L`asteroide sfrecciò senza un sibilo verso l`emisfero in ombra dell

Transcript

L`asteroide sfrecciò senza un sibilo verso l`emisfero in ombra dell
BIOGENESI
“…qualunque sia il valore dei miei
libri, leggili con la persuasione che in
essi io cerco ancora la verità; non l’ho
trovata ma la cerco ostinatamente.”
Lucio Anneo Seneca
L’asteroide sfrecciò senza un sibilo verso l’emisfero in ombra della Terra. Le prime molecole della
nostra atmosfera lo ferirono come proiettili. Aveva aspettato un’eternità per questo incontro, ma la
sua luna di miele con il nostro sfolgorante pianeta fu effimera; fu come una lacrima, come una vita.
Prese a bruciare e a sgretolarsi in gocce di fuoco. Fu una pennellata di luce, un microscopico
bagliore sulla metà in ombra del volto della gemma del Sistema Solare.
Fu solo un attimo di gloria per quel frammento di roccia, il riscatto da una vita millenaria di
solitario silenzio. Bruciò molto prima di raggiungere il suolo. Pagò con la sua esistenza il tributo
allo splendente pianeta azzurro. Fu solo un attimo ma bastò perché Lev potesse vedere il suo
sacrificio. “Che bello” pensò. Ma non disse nulla. Le cose belle non si dividono con gli altri.
Si trovava con suo fratello ed un amico sul terrazzo della casa di campagna. La scuola sarebbe
ricominciata solo un mese dopo.
“Vedo le luci del condotto fra l’astroporto e il laboratorio di biogenesi” diceva Pg, il fratello. Era
tutto preso mentre stava incollato al suo telescopio, puntato verso la falce del nostro satellite.
“Lo sapete che sono arrivati ad ottenere una rudimentale sintesi proteica1? Hanno giocato solo con
quegli elementi presenti nell’atmosfera della gioventù della Terra.” disse David, il loro amico.
Stava consultando il suo palmare che lo colorava di una tenue luce azzurrognola. Aveva davanti la
mappa dell’insediamento lunare.
“Lo sanno tutti” disse Lev in tono annoiato. Infatti quegli esperimenti sull’origine della vita nel
nostro pianeta erano diventati un caso interplanetario. Le notizie sui progressi degli scienziati
avevano raggiunto tutti gli angoli del Sistema Solare, uscendo di gran lunga fuori dagli elitari
ambienti scientifici.
Perché tanto interesse della gente a questi esperimenti? Quando si trattava dei progressi sulla
conoscenza della struttura della materia o della trasmissione dei campi di forza i media lanciavano,
nell’indifferenza generale, dei succinti resoconti. Ma nel caso degli esperimenti di biogenesi i talkshow impazzavano. Il pubblico pendeva dalle labbra degli esperti. Stanley Miller2 era divenuto una
celebrità e il suo esperimento del lontano 1953 era ormai patrimonio collettivo. La gente voleva
sapere, si documentava.
Ma cosa voleva sapere? Lev notava un certo senso di inquietudine nella collettività, quando si
faceva riferimento a questi esperimenti, e sapeva a cosa era dovuto. Gli esseri umani avevano paura
che si scoprisse che l’umanità è figlia delle aride leggi della chimica. Che la biofisica potesse
spiegare le sue origini, quelle dei suoi sentimenti, dei suoi amori. Che infine, il suo stesso libero
arbitrio non fosse poi tanto libero.
Certo anche Lev era turbato da questi esperimenti. Fingeva però di non provare alcuno stupore
all’idea di essere un sistema fisico esattamente come il pendolo, di cui aveva studiato la legge del
moto in terza media, due anni prima. Fingeva di non essere toccato da questa idea. Ma non era così.
Non finiva di chiedersi cosa siamo in realtà noi esseri umani, e quali principi debbono veramente
guidare le nostre esistenze.
1
La sintesi proteica è quel processo in cui, all’interno delle cellule, vengono sintetizzate le proteine a partire dalle
informazioni contenute nel dna.
2
Miller ottenne amminoacidi ed altre molecole organiche facendo interagire metano, ammoniaca, acqua, idrogeno,
vapore acqueo e corrente elettrica, tutti fattori presenti sulla superficie della Terra più di quattro miliardi di anni fa.
1
Ma si era in estate, il vento accarezzava i capelli e la musica che veniva dalla festa, in piazza,
suggeriva riflessioni meno impegnative.
“Ecco le miniere.” disse Pg mentre invitava David al cannocchiale. I due erano tutti presi sebbene
avessero perlustrato il suolo lunare già numerose sere.
Lev afferrò il binocolo e ritornò alle sue osservazioni. Il suo soggetto era un po’ diverso da quello
dei suoi due compagni. Cercava un volto tra la folla in piazza. Trovò suo padre che sfoggiava il suo
sorriso più accattivante mentre sua madre lo stringeva ad un braccio cercando di portarselo verso la
pista da ballo. Vide dei bambini che giocavano sotto la struttura del palco. Trovò un crocchio di
amici che discutevano sorseggiando una bevanda.
Tante luci. Facce allegre. Ma lei non c’era. L’aveva persa. No, eccola, la trova: sta ballando con un
ragazzo. Lev lo conosceva, era solo un bullo. “Possibile che balli con quello!” disse piano fra i
denti. Lei aveva un vestito chiaro, senza maniche, che avvolgeva il suo busto sottile per aprirsi poi,
sotto la vita, in una ampia, ondeggiante corolla.
Ma il tremolio del binocolo disturbava l’osservazione di Lev, rendeva confuse le immagini, mentre
lui voleva i particolari; voleva memorizzarli per creare una copia esatta di lei nella sua mente, per
averla sempre con sé, per guardarla e riguardarla a suo piacimento. Allora si accostò al parapetto
del terrazzo, vi aprì sopra una mano e posò su di essa il binocolo. Riprese l’osservazione. Ora
andava meglio. Il ballo era finito e la ritrovò che parlava con delle amiche. Riusciva a vedere la sua
ampia fronte, la riga da una parte, i capelli trattenuti dalle orecchie, i suoi grandi occhi scuri. “Lei
parla, ride, scherza e io la guardo. Ha solo un vestito leggerissimo e pare non abbia freddo. Io
invece sono infagottato e nonostante questo ho i brividi. Forse sono malato” pensava Lev.
“Credi che papà ci manderà sulla colonia lunare per la gita scolastica del prossimo anno?” chiese Pg
a suo fratello, mentre consultava il palmare di David. Lev era distratto, tutto preso col suo binocolo,
emozionato come quando si appostava, al parco naturalistico, per osservare gli uccelli.
Mentre era incollato agli oculari gli venne da pensare che la biogenesi avrebbe anche potuto
dimostrare che quella ragazza era un sistema fisico governato da leggi matematiche, ma per quanto
lo riguardava lei andava benissimo anche così. Inoltre si era in estate, la scuola era lontana, il
sorriso dei suoi genitori era più smagliante che mai, il mondo era un posto confortevole dove vivere
e Lev aveva tutta la libertà di sognare. Dunque non era il caso di affaticarsi in riflessioni troppo
serie.
*
Lev uscì sul prato davanti l’ingresso dell’aula universitaria e si trovò all’improvviso spossato,
distrutto nel fisico e nella mente. Era nauseato da quello che si diceva nell’edificio alle sue spalle.
D’un tratto si rese conto che, nella Facoltà di Filosofia, si facevano solo chiacchiere capziose e
inconcludenti, laddove lui avrebbe avuto bisogno immediato di risposte concrete. Comprese
chiaramente, in quel momento, che era andato a bussare alla porta sbagliata. Infatti capì che i
maestri del passato, che lui era lì per interrogare, non gli avevano lasciato verità già definite, ma
quesiti da risolvere. E forse avrebbero trovato le soluzioni se non avessero cercato anche quelle
superflue. Chi era quel sapiente che si chiedeva “Abbiamo tanto tempo a disposizione? Abbiamo
già imparato a vivere e a morire?” Certo, pensava, lui era tra quelli che non lo avevano ancora
imparato.
Si guardò attorno. Il sole pomeridiano di quella giornata primaverile segnava vivide macchie tra
gruppetti scomposti di studenti, evidenziava morbidi riflessi di chiome folte e brillava nella purezza
di iridi intatte. Quelle immagini di una gioventù serena sembravano dimostrare che una vita felice
era ancora possibile. Ma allora perché per Lev l’esistenza era diventata, da un po’ di tempo a questa
parte, del tutto intollerabile? Era assurdo, ma lo aveva colto un senso tragico di smarrimento e di
insoddisfazione. Il fatto era, pensava, che lui non sapeva affatto per quale motivo vivesse. Si
ritrovava d’un tratto animale tra gli animali, perduto in un angolo remoto di universo, destinato a
vivere da condannato a morte un’esistenza senza significato.
2
Provò a fare un po’ di ordine nella sua testa. Pensò che per imparare a vivere avrebbe dovuto sapere
perché vivere, a quale scopo. E lui era ben lontano dal saperlo. E allora che fare? Non poteva
neanche continuare a vivere nell’assenza di uno scopo perché, a differenza di tutte le persone che
vedeva intorno a sé, lui aveva in odio la vita. La vita cioè gli era intollerabile.
Lev era reso esausto da queste considerazioni, inoltre trovava insopportabile l’aria primaverile di
quella giornata, troppo in contrasto con il suo stato d’animo. La stagione invitava ad un godimento
pieno e sensuale dell’esistenza, proprio mentre Lev provava un forte senso di anedonia, una
incapacità assoluta di provare piacere. Dunque il ragazzo rientrò nella fresca aula universitaria e si
mise seduto. Era praticamente solo. Le lezioni erano finite per quel giorno e niente avrebbe
costretto uno studente a indugiare un istante di più in un luogo di studio.
Lev mise sul tavolo le sue mani e si ritrovò davanti i fogli che stringeva. Erano gli appunti che
aveva preso con scrupolo quella giornata. Li trovò semplicemente nauseanti. Certo non aveva idea
di quale fosse il significato della vita ma aveva, miracolosamente, una certezza: sarebbe scappato a
gambe levate dalla facoltà di Filosofia.
Sollevato da questa decisione si mise a guardarsi intorno. Notò che di tanto in tanto, nel locale
deserto, entravano degli uccelli. Vide che un passero stava passeggiando tranquillamente sul
pavimento, raccogliendo le briciole di qualche spuntino. Quell’uccello aveva imparato che gli
studenti sono degli sporcaccioni ed hanno deprecabili abitudini alimentari, cioè mangiano sempre.
Dunque Lev pensò che quella creatura approfittasse regolarmente dell’assenza degli umani per
entrare e raccogliere il suo pasto. Questa era una notevole prova di adattamento per un erede dei
dinosauri, pensò il ragazzo. Molto tempo dopo egli ricordò quella circostanza, ricordò il piacere che
provò, in quel periodo di dolore, nell’osservare lo zampettare del passero fra i banchi dell’aula
deserta. In quel preciso momento la soluzione ai suoi problemi aveva sfiorato il suo cervello. Ma
era solo un’ombra e gli sfuggì tra le mani.
Lev uscì dall’edificio e cominciò a camminare. Camminò per mesi, da solo, con il suo rompicapo,
interrogandosi, dal mattino alla sera. Si ripeteva “Debbo decidere cosa fare della mia vita. Bene, ma
allora devo prima sapere cosa è la mia vita, da dove proviene e perché. Ammesso che per ottenere
l’umanità basti mescolare una bella manciata di selezione naturale, un pizzico di coincidenze,
fortuna quanto basta e cuocere a fuoco lento per qualche milione di anni, mi resta un problema
grosso: l’universo. L’universo esiste da sempre? Ma che vuol dire 'da sempre'? E se non esiste da
sempre, cosa c’era prima? E, in ogni caso, perché c’è l’universo e non c’è il nulla? Ammettiamo che
l’universo sia stato creato da Dio. Allora cosa è mai Dio? Da quanto tempo esiste Dio? Cosa c’era
prima di Dio? Cosa pensava Dio prima di generare l’universo? Perché Dio ha creato l’universo?
Perché…” e continuava con la serie infinita delle domande senza rispondere alle quali pensava che
non sarebbe potuto vivere. Si trovò a ripetere con Qohèlet “ho osservato tutte le opere che si fanno
sotto il sole ed ho concluso che tutto è vanità ed occupazione senza senso”.
Una sera si diresse alla stazione ferroviaria. Nel pomeriggio aveva piovuto e l’aria era
piacevolmente fresca. A occidente il cielo era infiammato e, sul suo rosso-arancio, si stagliavano
nubi blu cupo. Andando verso oriente il fuoco si spegneva gradualmente e gli spiragli fra le nuvole
apparivano celesti e poi blu, laddove le nubi erano velate di rosa verso il tramonto ed erano di
colore blu notte dalla parte opposta. Nuvole leggere e sfilacciate correvano veloci su uno sfondo
immobile di imponenti cumuli vaporosi. Quando arrivò alla stazione il tramonto aveva smesso di
dare spettacolo; gli sprazzi di cielo erano ormai ovunque bui e i nembi avevano già il colore della
notte.
Lev prese un quotidiano da un cestino e si sedette su una panchina del terzo binario. I grilli
riempivano il silenzio tra il turbinio di un treno e l’altro. Il ragazzo osservava gli innumerevoli volti
dei passeggeri incorniciati nei finestrini come altrettanti quadri. C’era chi leggeva, chi discuteva, chi
torturava i tasti del suo palmare, chi si affacciava sul mondo esterno. Tutta questa gente non si
martoriava con il ricatto che Lev faceva a sé stesso, cioè “o scopri qual è il significato della tua
esistenza o muori”. Questa gente viveva pur non conoscendo la verità sul perché della nostra
3
esistenza. Viveva perché vivere le risultava piacevole. Per Lev purtroppo le cose non stavano in
questi termini. E così quando notò che alcuni convogli passavano per la stazione senza fermarsi,
sfrecciando a gran velocità, pensò che sarebbe stato terribilmente facile gettarsi davanti ad uno di
essi. Il suo corpo sarebbe stato smembrato, in un secondo, dagli spigoli vivi delle placche
magnetiche dei binari. Un salto, l’impatto violento con la motrice, durissima, senza nessuna
tenerezza. Cosa avrebbe sentito di questo impatto? Quasi nulla, pensava, forse un improvviso,
istantaneo, senso di compressione; ma poi la coscienza sarebbe scomparsa subito, per sempre. E
allora per Lev non avrebbe avuto più senso la parola “dopo”, mentre l’avrebbe avuta per il suo
corpo. Lev e il suo corpo sarebbero stati allora distinti. Lev, che risiedeva nel cervello vivo, era una
coscienza, un insieme di ricordi, un modo di sentire il mondo che non sarebbe potuto sopravvivere
altro che nella memoria di quanti lo avevano conosciuto. La sua casa sarebbe stata rotta e non
sarebbe più potuta essere riparata. Lev non sarebbe esistito più. Il suo corpo sarebbe esistito per
poco ancora, ma esso non contava nulla.
*
Quando Lev intraprese i suoi studi di Fisica, nei vari laboratori del Sistema Solare fervevano gli
esperimenti sul viaggio temporale. Infatti la teoria aveva dimostrato la possibilità di andare indietro
nel tempo. Si era d’accordo però che fosse impossibile fare il percorso inverso. Cioè sarebbe stato
impossibile andare nel futuro e sarebbe stato altrettanto impossibile tornare al presente per un
equipaggio spedito nel passato.
Lev ebbe fortuna perché poté lavorare nei laboratori all’avanguardia nel campo della crononautica,
con le migliori menti di quegli anni di fermento. Oltre la fortuna, egli ci mise l’impegno. Infatti, una
volta deciso che sarebbe vissuto fin tanto che avesse potuto lavorare alla realizzazione della
crononave, visse solo di lavoro, per vent’anni.
Egli non era realmente un genio, ma arrivò alla direzione dei lavori per il vascello con la tenacia e
la testardaggine. Realizzò, in pochi anni, quello che tutti pensavano sarebbe stato possibile solo in
un cinquantennio di ricerche. La sua vita fu messa al servizio di un sogno.
Egli rinunciò a tutto ciò che non avesse a che fare con i suoi studi. Eliminò dalla sua vita tutto il
superfluo e nel superfluo mise i piaceri, anche quelli più innocenti, e le relazioni umane non
indispensabili. Era convinto infatti che nei rapporti umani si sciupasse troppo tempo e non pensava
che da essi si potesse ricavare qualche cosa di utile per i suoi scopi. Ridusse al minimo gli scambi
verbali con i suoi simili e quasi dimenticò il suono della sua voce. Secondo lui la narrativa era
pericolosa poiché lo distoglieva dai suoi scopi. La poesia era diventata per lui una malattia dello
spirito e così anche la pittura ed ogni altra forma d’arte. Nessuno lo avrebbe potuto costringere ad
assistere ad una proiezione ologrammica, si sarebbe ribellato con tutte le sue forze.
Fu così che eliminò dal suo alloggio ogni libro che non fosse attinente ai suoi studi. Fece carta
straccia dei disegni a cui in passato si era dedicato con tanta passione ed uccise per sempre quella
parte di sé che amava catturare la magia dei volti sulla carta. Uccise quel Lev e ne distrusse il corpo.
Con gli anni limò i suoi gesti quotidiani, per eliminare tutto ciò che fosse di troppo. Per lui il cibo
doveva essere non condito, perché sarebbe stato uno spreco impiegare qualche secondo ogni giorno
a versare il condimento. Leggere il giornale o vedere i notiziari era un lusso inutile, poiché il
novantanove per cento delle nozioni che si sarebbero così apprese non avevano nulla a che fare con
la crononautica. Ma soprattutto, per ottimizzare il tempo, si doveva imparare a pensare, per riempire
i tempi morti non eliminabili. Così Lev cominciò a riservarsi dei problemi, relativi al lavoro
sperimentale, per i minuti che passava sotto la doccia o per quelli che doveva trascorrere in
aeromobile. Il suo cervello era sempre attivo, puntava sempre allo stesso fine: rendere una realtà la
crononautica. Viveva in un continuo dialogo interiore con sé stesso, in un gioco dialettico il cui
unico scopo era quello di attaccare e demolire tutti gli ostacoli che si frapponevano fra lui e la
realizzazione del vascello crononautico.
4
Egli elaborò un insieme di semplici regole alle quali attenersi scrupolosamente, ostinatamente, con
tutte le sue forze. Ecco cosa era scritto in un quadretto appeso nel suo studio, sopra il suo tavolo da
lavoro:
1)La tua unica missione è realizzare la crononave. Datti tutto ad essa ed abbandona il resto.
2)Legge del massimo impegno: cerca la fatica in quanto cosa sana e nobile.
3)Legge della massima difficoltà: fra due strade scegli sempre la più difficile.
4)Legge dell’autarchia: quando senti l’avvilimento chiedi aiuto solo a te, ti devi bastare da solo,
pena la rovina totale.
5)Legge della solitudine: vivi lontano da tutti.
6)Disprezza i bisogni materiali e cerca di liberartene. Si moderato in ogni cosa: nelle parole, nel
cibo, nei bisogni.
7)Se cadi non vergognartene ma rialzati e riprendi da dove hai lasciato.
8)Ricordati sempre che la vera gioia non risiede nelle comodità e nei piaceri ma nella
consapevolezza di non essersi risparmiato neanche un po’ nella realizzazione della crononave.
9)Diffida sempre di qualunque considerazione volta ad incrinare la necessaria fermezza di cui devi
dare prova.
10)Agisci come se domani tu debba abbandonare la vita.
I quesiti che avevano tormentato Lev in passato erano per lui tutt’altro che dimenticati, la loro
soluzione era solo rinviata. E nel tentativo di realizzare una macchina che andasse verso il passato
ne aveva trovata una per inventare il futuro: si trattava della sua attività sperimentale. Viveva
nell’attesa del risultato dell’ultimo esperimento, raccoglieva i dati, ideava il nuovo esperimento e
così via, senza soluzione di continuità, senza prendere fiato, mai.
Andava a letto con in mente un problema, crollava letteralmente dal sonno, si svegliava con i vestiti
in dosso e andava a capo chino verso il laboratorio o dentro il suo studio. Amava poi strappare delle
notti al sonno, lavorare quando le altre persone dormivano, sottrarre delle ore alla morte. Studiava
fitto fitto nel cuore della notte ma poi non poteva rinunciare, e questa era la sua unica debolezza, ad
aspettare l’alba con una tazza di caffè, ad attendere quell’attimo indefinibile in cui si passa dalla
notte al giorno, quel momento in cui sentiamo che un’altra notte è passata. E’ un momento fugace,
quasi non lo si coglie. Mentre si cercano ad est i festoni rosa del giorno, le ultime stelle ad ovest
sono scomparse e il blu della notte ha subito una sfuggente sfumatura verso il blu del mattino.
E fu in questi rari momenti di sosta che cominciò a farsi largo nella sua mente la soluzione a tutte le
domande degli esseri umani, e in primo luogo a tutte le sue domande. L’idea era di viaggiare nel
tempo per poter viaggiare nello spazio, oltre i limiti dell’universo, per scovare Dio, raggiungerlo
nell’alto della sua olimpica dimora e metterlo alle strette con una raffica di quesiti.
Le cose erano molto semplici e stavano in questi termini: se si fosse potuto andare nel passato per
quindici miliardi di anni, ci si sarebbe ritrovati in un universo compresso in uno spazio talmente
ridotto che, con il più potente propulsore disponibile, si sarebbe potuto attraversarlo completamente
in un tempo ragionevole, superando i limiti dello spazio occupato dalla materia. Si sarebbe così
potuto vedere cosa ci fosse oltre il cosmo.
Se si fosse mandato un equipaggio, questo avrebbe potuto tenere un diario del viaggio, diario che
sarebbe stato affidato poi ad un modulo spaziale; questo avrebbe avuto il compito di trasportarlo in
un luogo che fosse stato, miliardi di anni dopo, accessibile agli uomini contemporanei di Lev.
Ma i problemi erano numerosi. Oltre a quelli di natura tecnica, legati alla realizzazione di un
vascello che fosse stato in grado di spostarsi in un giovane universo affollato da materia stipata
all’inverosimile, alla realizzazione di un propulsore sufficientemente veloce, alla realizzazione di
una unità di sopravvivenza che avesse permesso ad un equipaggio di non morire stritolato dalla
accelerazione del motore stesso, vi erano dei problemi di carattere teorico. In particolare Lev si
5
chiedeva se il passato raggiungibile con la crononave fosse stato sulla stessa linea del suo presente
e, se sì, Lev si domandava se andare nel passato avrebbe comportato modificare il presente.
E’ chiaro che se realmente interferire col passato avesse voluto dire alterare il tempo presente, allora
sarebbe stato assolutamente inutile sforzarsi tanto per rendere realtà la crononautica. Infatti sarebbe
stato sufficiente schiacciare un lombrico del Paleozoico per rendere imprevedibile il corso degli
eventi, mettendo a repentaglio l’esistenza, nel presente, di ogni cosa e di ogni creatura
dell’universo.
Ma Lev era convinto che nella storia del cosmo dei vascelli umani fossero già sbucati dal futuro. In
pratica lui pensava che, qualunque intromissione gli uomini avessero fatto nel passato, il presente
non sarebbe cambiato affatto perché esso era così com’era proprio in quanto quei viaggi indietro
nel tempo erano stati compiuti. Anzi lui era sicuro che i suoi discendenti avrebbero istituito un
organo per lo studio del passato con inviati crononautici. Lev sapeva che anche nel suo tempo, tra
gli uomini che incrociava per la strada, dovevano esserci dei crononauti. La realtà che nessuno se ne
potesse accorgere e che nessuno se ne fosse mai avveduto fino ad allora si spiegava col fatto,
pensava Lev, che gli umani erano interessati a conoscere lo sviluppo della storia senza il contributo
delle conoscenze venute da un altro tempo.
Altro problema era quello di trovare un equipaggio che fosse disposto a partecipare ad una missione
senza ritorno. Infatti non ci sarebbe stato modo, per un essere umano, di vivere nel cosmo di
quindici miliardi di anni fa. Nessun pianeta avrebbe potuto ospitarlo e l’autonomia di energia, di
aria e di viveri del modulo spaziale si sarebbe prima o poi esaurita. Si trattava cioè di una missione
suicida.
C’erano poi una serie di movimenti contrari alla crononautica. Si trattava di schiere ecologiste da un
lato e di ambienti religiosi dall’altro. Ma di queste voci Lev aveva, isolato com’era, una percezione
lontana.
Una notte, in attesa del Sole, Lev volle fare il punto della situazione, visto che la realizzazione della
crononave sembrava ad una svolta. Scrisse su un foglio gli ostacoli che si opponevano al viaggio
verso Dio. Scrisse:
1)necessario scafo resistente alle sollecitazioni del giovane universo;
2)necessario propulsore abbastanza veloce;
3)necessario modulo di sopravvivenza per permettere all’equipaggio di sopportare l’accelerazione;
4)necessario scoprire se il passato sarebbe sulla stessa linea temporale del presente; in caso
affermativo scoprire se un’interferenza cambierebbe il presente;
5)trovare un equipaggio disposto al suicidio.
Il problema rappresentato dal punto uno non sembrava che sarebbe dovuto essere irrisolvibile. Già
da tempo infatti si costruivano sonde in grado di penetrare negli strati superficiali del Sole, per
studiare la dinamica interna della stella.
Per quel che riguardava poi il punto due, si dava il caso che un giovane ingegnere, di nome D.
Smith, stesse lavorando, negli stabilimenti della stazione Pax, a delle vele solari le quali avrebbero
permesso ad un modulo di raggiungere un buon ottanta per cento della velocità della luce. In pratica
le vele offrivano resistenza alle emissioni elettromagnetiche del Sole, e dunque di qualunque altra
stella, le quali esercitavano così una pressione su di esse. Lev pensava che questo sistema di
propulsione, affiancato al classico motore a reazione nucleare, sarebbe stato perfetto per il suo
vascello. Il punto due sembrava rappresentare dunque un ostacolo superabile.
6
Il punto tre era di facile risoluzione: bastava usare dei grossi generatori di gravitoni 3, simili a quelli
usati per il trasporto dei convogli e per la produzione di gravità nello spazio. Generando infatti un
campo gravitazionale di segno opposto all’accelerazione del modulo spaziale, si sarebbe potuto
ridurre la stessa accelerazione, rendendola sopportabile per un essere umano. Si trattava solo di
mettere in pratica la teoria. Lev sapeva che, non appena fosse stato approvato il suo viaggio, i
laboratori di tutto il Sistema Solare impegnati in questo settore avrebbero fatto a gara per produrre,
in breve tempo, una camera di decelerazione.
Il punto quattro costituiva l’ostacolo più grande, quello che avrebbe potuto mandare all’aria tutto. A
causa sua Lev fece la sua parte in fatto di sudori freddi. Aveva, a causa sua, il terrore di dover
rinunciare al suo sogno, il terrore di ritrovarsi senza missione, a fare di nuovo i conti con i suoi
mille perché.
Una notte Lev si svegliò improvvisamente in preda al panico, aveva fatto un incubo. Aveva sognato
di camminare su delle lastre disposte in una fila infinita, immerso in una atmosfera sospesa.
Procedeva dietro un minuscolo dinosauro che zampettava, voltandosi di tanto in tanto. Si girava, ma
non per guardarlo; sembrava guardasse qualche cosa dietro di lui, lontano lungo il lastricato. Intanto
Lev cominciava ad avere l’impressione di una minaccia incombente, dietro le sue spalle. Provava il
desiderio di correre ma non poteva, era pesante, quasi immobilizzato. Per quanti sforzi facesse per
scappare, non riusciva a smuovere le sue gambe di piombo. E intanto un turbinio si avvicinava, una
vibrazione si trasmetteva al suo petto, attraverso le gambe.
L’uomo si guardava attorno e vedeva gente serena e spensierata. Quelle persone erano lì ma non si
accorgevano di lui, non notavano il suo affanno, l’orrore dipinto sul suo volto. Provava a
chiamarle, ma la sua bocca era afona. Non una vibrazione usciva da essa, anche respirare era
impossibile. Rimase muto con un sospiro sospeso.
Poi un movimento d’aria lo investì e Lev capì improvvisamente, con sgomento, ogni cosa: era su un
lastricato magnetico e dietro di lui c’era un treno in arrivo.
Svegliatosi, e fatta mente locale, decise che avrebbe vissuto come se il problema del punto quattro
non lo avesse riguardato. Doveva andare avanti con il suo lavoro, anche se era concreto il pericolo
che sarebbe stata tutta fatica sprecata.
Per quello che riguardava la ricerca di un equipaggio disposto al suicidio, Lev aveva le idee
abbastanza chiare. D’altra parte fare qualche cosa di eroico sarebbe stato il modo migliore per
morire.
*
Passarono alcuni anni ed accadde un vero miracolo. Accadde che fu trovato, da un gruppo di
rinomati fisici teorici, che non solo il passato raggiunto da una crononave sarebbe stato sulla
medesima linea temporale del presente ma che, se l’umanità avesse deciso di fare un viaggio nel
passato, allora voleva dire che nel passato erano giunti degli uomini dal futuro. Fu provato,
insomma, che le cose stavano come Lev aveva sperato ardentemente. Infatti fu dimostrato che
ammettere che le cose non fossero così, voleva dire entrare in contrasto con, niente di meno, che la
ben collaudata meccanica relativistica.
Lev tirò un sospiro di sollievo. Ora sembrava davvero possibile che il sogno fosse realizzabile.
Fu deciso di mettere in atto un esperimento, per dare la prova empirica delle verità svelate dalla
teoria. Si decise di costruire un modulo automatico, da spedire nel passato. Il modulo sarebbe
3
I gravitoni sono gli ipotetici mediatori della interazione gravitazionale. Un generatore di gravitoni sarebbe dunque un
generatore di un campo gravitazionale.
7
dovuto allunare in un ben preciso posto sulla superficie del satellite terrestre, aspettando di essere
recuperato dagli uomini che lo avevano costruito, nel ventitreesimo secolo.
Durante la realizzazione della sonda Lev fu informato, in via del tutto riservata, di uno straordinario
ritrovamento, avvenuto novant’anni prima, su Callisto, una luna di Giove, durante lo scavo di una
miniera, e tenuto nascosto dai servizi segreti. Si trattava di una sonda in tutto e per tutto simile a
quella che si stava realizzando nel suo laboratorio.
La cosa sembrava sconcertante. Chi mai avrebbe potuto costruire un modulo crononautico,
settant’anni prima che la crononautica nascesse come scienza? Come poteva tale modulo essere
uguale a quello che si costruiva ora, nel più avanzato laboratorio del Sistema Solare?
Per Lev la risposta era abbastanza semplice. Era chiaro che il modulo che giaceva smembrato nella
sua officina sarebbe stato, in un futuro, completato da qualcuno e lanciato verso una destinazione
temporale anteriore a novant’anni prima di allora, e verso la destinazione fisica in cui fu poi
effettivamente trovato.
In definitiva l’esito dell’esperimento fu considerato positivo, senza nemmeno dover finire di
costruire la sonda. Inoltre l’opinione pubblica fu affascinata da questo campo di ricerca, fu
letteralmente rapita dalle prospettive che generava la crononautica. Così i finanziamenti piovvero
ancora più abbondanti e il sogno di Lev di andare incontro a Dio, per ora tenuto segreto, sembrava
sempre più vicino.
Anche le opposizioni ambientaliste e religiose contro la crononautica persero ben presto la loro
forza e non costituirono più un problema.
Per quanto riguardava la sonda che si stava costruendo, essa fu riposta incompleta in un enorme
magazzino. Dopo duemila anni di intricate vicissitudini, fu infine spedita verso il lontano 500 D.C.,
in quel punto del suolo di Callisto in cui fu ritrovata, più di millesettecento anni dopo.
*
Lev stava raggiungendo la stazione Pax in orbita intorno al pianeta Marte. Poteva constatare dal suo
oblò i miracoli compiuti da un secolo di colonizzazione. Ocra denso si alternava a verde intenso e a
blu profondo. Grigi apparivano i tentacolari insediamenti umani. Le immagini dell’arido pianeta
rosso erano ormai ricordi sbiaditi di generazioni sepolte.
L’uomo rimase, durante la noiosa operazione di attracco della navicella, rapito da quella immagine
di vita novella, stupito dall’enorme portata delle azioni umane, dal loro straordinario potere di
creare un mondo. Egli non pensava più al suo lavoro, al motivo per cui era lì; non era padrone, in
questa circostanza, dei suoi pensieri e la sua mente rimaneva sospesa su idee vaghe, su emozioni
nuove.
Ma presto richiamò all’ordine il suo cervello. Non lo riportò però al suo consueto oggetto, perché si
soffermò a riflettere su un certo disagio provato davanti alle distese di nuvole dell’atmosfera di
Marte. Quell’atmosfera era figlia del lavoro dell’uomo, pensò, ed era una cosa grandiosa. Ma
quanto cara era costata? Quante specie animali autoctone avevano pagato il prezzo
dell’addolcimento del clima del pianeta e della estrazione dell’acqua dal sottosuolo?
Lev stava pensando al processo con il quale era stato trasformato il pianeta. Si era operato portando
su Marte specie fotosintetiche, alghe e vegetali, per liberare grandi quantità di ossigeno 4. Tutto
questo era stato iniziato senza aver effettuato un completo esame di tutte le forme di vita presenti
nel pianeta. Ne conseguì una rapida estinzione del novanta percento delle creature marziane.
Quando ci si accorse della straordinaria ricchezza della fauna presente sul pianeta e della gravità
della catastrofe ambientale che si stava producendo era troppo tardi: le specie erbose erano già
sfuggite al controllo dei coloni e lo stesso era accaduto alle specie planctoniche, introdotte nei
bacini artificiali.
Lev allora ricordò il senso di desolazione provato, da piccolo, davanti al corpo imbalsamato di un
gasglobulo, conservato al museo delle scienze della sua città. Si trattava di un esemplare di una
4
L’atmosfera di Marte è costituita per il 95% da anidride carbonica con un po’ di azoto, vapore acqueo e ossigeno.
8
specie colpita dalla grande estinzione. Questa creatura aveva vissuto per millenni nei mari
sotterranei di Marte, sospesa ad una certa profondità da una sacca di gas, prodotto dal suo stesso
metabolismo. Era un essere cieco con una raggiera di sfiatatoi per governare il moto nelle
profondità degli abissi.
Di colore bianco panna, con una fitta peluria diafana e tentacoli trasparenti, quel artefatto
tassidermico era una delle ultime, misere testimonianze, di un mondo perduto.
L’uomo, pensava Lev, poteva realizzare grandi cose, ma anche immani catastrofi. Che la
crononautica avesse davanti a sé questo stesso destino?
Lo sbuffo della porta stagna della carlinga ricondusse Lev al perché della sua presenza sulla
sfolgorante Pax. Era lì per parlare con l’ingegnere D. Smith delle sue vele solari. Avrebbe fatto
volentieri a meno di questa trasferta interplanetaria e avrebbe fatto volentieri a meno di andare ad
elemosinare, da un ingegnerino occhialuto, briciole di conoscenza. Ma il fatto era che esisteva un
certo riserbo sulle ricerche di Smith e dunque, se Lev voleva delle notizie, doveva procurarsele di
prima mano.
Avevano offerto a Lev un alloggio dove rinfrescarsi e un giro di ispezione della enorme stazione.
Ma lui non aveva alcuna intenzione di perdere più tempo dello stretto necessario a bordo della Pax.
Nel suo giro turistico avrebbe imparato qualche cosa di utile sulla crononautica? No, dunque era
inutile perdere ore preziose. Così partì all’attacco, chiedendo di poter incontrare subito questo
ingegnere. Gli indicarono il dipartimento di astronautica ed egli si scrisse sul taccuino la sigla dello
studio di Smith.
Come muoversi nella struttura orbitante? Lev non era abituato ai corridoi a gravità zero ed era
piuttosto impacciato, mentre procedeva per brachiazione, tenendosi ai corrimano.
Comunque raggiunse il dipartimento e fu felice di ritrovarsi con i piedi per terra. C’era un brulichio
di giovanotti che si spostavano su e giù per le leggere e borbottanti scale di metallo che
collegavano i piani realizzati con graticole. C’era chi si affannava ad un terminale, chi in piedi
scorreva velocemente dei tabulati, chi scaricava nel proprio palmare dei dati dai computer, chi
spostava fascicoli da una postazione ad un’altra, chi -con gli occhi fissi sul proprio monitorsorseggiava del caffè , chi discuteva sbracciando con un suo vicino. Il tutto in un intreccio di cavi
che correvano ovunque, in un luccichio di monitor e di luci a neon. Era decisamente un ambiente
troppo affollato e chiassoso, pensò Lev. Ma non si scoraggiò.
“Mi scusi, cerco la stanza 103-AN.” disse ad un ragazzo che sostava pensoso, con un panino in
mano, davanti a dei calcoli scritti su una lavagna.
“Cosa dice? La stanza 103-AN?” rispose il ragazzo, gettando un occhio sul taccuino presentatogli
da Lev. “Non ho idea di dove sia.” disse, incrociando per un attimo gli occhi dell’uomo e tornando
alla sua lavagna. Un secondo e il ragazzo si girò di scatto nuovamente verso Lev, che era rimasto
impassibile. “Il dottor McArthur, Lev McArthur! E’ lei, non è vero?” sbraitò il ragazzo, mentre
passava il panino dalla mano destra alla sinistra, per stringere la mano all’omone barbuto che aveva
davanti. “Sono un suo ammiratore, ho letto tutti i suoi articoli, lei è un maestro…” e il ragazzo
incominciò a gesticolare e a parlare a voce alta mentre l’uomo, dietro la sua maschera immobile, si
rimproverava di avere interpellato la persona sbagliata.
“Senta, la prego, cerco l’ingegnere Smith.” disse Lev, approfittando di una pausa nella logorrea del
giovanotto. Intanto più di una persona aveva alzato gli occhi dal suo lavoro, per guardare verso il
dottor McArthur.
“Certo, Smith.” disse il giovanotto ricomponendosi, “Guardi, deve salire lì e percorrere quel
corridoio. Il suo studio è dietro la terza porta.” e poi riprese “Non sapevo che sarebbe venuto qui
sulla Pax, non ce lo hanno detto, non lo sapevamo…” Il ragazzo non aveva finito di parlare, che
McArthur gli voltava già le spalle, dirigendosi verso la scala. Intanto, dietro di lui, si radunò un
9
gruppetto di persone le quali guardavano alternativamente il ragazzo e Lev, che si allontanava.
All’uomo le parole degli astanti arrivarono solo come voci confuse.
Diana stava verificando la resistenza di un pannello di vela solare, sul suo terminale. Le davano
sempre un piacere intenso le simulazioni al computer di sistemi fisici. Provava ancora lo stupore di
una studentessa nel constatare come un modello matematico potesse rendere prevedibile il
comportamento di complicate strutture, di realizzazioni che non esistevano neanche. Era una
fortuna, pensava Diana, che il mondo fosse governato da leggi immutabili e che queste leggi fossero
scritte in forma intellegibile all’intelletto umano, cioè come equazioni differenziali.
Per quanto la riguardava, avrebbe passato tutta la vita a trovare modelli matematici di fenomeni
fisici. Eppure si era data all’ingegneria, perché? Vecchia domanda questa, quesito irrisolto, dolore
nascosto. C’erano fondamentalmente due motivi. Il primo era che, in cuor suo, Diana sapeva di non
essere abbastanza brava per fare scienza. Aveva una considerazione troppo alta della ricerca pura,
per poter pensare che una come lei avesse potuto praticare la Fisica a pieno titolo. Aveva conosciuto
gente davvero in gamba e, dal confronto con queste persone, aveva dedotto di non essere
abbastanza sveglia. In secondo luogo viveva del mito dell’uomo rinascimentale il quale, nella sua
officina, crea macchine, costruisce edifici, realizza grandi opere. Il progettista disegna e soffre sui
suoi disegni, poi sceglie la materia ed inizia a lavorare. Crea e tutti possono vedere ciò che ha
creato. Il suo è un lavoro intellettivo, poi un lavoro materiale che modifica l'ambiente,
conferendogli l'impronta dell’uomo. E il suo lavoro è bello ed è utile ed è apprezzato dagli uomini;
è fatica e passione e tutti possono vederle; è ingegno che è donato alle persone e che resta nel
tempo. E con lui lavorano altri uomini, che lo ammirano e per i quali lui nutre amore e
riconoscenza. Il naturalista invece non crea nulla. E’ semplicemente un osservatore. Di suo non
mette nulla nel suo lavoro. Minore è il carico di schemi mentali e di idee preconcette che riversa
nelle sue speculazioni e meglio è. Il naturalista è arido e questa, per Diana, era la cosa peggiore che
si potesse dire di un essere umano.
Bussarono alla porta. “Avanti!” disse la donna, mentre Lev già stava entrando. Rimase fuori a metà
e, leggermente proteso verso l’interno, disse “Senta, sto cercando l’ingegnere Smith”.
“Lo ha davanti” disse Diana, con un sorriso cordiale, mentre si alzava e porgeva la mano all’omone
barbuto, avvolto in una austera giacca scura con cappuccio. “Ecco un monaco francescano” pensò la
donna con un velo di immediata simpatia.
“Ah, ma certo, naturalmente.” disse Lev avvicinandosi al tavolo e allungandole la mano. “Sono il
dottor McArthur.”disse, ”Piacere.”
Davanti a lui l’uomo aveva una giovane donna dai capelli molto corti e spettinati. Con giusto una
forcina a tenere a bada una ciocca di capelli, sul lato sinistro della fronte, e ad abbozzare una
scriminatura da una parte, l’ingegnere dava una idea di rigore ed essenzialità.
“Non l’aspettavo così presto, non ha perso tempo. Prego.” disse la donna indicando la sedia davanti
al suo tavolo. Lev si girò per chiudere la porta dietro di sé e si sedette col busto ritto e i piedi
appaiati, come uno scolaretto. “Senta” cominciò, “sono qui per sapere il più possibile del suo
sistema di propulsione, delle sue vele stellari”.
“Noi preferiamo chiamarle vele solari… in fondo non vogliamo mica andarci fuori dal Sistema
Solare, non è vero?” disse Smith, assumendo un’espressione affabile e scherzosa.
Questa battuta ricordò a Lev tutta la difficoltà della sua missione, lì sulla Pax. Il fatto era che ormai
doveva render noto il suo progetto, il suo figliolo, partorito in tante notti, in attesa dell’alba, e tenuto
segreto per molti anni. Era necessario ormai che almeno l’ingegnere lo conoscesse, perché lei
sarebbe dovuta entrare per forza a far parte della sua squadra.
Ma come fare a parlare di una cosa così fuori dalla norma, di una cosa così assurda, di un viaggio
verso Dio? Era difficile e Lev prese il discorso alla lontana, cosa inusuale per lui. Incominciò con il
fare i complimenti all’ingegnere per il suo straordinario lavoro. Passò poi a chiedere il motivo di
tanta riservatezza sui progressi delle ricerche. La risposta era ovvia, era per non favorire l’accanita
1
concorrenza. Ma intanto era qualcosa da chiedere, per rompere il ghiaccio. Lev parlava e ascoltava
con la testa china, lo sguardo basso, alzato, di tanto in tanto, verso la donna. Era perplesso.
L’ingegnere, che probabilmente avvertiva il disagio di Lev, anche se non se lo spiegava, fece una
proposta. “Che ne dice di parlare nella sala ristoro davanti ad un cioccolato caldo? C’è una finestra
panoramica con una vista straordinaria.”
“Cioccolato caldo? Che roba è.” pensò Lev, che aveva dimenticato anche il sapore degli alimenti di
evasione. “Senz’altro” disse però immediatamente. In fondo avrebbe potuto prendere tempo per
trovare il modo migliore per vuotare il sacco.
Dipartimento di Astronautica. Corridoio, scale, chiasso. Di nuovo i passaggi a gravità zero.
Brachiazione. Affanno nello stare al passo di quella ninfa in scarpe da ginnastica. Battute di
circostanza. Continuo rovello su cosa dire, su come esporre un sogno, un’idea da pazzo.
Una davanti all’altro, erano seduti ad un tavolino, proprio vicino al grande pannello trasparente
aperto su Marte. Mentre Diana beveva dalla sua tazza, Lev ispezionava rapidamente il volto della
donna. In realtà quello non era l’ingegnere che si aspettava. Non se lo era immaginato così giovane
e, soprattutto, non così bello. La fronte alta e i colori chiari del volto davano una sensazione di
infantile innocenza. Gli atteggiamenti scherzosi e amichevoli denotavano un approccio ludico
all’esistenza. Ma il taglio sottile degli occhi e l’espressione spesso assorta, conferivano a Diana la
inquietante profondità di un mistico medioevale.
Tuttavia, pensava Lev, l’aspetto fisico non deve avere alcuna importanza nel rapporto con gli altri.
Infatti che differenza può fare, se i pochi centimetri cubi di carne che costituiscono un naso, sono
distribuiti in un modo anziché in un altro? Cosa cambia se il colore di un’iride è ocra luminoso o
blu profondo? Il dottor McArthur si diceva che per non essere turbato dal bell’aspetto di Diana
doveva pensare al suo corpo come ad una scatola che racchiudesse il cervello; doveva pensare agli
occhi come ad un’interfaccia di quel cervello col mondo; ai capelli come ad una imbarazzante
eredità dei nostri poco aristocratici antenati e, nello stesso tempo, come ad una curiosa protezione
del cervello. In effetti, rifletteva Lev, quando lui si relazionava con una persona, erano i loro due
cervelli che si relazionavano, utilizzando il corpo per questo contatto.
Ciò non di meno, l’aspetto di Diana risvegliava echi antichi dal profondo dell’animo del dottor
McArthur.
“Senta ingegnere, guardi, io ho bisogno di lei per realizzare un’impresa di una portata che va oltre
ogni immaginazione, un'impresa che cambierà la storia dell’Umanità e del cosmo.”
Ecco fatto, aveva sputato il rospo. Ora avrebbe raccolto l’espressione stravolta di Smith, si sarebbe
scusato per le sue parole, avrebbe proferito un “Come non detto.” e se ne sarebbe tornato al suo
tranquillo studiolo, al quarto piano di una fatiscente costruzione, nel centro della sua città, sulla
Terra.
Diana rimase interdetta, restò a fissare il curioso individuo che aveva davanti. Era un arcinoto
scienziato che cavalcava il razzo della crononautica, la disciplina più di moda degli ultimi anni. Era
un uomo schivo: di lui, nei congressi, arrivavano solo dei comunicati, letti da degli assistenti. Ma la
sua fama era enorme, il suo astro era uno dei più luminosi. Quello che diceva doveva per forza
avere un senso.
“Di cosa si tratta dottore?” rispose dopo un po’.
“Mi dica, lei non si è mai chiesta il perché di questa enorme cattedrale che è il nostro universo?
Sbaglierò, ma non mi sembra una donna che possa vivere solo di quotidianità. E’ vero?”
Certo, McArthur aveva ragione, pensò Diana, ma ora che c'entrava questo con le sue ricerche? Che
voleva quest’uomo? Perché tentava di entrare nella sfera privata, in quella stanza dell’animo carica
di umano dolore e di perché?
“Gli esseri umani sono su una barca in acque aperte.” riprese Lev, “L’uomo comune, per lo più,
evita di esaminare l’orizzonte monotono nello spazio e nel tempo. Preferisce concentrarsi sulla vita
di bordo, passare il tempo a vivere. Ma c’è inevitabilmente qualcuno, il filosofo, che spinge con
1
ansia lo sguardo sull’infinita distesa d’acqua, che indugia sulla scia dell’imbarcazione, sulla prua
che taglia il tempo immacolato, sull’orizzonte, in cerca di una meta possibile.
Ma la Natura ci offre tanti svaghi, tanti particolari, tanti colori, tante sfumature, tante di quelle cose
che praticamente si potrebbe restare per un tempo infinito ad indagare su tutto ciò, come fanno gli
scienziati. La loro è una buona occupazione per non cadere nell’abbattimento, nel vuoto, nella
disperazione di chi guarda il nulla senza fondo. Essi sono marinai che si concentrano sulla nave, ma
che ignorano la rotta e lo scopo del viaggio.
Eppure a volte mi chiedo se la Scienza non potrà arrivare ad un punto tale di comprensione da poter
spiegare il grosso mistero: perché c’è quello che c’è, ed è come è.” disse McArthur, finendo per
accalorasi, mentre gli occhi erano diventati di fuoco. “Perché?” aggiunse agitando le mani.
“Ebbene” riprese poi con più calma “lei può aiutarmi a realizzare un miracolo, a portare l’uomo
oltre i confini del mondo, a portarlo al cospetto di Dio. Mi creda è possibile! Mi creda è doveroso.”
*
Diana era non solo un brillante ingegnere, ma anche una capace organizzatrice. In breve tempo
assunse sulle sue spalle anche la gestione di tutti gli aspetti logistici della spedizione. Sposò la
missione con tutte le sue forze, perché aveva inteso che il caso le aveva destinato una fortuna
speciale, un ruolo di rilievo nella storia dell’umanità.
Lev era stato assistito dalla sorte, aveva trovato una donna malata di assoluto, proprio come lui.
Aveva trovato una lavoratrice infaticabile, un’esperta nella gestione di grandi staff, una capace
specialista di relazioni pubbliche. I due erano complementari e McArthur volle senz’altro
condividere con lei la paternità della missione.
Il vascello veniva realizzato presso la Pax, dove l’uomo si era infine dovuto trasferire, quale
dirigente del neonato Dipartimento di Crononautica. Anche lì, nel chiasso e nella confusione della
colossale stazione, il dottor McArthur aveva comunque trovato il modo per condurre la sua vita da
recluso, la sua esistenza in clausura. Ma non poteva più fare a meno, ormai, di andare, di tanto in
tanto, a prendere del cioccolato caldo, nella sala ristoro, sotto al grande pannello trasparente, con il
suo ingegnere preferito.
In tutti gli angoli del Sistema Solare si sentiva ormai parlare della spedizione e già circolava la voce
che sarebbe stato lo stesso dottor McArthur a sacrificare la vita per intraprendere il viaggio. Ma il
vascello era per due e non ci voleva molta immaginazione per individuare chi sarebbe stato il più
probabile secondo componente dell’equipaggio.
La Terra si fermò quando furono conferite le medaglie a Smith e a McArthur, e con lei ogni pianeta
ed ogni luna del Sistema Solare. Ormai si era ad un passo dal salto, dal più grande balzo che
l’umanità avesse mai fatto.
La Beagle5 si staccò dalla Pax, rivaleggiando con lei per imponenza. Le sue vele stellari si aprirono
e Marte rimase sospeso, in muta ammirazione.
Stridettero i macchinari, squarciarono con bagliori elettrici la notte superba. Fu mandato a regime il
cronopropulsore, contro le correnti temporali, che scuotevano il vascello maestose e severe. Ma
cedevano gli eoni all’audace propulsore. Anno per anno li lacerò la carena metallica. Paurosamente
i divieti infrangibili scossero la Beagle. A stento la nave schivò i no imperiosi, lambendo furtiva le
vallate sospese delle paure congenite.
5
Beagle è il nome della nave sulla quale Darwin compì il viaggio che gli dette lo spunto per elaborare la teoria
dell’evoluzione delle specie.
1
Il dispositivo risalì con sforzo le Leggi, ma era ben congegnato, funzionò. Schiantò, tra un battito e
l’altro dei loro cuori, l’ineluttabile barriera del Tempo. Scivolò oltre, su una sospesa vertigine.
Trepidanti i due crononauti si godettero il silenzio attonito del Cosmo, all’origine del Cosmo.
*
La Beagle solcava la disperazione dello spazio senza mondi, gettava una debolissima luce sulla
solitudine più nera. Ma gli occhi di Diana riservavano a Lev infinite scoperte. Quante ore di quella
notte, senza stelle e senza alba, McArthur visse perduto nel paesaggio delle iridi azzurre di Diana?
Quante volte percorse le circonferenze blu che le delimitavano? Quante volte colse le pupille che,
colpite da un raggio di luce, si restringevano? Lev registrava con attenzione le variazioni di colore
di quegli occhi, le fluttuazioni del tono dell’azzurro, dal celeste liquido dei momenti di malinconia
a quello corposo delle ore di ritrovata vitalità. Con gli occhi negli occhi vissero Diana e Lev, per tre
anni.
Ma la Beagle affondava nel nulla: il cielo era vuoto, senza speranze e senza dei. Le domande degli
uomini provocavano i membri della spedizione, sospese nel vuoto, sempre presenti, intatte. E Lev
dovette assistere allo sfiorire di Diana, al suo lasciarsi andare, a poco a poco, sempre più giù. Vide
le sue palpebre adombrare, pesanti, la luce dei suoi occhi. Vide spegnersi quel mondo del quale
aveva vissuto fino ad allora.
Per amore di lei, McArthur le diede il veleno. La vide scomparire, mentre le teneva le mani, mentre
accompagnava fra le lacrime il suo ultimo sonno.
Poi toccò a lui. Mandò giù il veleno, prima che l’abbrutimento lo facesse suo, prima che il bene
prezioso della sua vita fosse macchiato dall’orrore di un’esistenza senza speranza.
*
Lev è seduto affianco ad un letto. Sopra il letto una luce, debole. Altri letti nel buio, nel silenzio.
Persone che dormono. Attesa. Attesa che finisca la flebo, attesa che arrivi l’infermiera, attesa che
passi un’altra ora, attesa che giunga finalmente il giorno; con la speranza irragionevole che l’incubo
finisca con la notte. Attesa di dimenticare nel sonno l’orrore del corpo lacerato di suo padre, in
agonia, disteso, sul letto. Nulla da fare, per lui, se non passare una garza umida sulle sue labbra, una
garza bagnata di lacrime amare, calde di rabbia e di lancinante dolore.
“Chi sei?” chiede Lev ad una persona che lo fissa dal buio, da un bosco silenzioso di intricata
vegetazione. E’ una figura enorme, un uomo nella sua più vigorosa maturità, avvolto da una giacca
di pelle. Occhi blu, capelli finissimi e luminosi. Lev ha paura.
“Sono papà. Ti sei già dimenticato di me?” Ora è vicino, sedutogli accanto.
“Eri così quando ero piccino, è passata una vita, perché mi inganni? Non avercela con me. Ho fatto
il possibile, ho lottato fino alla fine per te! Avrei dato la mia vita, avrei affrontato un gigante, se
solo fosse servito. Ma non ti ho salvato. Non ci sono riuscito. Credimi, quando ti chiesi con un
sussurro di mollare, ero stremato. Non potevo più vederti così. Perdonami.” I due si avvicinano e si
abbracciano. Piangono.
Ora, sul letto, il corpo è avvolto da un lenzuolo, disteso imponente sotto un panneggio bianco. Si
scorgono le forme delle mani, adagiate sullo sterno. I piedi tendono il lenzuolo. Il volto è
incorniciato da una fascia bianca. La bocca è socchiusa in un respiro immobile. Un occhio è rimasto
semiaperto.
Lev è seduto al suo fianco. Lo ritrae, mette fra lui e il corpo il foglio di carta, per rimandare il
dolore. Poi cerca suo padre, per fargli vedere il disegno, come quando era piccolo.
1
Ma d’un tratto si ritrova solo, in montagna, avvolto in una nube bassa. Tutto è bianco, vede solo il
terreno. Il suolo trasuda gli umori della terra, mentre l’aria piange. E’ mai stato più smarrito?
Lev chiama il papà a gran voce, a squarciagola, con tutto se stesso. Niente. Dal bianco emergono
delle ombre, immobili, colossali. Fantasmi di cavalli, assorti, nel nulla.”Papà!” Niente da fare.
Poi la nebbia si dirada e si apre una valle infinita. Ecco suo padre. Lo raggiunge di corsa, felice
come un bambino, risorto dall’incubo. Si sente di nuovo protetto, sicuro, all’ombra della colonna
della sua vita. Il papà ha in mano un fungo. Lo pulisce dalla terra con le sue dita. Lev bacia le mani
amate del padre, le bagna del pianto di un bambino.
Il padre parla a Lev tenendogli una spalla con la mano. Il vento accarezza la paglia dorata dei suoi
capelli e il suo volto è tutto pervaso dalla luce estiva dei suoi occhi. Lev perde il suo sguardo fra
catene montuose lontanissime, faggete sconfinate, nuvole vaporose e imponenti.
Lev sta guardando, ma non sta osservando; ascolta la voce di suo padre, calma, bassa, rotonda.
“Caro figlio, tu credi di avere tutto il tempo davanti a te. Ma il tempo di una vita è poco,
pochissimo! Cerca, per quanto è in tuo potere, di non sprecarne mai, ti prego.
La verità assoluta non posso dartela; noi la conosciamo, ma le Leggi ci impediscono di tornare tra
voi per svelarla. Questo però è il mio insegnamento: non smettere mai di cercare ostinatamente la
verità, non illuderti di trovarla e fuggi da coloro i quali affermano perentoriamente di possederla e
sono di una certezza incrollabile.”
Lev è perplesso. Tutto ciò che gli sta accadendo è bellissimo, ma è falso. “Non è mio padre” pensa
fra sé. “Tu non sei mio padre, questo è un inganno, mio padre è morto. Non c’è modo per riaverlo,
neanche qui, ai confini del mondo. Chi sei?”
Lev stringe una penna ottica fra le dita. E’ davanti ad una lavagna. Dietro di lui il professor Landini
lo sta interrogando. “McArthur, mi dia la definizione del generico problema di Cauchy.”
Lev scrive: data l’equazione differenziale del primo ordine
F [ t, f ( t ), f ' ( t ) ] = 0
si dice problema di Cauchy la ricerca delle soluzioni dell’equazione che soddisfano la condizione
iniziale f ( t = 0) = a .” Poi aggiunge a voce “In generale il problema di Cauchy non è risolvibile
univocamente ma, sotto certe condizioni, la soluzione è una ed una sola. Questo vuol dire che se
conosco la legge di un fenomeno, cioè la sua equazione differenziale, e se ne conosco lo stato
iniziale, cioè la sua condizione iniziale, allora posso prevedere l’evoluzione del sistema nel tempo.”
Landini: “Bene, mi dica ora quali fenomeni sono governati da equazioni differenziali.”
Lev: “Tutti i fenomeni dell’universo.”
Landini: “Vuole dire anche la vita, anche l’evoluzione delle specie?”
Lev: “Ogni sistema, che sia un insieme di molecole di gas o un batterio, è governato da equazioni
differenziali.”
Landini: “Se possedessi le leggi di ogni fenomeno dell’universo, se queste costituissero un sistema
di equazioni differenziali univocamente risolvibile, note le condizioni iniziali, allora potrei
prevedere l’evoluzione dell’universo nel tempo?”
Lev: “In teoria potrei conoscere il comportamento di ogni singolo pianeta, di ogni singola stella e di
ogni singolo individuo del cosmo, in ogni dato momento. Ma questo è assurdo!”
Landini: “McArthur, lasci da parte i commenti e mi dica se, alla luce di quanto detto, ha senso lo
scontro fra creazionisti ed evoluzionisti.”
Lev: “Non ha alcun senso professore. Dio avrebbe potuto semplicemente stabilire le condizioni
iniziali e le leggi fisiche, per poi lasciare l’universo ad uno sviluppo autonomo. In questo modo si
potrebbe sia riconoscere l’indipendenza dal creatore di ogni fenomeno evolutivo, sia l’aderenza del
1
tutto al disegno del creatore. Potremmo così sia ammettere la validità del meccanismo di evoluzione
biologica, sia la creazione dell’uomo ad immagine e somiglianza di Dio. Ma tutto ciò è assurdo”
Landini: “Non le piace il fatto che ogni suo gesto sia stato preordinato, non è così McArthur?”
Lev: “Si, non potrei sopportare questa verità. Non la tollererei. Ma tu non sei il mio professore.
Quante facce hai?”
*
Entità:“Quale faccia mi attribuisci Lev? Come mi preferisci? Con la barba bianca ed un corpo
maturo ma vigoroso? E che nome mi dai?
Se sei arrivato sin qui, è giusto che tu sappia ogni cosa. Io non avevo previsto il vostro arrivo dal
futuro. Si, è vero, vi ho plasmati secondo il mio volere. Ma non sono in grado di prevedere le vostre
azioni. Il tuo libero arbitrio è salvo, dolce Lev. Il vostro cervello è la cosa più complessa che abbia
previsto nel cosmo e nessuna equazione matematica potrà mai descriverne il funzionamento. Ho
trovato nella mente di voi due, cari esploratori, più di quanto io potessi mai immaginare: la fantasia,
l'ironia, la creatività, l’amore. Tutte cose alle quali non avrei mai pensato.”
Lev:“Ora so da dove viene il genere umano. Ma perché lo hai creato? Questo mi devi spiegare!”
Entità:“Ho trovato nella tua mente nozioni di Biogenesi. Voi umani, nel tuo lontano futuro, fate
esperimenti che hanno come fine il tentativo di creare la vita. Perché mai vi impegnate in queste
cose?”
Lev:“Noi lo facciamo per conoscere meglio noi stessi, per capire cosa siamo. Vuoi dire allora che
anche tu hai creato il mio mondo per cercare la verità? Dunque non sei Dio! Non sei il Creatore, ma
una creatura. Ti prego, dimmi come stanno le cose!”
Entità:“E’ così, figlio mio. Appartengo ad un mondo che neanche puoi immaginare, ed anche io
faccio le domande che ho trovato nella mente tua e in quella di Diana.
Ma devi sapere che non è Dio ciò che cerco. Per me infatti le posizioni del teismo e dell’ateismo
non sono valide: esse non risolvono nulla. Per quanto mi riguarda, io credo più probabile una terza
posizione. Tuttavia non posso illustrartela, l’architettura del tuo cervello non ti permetterebbe di
afferrarla... Ti ricordi dell’esperimento dello specchio6? Solo alcune specie animali, come le
scimmie antropomorfe, sono in grado di riconoscere sé stesse nella immagine riflessa dallo
specchio. Le altre non possono arrivare ad avere autocosienza, non hanno consapevolezza di sé...
Così, voi esseri umani non potreste comprendere la mia ipotesi sulla origine del Tutto, del vostro e
del mio mondo…
Ma ecco ciò che realmente conta, figlio: la ragione per vivere è contenuta nel nostro discorso. Tu
devi vivere per continuare la tua ricerca della verità, per proseguire la tua indagine fuori di te,
dentro di te e nelle persone che ami. E ama le persone, gli animali e le cose più di quanto tu possa
amare te stesso.”
*
Fu Gordon G. Gallup, psicologo americano, a pubblicare nel 1970 i risultati dei suoi esperimenti con specchi e
scimpanzè : le scimmie, macchiate con una vernice inodore sul naso durante un'anestesia, poste davanti ad uno specchio
si toccavano la macchia. Questo provò la loro capacità di riconoscere la propria immagine riflessa. Non è cosa da poco:
un cane, ad esempio, non è capace di fare altrettanto, non ha consapevolezza di sé. Altrettanto dicasi per bambini in
tenerissima età e per esseri umani colpiti da gravi patologie mentali.
6
1
L’uomo si svegliò dolcemente. Era confuso. Dove si trovava? In che tempo? Per un attimo ebbe la
sensazione di essere nella camera della sua infanzia. Gli sembrò, per un attimo, di sentire le voci dei
genitori provenienti da una stanza vicina. Era un’illusione.
Le luci della plancia sottraevano al buio il suo viso con tenui bagliori azzurri. Arrivava al suo
orecchio solo il ronzio di qualche remota apparecchiatura. Oltre l’oblò, lo spazio era ingombro di
stelle fino all’inverosimile, ed era pervaso da un diffuso chiarore. Tutto era immobile. Pace.
Diana dormiva, con il capo sulle braccia raccolte. I sottili capelli chiedevano solo una carezza
delicata, le palpebre leggere un bacio leggero. Gli occhi si muovevano, stava sognando.
Lev avrebbe dato qualunque cosa, per conoscere i sogni di lei, per sapere se anche lui era una parte
di essi. Ma era ora consapevole del fatto che nessuno avrebbe potuto conoscerli, nessuno avrebbe
potuto prevederli, nessuno avrebbe potuto rubarglieli.
Una falce colossale si accese oltre l’oblò e dietro di lei si affacciò una stella accecante. Passarono i
minuti e la falce si ispessì. Passarono i minuti e Lev riconobbe Marte, i suoi mari, le sue vallate
erbose, le sue città. Quella immagine gli riportò alla mente ricordi confusi: la vista del pianeta dalla
sala ristoro della stazione orbitante, la costruzione della Beagle, il viaggio, i tre anni nel nulla. E
poi? Il veleno. Diana doveva essere morta e lui anche.
Cosa era successo? Ricordava dei sogni, delle immagini incoerenti, un dialogo impossibile. Erano
veramente sogni? Ma come poteva essere vivo? Era anche questo un sogno, uno scherzo della
mente prossima alla morte?
La donna aprì gli occhi lentamente, alzò leggermente il capo e rimase a fissare il cielo per un po’,
poi si volse verso Lev e gli sorrise. Lui restò a guardarla con tenerezza, quindi tornò ad osservare
Marte, a cercare, in quello spettacolo, delle risposte; qualcosa che potesse risolvere il suo
smarrimento.
Ed ecco che vide una stella sfolgorante uscire dalla porzione in ombra del pianeta. Ancora un
istante e Lev riconobbe la Pax, più bella che mai, animata da tante piccole luci lampeggianti,
affollata di vascelli attraccati, di oblò aperti su una vita interna pulsante. Con i pannelli solari
spiegati, ricordava un veliero del lontano passato.
Lev capì quello che era successo. Abbracciò Diana, ancora disorientata, sciogliendosi in lacrime.
Era tornato nel suo tempo e nel suo universo. Ed aveva tutta l’intenzione di popolarli e di esplorarli.
1