Le tradizioni culinarie
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Le tradizioni culinarie
Le tradizioni culinarie Ogni festa aveva e, forse, continua a rispettare alcune indiscusse abitudini culinarie. Proprio nel ripetersi di ricette, di profumi, di sapori si coglie nelle case il senso delle ricorrenze in famiglia. Entra, e si colloca anche qui, la religiosità delle tradizioni che rappresenta - non sembri esagerato - il collante, capace di amalgamare e tenere vivi gli affetti. Non è certamente ‘il prendere per la gola delle massaie’ l’attrazione che esercita la tavolata nell’ambito delle festività. E allora, che cosa? E nel cuore di tutti quelli che hanno a-auto la fortuna di crescere in una famiglia patriarcale il ricordo dolcissimo e struggente del focolare, della cucina in cui la donna era signora. TI suo affaccendarsi, il suo sacrificio davanti a un paiolo, con le gote rosse e la fronte madida di sudore, avevano il significato di una carezza materna, erano, senza inutili parole, un atto di grande amore che dava sicurezza, esprimevano la gioia di essere al mondo, inseriti in un contesto di rapporti unici e preziosi, anche se non di rado vivaci, turbolenti. La frenetica impostazione della vita moderna ha cancellato in parte - bisogna ammetterlo -la vigilia, cioè l’atmosfera dell’attesa. E stata demandata alle organizzazioni commerciali la fase del predisporre. E superfluo scomodare la filosofia leopardiana per capire che, certamente, si è perso cosi il senso stesso dell’ansia gioiosa che aleggiava quando la festa bisognava conquistarsela e la si pregustava nel sacrificio. Per il Natale, in passato, i segni dei preparativi e dell’attesa si coglievano nel profumo del vincotto, della cannella per le cartellate. C’era poi il ticchettio du c-ntrao-n (del grosso chiodo di ferro) sul bordo du m- r-t-r d pae-t (del mortaio di pietra), usato per schiacciare le mandorle. Erano proprio le mandorle la materia prima per i dolci natalizi, i castagnell , u lattaminue (le castagnelle, il latte di mandorle). A Pasqua, invece si diffondeva con l’odore, nelle ventate primaverili dell’erba fresca e dei primi biancospini in fiore, l’aroma acuto, penetrante, forse anche un po’ nauseabondo di sp- nz 1 d c-podd senza tadd (le cipolle novelle senza bulbo). Le strade si animavano nei primi giorni della Settimana Santa d trainedd (di carretti a due note, quasi sempre spinti a mano) che traboccavano di cipolle. E poi un andirivieni dai forni a legna d cazzarao-l (di teglie a bordo basso) con ‘il calzone’, una pizza a base di cipolle soffritte, olive nere snocciolate, acciughe salate tra due strati di pasta che galleggia nell’olio d’oliva. Questa cena si consuma ancora in tutte le case la sera del Giovedì Santo, prima di uscire per i Sepolcri, ma a sfornare ‘i calzoni’ a livello industriale sono ormai le tavole calde e i panifici. Chi conserva la preparazione casereccia, nella maggior parte dei casi, cuoce usando i propri fornelli. Si è persa, dunque, l’aggregazione paesana negli androni neri di carbone dei forni pubblici. Certo, prima cera il mestiere retribuito da f-rn-l (della fornaia), un personaggio che ormai svanisce nella memoria degli anziani e che i giovani non immaginano sia mai esistito. Una delle ultime rappresentanti era una donnetta, Gamidd (Camilla Fanizzi). Già ormai avanti negli anni, trasportava ancora, ciabattando, lunghe tavole sul capo altero. Quasi un emblema da regina, a spr (il cercine) l’aiutava a sopportare soprattutto il peso del pane che sapeva le rosse vampe della legna arsa, la fatica delle mani bianche di farina ed emanava la fragranza ineffabile del casereccio. Gamidd portava da casa al forno e dal forno a casa i cazzarao-l du ca1zao-n che, per non essere confuse tra di loro, avevano contrassegni particolari, quasi degli stemmi: un nodo, un taglio di pasta, qualcosa, insomma, che le distinguesse evitando contestazioni. Erano immancabili le discussioni delle donne nel forno che - come abbiamo detto - rappresentava un modo, consentito dalla regola del ‘domicilio coatto’, d’incontrarsi, di scambiarsi consigli, confidenze e spesso malevoli apprezzamenti e pettegolezzi. Il calzone di cipolle viene, forse un po’ forzatamente, accostato da alcuni alla tradizione del pasto frugale degli ebrei prima dell’esodo, pasto a base di erbe amare e pane azzimo. Le uova, simbolo della vita, sono, comunque, l’ingrediente base della cucina, dopo l’astinenza quaresimale. Nel pranzo di Pasqua e immancabile u b-n-ditt (il benedetto). Anche qui si riscontrano tracce di simbolismo religioso: si tratta di un piatto a base di agnello, cotto in un gustosissimo contorno di finocchio e battuto d’uovo, anticamente spruzzato con acqua lustrale, benedetta prima della Resurrezione. Con le uova si preparano anche i biscotti di ogni forma e di ogni sapore, da quelli friabilissimi a quelli sc-cattue-sc-t e sc-1-pp-t (tanto gonfi da scoppiare e poi calati nel giulebbe). Abbastanza insolite sono le uova rosse, forte tipicamente nojane. Furtroppo da qualche anno non è più possibile prepararle perché è venuta a mancare la materia prima. No, non le uova, che, se non sono più di produzione propria, di pollastrelle ovaiole allevate davanti alla porta di casa o sul terrazzo, si trovano dappertutto e a buon mercato. Quello che ormai non si riesce pia a procurare e u rei-t (il rito). Nel nostro mare, prima dei disastri ecologici, cresceva un’erba profumatissima e dal forte potere colorante, chiamata il ‘rito’, pur non essendo questo il suo nome scientifico. Era di rito tingere, profumare le uova di Pasqua e rassodarle usandolo nella bollitura perché diventassero di uno splendido rosso pompeiano. A fine di ogni lauto banchetto pasquale cera il gioco du tozza tozz. I commensali, già in preda alla gioiosa convivialità, accresciuta dalle abbondanti libagioni, si cimentavano in una sorta di torneo, con allusioni salaci, quando non proprio scurrili, per assegnare la palma della vittoria al guscio più resistente dell’uovo nel ‘tozzare’ contro quello del vicino. Per i bambini ecco a scarcedd (la scarcella), un dolce di pastafrolla, a forma di cavalluccio per i maschietti, di bambola e di borsetta per le femminucce, decorato di confettini colorati (gli anisini), su cui troneggiavano uno o più uova sode. Con la scarcella i bambini correvano verso la chiesa in attesa che le campane annunziassero la Resurrezione e, benedetta dalla gioia pasquale, potessero finalmente gustarla. Davanti alle vetrine delle moderne pasticcerie, colme di uova di cioccolato, certo, non ha più senso la filastrocca: Pasqu vai-n k-renn ca i uagnisk vonn chiangenn. Vonn chiangenn k tutt u caor: Scarcedd k iao-v! Scarcedd k iao-v! (Pasqua vieni correndo, perchè i bambini stanno piangendo. Stanno piangendo con tutto il cuore: scarcella con le uoval Scarcella con le uova!).