE DELA PARROCCHIA DI RIVA (1325)
PARROCCHIA DI ALAGNA (1475)
Il 26 novembre 1325 Uguzzone, vescovo di Novara, erige in parrocchia autonoma la chiesa di S. Michele di Pietre Gemelle, separandola da S. Bartolomeo di Scopa, “essendo aumentato il
numero delle anime”17 (MOR, 1933, c. LXXXI). L’anno della separazione, il 1325, ha un grande valore simbolico, coincidendo
con quello della prima documentazione di coloni negli insediamenti ubicati nei due principali poli dell’alta e bassa valle: Peccia
e Vogna.
Nel 1475 avviene la separazione parrocchiale di Alagna (ASDN,
AVi, v. 185, f. 372; ASPRv, v. 1, f. 1; RAGOZZA, 1983, pp. 61-63;
Viazzo e Bodo, 1983, p. 177). Il motivo principale su cui i capifamiglia alagnesi insisteva nella richiesta di separazione era che
essi loquuntur lingua theutonica, che il parroco di Riva non comprende, con grave danno e pericolo della salute spirituale degli
alagnesi, che sono costretti a confessarsi a mezzo di un interprete
(VIAZZO e BODO, 1985, p. 157). Il confine tra le due parrocchie, inE LA SEPARAZIONE DELLA
1437. Pietro figlio di Guglielmo della Montata e suo figlio Gaudenzio vendono a Milano figlio di Antonio Guioti di Zanolo di Rabernardo
quote sull’alpe Segle (RIZZI, 1983, d. 44).
1456. Antonio Mozia della Montata del Larecchio riceve da Guioto Rainoldi di Larecchio il denaro dovutogli per la vendita di un terreno
sito al Larecchio ubi dicitur as rachum (sASVa, FCa, b. 15, c. 105).
1468. Giovanni e Antonio della Montata del Larecchio ricevono da Milano di Vogna il denaro loro dovuto per la vendita di un terreno al Larecchio ubi dicitur ghiazum de Zellet (sASVa, FCa, b. 15. c. 125).
1468. Pietro fu Zanolo Chenobalo di Vogna vende a Comolo figlio di Guidato, abitante alla Montata, quote di un bosco all’alpe Larecchio
(RIZZI, 1983, d. 56).
1399. Guillelmus filius quondam Antonii de Larecchio de Petris Zumellis vende ad Antonio filius quondam Iohanni de Vugna inferioris la ogni
sua ragione su due appezzamenti di terra a Chanestresio, a cui confinano heredum Zanoli de Miloto, aqua Vogne ed altri, e ad Planas, a cui
confinano Johannes Ballin, Johanens Facinus, aqua Vugne heredes Alberti de Venzoto, Orum bruxatum (MOR, 1933, d. 130).
Nel 1641 portano questo cognome 4 fuochi a Ca Verno, 1 a Vogna sotto, 1 a Rabernardo; nel 1690 anche alle Piane e alla Peccia (ASPRv,
Status animarum).
Nello Status animarum del 1641 (ASPRv) compaiono solo a Boccorio, ove costituiscono 5 delle 15 famigile presenti. Nel 1690 i Carmellino
a Boccorio sono 59 su 94 abitanti ed un nucleo con questo cognome compare anche ad Oro in val Vogna. Nel 1814 anche a Ca vescovo e
alle Piane.
Nel 1641 sono documentati a Ca Piacentino, Ca Morca, Oro e Selveglio (ASPRv, Status animarum).
In un documento del 1308 è però già attestato un presbiter Gaspardo filius quondam Zaneti Lantie de Quarona, curatus et beneficialis ecclesie
sancti Michaelis loci de Petris Zumellis (MOR, 1933, d. LXVIII), che acquista un campo canepale con piante di ciliege aput furnum ad Isolello da Pietro di ponte d’Isolello.
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Loggiato con panca e tavolino ribaltabile
in una casa alla Peccia.
dicato in un documento del 1525, era costituito
dal Riale di Otro (RAGOZZA, 1983, p. 63), che già
separava le due comunità. Nel 1509 si separarono
dalla parrocchia di Riva le frazioni della val d’Otro
e di Piè d’Otro (attuale Resiga) per aggregarsi
alla parrocchia di Alagna (ASPRv; sSASVa, FCa,
b. 12). Queste forme di aggregazione furono probabilmente originate dalla diversità di fondazione.
Quando Alagna si separò da Riva la comunità
d’Otro e la frazione Resiga preferirono rimanere
legate a Riva, ad una parte della cui comunità li
accomunava l’origine gressonara, probabilmente
contrapposta all’origine prevalentemente anzaschina del resto d’Alagna. Solo nel 1509 la comunità di Otro, con Piè d’Otro, scelse di separarsi
dalla parrocchia di Riva per aggregarsi alla parrocchia di probabilmente preferendo aderire ad
una parrocchia di impronta walser piuttosto che
rimanere legata ad una comunità che andava velocemente latinizzandosi.
INSEDIAMENTI MULTIETNICI SUL VERSANTE MERIDIONALE
DEL MONTE ROSA
La val Vogna è caratterizzata da diversi centri d’insediamento, in
gran parte coincidenti con altrettanti comprensori d’alpeggio
tardo-medievali. I fondatori dei diversi poli d’insediamento provengono dalle comunità tedesche della valle del Lys (nel territorio dell’alpe Peccia e, forse, in quello dell’alpe Larecchio) e da
quelle valsesiane e multietniche delle frazioni d’oltre Sesia di
Riva (nel territorio dell’alpe del vescovo di Novara in bassa val
Vogna). La fondazione di questi ultimi insediamenti si è realizzata in un periodo precedente il 1325 di almeno un intervallo generazionale; la fondazione degli insediamenti walser della Peccia
nello stesso anno era ancora in corso.
La val Vogna costituiva quindi una comunità multietnica alla
scala di valle e, probabilmente, anche alla scala del singolo insediamento.
Un altro esempio documentato di sovrapposizione di etnie nel
territorio di Pietre Gemelle è costituito proprio da una delle frazioni d’oltre Sesia da cui provenivano i colonizzatori della bassa
val Vogna. Alla Balma nel Seicento coesistevano famiglie di origine walser e famiglie di origine valsesiana. Le prime, pur assoggettate a Riva nel civile, portavano i loro figli a battezzare
nella chiesa parrocchiale d’Alagna18. Gli abitanti di origine tedesca della Balma si attribuivano anche formalmente una pertinenza alagnese, come i “maestri Giovanni e Antonio fratelli
Ferro” che nel 1657 si dichiaravano della “Balma di Alagna”
(VIAZZO e BODO, 1985, p. 157-158 e nota 33, p. 164)19. La cappella
della Balma, documentata dal 1525, quando un contratto è steso
18
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coram capella beate Marie Virginis ac santorum Michaelis Archangeli et Iohanni Baptiste, era significativamente dedicata ai
santi patroni di Riva e di Alagna (sASVa, FCa,b. 15, c. 280).
In Valsesia la presenza di insediamenti multietniche (tanto alla
scala di comunità quanto a quella di villaggio) è estremamente
diffusa (Carcoforo e l’alta val d’Egua, la Val Sermenza tra Rimasco e Rima; FANTONI e FANTONI, 1995; FANTONI, 2003b).
Insediamenti multietnici erano presenti anche nella vicina valle
del Lys. BODO e MUSSO (1994) ritengono che gli insediamenti
walser di Issime e Gaby si realizzarono su un territorio già parzialmente occupato da popolazioni romanze.
Nella valle del Lys, come in Valsesia, in età tardomedievale il popolamento arrivava solo alla media valle; anche qui i coloni walser colonizzarono massivamente le terre alte (Gressoney),
ancora privi di insediamenti permanenti, e si stanziarono negli
spazi residuali non ancora occupati dalle popolazioni locali nella
media valle (Gaby ed Issime).
Nei primi secoli dopo la fondazione i gruppi stanziati nelle diverse comunità continuarono a mantenere scambi di proprietà e
legami di matrimonio. In queste zone interetniche vi erano confinanti che dichiaravano i propri possedimenti in tedesco e altri
in romanzo; da un insediamento a macchie di leopardo nel periodo della colonizzazione si è passati ad una progressiva suddivisione e polarizzazione dei centri etnici (Gaby prevalentemente
francofono e Issime prevalentemente walser).
L’esame del popolamento delle comunità multietniche dimostra
come la mappatura del territorio walser affrontata da diversi autori debba essere eseguita con un’analisi che valuti la consistenza numerica della presenza walser e latina delle singole
comunità e dei singoli villaggi ed affronti anche l’orizzonte temporale oltre a quello spaziale.
Negli atti di battesimo 1582-1612 compaiono cognomi tipicamente valsesiani, cognomi diffusi in val Vogna e cognomi alagnesi (Ferro,
Enzio, Gaspo Rinoldi; VIAZZO e BODo, 1985, nota 53, p. 164). Frequenti sono le relazioni matrimoniali tra abitanti della Balma e di Alagna
(ASPRv).
In un documento del 1623 Zanolus fq Johannis de Ferro si dichiara della Balma loci Alanie (sASVa, FCa, b. 14a, c. 25) e come “alagnese”
era uno dei consorti che sfruttavano l’alpe Arnia (sASVa, FCa, b. 14a, c. 24) e li rappresentava nel pagamento dell’affitto annuo dovuto a
Pietro Chiarini (sASVa, FCa, b. 14a, c. 25).
— 61 —
A U G U S T A
Intercapdine tra il piano basale
ed il piano superiore ligneo
in un edificio rurale in val Vogna.
RINGRAZIAMENTI
L’Autore ringrazia Adriano Negro per le preziose informazioni ricavate dall’analisi dei registri parrocchiali di Riva e tutti gli amici
che lo hanno accompagnato nelle escursioni lungo le strade
della val Vogna, aspettandolo pazientemente mentre non finiva
mai di prendere appunti.
BIBLIOGRAFIA
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gestione delle risorse nelle comunità di frontiera ecologica. Allevamento e cerealicoltura nella montagna valsesiana dal Medio
20
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S. Giulio d’Orta dell’archivio di Stato di Torino.
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Giovanni in Persiceto, pp. 371.
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Valsesia e il suo dialetto. Rist. anast. 1974, Sala
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Enrico Monti, pp. 222.
VIAZZO P.P E BODO M. (1985 a) - “Visibilità” e “invisibilità” nella
presenza walser. Alcune osservazioni storico-demografiche. In
“Aspetti della ricerca sul medioevo nella regione walser”, Atti
della seconda giornata internazionale di studi walser, Fondazione Arch. Enrico Monti, pp. 147-165.
FONTI ARCHIVISTICHE20
ASCR
Archivio Storico del Comune di Riva Valdobbia.
ASDN
Archivio Storico Diocesano di Novara.
ASNo
Archivio di Stato di Novara.
ASPAl
Archivio Storico della Parrocchia di Alagna.
ASPRv Archivio Storico della Parrocchia di Riva Valdobbia.
AVi
Atti di Visita (ASDN).
Briciole Briciole di storia patria, manoscritto inedito dell’abate
Antonio Carestia, s.d. (ma fine Ottocento)(sAVa, FCa).
FCa
Fondo Calderini (sASVa).
FNV
Fondo Notarile Valsesiano (sASVa).
FOSo
Fondo Ospizio Sottile (ASCRv).
sASVa
sezione di Archivio di Stato di Varallo.
SIGLE E ABBREVIAZIONI
b. busta
d. documento
f. fascicolo
p. pagina
s. serie
Nel testo è fornita la collocazione archivistica solo dei documenti inediti. Per i documenti editi (in extenso o in regesto) è fornita solo l’indicazione della prima fonte bibliografica.
— 62 —
A U G U S T A
I tumulti di Issime del 1685
LUIGI BUSSO
ean-Jacques Christillin1 racconta che la piccola
croce lignea, che tuttora si trova al di sopra dell’ingresso della corte della casa appartenuta ai Biolley
nel Letz Duarf, sarebbe stata posta a ricordo dell’omicidio di un membro della nobile famiglia avvenuto per mano di due uomini originari del villaggio di Niel.
All’origine del fatto di sangue ci sarebbe stato un acceso diverbio tra i due Njilera ed il nobile uomo, maturato nell’ambito
dell’esercizio delle sue funzioni di tesoriere.
I due contribuenti avrebbero colpito a morte alla testa la loro
vittima mentre usciva di casa per recarsi ad assistere alla
Messa di mezzanotte, facendo avverare la loro “profezia”, pronunciata durante l’accesa discussione, che il nobile issimese
non avrebbe festeggiato il Natale.
Col favore della notte i due assassini sarebbero riusciti a dileguarsi senza essere notati ed a sfuggire così alle loro responsabilità penali.
Non è dato sapere se tale racconto, privo di riferimenti in ordine ai protagonisti ed al periodo storico, sia veritiero o sia una
lugubre leggenda trascritta dal famoso prete pioniere dell’etnografia.
Tuttavia, un documento reperito nell’Archivio Storico Regionale di Aosta2 fa ritenere che in esso vi sia certamente un fondamento di verità.
Si tratta del fascicolo del procedimento penale a cui venne sottoposto un certo Jean Troc nel 1685.
Il 20 agosto di quell’anno il mistral 3 Gontier arresta il suddetto
Jean Troc e lo conduce nell’abitazione dell’oste e mistral Jean
Cristellin, innanzi al giudice Vallaise. L’arrestato chiede di essere rimesso in libertà ed il giudice, a fronte della promessa di
non fuggire e della garanzia dell’oste del pagamento della
somma di cento pistolles4 gli accorda la liberte dans le logis
(una sorta di arresti domiciliari).
Il giorno seguente il procureur d’office5 Laurent Binel dispone
l’interrogatorio dell’arrestato.
Il chatelain et avocat6 Barthelemy Vallaise7 fa prestare giuramento all’enquis di dire tutta la verità sui fatti che riguardano
lui o altre persone e procede all’interrogatorio.
Jean Troc declina le proprie generalità, dicendo di essere figlio
J
1
2
3
4
5
6
7
8
9
di Jean Troc e di essere sotto la potestà del padre benché
abbia già ventitre anni, di risiedere nel Tiers dessus8 al villaggio chiamato Guier, di esercitare la profession de commerce de
mulletier e laboureur de terre ma di non avere alcun mezzo economico, e di non sapere il motivo per il quale è stato arrestato.
Il giudice vuole interrogare Jean Troc in merito a dei fatti accaduti domenica 8 luglio di quell’anno.
Il giovane Troc racconta che quella domenica aveva assistito
alla messe grande ed alle grida e che sulla piazza si trovava una
folla numerosa, ma che non sapeva in quel momento che cosa
stesse accadendo; solo successivamente aveva appreso dell’intenzione delle guardie di catturare un certo Gabriel di Gabriel Albert del Tiers Dessus e che la folla lo voleva liberare e
condurre all’interno della chiesa9.
Il giudice gli domanda i nomi di coloro che avevano prestato
aiuto a Gabriel Albert ma l’interrogato nega di aver riconosciuto qualcuno, ad eccezione di Caterina, vedova di Cristan
Estevenin e di Antonia di Jean Estevet Favre, riconosciute
dalla voce.
Il giudice replica che c’erano anche degli uomini ad aiutare
l’Albert, il quale si stava comportando in modo violento, e che
il fatto si svolgeva nella stessa piazza, tra la chiesa e l’ingresso
del cimitero, dove l’interrogato si trovava.
Il giovane continua a negare di aver riconosciuto altre persone
ed allora il giudice gli chiede se fosse amico, parente o alleato
di Gabriel Albert.
Troc risponde di non essere né amico né parente, bensì un
suo vicino in montagna, dove Albert gli avrebbe fatto anche
del male con le sue bestie.
A questo punto l’interrogatorio termina ed il giudice conferma
lo stato di arresto per Troc nella casa dell’oste e rimette gli atti
al procureur d’office, il quale conclude invece di inviare l’arrestato nelle prigioni di Arnad per essere nuovamente interrogato e fornire des plus pertinente et veritables responces.
Il mistral ordina pertanto a Troc di comparire nelle prigioni di
Arnad, pena il pagamento di una sanzione pecuniaria.
Il 23 agosto, nelle prigioni del castello di Arnad, il giudice Vallaise fa promettere a Troc di manlevare l’oste Jean Cristellin
nella promessa del pagamento della sua cauzione e gli pone a
Jean-Jacques Christillin, Légendes et Récits recuellis sur le bord du Lys, Imprimerie Marguerettaz, Aosta, 1963, pag. 141.
Archivio Storico Regionale, Fondo Vallaise, categoria 294, mazzo I, doc. n. 91.
I mistrales erano gli ufficiali del Barone di Vallaise nel Mandamento.
Si tratta di una somma di denaro notevole; da quanto riportato da O. Zanolli in Lilllianes, Vol. I, Musumeci, Aosta, 1985, pp. 402 e
414, pare che all’epoca un sindaco percepisse la somma di 1 pistolle d’Italie al giorno, e lo stesso percepisse il mulletier con il mulo.
Era il magistrato inquirente.
Era il magistrato giudicante.
Discendente di un figlio naturale di un membro della nobile famiglia.
Si ricordi che Issime fino alla fine del XVIII secolo era suddiviso in tre zone amministrative: il Tiers de la Montagne, comprendente
i valloni di San Grato e di Burinni, il Tiers Dessous o de la Plaine, comprendente il Grün ed il vallone di Turrisun ed il Tiers Dessus, corrispondente all’attuale Comune di Gaby.
Sino alla sua soppressione avvenuta nel 1850 ad opera delle Leggi Siccardi, il diritto d’asilo prevedeva la sottrazione alla giurisdizione secolare (nel nostro caso del Barone di Vallaise) per coloro che si rifugiavano nei luoghi sacri, almeno per taluni reati; v. C.
Latini, Il privilegio dell’immunità, Milano, Giuffrè Editore, 2002.
— 63 —
A U G U S T A
Il luogo in cui nel 1685 fu ucciso Jacques Biolley.
carico le spese sostenute per il suo interrogatorio ad Issime.
Il giudice, sentito il procureur d’office, decide di interrogare
nuovamente l’enquis.
Dopo aver confermato il contenuto delle sue precedenti dichiarazioni, Troc precisa che la folla si trovava a circa trentadue passi dall’ingresso del cimitero e che, vedendo che le
persone combattevano tra di loro, aveva deciso di avvicinarsi
per capire cosa stesse accadendo. Giunto nei pressi dello
stretto passaggio che conduceva dalla piazza al cimitero aveva
riconosciuto le due donne che aveva nominato in precedenza
e Jean Guairoz.
Troc sostiene, inoltre, di aver riconosciuto Gabriel Albert solamente quando questi veniva condotto in cimitero dalla folla,
assistito da un uomo della Val d’Andorno, Philippe de Geors,
il quale poi faceva entrare l’Albert nella chiesa e, voltandosi
verso la piazza, metteva mano alla pistola che aveva sotto la
casacca e minacciava la folla.
Troc dice che ad accompagnare l’Albert in chiesa erano una
cinquantina di persone, tra uomini e donne, e che dalla mode
e façon de leurs habits parevano tutti di Issime.
Troc aggiunge altri particolari; afferma di aver potuto vedere
bene l’accaduto perché si era posizionato su un masso e che in
tutto vi erano più di trecento persone, di cui una quarantina
erano forestieri.
Il giudice domanda allora se le guardie avessero ordinato alla
folla di aiutarle a catturare Albert.
10
Troc risponde di aver udito un ordine simile, ma di non aver
ottemperato perché non aveva riconosciuto le guardie, e che,
non essendo intervenuti in difesa delle stesse neppure il sindaco ed i consiglieri, lui non aveva osato farlo.
Il giudice allora domanda chi fossero gli issimesi presenti e
Troc nomina il lieutenant Albert e le greffier Gabriel Albert10,
il sindaco Guairoz, i fratelli Jean e Jean Jaques Bastrenta, Jaques Fresc, del Tiers Dessus, i fratelli Jean e Jaques Lintin,
Jaques de Philibert Linty, il mistral Cristellin, Jaques Roncoz
detto Valleilla ed altri.
Troc ripete che nessuno si adoperava per aiutare le guardie
ed allora il giudice gli domanda quale fosse la reputazione di
Gabriel Albert.
Troc risponde che era assez estime homme de bien e che, tuttavia, sia ad Issime che nei luoghi circostanti si diceva che
fosse complice della morte del sieur chatelain Jaques Biolley
e che avesse però ottenuto la grazia per tale crimine, ed inoltre che era accusato di aver abusato della vedova di Pierre
Estevenin, che, oltretutto, era sua cugina e ne era rimasta incinta.
Il giudice chiede se le persone che aiutavano Albert avessero
pistole, coltelli o altre armi; Troc risponde che solo il sindaco
Jean Guairoz aveva una pistola, ma che non l’aveva usata.
Il giudice domanda a Troc se conosce tutti i suoi compaesani
e Troc risponde di conoscere la maggior parte delle persone
del Tiers dessus.
Il giudice allora gli contesta che non può insistere nell’affermare di aver riconosciuto solamente quattro persone nella mischia, durata inoltre più di un quarto d’ora.
Troc insiste: lui era arrivato verso la fine della dispute, spinto
dalla curiosità di sapere chi fossero le persone che combattevano tra di loro e per quale ragione.
Il giudice incalza, gli intima di dire la verità, di indicare i nomi
di coloro che aiutavano Albert e domanda se lui stesso fosse
tra quelli; Troc nega ancora ed allora il giudice conclude l’interrogatorio, confermando la detenzione dell’interrogato.
Interviene il procureur d’office, il quale non crede alle affermazioni di Troc e lo definisce homme malicieux, che nega pure
di conoscere i suoi vicini e le persone con cui parla tutti i giorni
e che, pertanto, è sicuramente uno dei più colpevoli della ribellione; occorre indagare ancora su di lui e non lasciarlo parlare con nessuno.
Il giorno successivo l’interrogatorio riprende. Il giudice intima
a Troc di dire la verità e di indicare i nomi di coloro che hanno
condotto Gabriel Albert in chiesa; Troc ribadisce le sue precedenti risposte e ripete i nomi già indicati, negando di aver
aiutato Albert.
Il 26 agosto si presenta al castello di Arnad un certo Jean
Ronco, incaricato dal padre dell’indagato di richiedere la liberazione del ragazzo ed il dissequestro del mulo dal pelo rosso
che aveva con sé al momento dell’arresto, dietro la promessa
del pagamento di una cauzione, garantita da tutti i suoi beni.
Il giudice respinge l’istanza di liberazione di Jean Troc, accorda il dissequestro del mulo (dietro la promessa del pagamento di una cauzione di sette pistolles in caso di condanna
dell’indagato), e ordina al notaio Jean Ansermey di consegnarlo al richiedente, dopo che questi gli avrà rimborsato le
Potrebbe trattarsi del padre dell’arrestato.
— 64 —
A U G U S T A
(Disegno di Roberta Boscariol)
spese per il mantenimento
della bestia da soma.
Infine il 4 settembre, Jean
Troc viene rimesso in libertà
dal giudice, sentito il parere favorevole del procureur d’office,
e dietro alla promessa di ripresentarsi se richiesto e di
una cauzione di duecento pistolles, garantita dal Notaio Jaques Cervier di Issime.
A causa dell’incompletezza del
fascicolo non conosciamo
l’epilogo del processo a carico
di Jean Troc, così come non
sappiamo altro delle vicende
di cui fu protagonista Gabriel
Albert.
Tuttavia, pur tralasciando in
questa sede il profilo storicogiuridico, pare possibile mettere in evidenza alcuni aspetti
interessanti dei fatti narrati.
Innanzitutto, è apprezzabile il fatto che la tradizione orale abbia
mantenuto, nell’arco dei due secoli intercorrenti tra l’assassinio del nobile Biolley e l’opera di Jean-Jacques Christillin, una
forte attinenza alla realtà dei fatti tramandati.
Infatti, l’unica differenza ravvisabile è la carica della nobile vittima: nel racconto orale trascritto dall’etnografo è un tesoriereesattore, nella realtà il castellano. Ciò si spiega facilmente
considerando che alla fine del XIX secolo tale figura, propria
dell’ordinamento feudale, non esiste più; inoltre la stessa è sostituita nel racconto da quella di tesoriere, che per le sue funzioni, può essere altrettanto invisa alla popolazione dell’epoca
di quanto lo fosse l’altra due secoli prima, avvalorando dunque
la tesi del delitto maturato nell’ambito dell’ufficio esercitato
dalla vittima.
Ulteriore elemento comune ai due racconti è dato dalla provenienza degli omicidi (il villaggio di Niel si trova nel Tiers
Dessus) e dal numero degli stessi (la tradizione orale riferisce
che erano due, il testo seicentesco dice che Gabriel Albert era
complice del delitto, senza specificare il numero degli autori
dello stesso).
Restano privi di conferma e di smentita i particolari riguardanti il momento (la sera della vigilia di Natale) e le modalità
di esecuzione del delitto, che appaiono in ogni caso verosimili.
Inoltre, non è dato sapere né il motivo dell’arresto di Gabriel
Albert, né le connesse ragioni alla base del tentativo della sua
liberazione da parte della folla, e pare inutile, se non per diletto, formulare congetture.
Certo è che in aiuto di entrambi i ragazzi accorrono i notabili
del paese.
Altro aspetto degno invece di nota concerne la ricostruzione
della chiesa. In base all’atto di aggiudicazione dei relativi la-
11
vori, redatto dal Notaio Joseph Alby e datato 21 febbraio
168311, i maîtres Jean Christillie e Jean e Henri Ferro avrebbero dovuto portarli a conclusione entro tre anni da quella
data.
Ritenendo inverosimile l’ultimazione dei lavori con otto mesi
di anticipo, sui trentasei previsti, se ne deduce che al tempo
della vicenda in questione la chiesa fosse utilizzata per le funzioni religiose nonostante la persistenza del cantiere; è d’altra
parte lecito supporre che in quel momento lo stato di avanzamento dei lavori fosse tale da renderla comunque agibile ed
idonea al culto.
Infine, la testimonianza del giovane Troc si rivela interessante
anche sotto un altro punto di vista: egli riferisce che a prestare
aiuto ad Albert vi sono sia uomini che donne, tutti di Issime,
come si poteva notare dalla mode et facon de leurs habits.
Nessun riferimento alla lingua parlata da quelle persone, e pertanto, nessuna distinzione “etnica” in chiave francofoni-germanofoni: erano tutti issimesi, riconoscibili dal loro abbigliamento.
A riprova del fatto che certe letture della storia locale prevalse
all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, e che da allora
hanno contribuito al consolidarsi di categorie mentali che individuano nella lingua un elemento di separazione (passata e
presente) all’interno di quell’unica comunità issimese, non trovano in realtà alcun fondamento storico.
Ma il particolare della testimonianza di Troc, che si rivela decisivo in favore della tesi dell’unicità nei secoli passati della nostra comunità e del suo peculiare plurilinguismo, va ravvisato
nelle mesmes parolles gridate alla folla da Philippe Geors mentre, conducendo il suo amico Albert all’interno della chiesa,
mette mano minacciosamente alla pistola:”o giuro Dio…”!
Eischeme-Issime, II ed. a cura dell’Ass. Augusta, Aosta, Tipografia Valdostana, 1992, pp. 7-14.
— 65 —
A U G U S T A
Le miniere d’oro
alla base del Monte Rosa
EUGENIO SQUINDO
a pirite aurifera è
un
minerale
sparso alle falde
del Monte Rosa e
la sua estrazione
risale ad epoca antica.
Le prime estrazioni aurifere furono praticate con il lavaggio
delle sabbie dei torrenti alla ricerca delle pagliuzze d’oro.
Non è possibile precisare il periodo in cui ebbe inizio l’estrazione mineraria alla base del
Monte Rosa ed i tre paesi interessati, Macugnaga, Alagna e
Gressoney hanno tutti una storia diversa.
L
MACUGNAGA
Le prime miniere ed anche le
più ricche e più sfruttate, sono
quelle esistenti nel territorio di
Macugnaga e precisamente
quelle di Pestarena. Secondo la tradizione pare che i primi a ricavare l’oro dai filoni minerari dell’alta Valle Anzasca siano stati
i romani o addirittura i celti.
Non è possibile rintracciare documenti prima del 1400, quando
il Capitano di Ventura Facino Cane iniziò lo sfruttamento razionale delle miniere con tecnica ed abilità particolare che lo resero ricco ma poco benvoluto. Scacciati i Cane il Duca Gian
Galeazzo Visconti diede la concessione delle miniere ai Borromei che continuarono l’attività sino al 1700. La concessione degli
scavi passò poi all’Ing. Bartolomeo Testoni che coltivò con
grande profitto i diversi filoni e lasciò un buon ricordo.
I filoni erano:
- sotto il Morghen: il Minerone, il Cavone, la Miniera dell’Acquavite, la Valletta;
sopra il Morghen: il Pozzone.
Il Prof. Horace-Bénédict De Saussure nel suo libro “Viaggi intorno al Monte Rosa” descrive molto bene le miniere di Pestarena, ne cita i particolari ed i modi di lavorazione.
Negli ultimi decenni del 1800 le miniere passarono ad una Società
inglese e poi, dall’inizio del 1900, alla Società Ceretti di Villadossola che scavò nuove gallerie e nuovi pozzi. Dal 1938 le miniere
passarono all’Azienda Minerali Metallici Italiani, una società statale che le sfruttò sino al 1954, anno di chiusura definitiva.
ALAGNA
Anche nella Valsesia la ricerca dell’oro risale all’epoca antica,
Castel a metà strada tra Gressoney-Saint-Jean e Trinité.
prima con il lavaggio delle sabbie nel torrente Sesia, alla ricerca
delle pagliuzze aurifere ed in seguito con gli scavi.
I primi documenti rinvenuti trattano delle concessioni di sfruttamento delle miniere rilasciate dallo Stato di Milano a privati e
risalgono al 1592.
La famiglia d’Adda ottenne la concessione dal Cardinale Infante
di Spagna nel 1634 e lavorò nelle miniere di Alagna sino al 1700.
Con l’annessione della Valsesia al Piemonte (1707) si passò alla
gestione diretta (Comando d’Artiglieria) con forti investimenti di
capitali. La gestione fu passiva e nel 1771 il Governo Piemontese
decretò la cessione delle miniere ai privati.
Le miniere aurifere erano tre: Santa Maria di Stofful, Cava Vecchia di Kreas e Bors nel Vallone delle Pisse.
Il 23 settembre 1771 le miniere vennero concesse al Sig. Gaspare De Riva che dopo pochi anni rinunciò ai propri diritti cedendoli a più persone. Dopo vari passaggi il 20 aprile 1791 il Sig.
Panciotti divenne l’unico concessionario delle miniere al quale
dopo si unì il Sig. Giovanni Giuseppe Gianoli di Campertogno
che ebbe l’onore della visita dello scienziato alpinista HoraceBénédict De Saussure durante il suo viaggio intorno al Monte
Rosa avvenuto nel 1789.
Scaduta la trentennale concessione al Panciotti le miniere vennero cedute al Marchese Paolo d’Adda che poi le diede in sub-
— 66 —
A U G U S T A
concessione a privati minatori di Alagna che fecero erigere i mulini di trattamento del minerale in località “Sperone miniere”,
mulini ancora oggi esistenti ma in pessimo stato. L’attività era limitata. Il Governo Piemontese (Azienda Economia dell’Interno)
bandì diverse aste, sempre andate deserte.
Nell’ottobre 1852, vista l’impossibilità di trovare un affittuario,
Governo Piemontese decretò di passare alla vendita con asta
pubblica.
La “Società Anonima per la Coltivazione delle Miniere di Alagna
e Scopello”, costituitasi a Torino con la sottoscrizione di professionisti piemontesi e liguri, si aggiudicò l’asta ma, nel 1871, per
la scarsa attività, la detta Società fallì e venne messa in liquidazione.
Il 4 marzo 1878 le miniere vennero vendute al ginevrino Gerhard Löhmer ed all’alagnese Giuseppe Guglielmina, il primo cedette subito la propria quota a Pietro Ronco e Giovanni Spigna,
seguirono altri passaggi, poca attività sino a quando, nel 1894, il
ginevrino Louis Murisier costituì la “Monte Rosa Gold Mining
Company”.
La nuova Società iniziò i lavori con larghi mezzi, sistemò gli edifici, le ruote idrauliche, le deviazioni d’acqua, riaprì le gallerie
sui filoni nel Vallone delle Pisse, portò a termine la teleferica.
L’anno 1897 fu quello della maggiore attività.
Successivamente, per la scarsità dei giacimenti e la poca oculatezza amministrativa, anche questa Società cessò i lavori.
Il 25 aprile 1905 venne costituita la “New Monte Rosa Gold Mining Company Limited” con sede in Inghilterra. Ripresero i lavori producendo circa un chilogrammo d’oro al giorno.
Inattività durante la guerra 1915-18.
Nel 1919 l’attività venne ripresa ma purtroppo, il 1 ottobre dello
stesso anno, un violentissimo nubifragio si abbatté sull’alta Valsesia con notevoli danni alle miniere e distruzione di parte della
strada che portava agli scavi.
Attività mineraria nulla sino al 1926.
Successivamente venne costituita la “Valsesia Sindacate Limited” con nuovi capitali. Questa riparò i danni provocati dall’alluvione.
L’Avv. Giuseppe Chiara che in quel momento si occupava della
Società, così scrive:
“I risultati degli assaggi hanno dimostrato che un importante capitale è necessario e che occorre fare molto lavoro speculativo
senza alcun rendimento o guadagno per arrivare ad una proficua
riuscita”.
Lenta fu la ripresa dei lavori in miniera e scarsi i finanziamenti
anche perché il governo fascista era ostile alla presenza di una
società con capitale britannico.
Il 27 luglio 1937 il Tribunale di Vercelli autorizzò l’incanto in due
lotti separati delle proprietà minerarie, questi vennero acquistati
da una ditta di rottami dei fratelli Gay di Torino che poi fondarono la “Gold Mining Monte Rosa”.
Scarsa e sporadica l’attività durante la guerra 1940-45.
La Gold Mining dei fratelli Gay fallì nel 1958.
Ora le miniere d’oro di Alagna appartengono al passato senza ritorno.
Le notizie riportate sono tratte dal libro:
“Alagna e le sue miniere. Cinquecento anni di attività mineraria
ai piedi del Monte Rosa”.
Autori vari.
Pubblicato nel 1990 dall’Associazione Turistica Pro Loco di Alagna.
GRESSONEY
Nel 1663 Francesco d’Adda, concessionario delle miniere di Alagna, chiese l’autorizzazione dello scavo dell’oro anche nel territorio di Gressoney onde avere un intero bacino minerario nello
stesso gruppo montuoso. Non furono effettuate ricerche e lavori
oltre lo spartiacque.
Nell’estate del 1785 Nicolas Vincent di Gressoney scoprì un filone aurifero nella zona del Garstellet a poca distanza dalla sommità dei monti che formano la linea divisoria con il Comune di
Alagna, alle pendici dello Stolemberg. Con declaratoria camerale del 3 giugno 1786 ottenne dal Conte Gregorio di Challant e
dallo Stato l’autorizzazione ad intraprendere gli scavi.
Iniziò i lavori ed a mt. 2900 d’altitudine, costruì l’edificio, chiamato Vincent Hutte, utilizzato come alloggio per gli operai e per
la prima frantumazione del minerale. Il rudere di tale costruzione esiste ancora.
Il Vincent rinvenì anche l’esistenza di un filone aurifero nel Vallone di Bors in territorio di Alagna. Anche per questo ottenne la
concessione con declaratorie camerali dell’8 maggio e del 5 giugno 1787. A quota 3113 costruì un edificio per i minatori che a
quel tempo era il più alto d’Europa.
Tutto il minerale, dopo la prima frantumazione, veniva portato a
spalle all’Alpe Endre, a quota 2533, dove erano sistemate le macine ed i molinetti azionati dalla forza motrice fornita dalle acque
dei ghiacciai; anche i ruderi di questi impianti sono ancora visibili.
L’attività delle miniere d’oro all’inizio fu prosperosa, ma, successivamente, soprattutto a causa delle peggiori condizioni climatiche e con gli edifici danneggiati dalle valanghe, negli anni
dal 1791 al 1794, subì un rallentamento. Lo sfruttamento proseguì fino al 1825.
La chiusura delle miniere d’oro fu determinata non tanto dall’esaurimento delle vene quanto dagli eccessivi costi di conduzione: era più conveniente acquistare l’oro in marchi che non
estrarlo.
Dal 1849 al 1860, ai piedi dello Stolemberg, fecero ricerche e lavori di scavo tre minatori di Montescheno (Valle Antrona), Alessandro Prejoni ed i fratelli Andrea ed Isidoro Salati. Da allora il
colle che collega Alagna con l’Alpe Endre porta il nome dei due
fratelli e cioè “Colle Salati”.
TECNICHE ESTRATTIVE
Lo scavo avveniva seguendo i singoli filoni alla ricerca delle zone
più ricche.
Le gallerie venivano provviste di strutture di sostegno in legno,
sul fondo venivano fissate travi in legno per farvi scorrere le carrette.
Lo scavo veniva eseguito con mazze, punte, leve e picconi e solo
dalla metà del XVIII secolo l’uso della polvere da sparo.
Per l’estrazione del metallo dal minerale veniva usato il metodo
dell’amalgama, il minerale veniva macinato e poi trattato con
mercurio.
MANOVALANZA
Gli abitanti dei tre paesi, i walser, hanno prestato poca attività
nelle miniere. Le maestranze venivano spesso reclutate in Germania perché avevano maggiore esperienza nelle tecniche
estrattive.
I minatori venivano chiamato anche “Homini argentari”.
— 67 —
A U G U S T A
Le anime dannate
confinate alla Pisa di Danai
VITTORIO RAIMONDO BALESTRONI
CAMPELLO MONTI - KAMPEL
I animi danai eru nuta quaiet, nuta in grazia dal Signur, e
pusè anver al diaul.
Eru spirit che dopu mört gheivu nuta paas, gireivu e sacrineivu la gent cum malatii, fracas ‘n tal cai e rendevu
nuta quaiet anca al besti.
Par vos as dueva ciamè al previ esorcista c’al ciapeva i
animi e i confinava ‘n tun sit ‘ndouva peivu pü da fastidi a
la gent.
La cerimonia dal cunfinament l’era na prucesiun cum tuta
la gent dal pais al previ c’al dieva praghieri particular.
La gesa, alura, l’eva al Gaby e i vec s’argordu ch’al previ al
sueva ‘me un pörc par scacè i animi che vulevu nuta esar
duminai.
A Campel, al sit ‘nduva i animi eru confinai as ciameva la
“Pisa di Danai” cl’era davanti al Pian Panìn (frazione Pian
Pennino).
Ancora al di dancöi as veg al santè che dal Runk, pröva
Campel, dal sit di preasòr (caser picìni tacai al scöi cum
una filura d’aira frogia par mantenga al lac e al furmac al
frosc) al furnìs, tut an pian, ‘n la Pisa di Danai.
Quai ca dun al cünta che ‘ncu dopo tanti agn as feiva na
prucesiun cuma ailura.
Le anime dannate erano quelle inquiete, non in grazia di
Dio, erano più verso il Diavolo che verso il Signore. Erano
spiriti che non avevano pace dopo morti, erravano, facevano tribolare la gente con malattie, con rumori in casa,
rendevano irrequieti anche gli animali.
In questi casi ci si rivolgeva ai preti esercisti, mandati a
chiamare appositamente. Questi preti “prendevano” queste
anime e le confinavano in un luogo dove non potevano più
infastidire le persone, le famiglie. Il rito di “confinamento”
avveniva mediante una processione cui partecipava tutto il
paese, mentre il prete esorcista recitava specifiche preghiere.
La chiesa anticamente era al Gaby* e, testimonianze orali
tramandatesi, ricordano che il prete sudava copiosamente
durante questo rito, dovendo “lottare” contro queste anime
che si rifiutavano di essere confinate.
A Campello il luogo di confinamento era la Pisa di Danai,
la Cascata dei Dannati, che si trova proprio di fronte alla
frazione Pian Pennino.
Ancora oggi è ben visibile il sentiero che, partendo da Campello e precisamente al Ronco, dalla zona della preasòre
(piccole cantine addossate alla roccia, da una fessura della
quale fuoriesce una corrente di aria fredda), raggiunge la
Pisa di Danai con andamento pianeggiante.
In tempi recenti si faceva ancora una processione propiziatoria.
La moia muma, Tensi Erminia, s’argurdeva vosi robi ca’g
cunteva la sova muma, moia nona, Diaceri Domenica (zia
‘Menga). L’è anca vera che dopu che ‘l Gustu (Augusto
Riolo) l’ultim sacrista, al suneiva ‘l campani dl’Au Maria,
niun girava par al pais. S’l’era propi necessari par un bisögn, s’andeva fò cum la lanterna (la curent l’è rivà a Campel ‘ntal 1936).
Da piciù (Vittorio classe 1919), la moia muma am dieva :
“ghe già sunà l’Au Maria…’n dùa ti vai….va nuta
fora su la piaza ad gesa che ghe già sunà l’Au
Maria…. Che ghe in gir i striji”.
Mia mamma, Tensi Erminia, si ricordava questi fatti,
probabilmente raccontati da sua madre, mia nonna Diaceri Domenica. È altrettanto vero che, dopo che l’Augusto
Riolo, ‘l Gusto l’ultimo sacrestano, suonava i rintocchi dell’Ave Maria, ben pochi uscivano di casa da soli. Si usciva
con la lanterna, quando non si poteva farne a meno, però
non era tanto bello andare in giro per il paese dopo l’Ave
Maria (la luce elettrica venne portata a Campello nel
1936).
Quando ero un ragazzino (Vittorio classe 1919), la
mamma mi diceva: “ghe già sunà l’Au Maria…’n dùa
ti vai….va nuta fora su la piaza ad gesa che ghe già
sunà l’Au Maria…. Che ghe in gir i striji”.
Al Toiu (Vittorio) l’è nasù a Campel ‘nt la Cà Cumùna, traciàa giù par fe su l’albergu, pröva la funtana dal Gaby. Vosa
cà l’era del Cümün che gla deva a la povra gent.
A Campel quasi tuti al cài, ‘l prai e i alp eru di “sciuri” e la
povra gent, par ficè ’na cà o un pra, gheivu da fe cul che ‘l
padron ag cumandeiva: ”dam un litar ad lac tuti i dì”; ”vien
a cà moia a fem la bugàa tuti i mees; ”Mi ai fag al pulizìi
‘ntla gesa ma ti gai d’iutemi”.
Vittorio è nato a Campello ‘n la cà Cumùna, una casa
ora demolita situata nel prato a fianco della fontana del
Gaby. La cà Cumùna era una casa di proprietà del Comune di Campello e veniva data a coloro che non potevano sopportare il costo di un affitto o che non avevano
casa.
A Campello tutte le case, i prati e gli alpeggi erano di proprietà di “signori”, ben pochi avevano la casa e i prati di
— 68 —
A U G U S T A
Pisa di Danai.
proprietà. Allora non si poteva nemmeno contrattare, occorreva sottostare a delle richieste “mi dai un litro di latte
tutti i giorni, mi vieni a fare il bucato in casa una volta al
mese, io mi assumo l’incarico di fare le pulizie della chiesa
e tu mi aiuti, se tu mi fai queste cose io ti do casa e prati in
affitto”.
I “signori” oltre alla proprietà esclusiva avevano anche
delle comproprietà. Ad esempio, in un certo alpeggio avevano il diritto di un certo n° di erbe, cioè il diritto di tenere in quell’alpeggio il n° di vacche pari al numero di erbe
possedute.
* Nel 1698 viene inaugurata la chiesa del Gaby, località
posta alla confluenza dei torrenti Chigno e Strona, di cui
resta oggi, quale unica testimonianza, il perimetro dell’antico campanile edificato nel 1779. Nel 1781, il 19 agosto,
una disastrosa inondazione demolisce la chiesa del Gaby che
vide disperse tutte le sue suppellettili e documenti. Furono ritrovati un crocefisso di avorio - che si riuscì a ricomporre per
intero - e, “miracolosamente” intatta la statua del Cristo. Pochissimi anni dopo, il 21 aprile 1784, i campellesi posero la
prima pietra di una nuova chiesa che venne edificata, in soli
sei anni, in località Staffa, alla cima della mulattiera Gassa.
— 69 —
A U G U S T A
Gressoney-La-Trinité: Osservatorio
Meteorologico di d’Eyola (m 1850 s.l.m.)
WILLY MONTERIN
ella stagione invernale 2007 la temperatura è stata eccezionalmente mite infatti, nei mesi di gennaio, febbraio
e marzo, la media mensile non è scesa sotto zero.
Il regresso dei ghiacciai continua soprattutto al ghiacciaio del Lys.
Nelle tabelle comparative vengono riportati i valori delle temperature e delle precipitazioni, degli anni 20062007, l’altezza massima raggiunta dal manto nevoso alle varie quote e le variazioni frontali dei principali
ghiacciai del Monte Rosa sui versanti di Gressoney e di Alagna Valsesia.
N
TEMPERATURE MEDIE in °C all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m 1850 s.l.m.) - 2006-2007
Gennaio
-4,9
0,3
Maggio
7,6
8,4
Settembre
11,3
Febbraio
-3,4
0,0
Giugno
12,3
11,4
Ottobre
7,6
Marzo
-2,0
0,9
Luglio
15,8
13,4
Novembre
3,0
Aprile
3,9
7,1
Agosto
10,7
12,4
Dicembre
-1,2
MEDIE ANNUALI
5,0
9,3
5,8
0,6
-2,9
5,5
PRECIPITAZIONI in mm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola (m1850 s.l.m.) - 2006-2007
Gennaio
17,5
53,1
Maggio
94,5
252,4
Settembre
80,0
Febbraio
57,4
15,3
Giugno
58,9
184,9
Ottobre
77,2
Marzo
86,3
78,6
Luglio
135,8
47,9
Novembre
10,7
Aprile
92,9
43,0
Agosto
133,1
124,4
Dicembre
23,9
TOTALI ANNUALI
794,3
37,3
19,8
59,5
39,1
955,3
PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. all’Osservatorio Meteorologico di D’Ejola ( m 1850 s.l.m.) - 2005/06 - 2006-07
Ottobre
16
/
Gennaio
36
68
Aprile
35
41
Novembre
3
9
Febbraio
95
21
Maggio
27
46
Dicembre
34
92
Marzo
107
125
Giugno
/
5
TOTALI
353
407
PRECIPITAZIONI NEVOSE in cm. alla Stazione Pluviometrica DEVAL del Lago Gabiet (m 2340 s.l.m.) - 2005/06 - 2006-07
Ottobre
44
/
Gennaio
75
84
Aprile
50
71
Novembre
2
27
Febbraio
130
24
Maggio
69
80
Dicembre
39
129
Marzo
114
194
Giugno
/
48
TOTALI
529
657
Altezza massima del manto nevoso:
D’Ejola (m 1850 s.l.m.) cm 90 il 9 marzo 2006 / cm 70 il 27 marzo 2007
Gabiet (m 2340 s.l.m.) cm 169 il 9 marzo 2006 / cm 198 il 27 marzo 2007
Variazioni annuali delle fronti glaciali dei Ghiacciai del Lys, di Indren e del Piode (valori in metri).
Ghiacciaio del Lys (quota della fronte m 2355)
Ghiacciaio di Indren (quota della fronte m 3089)
Ghiacciaio del Piode (quota della fronte m 2460)
2006
2007
-30,0
-25,0
-5,0
-45,0
-9,0
-9,0
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A U G U S T A
Ghiacciaio del Lys - distacco parziale della grande lingua glaciale dalla parte superiore del ghiacciaio (7 ottobre 2007).
IN MEMORIAM
Mariangiola Bodo * 1951 - † 2008
l 7 gennaio di quest’anno l’associazione Augusta ha appreso con molta tristezza che si
era spenta, nella sua casa di Vercelli, l’amica e
collaboratrice Mariangiola Bodo. Profonda
conoscitrice della cultura walser ed in generale di quella alpina, collaborò nel 1984 con il parroco don
Candido Montini e con la nostra associazione alla stesura,
in occasione del trecentenario della ricostruzione della
chiesa parrocchiale di Issime, del prezioso e ricco volume
‘Eischeme – la sua chiesa, la sua gente’. Mariangiola aveva
già intrapreso degli studi sulle comunità walser, nell’ambito dell’antropologia e della demografia storica, assieme
al professor Pier Paolo Viazzo dell’Università di Torino.
Trascorse molte estati nella casa Linty al villaggio di Tontinel. Se la disabilità fisica le impedì di camminare sulle
montagne di Issime, lo studio e la ricerca le consentì di
conoscere profondamente il territorio e la sua storia. Studi
che hanno chiarito l’intricata vicenda della colonizzazione
walser della media valle del Lys, dando anche nuovo indirizzo alle indagini linguistiche, e non solo.
Ha sostenuto e incoraggiato molte attività dell’associazione, ed ha arricchito la nostra rivista. Di lei l’associazione Augusta ricorderà sempre, con profonda gratitudine
I
e commozione, l’impegno continuo, la presenza costante,
la disponibilità, la competenza, il profondo attaccamento e
rispetto alla nostra cultura, e soprattutto la bontà e la gentilezza. Cogliamo l’occasione per inviare alla mamma e ai
familiari le nostre più sentite condoglianze.
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SCHPÄTÄ
HERBSCHT
Kheis Löb
wekktschi
in der Luft,
khei Murmätupfif chun
fa dä hechänu
aper;
im Wald
öw t Aksch
het üfkhert
z schlään
un z Dorf
schmekcht scho
fa Lertschäna.
Êtz,
im heiligschtä Abä
fam Herbscht,
lêftätschi
Wêêröich
us dä Chemänu.
TARDO
AUTUNNO
Nessuna foglia
si muove
nell’aria
nessun fischio
di marmotta
giunge
dalle alture;
nel bosco
anche l’ascia
ha smesso
di picchiare
e già profuma di resina
il villaggio.
Ora,
nel sacro vespro
dell’autunno,
sale
incenso
dai camini.
Anna Maria Bacher
(estratto dalla raccolta di poesie ‘Wê im ä Tröim’ – Pomatt, Val Formazza 2006)
— 72 —

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