011-020 Introduzione

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011-020 Introduzione
Introduzione
BRUNO CARTOSIO
NEW YORK: METROPOLI, MODERNITÀ E AVANGUARDIA.
INTRODUZIONE
“Un artista che abbia viaggiato su un treno a vapore, guidato un’automobile o volato in
aeroplano non percepisce la forma e lo spazio come uno che non lo abbia fatto. E un artista
che abbia usato telegrafo, telefono e radio non percepisce il tempo e lo spazio come uno che non
lo abbia fatto. E un artista che viva nel mondo del cinema, dell’elettricità e della chimica
sintetica non percepisce la luce e il colore come uno che non lo abbia fatto. Un artista che
abbia vissuto in una società democratica ha una visione di ciò che è veramente un essere
umano diversa da uno che non lo abbia fatto. Queste nuove esperienze, emozioni e idee
vengono riflesse nell’arte moderna, ma non ne sono una copia…”
(Stuart Davis, “È in atto una rivoluzione nelle arti?”, 1940)
I contributi riuniti in questa sezione
della rivista nascono da un incontro,
intitolato “New York: metropoli,
modernità e avanguardia”, che il Centro
internazionale di studi sull’avanguardia
e la modernità (CISAM) dell’Università
di Bergamo ha organizzato il giorno 29
marzo 2001. Prima delle relazioni, in
quell’occasione, Tiziano Manzini, del
Pandemonium Teatro di Bergamo, lesse
testi su New York di Walt Whitman,
Joseph Stella, Fausto Maria Martini,
Vladimir Maiakovsky e Federico Garcia
Lorca e alla fine dei lavori il poeta
portoricano-newyorkese Pedro Pietri
presentò una serie di suoi componimenti
sulla metropoli odierna. Questi testi,
tutti disponibili in italiano, non sono
inclusi qui, mentre invece si aggiunge
alle stesure rielaborate delle relazioni
presentate allora un saggio inedito di
Dore Ashton, figura importante nel
panorama della storia e della critica d’arte
statunitense, in cui l’avanguardia d’inizio
Novecento è rapportata a quella del
secondo dopoguerra. L’obiettivo dell’incontro, che qui si ripropone, era stato
quello di fissare l’attenzione sul breve
lasso di tempo in cui New York diventa
metropoli di ‘statura’ mondiale per
dimensioni, per ambizione e per complessità della struttura e composizione
sociale, sulla spinta dell’impetuosa
crescita economico-politica e militare
degli Stati Uniti. L’attenzione dei saggi è
incentrata sulle vicende del modernismo
nell’arte e nella letteratura, che però
avvengono su uno sfondo socio-politico
peculiare e nel contesto di una realtà
concreta in cui si sintetizzano i fenomeni
più avanzati e appariscenti della cultura
materiale della modernità newyorkese.
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BRUNO CARTOSIO
New York e Parigi
Se si guarda al mondo dell’arte, Parigi
e l’Europa senza New York sono possibili;
New York senza Parigi e l’Europa, no.
Tuttavia, se scrivere di Parigi nei primi
trent’anni del secolo significa arrivare alle
soglie della sua crisi in quanto capitale
mondiale dell’arte, occuparsi di New
York nel quarto di secolo che precede la
prima guerra mondiale vuol dire mettere
le basi per la comprensione del cammino
successivo, che dopo l’interludio del
ventennio tra le due guerre avrebbe poi
portato la metropoli statunitense a
diventare il centro mondiale della
modernità. La partecipazione degli artisti
statunitensi alla grande esposizione
universale di Parigi del 1900 era stata
orgogliosamente salutata dai critici come
l’affermazione di un’arte nazionale.1 In
realtà, nazionalismi a parte, fino a tutto
il primo anteguerra, gran parte delle
dinamiche interne al mondo newyorkese
delle arti – New York è l’unico luogo
negli Stati Uniti in cui le dinamiche
culturali abbiano un qualche respiro
sopranazionale – sono di derivazione
europea, soprattutto parigina. I suoi
artisti frequentano le scuole di pittura, le
accademie, le città d’arte e i musei
d’Europa e riportano in patria gli
insegnamenti tecnico-stilistici che
ricevono, applicandoli poi ai contesti
locali.
Gli Stati Uniti non hanno la tradizione artistica dei maggiori centri europei. Nella società e nella cultura statunitense l’arte ha avuto pochi praticanti e
pochi cultori. Solo negli ultimi decenni
dell’Ottocento, le classi dominanti degli
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Stati Uniti, ormai diventati grande
potenza, cominceranno a cercare nella
bellezza, eleganza e voluttuarietà dei
prodotti artistici il corrispettivo
simbolico del loro potere economico.
Fino a quel momento, la modernità
americana non sta nelle arti, ma nella
complessa, inedita materialità della
società metropolitana, nei beni di
consumo, nelle tecniche di costruzione
degli edifici e in quelle applicate alla
produzione e alla convivenza civile.
Quello che il modernismo europeo
offre è un bagaglio di strumenti, sia
ideologici sia tecnici, con cui rapportarsi
alle innovazioni locali. Come per i tanti
praticanti della ‘scuola’ di Parigi, anche
per i modernisti statunitensi l’artista e
la sua soggettività diventano il centro
dell’esplorazione artistica. Anche per
loro, dunque, la capacità di cogliere la
realtà nei suoi frammenti costitutivi ha i
caratteri di una conquista. Ma l’adozione
di quegli strumenti mentali e di quelle
tecniche pittoriche produce risultati
quasi sempre ‘molto americani’: nel suo
complesso la produzione statunitense,
inclusa la più aperta agli imprestiti,
quella newyorkese, conservò una sua
specificità piuttosto precisa sia sul piano
tematico (i ‘soggetti’ americani), sia su
quello stilistico (una sperimen tazione in
generale più cauta di quella europea).
Passato e presente: le facciate e le strutture
Nei dieci anni che precedettero la
prima guerra mondiale, anche il
modernismo fu esportato a New York da
Parigi, esattamente come era successo nei
Introduzione
decenni precedenti con la pittura
impressionista e le sue evoluzioni e con
l’architettura del “neoclassicismo Beaux
Arts”.2 Per quanto riguarda quest’ultimo:
negli ultimi vent’anni dell’Ottocento,
quando la metropoli statunitense si
affacciava sulla scena culturale mondiale,
i ceti economici e politici dominanti
avevano cercato di cambiare la facciata
della città, di farla ‘bella’, almeno nei suoi
edifici rappresentativi, adottando un
eclettismo di derivazione europea e
soprattutto lo stile monumentale reso
canonico dalla Ecole des Beaux-Arts
parigina. Dopo l’esposizione mondiale
colombiana di Chicago del 1893, che a
sua volta canonizza il modello classicista
negli Stati Uniti, tutti i maggiori edifici
newyorkesi con funzioni pubbliche
saranno costruiti in stile neoclassico: dalla
Dogana alla Borsa di Wall Street, dalla
Camera di commercio all’Edifico
municipale a quello dei bagni pubblici,
dalla Corte suprema alle Poste, dalla
Public Library e dalla Morgan Library al
Grand Central Terminal e al Metropolitan Museum, dagli edifici principali
della Columbia University a quello del
Brooklyn Museum, dal monumento ai
soldati e marinai di Brooklyn all’Arco di
Washington Square a Manhattan. Sulla
stessa falsariga sono costruite nuove
chiese, sedi di banche, vari club privati.
Il quadro è meno univoco se si guarda
alle fastose abitazioni newyorkesi dei
magnati dell’economia e della finanza che
punteggiano in modo significativo alcune
aree privilegiate nella parte centrale di
Manhattan. Le case Whitney, Jennings,
Waldo, Villard e Fletcher, quelle dei
Vanderbilt, dei magnati dell’acciaio, del
carbone e delle ferrovie Andrew Carnegie,
Henry Clay Frick e Morton F. Plant, del
figlio dei banchieri amburghesi Felix
Warburg, del magnate del tabacco James
B. Duke, del proprietario di giornali
Joseph Pulitzer, del finanziere J. R.
DeLamar sono clamorosi imprestiti o
sintesi delle tradizioni architettoniche
europee, dal medioevo francese al rinascimento italiano, alle successive
commistioni eclettiche. In generale il
gusto di tali edifici appare largamente
retrò. Tuttavia, anche quelli sono quasi
sempre dovuti ad architetti di formazione
francese.
Diverso ancora è l’aspetto di tanti altri
edifici – alberghi, sedi di giornali, case
di appartamenti…. – che si presentano
esternamente nelle forme composite di un
eclettismo che sembra farsi vanto delle
ostentate citazioni da un ricco bagaglio
architettonico, in cui molti dei motivi
strutturali e ornamentali provengono
dall’Europa. Ma quasi sempre, più ancora
che l’esibita, compiaciuta sovrabbondanza
di ornamenti, sono le dimensioni che
contraddistinguono le architetture civili
newyorkesi. Il grattacielo nasce a Chicago,
ma è a New York che diventerà, subito
dopo, cifra emblematica della città e del
suo avvenirismo. Nascoste all’interno di
queste stupefacenti strutture, che
sorprendono i visitatori per la loro altezza,
sono le ‘cose’ della modernità senza
confronti della metropoli americana: le
‘gabbie’ strutturali in travi di acciaio
attorno a cui vengono eretti i muri (non
più portanti, quindi molto più sottili di
quanto ci si aspetterebbe), gli ascensori
veloci e sicuri (elettrici, come l’illuminazione che fa della Broadway notturna
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BRUNO CARTOSIO
la white way), i collegamenti telefonici
interni.
Esemplare è il caso del Woolworth
Building, costruito dall’architetto Cass
Gilbert per Frank Woolworth, proprietario della catena di grandi magazzini
omonimi in cui la merce era venduta per
cinque e dieci centesimi di dollaro.
Gilbert, formatosi alla Ecole des BeauxArts parigina, rinuncia in questo caso al
neoclassico e riveste i sessanta piani
dell’edificio – che rimarrà il più alto del
mondo fino a quando non sarà superato
dal Chrysler e dall’Empire State
Building, qualche isolato più a nord –
con i fasci di pilastrini, le finestre ad arco
acuto e i motivi decorativi del gotico
fiammeggiante francese. Il Woolworth
Building fu inaugurato nel 1913 dal
presidente degli Stati Uniti Wilson, che
ne accese tutte le luci premendo un pulsante nella Casa Bianca, a Washington.
Nel 1913: nello stesso anno in cui a New
York aveva luogo quell’Esposizione
internazionale di arte moderna che
avrebbe rivoluzionato il corso delle arti,
mostrando a decine di migliaia di
cittadini per la prima volta Van Gogh e
Gauguin, Cézanne e Matisse, Picasso e
Duchamp.
In realtà, la caratteristica della New
York di quegli anni sta proprio nella
commistione di un falso antico e di un
moderno autentico; anzi nella disponibilità evidente – e per molti versi
spudoratamente affascinante, agli occhi
degli europei – a far convivere tutte le
possibili sedimentazioni dell’antico con
i più sottili depositi che una ricerca
tecnologica e una capacità produttiva
industriale senza uguali rovesciano senza
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sosta nella metropoli moderna. I templi
greci e romani, le magioni medievali o
rinascimentali, i grattacieli eclettici e
neogotici sono circondati dalle ferrovie
metropolitane sotterranee e sopraelevate
a trazione elettrica, stanno in ampie
strade (dai marciapiedi larghissimi) piene
di traffico e illuminate con le nuove
lampadine elettriche ad arco, sono
collegati tra loro da una rete telefonica
estesissima (il primo elenco, del 1896,
include 15.000 abbonati) e, infine, sono
privatamente raggiungibili in automobile.
Non saranno queste le uniche
caratteristiche della convivenza di passato
e futuro nella metropoli americana.
Milioni di persone la cui cultura è ancora
radicata nel passato contadino europeo o
asiatico da cui si sono appena distaccati
si trovano a vivere, lavorare, crescere a
New York, ad abitare in edifici-alveare
privi di qualsiasi ‘intenzione’ estetica e
in quartieri sovraffollati. Queste genti
diverse sono chiamate nella metropoli
americana dallo sviluppo industriale ed
economico impetuoso che tra la fine
dell’Ottocento e la prima guerra
mondiale dà agli Stati Uniti la leadership
mondiale nella produzione di beni. La
metropoli dell’immigrazione di massa è
l’altra faccia della modernità. Ne è il
rovescio, dal punto di vista estetico, e
tuttavia da quella è inscindibile: non solo
perché, in senso molto concreto, questa è
la New York che scava, costruisce, fa
funzionare quella; ma anche perché, se
così si può dire, in questa New York si
ritrovano in tutta la loro ricchezza umana
quella varietà e quell’eclettismo che poi
finiscono incastonati negli edifici.
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Potrebbe apparire pretestuoso, in
questo contesto, ricordare che questa è
l’umanità povera e disprezzata della
metropoli, ignorata oppure, peggio,
guardata con sospetto dalla minoranza
che ha nelle sue mani il potere
economico e politico, il governo della
città e il controllo delle sue istituzioni
culturali, se non fosse che queste persone
e ambienti entrano direttamente nel
discorso sull’evoluzione dell’arte,
attraverso l’opera di innovatori sensibili
a cogliere il ‘lato umano’ della
modernità.
New York-Parigi, andata e ritorno
A partire dai primi anni del XX
secolo, nel giro di pochi anni e per
l’iniziativa di un numero limitato di
persone, e soprattutto senza alcuna
mediazione o approvazione delle
maggiori istituzioni culturali e artistiche
cittadine, arriva a New York l’arte
moderna europea. Il fenomeno è stato
largamente esplorato. Se ne riparla qui
per sottolineare alcuni aspetti intrinseci
alla trasmissione culturale: per mostrare
come entrambe le parti interessate
mantengano importanti caratteri
originali nello scambio, per mettere in
evidenza i tempi, la natura e i limiti dei
rapporti tra gli individui e gruppi
coinvolti, per ricontestualizzare il posto
degli artisti nella cultura statunitense di
inizio Novecento.
La chiave principale del discorso
sull’arrivo del modernismo e dell’avanguardia a New York – il caricaturista,
critico e gallerista Marius de Zayas
intitolò una sua cronistoria di quegli
eventi, “Come, quando e perché il
modernismo arrivò a New York” – è
quella della trasmissione e dello scambio
tra le culture. Il nostro sarà dunque, nel
suo insieme, un discorso sia sull’ambiente sociale metropolitano, sia sulle
opere, sia sui rapporti tra individui e
gruppi, e infine sui modi in cui essi si
inseriscono in un processo evolutivo che
negli ultimi decenni del secolo precedente ha portato le classi dirigenti economico-finanziarie e politiche locali a
guardare verso la cultura artistica europea
con un interesse senza precedenti e a
importare tanto i modelli architettonici,
quanto i criteri estetici.3
Quasi interagendo in presa diretta
con il mutamento di ottica dei loro
potenziali acquirenti o committenti, gli
artisti statunitensi – tra i quali quelli
gravitanti attorno all’area newyorkese
sono in assoluta maggioranza – prenderanno la strada di Parigi. Molti continueranno a seguire gli itinerari del grand
tour classico, che include anche Londra e
soprattutto l’Italia, ma la maggioranza
si dirigerà sempre più verso Parigi, verso
le sue accademie di pittura e la Ecole des
Beaux-Arts. Qualcuno andrà anche in
Germania, prima a Düsseldorf, poi a
Monaco e Berlino. Qualcun altro
prenderà le vie traverse della Spagna e
dell’Olanda, attratto da Velázquez, da
Rembrandt e da Frans Hals. Ma per
cinquant’anni, soprattutto dopo la guerra
franco-tedesca e la Comune, la grande
calamita sarà Parigi. E nell’arte
statunitense si riprodurranno, scanditi
dall’inevitabile ritardo e da un generale
senso di dipendenza, i percorsi e le
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successioni temporali delle esperienze
artistiche francesi.
Insieme alla ricchissima e diversificata offerta didattica, sono le implicazioni culturali e quelle propriamente
tecniche intrinseche alla storia delle arti
figurative che portano gli artisti
statunitensi in Europa. I flussi hanno
dimensioni numeriche impressionanti:
Irma Jaffe e Abraham Davidson elencano
una trentina di artisti, tra i soli modernisti meritevoli di menzione, che vanno
a Parigi – alcuni ripetutamente o per
lunghi periodi, anche di anni – tra il
1897 e il 1912. Ma quanti bisognerebbe
aggiungerne, se si tenesse conto di quelli
che modernisti non sono e dei tanti di
cui non si parla più? E bisognerebbe
inoltre tenere in conto le decine di pittori
della generazione precedente che, negli
ultimi due decenni dell’Ottocento, hanno
frequentato le accademie parigine, le
coste bretoni, le campagne nei dintorni
di Parigi, riportando in patria di volta in
volta le visioni georgiche alla Barbizon,
gli accademismi alla Bouguereau oppure
le poetiche e le innovazioni tecniche degli
impressionisti. Nel 1889, scrivono
William Scott e Peter Rutkoff, dei 113
membri della Society of American Artists
di New York, 85 avevano studiato in
Europa, soprattutto a Parigi.4
Anche le lettere vivono un analogo
disagio. “New York negli anni 1910-20
era una città di scrittori”, scrive Christine
Stansell, “…e la letteratura era la forma
d’arte principale”.5 Eppure Whitman, cui
pure tutti guardano, sembra essere senza
eredi. Dopo la breve stagione del romanzo
realistico e naturalistico di fine secolo,
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gli aspiranti innovatori sono costretti a
fuggire dall’asfissiante “isolazionismo
spirituale statunitense”, come lo definisce
Dore Ashton. Nei primi trent’anni del
secolo, scrive ancora Ashton, l’incomprensione nei loro confronti spinse i poeti
verso l’Europa, “dove trovarono soddisfazione sul piano personale al solo essere
a contatto di gomito con altri poeti e da
dove spedivano ogni tanto qualche poesia
per pubblicarla sulle effimere piccole
riviste americane”.6
Di fatto, gli innovatori maggiori
saranno proprio gli espatriati: non tanto
Henry James, naturalmente, quanto Ezra
Pound, Gertrude Stein e T. S. Eliot. In
patria, nelle pagine delle periclitanti little
reviews, in gran parte nascenti e morenti
nell’area newyorkese, si incrociano le
testimonianze di arditi modelli di vita e
nuove idee sull’arte e la letteratura.
William Carlos Williams e pochissimi
altri – Wallace Stevens su tutti e Amy
Lowell, che però si tengono ai margini
della mischia – cercano di incrinare il
provinciale filisteismo dominante.
Tornano a Whitman e contemporaneamente guardano oltreoceano e cercano di
interloquire con i modelli europei, con
gli espatriati e con il mondo delle arti
figurative. È quest’ultimo, infatti, il
primo ad aprirsi all’innovazione e agli
influssi dall’esterno e quello che sarà
toccato più in profondità dalle conseguenze di incessanti andate e ritorni
attraverso l’Atlantico. Ma la cosa nuova
e importante è il senso di comune
appartenenza a una temperie, a un’esperienza individuale e collettiva di
trasformazione radicale. Il poeta Williams
scriverà di quanto i pittori siano stati
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importanti nella sua formazione poetica;
per converso il pittore Man Ray scriverà
del senso di scoperta proveniente dal
contatto con i poeti del simbolismo
francese. Adattando alla realtà statunitense alcuni dei modelli francesi – dalle
cosiddette colonie artistiche ai locali
pubblici come luoghi di incontro e
scambio – gli artisti della New York
d’inizio secolo danno vita a fenomeni
inediti: il Greenwich Village è il più
importante di tali creazioni, oltre che il
più famoso e, attraverso mille
trasformazioni, il più duraturo nel tempo.
Il rinnovamento artistico:
dai realisti a Dada
Alla fine dell’Ottocento, New York è
diventata una delle poche grandi
metropoli mondiali. Nel 1898, grazie
all’incorporazione dei boroughs di
Brooklyn, Bronx, Queens, Staten Island
e Manhattan nella “Greater New York”,
la città si espande territorialmente e la
sua popolazione balza a 3,5 milioni di
persone. Sono gli anni in cui gli
immigranti arrivano a centinaia di
migliaia ogni anno: a partire dal 1892,
attraverso i locali della neonata immigration station di Ellis Island, nella rada di
New York, ne vengono esaminati 5000
al giorno . Ancora poco più di un lustro e
l’intera area metropolitana si estenderà
ancora verso la Westchester County, il
New Jersey e Long Island, superando i
cinque milioni di residenti. La crescita
della città è impressionante. Lo sono
anche le condizioni materiali in cui vive
almeno metà della sua popolazione. Già
nel 1890, Jacob Riis aveva documentato
nell’impietoso How the Other Half Lives,
“Come vive l’altra metà”, la miseria, lo
squallore e il sovraffollamento delle
abitazioni, in particolare nei quartieri di
operai e immigrati. Una quindicina
d’anni più tardi, il grande fotografo Lewis
Hine avrebbe aggiornato il quadro,
ritraendo però anche, spesso, la fierezza
delle persone, la dignità delle loro
occupazioni e l’importanza stessa del loro
lavoro nella società metropolitana.
È di questa realtà che una parte degli
artisti newyorkesi – che spesso provengono da altre parti del paese, ma hanno
fatto dell’Empire City la loro patria
d’elezione – acquisiscono una consapevolezza che, nel momento stesso in cui
diventa pittura, li allontana dalla tradizione accademica dell’arte bella. In questo
il loro percorso è analogo a quello di
Lewis Hine, estraneo alle contemporanee
pratiche artistiche in fotografia – quel
“pittorialismo” che sarà dominante fino
a tutto il primo decennio del Novecento
– proprio per la scelta dei soggetti da lui
privilegiati. I cosiddetti “realisti urbani”
guardano con occhi nuovi all’esplosione
demografica e territoriale della metropoli. Sono tra i primi, nella cultura pittorica statunitense, a domandarsi come
rapportarsi alla complessità e soprattutto
alla novità della loro grande città
multietnica, povera e ricca, affollata,
frenetica e resa mutevole dalle grandi
opere urbanistiche e architettoniche e
dall’introduzione nel quotidiano delle
nuove tecniche. Nell’idea di rinnovamento implicita nell’individuazione di
questo specifico aspetto del nuovo da
rappresentare confluiranno sia un’aper-
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BRUNO CARTOSIO
tura ideologico-politica verso tutto ciò
che si presenta come diverso ed estraneo
alla cultura dominante, sia una disponibilità a legittimare, ritraendoli, i
frammenti popolari e marginali della
società metropolitana.
Nel porsi il problema dei nuovi
soggetti nella loro pittura, dunque, i
realisti antiaccademici cercheranno di
adattare la lezione tecnica pariginaeuropea all’obiettivo di cogliere e riprodurre figurativamente i tanti tasselli
diversi del nuovo mosaico sociale. Come
nella poesia inclusiva di Whitman, nei
loro quadri troveranno posto tutti i
possibili frammenti antieroici del mondo
popolare: gente comune e azioni o
situazioni quotidiane, luoghi di lavoro e
vicoli dietro le case, marciapiedi affollati,
strade percorse dalle ferrovie sopraelevate,
fumose sale di bar e teatrini di varietà,
incontri di boxe o di lotta. Le loro
immagini volgari e antiborghesi, dipinte
con pennellate rapide e disegno
approssimativo, sono lontane dalle forme
belle degli accademici, tanto statunitensi
che francesi. Niente più imprestiti dal
mondo classico o simbolismi universalizzanti. Per gli urban realists il problema
principale sarà sostituire i soggetti e i
paesaggi tradizionali, le immagini convenzionali di una realtà più o meno
idealizzata con frammenti rivelatori, per
metonimia, per sineddoche o per allusione, della caleidoscopica verità della
metropoli.
In contemporanea con gli sviluppi
della sociologia e dell’antropologia, che
valorizzano l’osservazione dei soggetti e
delle dinamiche dall’interno dei gruppi
da studiare, e in sintonia con i criteri e le
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implicazioni ‘politiche’ della letteratura
naturalista, il pittore diventa osservatorepartecipante. Motivato spesso da ragioni
di simpatia propriamente politica per il
mondo popolare, lo ritrae per mostrarne
la positività.
A loro volta, la rottura antiaccademica
dei realisti urbani nel primo decennio del
secolo e un’intensificazione dei rapporti
con Parigi, dove la rivoluzione cubista si
affianca e sostituisce a quella dei fauves,
rendono possibile l’ulteriore accelerazione
modernista dei dieci anni precedenti
l’entrata degli Stati Uniti nella prima
guerra mondiale. In Europa, i modernisti
stanno rinunciando alla rappresentazione,
per puntare invece all’interpretazione del
rapporto personale con il reale. La tela
smette di essere il luogo in cui viene
fissata un’immagine fedele della realtà
esteriore – quella funzione è ormai
lasciata alla pellicola fotografica – e
diventa invece il veicolo attraverso cui
l’artista ‘parla’ del suo rapporto col
mondo. Quando a Parigi lo scrittore russo
Ilja Ehrenburg parlò all’amico Picasso del
proprio amore per gli impressionisti,
Picasso osservò: “Essi volevano raffigurare
il mondo così come lo vedevano. A me
questo non interessa. Io voglio raffigurare
il mondo così come lo penso…”.7
È questa, in sostanza, più ancora che
quella propriamente tecnica, la lezione
principale che i modernisti americani
impareranno a Parigi: rendere soggetto
la propria sensibilità e il proprio pensiero.
Il salto è decisivo. Mentre i realisti
cercano di rappresentare un mondo che
la loro nuova sensibilità rende rappresentabile, nonostante le sanzioni negative
del perbenismo accademico, i modernisti
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spostano l’attenzione dell’opera sulla
sensibilità individuale, facendo del
quadro la registrazione di percezioni
soggettive, magari anche della loro
somma o giustapposizione, a partire
dalla frammentarietà e intermittenza
della percezione personale del reale.
Romperanno anch’essi il rapporto con le
modalità figurative e le rappresentazioni
simboliche della tradizione accademica,
ma in modo ancor più radicale: arriveranno a riorganizzare l’immagine pittorica attraverso la ricomposizione del
tutto soggettiva, arbitraria, dei frammenti di mondo percepiti o ‘pensati’
dall’artista. E seguendo ancora l’esempio
europeo spingeranno infine alle estreme
conseguenze la liberazione del colore dal
suo ruolo mimetico tradizionale.8
In un intreccio di dinamiche che gli
Stati Uniti non avevano mai conosciuto
prima, sulla duplice e parallela liberazione dell’arte dall’accademismo tradizionalista e dai vincoli della rappresentazione si innesta infine il rifiuto della
pittura e dell’arte in quanto tali. Marcel
Duchamp, il cui quadro più famoso ha
scandalizzato pubblico e critica all’Espo-
sizione internazionale d’arte moderna del
1913, smette di dipingere, inaugurando
a New York, dove si è trasferito dopo lo
scoppio della guerra in Europa, una sua
nuova fase destinata a rivoluzionare
nuovamente il mondo dell’arte. I suoi
oggetti assemblati oppure di fabbricazione industriale, i readymades, che pure
potrebbero essere intesi come richiamo a
guardare con occhi nuovi a frammenti del
mondo circostante, creano scompiglio.
Sconcertano anche la sua ironia e il suo
giocare con forme, concetti e parole.
Grazie alla sua presenza, negli anni della
guerra, la New York dell’avanguardia si
gemellerà idealmente anche con Zurigo,
oltre che con Parigi, con Dada a fare da
ponte. Ma gli eventi della guerra segneranno in molti modi la fine della stagione
della crescita e del rinnovamento, dell’esplorazione. Le strade della modernità
tecnologica, portato della nuova rivoluzione industriale di cui gli Stati Uniti
sono epicentro, e del modernismo
artistico, frutto dello scambio tra culture,
si divideranno nuovamente. Dopo la
guerra, per la società, l’arte e la cultura
statunitensi si apre un capitolo nuovo.
NOTE
1
Paris 1900, les artistes américains à l’Exposition
universelle, Paris: Paris-Musées, 2001, catalogo
della mostra omonima al Musée Carnavalet (21
febbraio-29 aprile 2001).
2
William B. Scott and Peter M. Rutkoff, New
York Modern: The Arts and the City, Baltimore:
Johns Hopkins University Press, 1999, p. 45.
3
Marius de Zayas, “How, When, and Why
Modern Art Came to New York”, with
introduction and notes by Francis M. Naumann,
Arts Magazine, 54:8, April 1980, pp. 96-126;
Brooklyn Institute of Arts and Sciences, The
American Renaissance, 1877-1917, New York: The
Brooklyn Museum, 1979; Russell Lynes, The
Tastemakers, New York: Harper & Brothers, 1955.
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BRUNO CARTOSIO
4
Irma B. Jaffe, Joseph Stella, Cambridge,
Mass.: Harvard University Press, 1970, pp. 2425; Abraham A. Davidson, Early American
Modernist Painting, 1910-1935, New York:
Harper & Row, 1981, pp. 4-5; William H. Gerdts
et al., Lasting Impressions: American Painters in
France, 1865-1915, Evanston, Ill.: Terra
Foundation for the Arts, 1992; H. Barbara
Weinberg, “L’attrait de Paris: les peintres
américains de la fin du XIXe siecle et leur
formation en France”, in Un Nouveau Monde: chefsd’oeuvre de la peinture américaine, 1760-1910, Paris:
Éditions de la Réunion des musées nationaux,
1984; Scott-Rutkoff, op.cit., p. 7.
20
5
Christine Stansell, American Moderns:
Bohemian New York and the Creation of a New
Century, New York: Henry Holt & Co., 2000,
p.147.
6
Dore Ashton, The New York School: A
Cultural Reckoning, Harmondsworth: Penguin,
1972, p. 9.
7
Ilja Ehrenburg, Uomini, anni, vita, 5 Voll.,
Roma: Editori Riuniti, 1961, Vol. I, p. 244.
8
Stuart Davis, cit. in Wayne Roosa, “La
‘Sorprendente Continuità’: I diari di Stuart
Davis”, in Philip Rylands, a cura di, Stuart Davis,
Milano: Electa, 1997, p. 58.