011-020 Introduzione
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Introduzione BRUNO CARTOSIO NEW YORK: METROPOLI, MODERNITÀ E AVANGUARDIA. INTRODUZIONE “Un artista che abbia viaggiato su un treno a vapore, guidato un’automobile o volato in aeroplano non percepisce la forma e lo spazio come uno che non lo abbia fatto. E un artista che abbia usato telegrafo, telefono e radio non percepisce il tempo e lo spazio come uno che non lo abbia fatto. E un artista che viva nel mondo del cinema, dell’elettricità e della chimica sintetica non percepisce la luce e il colore come uno che non lo abbia fatto. Un artista che abbia vissuto in una società democratica ha una visione di ciò che è veramente un essere umano diversa da uno che non lo abbia fatto. Queste nuove esperienze, emozioni e idee vengono riflesse nell’arte moderna, ma non ne sono una copia…” (Stuart Davis, “È in atto una rivoluzione nelle arti?”, 1940) I contributi riuniti in questa sezione della rivista nascono da un incontro, intitolato “New York: metropoli, modernità e avanguardia”, che il Centro internazionale di studi sull’avanguardia e la modernità (CISAM) dell’Università di Bergamo ha organizzato il giorno 29 marzo 2001. Prima delle relazioni, in quell’occasione, Tiziano Manzini, del Pandemonium Teatro di Bergamo, lesse testi su New York di Walt Whitman, Joseph Stella, Fausto Maria Martini, Vladimir Maiakovsky e Federico Garcia Lorca e alla fine dei lavori il poeta portoricano-newyorkese Pedro Pietri presentò una serie di suoi componimenti sulla metropoli odierna. Questi testi, tutti disponibili in italiano, non sono inclusi qui, mentre invece si aggiunge alle stesure rielaborate delle relazioni presentate allora un saggio inedito di Dore Ashton, figura importante nel panorama della storia e della critica d’arte statunitense, in cui l’avanguardia d’inizio Novecento è rapportata a quella del secondo dopoguerra. L’obiettivo dell’incontro, che qui si ripropone, era stato quello di fissare l’attenzione sul breve lasso di tempo in cui New York diventa metropoli di ‘statura’ mondiale per dimensioni, per ambizione e per complessità della struttura e composizione sociale, sulla spinta dell’impetuosa crescita economico-politica e militare degli Stati Uniti. L’attenzione dei saggi è incentrata sulle vicende del modernismo nell’arte e nella letteratura, che però avvengono su uno sfondo socio-politico peculiare e nel contesto di una realtà concreta in cui si sintetizzano i fenomeni più avanzati e appariscenti della cultura materiale della modernità newyorkese. 11 BRUNO CARTOSIO New York e Parigi Se si guarda al mondo dell’arte, Parigi e l’Europa senza New York sono possibili; New York senza Parigi e l’Europa, no. Tuttavia, se scrivere di Parigi nei primi trent’anni del secolo significa arrivare alle soglie della sua crisi in quanto capitale mondiale dell’arte, occuparsi di New York nel quarto di secolo che precede la prima guerra mondiale vuol dire mettere le basi per la comprensione del cammino successivo, che dopo l’interludio del ventennio tra le due guerre avrebbe poi portato la metropoli statunitense a diventare il centro mondiale della modernità. La partecipazione degli artisti statunitensi alla grande esposizione universale di Parigi del 1900 era stata orgogliosamente salutata dai critici come l’affermazione di un’arte nazionale.1 In realtà, nazionalismi a parte, fino a tutto il primo anteguerra, gran parte delle dinamiche interne al mondo newyorkese delle arti – New York è l’unico luogo negli Stati Uniti in cui le dinamiche culturali abbiano un qualche respiro sopranazionale – sono di derivazione europea, soprattutto parigina. I suoi artisti frequentano le scuole di pittura, le accademie, le città d’arte e i musei d’Europa e riportano in patria gli insegnamenti tecnico-stilistici che ricevono, applicandoli poi ai contesti locali. Gli Stati Uniti non hanno la tradizione artistica dei maggiori centri europei. Nella società e nella cultura statunitense l’arte ha avuto pochi praticanti e pochi cultori. Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento, le classi dominanti degli 12 Stati Uniti, ormai diventati grande potenza, cominceranno a cercare nella bellezza, eleganza e voluttuarietà dei prodotti artistici il corrispettivo simbolico del loro potere economico. Fino a quel momento, la modernità americana non sta nelle arti, ma nella complessa, inedita materialità della società metropolitana, nei beni di consumo, nelle tecniche di costruzione degli edifici e in quelle applicate alla produzione e alla convivenza civile. Quello che il modernismo europeo offre è un bagaglio di strumenti, sia ideologici sia tecnici, con cui rapportarsi alle innovazioni locali. Come per i tanti praticanti della ‘scuola’ di Parigi, anche per i modernisti statunitensi l’artista e la sua soggettività diventano il centro dell’esplorazione artistica. Anche per loro, dunque, la capacità di cogliere la realtà nei suoi frammenti costitutivi ha i caratteri di una conquista. Ma l’adozione di quegli strumenti mentali e di quelle tecniche pittoriche produce risultati quasi sempre ‘molto americani’: nel suo complesso la produzione statunitense, inclusa la più aperta agli imprestiti, quella newyorkese, conservò una sua specificità piuttosto precisa sia sul piano tematico (i ‘soggetti’ americani), sia su quello stilistico (una sperimen tazione in generale più cauta di quella europea). Passato e presente: le facciate e le strutture Nei dieci anni che precedettero la prima guerra mondiale, anche il modernismo fu esportato a New York da Parigi, esattamente come era successo nei Introduzione decenni precedenti con la pittura impressionista e le sue evoluzioni e con l’architettura del “neoclassicismo Beaux Arts”.2 Per quanto riguarda quest’ultimo: negli ultimi vent’anni dell’Ottocento, quando la metropoli statunitense si affacciava sulla scena culturale mondiale, i ceti economici e politici dominanti avevano cercato di cambiare la facciata della città, di farla ‘bella’, almeno nei suoi edifici rappresentativi, adottando un eclettismo di derivazione europea e soprattutto lo stile monumentale reso canonico dalla Ecole des Beaux-Arts parigina. Dopo l’esposizione mondiale colombiana di Chicago del 1893, che a sua volta canonizza il modello classicista negli Stati Uniti, tutti i maggiori edifici newyorkesi con funzioni pubbliche saranno costruiti in stile neoclassico: dalla Dogana alla Borsa di Wall Street, dalla Camera di commercio all’Edifico municipale a quello dei bagni pubblici, dalla Corte suprema alle Poste, dalla Public Library e dalla Morgan Library al Grand Central Terminal e al Metropolitan Museum, dagli edifici principali della Columbia University a quello del Brooklyn Museum, dal monumento ai soldati e marinai di Brooklyn all’Arco di Washington Square a Manhattan. Sulla stessa falsariga sono costruite nuove chiese, sedi di banche, vari club privati. Il quadro è meno univoco se si guarda alle fastose abitazioni newyorkesi dei magnati dell’economia e della finanza che punteggiano in modo significativo alcune aree privilegiate nella parte centrale di Manhattan. Le case Whitney, Jennings, Waldo, Villard e Fletcher, quelle dei Vanderbilt, dei magnati dell’acciaio, del carbone e delle ferrovie Andrew Carnegie, Henry Clay Frick e Morton F. Plant, del figlio dei banchieri amburghesi Felix Warburg, del magnate del tabacco James B. Duke, del proprietario di giornali Joseph Pulitzer, del finanziere J. R. DeLamar sono clamorosi imprestiti o sintesi delle tradizioni architettoniche europee, dal medioevo francese al rinascimento italiano, alle successive commistioni eclettiche. In generale il gusto di tali edifici appare largamente retrò. Tuttavia, anche quelli sono quasi sempre dovuti ad architetti di formazione francese. Diverso ancora è l’aspetto di tanti altri edifici – alberghi, sedi di giornali, case di appartamenti…. – che si presentano esternamente nelle forme composite di un eclettismo che sembra farsi vanto delle ostentate citazioni da un ricco bagaglio architettonico, in cui molti dei motivi strutturali e ornamentali provengono dall’Europa. Ma quasi sempre, più ancora che l’esibita, compiaciuta sovrabbondanza di ornamenti, sono le dimensioni che contraddistinguono le architetture civili newyorkesi. Il grattacielo nasce a Chicago, ma è a New York che diventerà, subito dopo, cifra emblematica della città e del suo avvenirismo. Nascoste all’interno di queste stupefacenti strutture, che sorprendono i visitatori per la loro altezza, sono le ‘cose’ della modernità senza confronti della metropoli americana: le ‘gabbie’ strutturali in travi di acciaio attorno a cui vengono eretti i muri (non più portanti, quindi molto più sottili di quanto ci si aspetterebbe), gli ascensori veloci e sicuri (elettrici, come l’illuminazione che fa della Broadway notturna 13 BRUNO CARTOSIO la white way), i collegamenti telefonici interni. Esemplare è il caso del Woolworth Building, costruito dall’architetto Cass Gilbert per Frank Woolworth, proprietario della catena di grandi magazzini omonimi in cui la merce era venduta per cinque e dieci centesimi di dollaro. Gilbert, formatosi alla Ecole des BeauxArts parigina, rinuncia in questo caso al neoclassico e riveste i sessanta piani dell’edificio – che rimarrà il più alto del mondo fino a quando non sarà superato dal Chrysler e dall’Empire State Building, qualche isolato più a nord – con i fasci di pilastrini, le finestre ad arco acuto e i motivi decorativi del gotico fiammeggiante francese. Il Woolworth Building fu inaugurato nel 1913 dal presidente degli Stati Uniti Wilson, che ne accese tutte le luci premendo un pulsante nella Casa Bianca, a Washington. Nel 1913: nello stesso anno in cui a New York aveva luogo quell’Esposizione internazionale di arte moderna che avrebbe rivoluzionato il corso delle arti, mostrando a decine di migliaia di cittadini per la prima volta Van Gogh e Gauguin, Cézanne e Matisse, Picasso e Duchamp. In realtà, la caratteristica della New York di quegli anni sta proprio nella commistione di un falso antico e di un moderno autentico; anzi nella disponibilità evidente – e per molti versi spudoratamente affascinante, agli occhi degli europei – a far convivere tutte le possibili sedimentazioni dell’antico con i più sottili depositi che una ricerca tecnologica e una capacità produttiva industriale senza uguali rovesciano senza 14 sosta nella metropoli moderna. I templi greci e romani, le magioni medievali o rinascimentali, i grattacieli eclettici e neogotici sono circondati dalle ferrovie metropolitane sotterranee e sopraelevate a trazione elettrica, stanno in ampie strade (dai marciapiedi larghissimi) piene di traffico e illuminate con le nuove lampadine elettriche ad arco, sono collegati tra loro da una rete telefonica estesissima (il primo elenco, del 1896, include 15.000 abbonati) e, infine, sono privatamente raggiungibili in automobile. Non saranno queste le uniche caratteristiche della convivenza di passato e futuro nella metropoli americana. Milioni di persone la cui cultura è ancora radicata nel passato contadino europeo o asiatico da cui si sono appena distaccati si trovano a vivere, lavorare, crescere a New York, ad abitare in edifici-alveare privi di qualsiasi ‘intenzione’ estetica e in quartieri sovraffollati. Queste genti diverse sono chiamate nella metropoli americana dallo sviluppo industriale ed economico impetuoso che tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale dà agli Stati Uniti la leadership mondiale nella produzione di beni. La metropoli dell’immigrazione di massa è l’altra faccia della modernità. Ne è il rovescio, dal punto di vista estetico, e tuttavia da quella è inscindibile: non solo perché, in senso molto concreto, questa è la New York che scava, costruisce, fa funzionare quella; ma anche perché, se così si può dire, in questa New York si ritrovano in tutta la loro ricchezza umana quella varietà e quell’eclettismo che poi finiscono incastonati negli edifici. Introduzione Potrebbe apparire pretestuoso, in questo contesto, ricordare che questa è l’umanità povera e disprezzata della metropoli, ignorata oppure, peggio, guardata con sospetto dalla minoranza che ha nelle sue mani il potere economico e politico, il governo della città e il controllo delle sue istituzioni culturali, se non fosse che queste persone e ambienti entrano direttamente nel discorso sull’evoluzione dell’arte, attraverso l’opera di innovatori sensibili a cogliere il ‘lato umano’ della modernità. New York-Parigi, andata e ritorno A partire dai primi anni del XX secolo, nel giro di pochi anni e per l’iniziativa di un numero limitato di persone, e soprattutto senza alcuna mediazione o approvazione delle maggiori istituzioni culturali e artistiche cittadine, arriva a New York l’arte moderna europea. Il fenomeno è stato largamente esplorato. Se ne riparla qui per sottolineare alcuni aspetti intrinseci alla trasmissione culturale: per mostrare come entrambe le parti interessate mantengano importanti caratteri originali nello scambio, per mettere in evidenza i tempi, la natura e i limiti dei rapporti tra gli individui e gruppi coinvolti, per ricontestualizzare il posto degli artisti nella cultura statunitense di inizio Novecento. La chiave principale del discorso sull’arrivo del modernismo e dell’avanguardia a New York – il caricaturista, critico e gallerista Marius de Zayas intitolò una sua cronistoria di quegli eventi, “Come, quando e perché il modernismo arrivò a New York” – è quella della trasmissione e dello scambio tra le culture. Il nostro sarà dunque, nel suo insieme, un discorso sia sull’ambiente sociale metropolitano, sia sulle opere, sia sui rapporti tra individui e gruppi, e infine sui modi in cui essi si inseriscono in un processo evolutivo che negli ultimi decenni del secolo precedente ha portato le classi dirigenti economico-finanziarie e politiche locali a guardare verso la cultura artistica europea con un interesse senza precedenti e a importare tanto i modelli architettonici, quanto i criteri estetici.3 Quasi interagendo in presa diretta con il mutamento di ottica dei loro potenziali acquirenti o committenti, gli artisti statunitensi – tra i quali quelli gravitanti attorno all’area newyorkese sono in assoluta maggioranza – prenderanno la strada di Parigi. Molti continueranno a seguire gli itinerari del grand tour classico, che include anche Londra e soprattutto l’Italia, ma la maggioranza si dirigerà sempre più verso Parigi, verso le sue accademie di pittura e la Ecole des Beaux-Arts. Qualcuno andrà anche in Germania, prima a Düsseldorf, poi a Monaco e Berlino. Qualcun altro prenderà le vie traverse della Spagna e dell’Olanda, attratto da Velázquez, da Rembrandt e da Frans Hals. Ma per cinquant’anni, soprattutto dopo la guerra franco-tedesca e la Comune, la grande calamita sarà Parigi. E nell’arte statunitense si riprodurranno, scanditi dall’inevitabile ritardo e da un generale senso di dipendenza, i percorsi e le 15 BRUNO CARTOSIO successioni temporali delle esperienze artistiche francesi. Insieme alla ricchissima e diversificata offerta didattica, sono le implicazioni culturali e quelle propriamente tecniche intrinseche alla storia delle arti figurative che portano gli artisti statunitensi in Europa. I flussi hanno dimensioni numeriche impressionanti: Irma Jaffe e Abraham Davidson elencano una trentina di artisti, tra i soli modernisti meritevoli di menzione, che vanno a Parigi – alcuni ripetutamente o per lunghi periodi, anche di anni – tra il 1897 e il 1912. Ma quanti bisognerebbe aggiungerne, se si tenesse conto di quelli che modernisti non sono e dei tanti di cui non si parla più? E bisognerebbe inoltre tenere in conto le decine di pittori della generazione precedente che, negli ultimi due decenni dell’Ottocento, hanno frequentato le accademie parigine, le coste bretoni, le campagne nei dintorni di Parigi, riportando in patria di volta in volta le visioni georgiche alla Barbizon, gli accademismi alla Bouguereau oppure le poetiche e le innovazioni tecniche degli impressionisti. Nel 1889, scrivono William Scott e Peter Rutkoff, dei 113 membri della Society of American Artists di New York, 85 avevano studiato in Europa, soprattutto a Parigi.4 Anche le lettere vivono un analogo disagio. “New York negli anni 1910-20 era una città di scrittori”, scrive Christine Stansell, “…e la letteratura era la forma d’arte principale”.5 Eppure Whitman, cui pure tutti guardano, sembra essere senza eredi. Dopo la breve stagione del romanzo realistico e naturalistico di fine secolo, 16 gli aspiranti innovatori sono costretti a fuggire dall’asfissiante “isolazionismo spirituale statunitense”, come lo definisce Dore Ashton. Nei primi trent’anni del secolo, scrive ancora Ashton, l’incomprensione nei loro confronti spinse i poeti verso l’Europa, “dove trovarono soddisfazione sul piano personale al solo essere a contatto di gomito con altri poeti e da dove spedivano ogni tanto qualche poesia per pubblicarla sulle effimere piccole riviste americane”.6 Di fatto, gli innovatori maggiori saranno proprio gli espatriati: non tanto Henry James, naturalmente, quanto Ezra Pound, Gertrude Stein e T. S. Eliot. In patria, nelle pagine delle periclitanti little reviews, in gran parte nascenti e morenti nell’area newyorkese, si incrociano le testimonianze di arditi modelli di vita e nuove idee sull’arte e la letteratura. William Carlos Williams e pochissimi altri – Wallace Stevens su tutti e Amy Lowell, che però si tengono ai margini della mischia – cercano di incrinare il provinciale filisteismo dominante. Tornano a Whitman e contemporaneamente guardano oltreoceano e cercano di interloquire con i modelli europei, con gli espatriati e con il mondo delle arti figurative. È quest’ultimo, infatti, il primo ad aprirsi all’innovazione e agli influssi dall’esterno e quello che sarà toccato più in profondità dalle conseguenze di incessanti andate e ritorni attraverso l’Atlantico. Ma la cosa nuova e importante è il senso di comune appartenenza a una temperie, a un’esperienza individuale e collettiva di trasformazione radicale. Il poeta Williams scriverà di quanto i pittori siano stati Introduzione importanti nella sua formazione poetica; per converso il pittore Man Ray scriverà del senso di scoperta proveniente dal contatto con i poeti del simbolismo francese. Adattando alla realtà statunitense alcuni dei modelli francesi – dalle cosiddette colonie artistiche ai locali pubblici come luoghi di incontro e scambio – gli artisti della New York d’inizio secolo danno vita a fenomeni inediti: il Greenwich Village è il più importante di tali creazioni, oltre che il più famoso e, attraverso mille trasformazioni, il più duraturo nel tempo. Il rinnovamento artistico: dai realisti a Dada Alla fine dell’Ottocento, New York è diventata una delle poche grandi metropoli mondiali. Nel 1898, grazie all’incorporazione dei boroughs di Brooklyn, Bronx, Queens, Staten Island e Manhattan nella “Greater New York”, la città si espande territorialmente e la sua popolazione balza a 3,5 milioni di persone. Sono gli anni in cui gli immigranti arrivano a centinaia di migliaia ogni anno: a partire dal 1892, attraverso i locali della neonata immigration station di Ellis Island, nella rada di New York, ne vengono esaminati 5000 al giorno . Ancora poco più di un lustro e l’intera area metropolitana si estenderà ancora verso la Westchester County, il New Jersey e Long Island, superando i cinque milioni di residenti. La crescita della città è impressionante. Lo sono anche le condizioni materiali in cui vive almeno metà della sua popolazione. Già nel 1890, Jacob Riis aveva documentato nell’impietoso How the Other Half Lives, “Come vive l’altra metà”, la miseria, lo squallore e il sovraffollamento delle abitazioni, in particolare nei quartieri di operai e immigrati. Una quindicina d’anni più tardi, il grande fotografo Lewis Hine avrebbe aggiornato il quadro, ritraendo però anche, spesso, la fierezza delle persone, la dignità delle loro occupazioni e l’importanza stessa del loro lavoro nella società metropolitana. È di questa realtà che una parte degli artisti newyorkesi – che spesso provengono da altre parti del paese, ma hanno fatto dell’Empire City la loro patria d’elezione – acquisiscono una consapevolezza che, nel momento stesso in cui diventa pittura, li allontana dalla tradizione accademica dell’arte bella. In questo il loro percorso è analogo a quello di Lewis Hine, estraneo alle contemporanee pratiche artistiche in fotografia – quel “pittorialismo” che sarà dominante fino a tutto il primo decennio del Novecento – proprio per la scelta dei soggetti da lui privilegiati. I cosiddetti “realisti urbani” guardano con occhi nuovi all’esplosione demografica e territoriale della metropoli. Sono tra i primi, nella cultura pittorica statunitense, a domandarsi come rapportarsi alla complessità e soprattutto alla novità della loro grande città multietnica, povera e ricca, affollata, frenetica e resa mutevole dalle grandi opere urbanistiche e architettoniche e dall’introduzione nel quotidiano delle nuove tecniche. Nell’idea di rinnovamento implicita nell’individuazione di questo specifico aspetto del nuovo da rappresentare confluiranno sia un’aper- 17 BRUNO CARTOSIO tura ideologico-politica verso tutto ciò che si presenta come diverso ed estraneo alla cultura dominante, sia una disponibilità a legittimare, ritraendoli, i frammenti popolari e marginali della società metropolitana. Nel porsi il problema dei nuovi soggetti nella loro pittura, dunque, i realisti antiaccademici cercheranno di adattare la lezione tecnica pariginaeuropea all’obiettivo di cogliere e riprodurre figurativamente i tanti tasselli diversi del nuovo mosaico sociale. Come nella poesia inclusiva di Whitman, nei loro quadri troveranno posto tutti i possibili frammenti antieroici del mondo popolare: gente comune e azioni o situazioni quotidiane, luoghi di lavoro e vicoli dietro le case, marciapiedi affollati, strade percorse dalle ferrovie sopraelevate, fumose sale di bar e teatrini di varietà, incontri di boxe o di lotta. Le loro immagini volgari e antiborghesi, dipinte con pennellate rapide e disegno approssimativo, sono lontane dalle forme belle degli accademici, tanto statunitensi che francesi. Niente più imprestiti dal mondo classico o simbolismi universalizzanti. Per gli urban realists il problema principale sarà sostituire i soggetti e i paesaggi tradizionali, le immagini convenzionali di una realtà più o meno idealizzata con frammenti rivelatori, per metonimia, per sineddoche o per allusione, della caleidoscopica verità della metropoli. In contemporanea con gli sviluppi della sociologia e dell’antropologia, che valorizzano l’osservazione dei soggetti e delle dinamiche dall’interno dei gruppi da studiare, e in sintonia con i criteri e le 18 implicazioni ‘politiche’ della letteratura naturalista, il pittore diventa osservatorepartecipante. Motivato spesso da ragioni di simpatia propriamente politica per il mondo popolare, lo ritrae per mostrarne la positività. A loro volta, la rottura antiaccademica dei realisti urbani nel primo decennio del secolo e un’intensificazione dei rapporti con Parigi, dove la rivoluzione cubista si affianca e sostituisce a quella dei fauves, rendono possibile l’ulteriore accelerazione modernista dei dieci anni precedenti l’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. In Europa, i modernisti stanno rinunciando alla rappresentazione, per puntare invece all’interpretazione del rapporto personale con il reale. La tela smette di essere il luogo in cui viene fissata un’immagine fedele della realtà esteriore – quella funzione è ormai lasciata alla pellicola fotografica – e diventa invece il veicolo attraverso cui l’artista ‘parla’ del suo rapporto col mondo. Quando a Parigi lo scrittore russo Ilja Ehrenburg parlò all’amico Picasso del proprio amore per gli impressionisti, Picasso osservò: “Essi volevano raffigurare il mondo così come lo vedevano. A me questo non interessa. Io voglio raffigurare il mondo così come lo penso…”.7 È questa, in sostanza, più ancora che quella propriamente tecnica, la lezione principale che i modernisti americani impareranno a Parigi: rendere soggetto la propria sensibilità e il proprio pensiero. Il salto è decisivo. Mentre i realisti cercano di rappresentare un mondo che la loro nuova sensibilità rende rappresentabile, nonostante le sanzioni negative del perbenismo accademico, i modernisti Introduzione spostano l’attenzione dell’opera sulla sensibilità individuale, facendo del quadro la registrazione di percezioni soggettive, magari anche della loro somma o giustapposizione, a partire dalla frammentarietà e intermittenza della percezione personale del reale. Romperanno anch’essi il rapporto con le modalità figurative e le rappresentazioni simboliche della tradizione accademica, ma in modo ancor più radicale: arriveranno a riorganizzare l’immagine pittorica attraverso la ricomposizione del tutto soggettiva, arbitraria, dei frammenti di mondo percepiti o ‘pensati’ dall’artista. E seguendo ancora l’esempio europeo spingeranno infine alle estreme conseguenze la liberazione del colore dal suo ruolo mimetico tradizionale.8 In un intreccio di dinamiche che gli Stati Uniti non avevano mai conosciuto prima, sulla duplice e parallela liberazione dell’arte dall’accademismo tradizionalista e dai vincoli della rappresentazione si innesta infine il rifiuto della pittura e dell’arte in quanto tali. Marcel Duchamp, il cui quadro più famoso ha scandalizzato pubblico e critica all’Espo- sizione internazionale d’arte moderna del 1913, smette di dipingere, inaugurando a New York, dove si è trasferito dopo lo scoppio della guerra in Europa, una sua nuova fase destinata a rivoluzionare nuovamente il mondo dell’arte. I suoi oggetti assemblati oppure di fabbricazione industriale, i readymades, che pure potrebbero essere intesi come richiamo a guardare con occhi nuovi a frammenti del mondo circostante, creano scompiglio. Sconcertano anche la sua ironia e il suo giocare con forme, concetti e parole. Grazie alla sua presenza, negli anni della guerra, la New York dell’avanguardia si gemellerà idealmente anche con Zurigo, oltre che con Parigi, con Dada a fare da ponte. Ma gli eventi della guerra segneranno in molti modi la fine della stagione della crescita e del rinnovamento, dell’esplorazione. Le strade della modernità tecnologica, portato della nuova rivoluzione industriale di cui gli Stati Uniti sono epicentro, e del modernismo artistico, frutto dello scambio tra culture, si divideranno nuovamente. Dopo la guerra, per la società, l’arte e la cultura statunitensi si apre un capitolo nuovo. NOTE 1 Paris 1900, les artistes américains à l’Exposition universelle, Paris: Paris-Musées, 2001, catalogo della mostra omonima al Musée Carnavalet (21 febbraio-29 aprile 2001). 2 William B. Scott and Peter M. Rutkoff, New York Modern: The Arts and the City, Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1999, p. 45. 3 Marius de Zayas, “How, When, and Why Modern Art Came to New York”, with introduction and notes by Francis M. Naumann, Arts Magazine, 54:8, April 1980, pp. 96-126; Brooklyn Institute of Arts and Sciences, The American Renaissance, 1877-1917, New York: The Brooklyn Museum, 1979; Russell Lynes, The Tastemakers, New York: Harper & Brothers, 1955. 19 BRUNO CARTOSIO 4 Irma B. Jaffe, Joseph Stella, Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1970, pp. 2425; Abraham A. Davidson, Early American Modernist Painting, 1910-1935, New York: Harper & Row, 1981, pp. 4-5; William H. Gerdts et al., Lasting Impressions: American Painters in France, 1865-1915, Evanston, Ill.: Terra Foundation for the Arts, 1992; H. Barbara Weinberg, “L’attrait de Paris: les peintres américains de la fin du XIXe siecle et leur formation en France”, in Un Nouveau Monde: chefsd’oeuvre de la peinture américaine, 1760-1910, Paris: Éditions de la Réunion des musées nationaux, 1984; Scott-Rutkoff, op.cit., p. 7. 20 5 Christine Stansell, American Moderns: Bohemian New York and the Creation of a New Century, New York: Henry Holt & Co., 2000, p.147. 6 Dore Ashton, The New York School: A Cultural Reckoning, Harmondsworth: Penguin, 1972, p. 9. 7 Ilja Ehrenburg, Uomini, anni, vita, 5 Voll., Roma: Editori Riuniti, 1961, Vol. I, p. 244. 8 Stuart Davis, cit. in Wayne Roosa, “La ‘Sorprendente Continuità’: I diari di Stuart Davis”, in Philip Rylands, a cura di, Stuart Davis, Milano: Electa, 1997, p. 58.