Measuring the Human Condition - Dipartimento di Economia e Diritto
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Measuring the Human Condition - Dipartimento di Economia e Diritto
LA MISURAZIONE DELLA CONDIZIONE UMANA Indice 1 Una panoramica 2 L'utilitarismo ed il benessere classico 2.1 L'utilità cardinale 2.2 Le critiche al cardinalismo del Pigou e l'utilità ordinale 2.3 L'approccio dello Harsanyi e i limiti della concezione utilitarista 2.4 Le “preferenze rivelate” del Samuelson 2.5 La funzione del benessere sociale di Bergson e Samuelson 2.6 Il teorema di impossibilità dell’Arrow 2.7 Ricusazione dell’individualismo etico 3 La ridefinizione della razionalità sociale ed il ruolo dello Stato 3.1 Questioni lasciate irrisolte nell'analisi del benessere 3.2 La riformulazione del Sen 3.3 Benessere, giustizia, libertà individuale e confronti interpersonali 3.4 Alcune conclusioni intermedie 4 L’approccio delle “capacitazioni” 4.1 I “funzionamenti” e le “capacitazioni” del Sen 4.2 Mezzi di vita e funzionamenti rilevanti 4.3 Capacitazioni, well-being e qualità della vita 4.4 La valutazione del well-being 4.5 Le capacitazioni nel lavoro di Martha Nussbaum 5 Gli aspetti empirici della misurazione della condizione umana 5.1 Gli sviluppi concettuali relativi al benessere ed i metodi operativi elaborati per la sua misurazione 5.2 La specificazione della funzione del benessere sociale 5.3 Il PIL come indicatore del benessere 5.4 Una classificazione dei principali approcci alla misurazione del benessere 5.5 La contabilità estesa 5.6 L’approccio “normativista” 6 Gli indicatori sociali 6.1 Cenni storici 6.2 L’approccio della Adelman e della Morris 6.3 L’Indice della qualità della vita fisica e l’Indice internazionale della sofferenza umana 7 Gli Organismi internazionali 7.1 Gli indicatori sociali della Banca mondiale 7.2 Gli indicatori sociali nell’ambito delle Nazioni Unite 7.3 Lo Human Development Index 7.4 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’OCSE 7.5 I criteri di selezione dei requisiti degli indicatori sociali dell’OCSE 7.6 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’Unione Europea Bibliografia 1 UNA PANORAMICA Questo saggio riguarda il benessere o, se si vuole, la qualità della vita o ancora il well-being, ma non in termini definitori bensì in quelli, meno interessanti da un punto di vista speculativo ma certamente di più da uno applicativo, della sua misurazione. Non si può trattare quest’ultima senza aver delineato, sia pur sommariamente e senza dettagli, il cammino fatto dall’economia del benessere, dal suo apparire nei primi anni del novecento fino alla sua trasformazione in well-being e all’approccio delle capacitazioni del Sen, quasi un secolo dopo; così i capitoli 2, 3 e 4 sono dedicati ad un excursus su quelle che sono state proposte come teorie del benessere umano, sui loro difetti, le modificazioni, i punti fermi che, una volta definiti, non sono stati più abbandonati. La teoria è iniziata con il determinare i benesseri degli individui di una collettività e con il tentare di aggregarli in un benessere sociale valido per tutta questa (cap. 2); ma l’Arrow ha dimostrato che pur sotto condizioni molto blande questa aggregazione fornisce risultati incoerenti e quindi si è dovuti ripiegare su di una definizione di benessere direttamente formulata per un’intera società (cap. 3). La concezione individualistica è ritornata in auge, nell’ultimo decennio del secolo scorso, con l’approccio delle capacitazioni del Sen, che da un lato ha rivalutato con acuta e poderosa intuizione il benessere, o meglio il well-being, di una persona ma dall’altro ha costruito una teoria inapplicabile al livello empirico (cap.4); le modifiche apportate dalla Nussbaum, tuttavia, hanno reso l’approccio delle capacitazioni più trattabile applicativamente, e per mezzo di esse si è arrivati a costruire una definizione del well-being articolata dal punto di vista teorico ma anche adatta alla misurazione. Gli aspetti empirici di questa sono trattati nei capitoli seguenti. Si inizia con il benessere considerato in termini esclusivamente economici; poi esteso a tener conto delle ricchezze ambientali, e poi ancora a contabilizzare le perdite ed i ricavi di varia natura connessi con lo sviluppo dell’attività economica (cap.5). Si passa poi alla connotazione del benessere tramite panieri diversi di indicatori sociali (cap.6) ed infine si espongono gli indicatori costruiti dai maggiori organismi internazionali: la Banca mondiale, le Nazioni Unite, l’OCSE e l’Unione Europea (cap.7). 2 L'UTILITARISMO ED IL BENESSERE CLASSICO 2.1 L'utilità cardinale Il benessere1 di una popolazione è sempre stato un concetto di difficile definizione e quando, in qualche modo, è stato definito, ancor più difficile è stata la sua misurazione, nonostante che questa sia stata un obiettivo costantemente perseguito da uomini di scienza, politici, della strada, man mano che i loro interessi si sono allargati dal livello locale a quello mondiale, e la misura del benessere sia stata sempre più spesso utilizzata per effettuare confronti; per tempi diversi, all’interno di un singolo Paese, e tra nazioni, allo stesso tempo. Naturalmente, esistono studiosi che affermano che il benessere non sia misurabile, ancorché sia possibile definirlo. E' una posizione, la loro, teorica, accademica: per quale motivo ci sarebbero migrazioni da un Paese ad un altro (e generalmente non viceversa) se gli emigranti non valutassero le condizioni di vita del primo tanto inferiori a quelle del secondo da valere l'abbandono della patria, un viaggio costoso e rischioso, l'arrivo in un luogo in cui spesso si è mal sopportati o anche indesiderati? In modo naïf, se si vuole, magari anche molto naïf, chi ha deciso di emigrare ha dato una definizione (certamente soggettiva) di benessere, l'ha misurato nei due Paesi, e ha preso la decisione di trasferirsi da quello con benessere che lui valuta minore a quello con benessere che valuta maggiore. Questo esempio motiva chiaramente l'ammissibilità della definizione e della misurazione del benessere ai fini di una comparazione tra le condizioni di vita di due Paesi diversi. Ma altrettanto realismo si ha quando i cittadini di un Paese, in ispecie dopo rilevanti cambiamenti politici che hanno portato a percettibili trasformazioni della vita, sia in senso economico (ad es. nel reddito) che sociale (ad es. nell'occupazione), in relazione alla sicurezza sia interna che esterna (ad es. nelle alleanze di difesa), e così via, comparano le condizioni di vita di un tempo con quelle di un altro, sebbene riferite allo stesso Paese. Anche in questo caso si assiste ad una definizione (certamente soggettiva e, se si vuole, anche nebulosa) del benessere, e alla sua quantificazione. L'utilità cardinale del Pigou Le definizioni e i modi della sua misurazione sono tanti. Essi hanno dato luogo, tra l’altro, allo svilupparsi di un'intera disciplina di studi: l'Economia del Benessere. Il pensiero dell'economista inglese A.C.Pigou è generalmente considerato il punto di partenza per ogni studio finalizzato alla definizione ed alla misurazione del benessere di una collettività, che lui interpretava come somma delle soddisfazioni individuali. Il termine stesso di Economia del benessere deriva dal 1 Che intendiamo come traduzione di welfare in inglese. titolo di una sua opera del 1920 con la quale espose la propria versione della teoria del benessere in termini di utilità cardinale. Il Pigou in realtà riconobbe che il benessere complessivo si componeva di stati psichici differenti e difficilmente definibili, ma nel ricercare le cause che potevano influenzarlo circoscrisse il campo di indagine al solo benessere economico, da lui espressamente definito come l'"insieme delle soddisfazioni assoggettabili a misurazione mediante il metro della moneta". In effetti, accogliendo esplicitamente il principio positivista della necessità di eliminare dall'analisi ogni "arbitraria" considerazione filosofica, propose un approccio alla definizione di benessere che presentava il vantaggio di considerare come oggetto di studio un qualcosa di osservabile e misurabile. Direttamente dalla nozione di utilità cardinale discendevano poi le caratteristiche delle soddisfazioni personali, le quali erano misurabili tramite una funzione di utilità ed erano quindi, in virtù della cardinalità, confrontabili tra diversi individui e sommabili per l'intera società dando luogo al suo benessere complessivo. Poiché la soddisfazione era da lui considerata soltanto in termini economici, il benessere dell’intera società veniva ad essere proporzinale, in ultima analisi, al suo reddito nazionale. Il Pigou assumeva, poi, che il reddito fosse soggetto ad un’utilità marginale decrescente. Così il benessere complessivo di una società poteva aumentare anche con reddito nazionale mantenuto costante: bastava che si operasse una redistribuzione del reddito dai più ricchi ai più poveri. In questo consisteva la condizione di equità. D’altro canto, se il reddito di uno o più componenti la società aumentava senza modificare la distribuzione negli altri individui, il benessere complessivo cresceva. In questo consisteva la condizione di efficienza. Prescindendo quindi dalla redistribuzione, il massimo della soddisfazione complessiva sarebbe stato ottenuto massimizzando il benessere di ogni individuo componente la società, con l’attribuzione di un peso uguale alla felicità di ciascuna persona2. 2.2 Le critiche al cardinalismo del Pigou e l'utilità ordinale Il cardinalismo del Pigou, secondo il quale le utilità o soddisfazioni che ogni individuo trae dalla fruizione di beni economici godono delle seguenti caratteristiche: a) sono misurabili in senso cardinale, b) sono confrontabili fra individui diversi, c) possono essere sommate per calcolare l'utilità collettiva della società in cui gli individui vivono, fu sottoposto a serrate critiche ed è ormai giudicato inammissibile dalla stragrande maggioranza degli studiosi della materia. 2 Il fondamento di tale concezione – felicità di una società come soma delle soddisfazioni individuali - può essere trovato negli scritti di Jeremy Bentham, filosofo utilitarista della seconda metà del settecento. Una delle critiche più radicali riguardò il confronto interpersonale delle soddisfazioni individuali, che costituiva la base teorica necessaria per affrontare il problema della distribuzione del reddito nazionale. Sarebbe stato possibile effettuare questo confronto soltanto nel caso in cui tutti gli individui avessero posseduto la medesima funzione di utilità; ma questa era un'ipotesi inverosimile e per di più non verificabile, avendo alcuni studiosi evidenziato come la misura della soddisfazione personale implicasse un processo di introspezione che per definizione non poteva essere applicato a persone diverse. Altri, tra cui il Robbins (1932), affermarono che la comparabilità implicava un giudizio di valore e che quindi nei confronti interpersonali si ottenevano risultati diversi a seconda delle premesse di valore fatte. Un'altra forte critica riguardò la caratteristica c) per le implicazioni concernenti il problema dell'equità relativa alla distribuzione del reddito. L'approccio del Pareto Molti economisti negli anni successivi al 1920 si dedicarono a superare le incongruità teoriche presenti nelle affermazioni del Pigou e svilupparono un filone di studi che viene indicato con il nome di nuova economia del benessere e le cui premesse originarie vengono individuate nell'opera di Vilfredo Pareto, curiosamente precedente a quella del Pigou. Influenzato dal sorgere del neopositivismo del Circolo di Vienna, il Pareto (1906) aveva affermato che uno studio del comportamento umano non poteva prendere le mosse da un' "arbitraria" concezione filosofica quale quella dell'utilitarismo edonista, ma doveva svolgersi secondo un'analisi neutrale, valida quindi in termini assoluti, deducendo le proposizioni da un insieme di postulati di partenza. In particolare il Pareto aveva osservato che in mancanza di adeguati strumenti scientifici di misurazione non aveva senso pretendere di valutare l'utilità secondo un'unità di misura oggettiva e quindi non era possibile confrontare i livelli di utilità di individui diversi e tanto meno sommarli insieme. Ma, secondo il Pareto, il confronto interpersonale delle utilità, oltre a non essere possibile, non era neanche necessario perché lo studio del comportamento razionale dell'individuo nella fruizione di beni economici richiedeva unicamente la conoscenza del modo in cui il soggetto ordinava le varie alternative aperte alla sua scelta. Ne derivava, quindi, la possibilità di utilizzare, per determinare il suo benessere, una funzione di utilità soltanto ordinale. L’”ottimo” paretiano Sul piano sociale il Pareto era arrivato a definire una situazione di "ottimo" che si basava su considerazioni di efficienza allocativa e produttiva: si ha un'efficiente allocazione delle risorse tra gli individui componenti una società quando non ne è possibile alcuna riallocazione che consenta di aumentare il benessere di un solo individuo senza al contempo diminuire quello di un altro. Si noti che la definizione di "ottimo" usata dal Pareto è molto particolare (e può trarre in inganno) perché con essa si indica non una specifica situazione (di allocazione delle risorse tra gli individui “migliore” secondo un dato criterio) ma un insieme di diversi possibili stati allocativi, ciascuno dei quali è contraddistinto da una differente distribuzione della ricchezza sociale. Sulla corrispondenza tra mercato e “ottimo” paretiano si basano i due teoremi fondamentali dell’Economia del benessere: nel primo si asserisce che nel caso di concorrenza perfetta l’allocazione delle risorse che si ha in un mercato concorrenziale, se esiste, costituisce un “ottimo” paretiano. Il secondo teorema si basa su considerazoni di equità, che mancano nell’approccio del Pareto: sotto alcune condizioni riguardanti le funzioni di utilità individuali e le funzioni di produzione, da una allocazione delle risorse efficiente ma considerate non equa è possible passare ad un’altra qualsiasi situazione di “ottimo”, e quindi anche ad una che sia considerata equa, modificando adeguatamente quella distribuzione delle risorse e lasciando poi all'operare del mercato concorrenziale il compito di attivare i meccanismi attraverso i quali può essere raggiunta l'efficienza. Il principio dell'indennizzo L'approccio del Pareto fu criticato per diversi aspetti. Innanzitutto nella sua argomentazione fu evidenziata un'ambiguità che il de Finetti (1969) così illustrò: "La condizione di optimum [paretiano] è solo una condizione necessaria perché un punto possa essere considerato ottimo, ma di per sé non significa che sia buono, mentre l'uso che se ne fa mostra che si soggiace spesso alla tendenza a suggestionarsi in tal senso". Ma fu ancor più criticato nella parte riguardante l'aggregazione delle utilità individuali in una funzione che indicasse il benessere dell’intera società. L'aggregazione paretiana, che si fondava sull'individualismo etico (ogni individuo è libero nei giudizi su se stesso e sugli stati del mondo in relazione a se stesso), sulla misura ordinale delle utilità e sulla loro inconfrontabilità, produceva risultati incoerenti con i principi di libertà e consentiva soltanto un ordinamento parziale degli stati del mondo. Molti economisti tentarono di superare i limiti della concezione paretiana del benessere pur rimanendo nell'ambito dell'utilità ordinale. Significativi in questo senso sono i contributi di Kaldor (1939) e di Hicks (1939) i quali cercarono di introdurre nella teoria economica l'aspetto della distribuzione del reddito tramite il cosiddetto principio dell'indennizzo, in base al quale un aumento del reddito complessivo di una società migliora sempre il benessere dell'intera società qualora gli individui che ne siano avvantaggiati indennizzino quelli svantaggiati pur conservando, i primi, un vantaggio netto. 2.3 L'approccio dello Harsanyi e i limiti della concezione utilitarista Anche J.C.Harsanyi (1955) dette una definizione di benessere basata su di un approccio prettamente utilitaristico, sostenendo che questo non soltanto non è restrittivo - dato che copre tutto ciò di cui si può occupare la politica economica ma offre una preziosa base informativa difficilmente sostituibile qualora lo si abbandoni e si seguano altri approcci. L'utilitarismo, secondo Harsanyi, è l'unica impostazione tramite la quale si dispone di uno strumento per evitare "ogni discriminazione iniqua fra bisogni umani ugualmente urgenti di una persona e quelli di un'altra persona". Nell'accezione dello Harsanyi l'aggregazione delle utilità individuali per definire una funzione di benessere sociale, cioè per l’intera collettività, avviene tramite un sistema di ponderazione basato sui valori delle utilità marginali degli individui, indipendentemente dalla loro utilità assoluta. In altre parole l'importanza sociale di ogni persona viene basata sulla misura della sua utilità marginale, la quale deriva dal giudizio di valore del singolo. La funzione del benessere complessivo di una società, dunque, è data della somma delle utilità personali ponderate con le utilità marginali delle persone che la costituiscono. I limiti della concezione utilitarista di benessere A prescindere dalla difficoltà di inserire in una misura dell'utilità personale le informazioni qualitative, un punto debole dell'approccio utilitarista consisteva nell'attribuire alle preferenze dei singoli individui un'autorità assoluta, che verosimilmente discendeva dal vecchio principio della sovranità del consumatore. Inoltre, in un'ottica sociale è evidente che esistono delle cose che hanno valore anche se nessuno esprime delle preferenze per esse; viceversa esistono delle cose dannose per la società in quanto tale ma preferite da qualche singolo individuo (e quindi inserite nella funzione di benessere sociale). Fatte queste considerazioni, ci si accorge che perde validità uno dei due principi costitutivi dell'utilitarismo: l'uso dell’operatore somma, secondo il quale il metodo appropriato per stabilire il valore da assegnare ad uno stato sociale, date le informazioni rilevanti contenute nelle utilità, è semplicemente quello di sommarne gli elementi (eventualmente, come in Harsanyi, dopo averli ponderati con le rispettive utilità marginali). L'altro principio costitutivo, l'ipotesi secondo la quale se un individuo è razionale, allora con il suo comportamento tende a massimizzare la propria funzione di utilità, fu anch’esso molto criticato. 2.4 Le “preferenze rivelate” del Samuelson Per superare l'impostazione utilitaristica, considerata arbitraria, lo statunitense Samuelson pubblicò nel 1938 sulla rivista inglese Economica un saggio nel quale dichiarava di voler "...sviluppare la teoria del comportamento del consumatore liberandola dalle residuali tracce del concetto di utilità". Animato anche lui da uno spirito positivista, il Samuelson sostenne che l'utilità è un concetto imposto a priori e impossibile da verificare empiricamente; non è quindi corretto basarsi su di esso per formulare delle affermazioni scientifiche sulle preferenze di un individuo e su ciò che egli considera come il proprio benessere. La deduzione della struttura delle preferenze del soggetto – sostenne ancora - è possibile soltanto tramite l'osservazione diretta (la “rivelazione”) del suo comportamento (delle sue “preferenze”). Aderì all'approccio delle preferenze rivelate anche I.M.D.Little, il quale nel 3 1949 negli Oxford Economic Papers scrisse che "La nuova formulazione è scientificamente molto più rispettabile dal momento che se il comportamento di 3 Si veda Little (1950). un individuo è coerente, allora deve essere possibile spiegare quel comportamento senza far riferimento ad altro fattore che al comportamento stesso". Parzialmente vi aderì anche J.R.Hicks nella sua Modifica della teoria della domanda, del 1956, scrivendo che "la teoria econometrica della domanda studia esseri umani, ma solamente in quanto entità aventi certi schemi di comportamento di mercato; essa non asserisce, non pretente in alcun modo di essere capace di scrutare nelle loro menti". I limiti dell'approccio delle preferenze rilevate L'ipotesi fondamentale di questo approccio è che gli individui rivelano la propria struttura delle preferenze attraverso le loro scelte effettive. Una delle condizioni necessarie per il verificarsi di questa ipotesi è che tutti gli ordinamenti individuali delle preferenze godano della proprietà della connessione, ovvero che le relazioni binarie di preferenza degli individui formino un insieme completo di alternative, e che si verifichi sempre una di esse. In realtà questa condizione non è necessariamente verificata, e per di più non è possibile dall'osservazione di un comportamento distinguere i casi in cui l'individuo sia indifferente tra le alternative da quelli in cui l'individuo non possiede una struttura di preferenza; ovviamente nel mondo reale le due situazioni sono profondamente differenti. Collegata con questa osservazione è anche quella che evidenzia che in realtà non sempre le scelte sono fatte dopo aver formulato un sistema completo di alternative possibili. Se quindi una decisione è presa dopo una valutazione "incompleta", l'osservazione di un simile comportamento non può indicare correttamente le preferenze associate a quel comportamento. Di più, una scelta potrebbe essere "obbligata", cioè dettata dalla mancanza di alternative, e allora da essa non può essere dedotta alcuna considerazione sulle preferenze sottostanti. Una scelta, inoltre, potrebbe essere influenzata da attività promozionali di un qualche genere ed in questo caso le preferenze rivelate non soltanto non rifletterebbero quelle reali ma anche le distorcerebbero. 2.5 La Funzione del benessere sociale di Bergson e Samuelson Il concetto analitico di Funzione del benessere sociale nacque con l'opera dell'economista statunitense Bergson (1938), mentre le implicazioni e le applicazioni di una tale funzione furono approfondite dal Samuelson (1947). La sua forma funzionale è molto generale, e l’additiva e la moltiplicativa ne costituiscono casi particolari; essa aggrega le utilità delle singole persone, cioè si basa sul postulato dell’individualismo etico; le preferenze sociali sono convesse. Essa soddisfa, inoltre, al principio di Pareto. L'impossibilità dei confronti interpersonali venne aggirata chiamando i singoli individui ad esprimere le loro preferenze nei confronti delle possibili alternative nell'ordinamento sociale. Nel far ciò ogni individuo doveva tener conto non solo della quantità e della qualità dei beni e dei servizi che potevano essere ottenuti nelle varie alternative, ma anche del modo in cui essi potevano essere ottenuti e venire distribuiti, nonché di tutte le altre caratteristiche che potevano contribuire a contraddistinguere una situazione sociale da un'altra. Una funzione del benessere sociale di questo tipo è definita “individualistica” perché riflette le preferenze che ogni individuo di una società esprime nell' ”ordinare” ogni coppia di situazioni che gli si può presentare, subordinatamente al fatto che le preferenze individuali non siano in conflitto tra di loro. Critiche alla Funzione del benessere sociale individualistica Data una società di n individui, una Funzione del benessere sociale dovrebbe quindi essere una trasformazione dall'insieme di tutte le n-uple possibili degli ordinamenti individuali all'insieme di tutti i possibili ordinamenti di preferenza sociale sui vari stati sociali. Ma questa trasformazione è stata giudicata impossibile da molti studiosi a causa di due ordini di difficolta: i) Nell'aggregazione delle preferenze sarebbe necessario un sistema di ponderazione che non è possibile stabilire senza ricorrere a considerazioni soggettive. In particolare, da un lato attribuire a ciascun individuo un peso uguale significa accettare l'ipotesi poco verosimile e in tutti i casi non verificabile che ogni individuo possieda la medesima funzione di utilità; dall’altro lato, dare a ciascuno un peso diverso può condurre a discriminazioni. ii) Nell'aggregazione degli ordinamenti individuali di preferenza si generano ordinamenti collettivi che possono presentare caratteristiche non transitive e condurre a decisioni irrazionali. 2.6 Il teorema di impossibilità dell’Arrow Il problema dell'identificazione di una volontà collettiva formata a partire dalle volontà individuali fu in particolare affrontato dall'Arrow (1951), nella cui opera viene convenzionalmente indicata l'origine della moderna teoria delle scelte sociali. Arrow partì dall'assunto che una Funzione del benessere sociale doveva necessariamente soddisfare a 4 requisiti fondamentali seuenti: a) Dominio universale. Il dominio della Funzione del benessere sociale deve comprendere tutte le n-uple di ordinamenti delle preferenze individuali sull'insieme degli stati sociali alternativi, che possiamo indicare con X. b) Principio di Pareto. Per ogni x ed y in X, se ciascun individuo preferisce strettamente x ad y, allora x deve essre socialmente preferito ad y. c) Non dittatorialità. Non deve esistere un individuo tale che le sue preferenze su ogni coppia di stati sociali (x, y) siano necessariamente riflesse nell'ordinamento sociale di preferenza. d) Indipendenza dalle alternative irrilevanti. La scelta sociale relativa ad un dato insieme di alternative non deve essere influenzata dal modo in cui gli individui ordinano le alternative che non rientrano in quell'insieme. L'autore dimostrò formalmente che rispettando queste condizioni la scelta sociale non può essere formalizzabile tramite una relazione funzionale perché per alcune configurazioni degli ordinamenti individuali viene generata una successione intransitiva di preferenze. Dunque impossibilità di costruire una Funzione del benessere sociale. Posteriormente all'opera di Arrow furono sviluppate numerose linee distinte di ricerca volte a superare questa impossibilità, ma, a meno di cambiare l'impostazione di base, tutti gli studiosi in un modo o nell'altro finirono per arrivare a risultati di impossibilità. 2.7 Ricusazione dell’individualismo etico Stante questa impossibilità, nacque un particolare filone di studi che rifiutò l’individualismo etico ed esaminò il benessere sociale in termini di democrazia secondo un approccio eclettico che mescolava la trattazione più strettamente economica con varie impostazioni sociologiche e politiche. Le difficoltà delineate nel passaggio dagli ordinamenti di preferenza individuali alle scelte sociali coerenti condussero alcuni autori, tra i quali il Frisch ed il Tinbergen, a sostituire alle preferenze individuali le preferenze dei responsabili della politica economica relativamente all'intera collettività. Il Tinbergen distinse le componenti del benessere sociale in due generiche categorie: (i) le componenti di un individuo considerato "da solo" e (ii) le componenti dell'individuo quando entra in contatto con gli altri individui. Alla prima categoria appartengono gli elementi che determinano il benessere materiale e spirituale dell'individuo, come ad esempio le quantità di beni disponibili, le possibilità d'istruzione, il diritto di partecipare alle decisioni. Alla seconda appartengono invece gli elementi che determinano le relazioni fra gli individui, come il grado di libertà personale, il grado di giustizia, il clima sociale e la pace, sia interna che internazionale. Quando il Tinbergen formulò il suo approccio la difficoltà di esprimere in termini quantitativi gran parte degli elementi da includere in una Funzione del benessere sociale (non definite a partire dale funzioni individuali) era tale da non fargli ritenere possibile la costruzione pratica di tale funzione. Tale difficoltà non è oggi definitivamente superata, ma nell'ambito dell'Economia del benessere si è sviluppata in questa direzione un'intensa ricerca che si è concretizzata principalmente nella definizione di indicatori normativi del benessere sociale. La teoria dei “titoli validi” del Nozick Il Nozick (1974) sviluppò la teoria dei titoli validi nella quale sono considerate giuste le situazioni distributive che rispettano i diritti fondamentali (umani, civili, politici, ecc.) degli individui. Era quindi una teoria della giustizia distributiva, finalizzata a garantire i diritti delle persone e non a soddisfare le loro preferenze. La prima teoria del Sen Anche il Sen (1976b) formulò un concetto di benessere riferito ad un gruppo di individui, estendendo al reddito e al benessere nazionali l’approccio seguito dallo Hicks (1940) e dal Samuelson (1950) all’analisi del reddito reale personale attraverso confronti a prezzi costanti. Egli introdusse in questa impostazione dapprima il concetto di beni denominati e poi quello di titolo valido. L’idea di base di tale approccio era che la capacità dei diversi gruppi della popolazione di disporre di beni e servizi si manifesta attraverso le relazioni vigenti in una data società, le quali dipendono dalle caratteristiche giuridiche, economiche, sociali e culturali di questa. E il titolo valido di un soggetto indica il paniere di beni e servizi su cui egli può comandare (cioè disporre liberamente) nei modi consentiti dalle circostanze in cui opera. Nelle sue parole, è: “l’abilità dei soggetti a comandare il cibo attraverso i mezzi legali disponibili nella società, ivi compreso l'uso delle possibilità di produzione, le opportunità di scambio, i diritti nei confronti dello Stato e le altre forme di acquisizione del cibo.” Così la povertà non significa semplicemente un basso livello di reddito reale ma diviene la situazione individuale nella quale il potere sulle risorse cade sotto una certa soglia (la cosiddetta linea della povertà4). Il processo di sviluppo economico di un Paese, nell'accezione del Sen, diviene allora l’espansione o la contrazione dei titoli validi e delle capacità derivanti dalla loro attribuzione. L’insieme di titoli validi di un soggetto comprende tutti i paniere di merci che quel soggetto ha deciso di ottenere. Se il sistema è caratterizzato dalla proprietà privata e lo scambio è regolato dal mercato, allora l’insieme dei titoli validi dipende in modo essenziale dalle dotazioni iniziali del soggetto e dalla relazione tra queste e l’insieme dei panieri che egli può ricevere scambiando sul mercato. Seguendo questa impostazione, nella sua opera Poverty and Famines del 1981 il Sen sostenne che le gravissime carestie del Bengala nel 1943 e del Bangladesh nel 1974 furono provocate non tanto dalla riduzione delle quantità prodotte di cibo, quanto da un improvviso e rapido peggioramento delle opportunità di scambio di alcuni strati della popolazione. Questo esempio è significativo del fatto che il giudizio sul benessere di un individuo richiede che si specifichino le sue capacità, cioè le funzioni che egli riesce ad esercitare su di un certo paniere di beni. Si noti che l'idea sottostante a questa affermazione è che un soggetto potrebbe avere i titoli validi ma non la capacità effettiva di utilizzarli. In altre parole, ogni soggetto è dotato di un insieme di funzioni di utilizzazione, ciascuna delle quali specifica gli utilizzi, possibili per il soggetto in questione, relativi ai beni posseduti. Il benessere del soggetto può allora essere interpretato come la valutazione della funzione di utilizzazione adottata dal soggetto in corrispondenza di un dato insieme di beni. 4 Introdotta per la prima volta da Rowntree (1902). 3 LA RIDEFINIZIONE DELLA RAZIONALITÀ SOCIALE ED IL RUOLO DELLO STATO 3.1 Questioni lasciate irrisolte nell'analisi del benessere I tre principali filoni di analisi del benessere descritti nel precedente capitolo possono essere classificati, molto sinteticamente, nel modo seguente: 1. l'approccio di tipo pigouviano e della Funzione del benessere sociale, che si avvale di premesse di valore esplicite definenti le preferenze riguardanti la distribuzione, l'impiego delle risorse e tutto ciò che coinvolge i rapporti tra economia ed etica politica; 2. l'approccio del Pareto ed i suoi sviluppi tramite il principio di indennizzo, con il quale si evitano o si riducono al minimo i problemi di ottimo che implichino problemi di preferenza; rientrano tra questi ultimi i problemi distributivi e quelli relativi all'impiego delle risorse nei vari usi finali; 3. l'approccio al benessere in termini di democrazia, nel quale si cercano di determinare non tanto gli ordinamenti individuali di preferenza quanto i criteri con i quali una volontà collettiva possa essere formata democraticamente; ma tutti e tre hanno lasciato irrisolti una serie di problemi che in parte indichiamo di seguito e che hanno portato allo sviluppo di nuove teorie che descriveremo nei prossimi paragrafi. Un primo problema riguarda l'operatività delle definizioni di benessere, in quanto si è creato un forte contrasto tra la complessità formale dei vari approcci e le scarse implicazioni, per di più spesso controverse, che concretamente si possono trarre per la Politica economica. Particolarmente controversa era la soluzione del problema relativo alla distribuzione del reddito. Dopo l'analisi pigouviana, che si basava sulla distinzione dell'aspetto dell'efficienza da quello della distribuzione delle risorse, riapparve periodicamente la difficoltà di una valutazione del benessere che si basasse simultaneamente su considerazioni sia di efficienza che di equità distributiva. Alcuni studiosi ritennero che l'esiguità delle conoscenze empiriche riguardo alle componenti del benessere non permettesse di tener conto dell'aspetto distributivo nel valutare un sistema economico, per cui l'aspetto dell'efficienza produttiva sarebbe stato l'unico criterio con il quale giudicare la desiderabilità di un dato assetto. Altri studiosi, al contrario, sostennero che l'importanza dell'efficienza produttiva era minore di quella dell'equità nella distribuzione delle risorse o anche dell'importanza della flessibilità e rapidità dell'adattamento del sistema ai cambiamenti nei gusti della popolazione e nella disponibilità delle risorse. Un altro tema di largo e più recente dibattito ebbe per oggetto le relazioni tra la crescita economica e lo sviluppo sociale. Mentre al riguardo dei Paesi più arretrati la teoria dello sviluppo economico si era ampiamente estesa, al riguardo di quelli più industrializzati l'analisi si era essenzialmente basata su modelli di crescita economica e soltanto di recente l'attenzione degli studiosi è andata spostandosi su di un concetto di sviluppo dei Paesi più industrializzati inteso in senso anche sociale. Questa impostazione è nata dall'aggravarsi in questi Paesi dei problemi socio-economici i quali, se a volte vengono attenuati dalla maggiore crescita economica, spesso, invece, vengono da essa resi ancor più gravi. Strettamente collegata al filone di studi di questa impostazione è la ricerca tesa alla formulazione di indicatori sociali adeguati a fornire una descrizione il più possibile completa della realtà socio-economica. Finché, infatti, si considerava la crescita come l'essenza degli obiettivi della Politica economica, le informazioni necessarie alla conoscenza della condizione umana erano adeguatamente fornite dai tradizionali indicatori economici, primo fra tutti il Prodotto Interno Lordo. Ma nei Paesi industrializzati, mentre aumentava il reddito medio, si aggravavano i problemi collegati sì ai fenomeni economici, ma di natura extraeconomica, e si moltiplicavano di conseguenza le manifestazioni di malessere sociale, derivate ad esempio dal degrado ambientale o dalla congestione urbana. In una simile situazione era necessario ridefinire in termini di sviluppo anche sociale gli obiettivi delle manovre di politica economica, e quindi reperire informazioni più complete di quelle fornite dai soli indicatori economici; definire, cioè, una nuova sorta di indicatori capaci di fornire informazioni sul benessere inteso in modo da comprendere tutti gli aspetti principali della vita degli individui. 3.2 La riformulazione del Sen Il Sen (1975) fu lo studioso che con maggior impegno si dedicò alla ricerca di una nuova formulazione della scelta sociale che fosse in grado di superare i limiti delle funzioni del benessere sociale del tipo Bergson-Samuelson o del tipo dell’Arrow. Queste funzioni tentavano di aggregare le preferenze individuali utilizzando come base informativa unicamente gli ordinamenti individuali, ma i tentativi furono destinati a scontrarsi con il teorema di impossibilità. Molti ricercatori ritennero che i risultati di impossibilità derivavano da tre argomentazioni che limitavano l'uso di informazioni nel processo di scelta sociale e di conseguenza impedivano la definizione di un adeguato criterio di decisione. Le tre argomentazioni riguardavano: i) L'ordinalismo. Le scelte sociali devono essere unicamente funzione degli ordinamenti individuali e non possono dipendere dal modo in cui gli individui confrontano i loro ordinamenti. La teoria delle scelte sociali giustificava questa asserzione perché le preferenze individuali sono una nozione "oggettiva", non soggetta ad interpretazioni. In realtà l'ipotesi sottostante non è fondata: esprimere una preferenza per uno "stato" non equivale ad affermare che quello stato "sia il migliore". ii) La condizione di neutralità. Questa discende dall'impostazione secondo la quale i livelli di benessere o di utilità dei singoli individui sono la sola base legittima per giungere ad una valutazione aggregata degli stati sociali. Ma risulta chiaro come questa impostazione possa portare a giudicare le situazioni sociali con valutazioni anche paradossali. iii) I confronti interpersonali. Sono impossibili i confronti interpersonali e quindi le aggregazioni di "interessi" personali. In relazione al punto i) il Sen osservò che attribuire un simile significato al concetto di scelta è ancor meno giustificabile di un confronto interpersonale delle utilità. Inoltre, in relazione al punto iii), era di basilare importanza decidere se i confronti interpersonali dovessero avere una valenza descrittiva oppure normativa. In entrambi i casi è possibile formulare metodi che consentono di dare una certa validità ai confronti interpersonali, ma rimane irrisoluta la difficoltà per la quale all'interno dell'impostazione individualistica non esiste un criterio per privilegiare un tipo di confronto rispetto ad un altro. Circa i problemi di aggregazione il Sen affermò che nascevano dal tentativo di ricondurre allo stesso schema, uniforme ed eccessivamente generico, tipi di aggregazione molto diversi, quali: a) le decisioni di assemblea, b) i giudizi sul benessere sociale, c) gli indicatori a contenuto normativo. Il Sen osservò che il tipo a) esprimeva l'aggregazione di opinioni, mentre il tipo b) esprimeva l'aggregazione dei livelli di benessere personali, ovvero di interessi suscettibili di una qualche interpretazione. Il tipo c), d'altro canto, indicava un'aggregazione tesa non tanto a determinare decisioni concrete quanto a consentire di giudicare in modo sistematico stati diversi seguendo criteri ben definiti. 3.3 Benessere, giustizia, libertà individuale e confronti interpersonali Nella prima metà degli anni settanta gli studiosi cominciarono a confrontarsi con l'esigenza di individuare una condizione di ottimo sociale all'interno della quale venisse rispettata la libertà di ogni individuo. Ogni situazione sociale doveva essere valutata secondo alcuni principi dei quali diamo la versione del Sen: • Principio di Pareto; se ogni individuo nella società preferisce una certa situazione sociale ad un'altra, allora questa situazione deve essere considerata migliore per la società nel suo complesso; • Rispetto della libertà personale; vi sono certe questioni personali in cui ogni individuo dovrebbe essere libero di decidere, e nelle scelte su tali questioni ciò che egli ritiene migliore deve essere considerato migliore per la società nel suo complesso, indipendentemente dalle opinioni degli altri individui. Nel saggio Libertà, unanimità e diritti il Sen (1976a) sostenne che non è possibile costruire un sistema politico incorporando in esso i diritti fondamentali e osservando allo stesso tempo il principio di Pareto. Il ragionamento si svolgeva su di un complesso piano formale ma l'argomentazione di fondo era che il principio di Pareto è valido ed irrinunciabile fintantoché si riconducono tutti i sistemi di valore ad una scala di utilità e si definiscono gli ordinamenti sociali a partire da quelli individuali. Ma l'utilità - secondo il Sen - non ha niente di razionale e costituisce un principio morale che non consente di raggiungere una posizione di ottimo sociale. Un principio morale può essere visto come l'esigenza di escludere alcuni generi di informazioni nel formulare giudizi morali; l'utilitarismo esige appunto di considerare una persona unicamente come "il luogo dove si svolgono attività quali il desiderare e il provare piacere o dolore". Se si rilassa il principio di Pareto è possibile sviluppare altre impostazioni che nel valutare una situazione possano tener conto delle informazioni più rilevanti in modo da fare una scelta che sia inequivocabilmente razionale. In questo caso il benessere sociale può essere definito secondo due approcci estremi: • la concezione del benessere è unica e non può essere conosciuta da tutti gli individui; ad esempio le concezioni dello Stato di Platone e di Aristotele, nonché la tradizione cristiana, rientrano in questa concezione "monista"; • esiste una pluralità di concezioni del benessere che sono non necessariamente confrontabili tra di loro e possono essere anche in contrasto. Nel secondo approccio è il presupposto del liberalismo, il quale ritiene che ognuna delle diverse concezioni è compatibile con la piena autonomia e la razionalità della persona umana. L'approccio del Rawls J.Rawls (1971,1982) sostenne che sia l'utilitarismo classico che quello più moderno dello Harsanyi implicavano una concezione di individuo che non permetteva l'esistenza di una pluralità di approcci razionali al benessere. L'esistenza di una pluralità di concezioni del benessere è invece garantita da una concezione della giustizia che è indipendente da, e prioritaria a, ogni nozione di benessere. L'unità di una società liberale e la fedeltà dei suoi cittadini alle comuni istituzioni non si basano su di una nozione di benessere accettata da tutti, ma su di un accordo collettivo che stabilisce che cosa sia giusto per persone libere e moralmente uguali, che possono avere concezioni del benessere diverse ed anche contrastanti. Il Rawls si pose due interrogativi: • se esiste una pluralità di concezioni del benessere, su che cosa si devono basare i necessari confronti interpersonali? • in che modo si possono risolvere le rivendicazioni tra loro contrastanti dei cittadini? Circa il secondo interrogativo la risposta secondo il Rawls risiedeva nelle istituzioni sociali di base riconosciute dai cittadini; circa il primo, i confonti interpersonali si basavano sull'idea che all'interno della pluralità delle concezioni del benessere esistesse un'area che poteva essere considerata come l'intersezione di tutte la diverse concezioni. Questa intersezione avrebbe compreso quell' insieme di valori dai quali nessuna delle concezioni di benessere avrebbe potuto prescindere e sui quali si sarebbe fondata la giustizia politica e sociale. Due sono i principi fondamentali di giustizia che - ancora secondo il Rawls - caratterizzano l'esigenza di uguaglianza fra i cittadini, esprimendo il primo le concezioni essenziali di libertà ed il secondo quelle di efficienza ed uguaglianza. Secondo il primo principio "ogni persona deve avere un uguale diritto alla più estesa libertà compatibile con una simile libertà per gli altri". Il secondo afferma che la disuguaglianza economica e sociale è permessa soltanto se le due condizioni seguenti sono soddisfatte: • il beneficio maggiore della disuguaglianza va al più svantaggiato; • la disuguaglianza deve comunque permettere ad ognuno le stesse occasioni ed opportunità. I "beni primari" e le "capacità di scelta" E' possibile confrontare il benessere di due individui valutando la composizione dei rispettivi panieri di beni primari sociali; se questa composizione indica uno svantaggio relativo, allora per i due principi fondamentali della giustizia si giustifica una "reintegrazione" dell'individuo più svantaggiato. I beni primari individuati dal Rawls (1982) rientrano nelle cinque categorie seguenti: 1. le libertà fondamentali, come ad esempio la libertà di pensiero e di coscienza; la libertà di associazione; tutte le libertà garantite dalla integrità della persona così come dalle regole della legge; le libertà politiche; 2. la libertà di movimento e la scelta di un'occupazione fra varie opportunità; 3. le prerogative e gli incarichi delle posizioni di responsabilità; in particolare quelle delle principali istituzioni economiche e politiche; 4. il reddito e la salute; 5. le basi sociali del rispetto di sé. Riflettendo su queste categorie il Sen (1982) osservò che giudicare il vantaggio sulla base dei beni primari non basta per effettuare dei confronti interpersonali. Gli individui hanno bisogni molto diversi che variano con la salute, la longevità, le condizioni climatiche, l'ubicazione, le condizioni di lavoro, il temperamento, ed altro, per cui il paniere dei beni primari sociali non è sufficiente ad evidenziare i vantaggi relativi e quindi per fare confronti interpersonali di benessere. Come esempio riportò il caso di uno storpio che gode del bene primario della libertà di circolare ma non ha la possibilità di usarlo. L'uguaglianza, quindi, deve essere espressa in termini di capacità di 5 scelta : ogni individuo deve essere messo in grado di esercitare in maniera effettiva i propri diritti e le proprie libertà e compito dello Stato è quello di condurre i cittadini ad una capacità piena di scelta anche se essi non esprimono alcun desiderio. Persone con un livello minimo di cultura possono non essere neppure consapevoli dei propri diritti politici, e per questo motivo non soltanto non li esercitano ma neppure ne avvertono eventuali lesioni. 5 Impostazione già delineate nel paragrafo 2.7 come derivate nell’opera Poverty and Famines, del 1981. 3.4 Alcune conclusioni intermedie A questo punto possiamo affermare che sono stati raggiunti i seguenti risultati: • E' possibile specificare una funzione del benessere sociale, ma non secondo un'impostazione di individualismo etico. • Il benessere individuale deve essere definito sulla base di informazioni più ampie ed adeguate di quelle che possono essere dedotte dalle preferenze individuali, anche ammesso che esse possano essere ricostruite a partire dalle scelte. La nozione di benessere sociale è diversa da quella derivante dalla somma dei benesseri individuali. • Avendo definito il benessere individuale come capacità di scelta, la valutazione puntuale degli interessi di ciascun individuo risulta necessaria per misurare adeguatamente il suo effettivo benessere. • Per formulare giudizi di benessere (nelle condizioni sopra indicate) non è sufficiente conoscere le quantità totali di risorse disponibili ad una collettività: il livello di benessere associato a quelle quantità, infatti, non è indipendente dalla distribuzione delle quantità tra i suoi componenti. Su queste basi, per un individuo, sia esso un politico o un responsabile della politica economica, diviene possibile esprimere una preferenza fra stati sociali alternativi. Su queste basi, inoltre, sono anche utilizzabili indicatori normativi, che possono essere definiti come misure, ad esempio, della povertà, della disuguaglianza, del reddito nazionale, e di tutti quegli aspetti considerati rilevanti in termini normativi. Nella definizione di benessere come capacità di scelta uno degli elementi fondamentali è costituito dalla considerazione dello "svantaggio iniziale", per cui gli indicatori normativi, per costituire valide basi informative nell'ambito di questo approccio, devono essere in grado di tener conto delle posizioni di svantaggio degli individui sfavoriti. Una difficoltà teorica Accenniamo infine ad una difficoltà teorica evidenziata dallo stesso Sen nel formulare un indice delle capacità fondamentali con il quale definire la "qualità della vita", ovvero lo "standard of living", che è proprio il titolo della sua opera nella quale viene trattato l'argomento. Il benessere sociale è definito come capacità di scelta, ma è possibile che le scelte liberamente effettuate dagli individui li conducano a delle situazioni inique. Situazioni simili vengono create frequentemente ogni volta che l'oggetto della scelta è la partecipazione ad una qualche forma di "lotteria"; in questo caso si potrebbe dare all'individuo la libertà di scegliere una situazione che potrebbe portare a dei risultati negativi (per l'individuo stesso), cioè a diminuire il proprio campo di scelta e quindi, in definitiva, il proprio benessere. Infatti se l'individuo effettua una scelta che gli causa perdite, anche solamente economiche, la sua capacità di scelta, ex-post, è di fatto diminuita. Ma se si impedisce all'individuo un simile comportamento si diminuisce la sua capacità di scelta ex-ante. Ancora una volta segue che la razionalità di in processo di decisione sociale non soltanto non può essere assicurata su di un piano formale, ma è una nozione insufficiente ad affrontare i problemi relativi al benessere sociale, che possono essere risolti solo all'interno di una teoria della giustizia. 4 L’APPROCCIO DELLE “CAPACITAZIONI” 4.1 I “funzionamenti” e le “capacitazioni” del Sen Negli anni ottanta e novanta Amartya Sen sviluppò un nuovo approccio alla concezione di well-being, generalizzazione del vecchio “benessere”, da un lato estendendo la sua nozione di “capacità di scelta”, ma dall’altro scostandosi marcatamente da essa. La distanza dal suo vecchio approccio risiede essenzialmente nel fatto che egli considera e definisce il well-being non più per una collettività di persone ma per un individuo. L’estensione concerne la determinazione di possibilità di fare o di essere che sono disponibili ad un individuo, e che sono contenute nella particella elementare della sua teoria: il “funzionamento6”. Il fatto che non arrivi a definire un well-being sociale costituisce il principale limite alla sua teoria. Funzionamenti e capacitazioni Un funzionamento rappresenta una parte dello stato di un individuo che è oppure che può essere, che egli fa o che può fare; nelle parole del Sen (p.317): “Functionings represent parts of the state of a person - in particular the various things that he or she manages to do or be in leading a life.” Si noti che nella definizione di funzionamento non è contemplata la “capacità” di fare o di essere. Per esempio, il digiuno può essere una parte dello stato di un individuo: è un funzionamento. Ma lo stato di digiuno può essere scelto da un individuo ricco per motivi suoi propri, ad esempio religiosi; oppure perché è a dieta. Al contrario lo stato di digiuno può essere obbligato per un individuo povero che non è in grado di comperare cibo. Allora la posizione dei due individui rispetto al digiuno, che rappresenta lo stesso funzionamento per ambedue, è differente: il ricco digiuna ma potrebbe anche scegliere di non digiunare (sarebbe capace di non digiunare); il povero digiuna ma non ha altra possibilità di scelta (non sarebbe capace di non digiunare). Essi hanno differenti “capacitazioni”, o “capabilities” secondo la terminologia del Sen (p.31): “The capability of a person reflects the alternative combinations of functionings the person can achieve, and from which he or she can choose one collection.” Si noti la “capacità di scelta” come elemento caratteristico della “capacitazione”, elemento che abbiamo visto non essere presente nel “funzionamento”. Se un gruppo di funzionamenti può essere scelto da una persona (che quindi possiede la “capacità” di sceglierli) esso determina la capacitazione di quella persona. Si osservi anche che l’ormai usuale traduzione 6 Functioning nella sua versione inglese. Tutte le citazioni di questo capitolo che non siano esplicitamente attribuite ad altro autore sono tratte da Sen (1993b). 7 italiana “capacitazione” dell’originale “capability” è ben infelice in quanto in essa non è presente la commistione di capacità (capacity) e possibilità (possibility) presente in “capability”. La capacitazione, dunque, definisce le possibilità che un individuo ha di raggiungere certi stati di essere; se questi stati sono valutati positivamente sono stati di well-being. Nelle parole del Sen (p.30): “The expression [capability] was picked to represent the alternative combinations of things a person is able to do or be – the various ‘functionings’ he or she can achieve.” Funzionamenti elementari e complessi Naturalmente, in generale, ci sono più di un funzionamento; alcuni sono elementari (e di base), come per esempio (p.36): - essere nutriti adeguatamente, - essere in buona salute, - possedere una buona istruzione, - evitare una mortalità prematura, ed altri più complessi,come ad esempio: - ottenere rispetto di sé, - essere socialmente integrati. Una definizione più analitica Se descriviamo la condizione sociale di un gruppo di persone per mezzo di (un vettore di) n funzionamenti, non è cosa certa che tutti questi siano disponibili per ciascun individuo e che questi sia in grado di sceglierli. Il sottinsieme di questi funzionamenti che un individuo può scegliere di essere o di fare rappresenta la sua capacitazione. Un gruppo di n funzionamenti può essere rappresentato da una ennupla di variabili, ciascuna indicate con Fi , i=1,2,…,n. Essi rispecchiano situazioni obiettive, che si riferiscono in generale agli stati dell’individuo. Ma di questi n funzionamenti soltanto k≤n sono sia a lui disponibili sia da lui sceglibili: questa collezione di k funzionamenti rappresenta la sua capacitazione. Se lo spazio è a due dimensioni, formato ad esempio dai due funzionamenti: - essere nutrito adeguatamente (F1), - possedere una buona istruzione (F2), i sottinsiemi differenti e possibili sono quattro: 1. sia F1 che F2 sono assenti, 2. F1 è assente ma F2 è presente, 3. F2 è assente ma F1 è presente, 4. sia F1 che F2 sono presenti. Se un individuo è in grado di godere sia di F1 che di F2 , la sua capacitazione è formata dalla coppia (F1 , F2) e k=2; se viceversa può godere o del solo F1 o del solo F2 , la sua capacitazione è formata da un solo funzionamento (F1 oppure F2 , rispettivamente) e k=1. Nel primo caso k=0. Si può dare un’altra forma a queste definizioni tramite variabili booleane che possono assumere i valori zero oppure uno, indicando l’assenza o la presenza di un funzionamento. Nell’esempio precedente la coppia di funzionamenti F1 ed F2 può essere associate a due assi cartesiani producendo i quattro punti (0,0), (0,1), (1,0) e (1,1), corrispondenti alle quattro differenti capacitazioni che possono essere formate con i due funzionamenti. Per esempio, se un individuo ha la capacitazione (1,1) può scegliere o F1 (essere nutrito adeguatamente), o F2 (avere una buona istruzione) oppure anche sia F1 che F2 . 4.2 Mezzi di vita e funzionamenti rilevanti L’approccio delle capacitazioni non dà rilevanza diretta ai mezzi di vita (il reddito reale, la ricchezza, i beni primari, e così via), ma può dare loro un’importanza derivata poiché essi possono influenzare indirettamente, anche in modo molto marcato, i funzionamenti disponibili (p.33). In altri approcci al well-being i mezzi di vita sono spesso utilizzati per definire la linea della povertà, con “a tendency to define basic needs in the form of needs for commodities (e.g. for food, shelter, clothing, health care), and this may distract attention from the fact that these commodities are no more than the means to real ends (inputs for valuable functionings and capabilities)” (p.40). Nell’approccio delle capacitazioni, al contrario, nell’analisi della povertà8 la situazione sociale può essere descritta per mezzo di un piccolo numero di funzionamenti che possono essere ritenuti centralmente rilevanti (p.31). Per mezzo di questi funzionamenti possono essere definite delle “capacitazioni di base” con le quali identificare la linea di povertà e fare la relative analisi: “The identification of minimally acceptable levels of certain basic capabilities (below which people count as being scandalously ‘deprived’) can provide a possible approach to poverty” (p.41). In altri tipi di analisi sociale, ad esempio quella dello sviluppo umano, la lista dei funzionamenti necessaria può anche essere lunga. Così è necessario identificare lo spazio dei funzionamenti che contenga soltanto quelli rilevanti; la scelta (chiaramente soggettiva) di questi costituisce un primo fondamentale problema da risolvere in questo approccio. Nelle parole del Sen (p.32): “There is no escape from the problem of evaluation in selecting a class of functionings in the description and appraisal of capabilities.” 4.3 Capacitazioni, well-being e qualità della vita Le definizioni di well-being, qualità della vita e standard di vita per un individuo possono tutte essere date in termini di capacitazioni. Infatti Sen (p.30) afferma “to explore a particular approach to well-being and advantage in terms of a person’s ability to do valuable acts or reach valuable states of being” ed ancora (p.31) che la “quality of life [has] to be assessed in terms of the capability to achieve valuable functionings”. 8 Così come in altri tipi di analisi. Se i funzionamenti concernono soltanto la vita di un individuo, l’associata capacitazione può essere considerata equivalente al suo standard di vita (p.37): “A particularly important [exercise] is that of evaluating a person’s standard of living. This, too, may take the form of focusing on the person’s functionings, but in this case we may have to concentrate only on those influences on well-being that come from the nature of his own life, rather than from ‘other-regarding’ objectives or impersonal concerns.” Al contrario, se i funzionamenti sono più generali, ad esempio concernenti la vita anche di altre persone, la capacitazione associata può essere considerata equivalente al suo well-being (p.37): “For example, the happiness generated by a purely other-regarding achievement (e.g. the freeing of political prisoners in distant countries) may enhance the person’s well-being without, in any obvious sense, raising his living standard.” Differenze sostanziali non sembrano sussistere, nel pensiero del Sen, tra qualità della vita e standard di vita. Dalla precedente citazione si trae anche che questi due concetti sono contenui in quello del well-being. Capacitazioni e libertà La libertà di condurre tipi di vita diversi è un concetto ovviamente compreso nelle capacitazioni dell’individuo, sebbene “a full accounting of individual freedom must, of course, go beyond the capabilities of personal living and pay attention to the person’s other objectives (e.g. social goals not directly related to one’s own life)” (p.33). Così i funzionamenti associati con la libertà devono essere necessariamente compresi, per ogni individuo, nell’insieme che definisce la sua capacitazione come suo well-being, mentre non sono strettamente necessari quando si valuta la sua qualità della vita. 4.4 La valutazione del well-being Se il well-being è definito in termini di capacitazioni, la sua valutazione corrisponde alla valutazione di queste, cioè dell’insieme dei funzionamenti che le costituiscono. Di conseguenza, se il primo problema fondamentale dell’approccio delle capacitazioni è costituito, come già notato, dalla scelta dei funzionamenti (p.32): “The capability approach is concerned primarily with the identification of value-objects, and sees the evaluative space in terms of functionings and capabilities to function.” ne sorge un secondo (anch’esso chiaramente soggettivo): la valutazione dei funzionamenti. Nelle parole del Sen (p.37): “The claim is that the functionings make up a person’s being, and the evaluation of a person’s well-being has to take the form of an assessment of these constituent elements.” Riassumendo, dunque, due problemi devono essere risolti soggettivamente: (1) la scelta dei funzionamenti necessari alla definizione della capacitazione che viene ritenuta equivalente al well-being oppure alla qualità della vita; (2) la determinazione dei loro valori relativi (cioè dei pesi), in quanto non tutti i funzionamenti sono ugualmente rilevanti. “This is, of course, itself a deeply evaluative exercise, but answering question (1), on the identification of the objects of value, does not, on its own, yield a particular answer to question (2), regarding their relative values.” (p.33) 4.5 Le capacitazioni nel lavoro di Martha Nussbaum Il Sen ha sviluppato l’approccio delle capacitazioni nello stretto rispetto di due regole di base: i) identificare il well-being o la qualità della vita in termini esclusivamente individuali; ii) esprimersi, nelle definizioni e nei concetti, in forma assolutamente generale. Questo comportamento ha il vantaggio di evitare che siano possibili molte critiche ma, allo stesso tempo, ha la caratteristica di rendere l’approccio astratto e difficilmente applicabile alla realtà. Lo stesso Sen riconosce che esso è, in questo senso, non completato (p.47). Queste due regole sono state superate dal filosofo tedesco Martha Nussbaum, che ha sviluppato una versione dell’approccio delle capacitazioni che potremmo chiamare “aristotelico”9. La prima modifica In primo luogo ha cambiato la relazione tra funzionamenti e capacitazioni. Queste non sono più costituite da insiemi di funzionamenti che si ha la capacità di ottenere: ogni funzionamento che può essere ottenuto è esso stesso una capacitazione, cosicché la caratterizzazione del well-being è fatta per mezzo di un insieme di k capacitazioni ognuna delle quali è un funzionamento disponibile ed ottenibile. Coerentemente con la sua posizione aristotelica, la Nussbaum specifca dieci funzionamenti/capacitazioni, corrispondenti a dieci aree della vita umana, che dovrebbero essere prese in considerazione nella definizione del well-being. Queste capacitazioni furono elencate per la prima volta in Nussbaum (1990) e poi cambiate nel 1993 e nel 1995. L’ultima modifica fu fatta dalla Nussbaum nel 2000, con l’elenco che riportiamo di seguito in originale e che ella definisce formato dalle “Capacitazioni umane funzionali di base”: a. currently life, b. bodily health, c. bodily integrity, d. senses-imagination-thought, e. emotions, f. practical reason, g. affiliation (sociability and dignity), h. other species, i. play, j. control over one’s environment (political and material). 9 La posizione filosofica della Nussbaum è aristotelica. Occorre notare che il Sen non rifiuta la possibilità di specificare una lista di funzionamenti/capacitazioni. Egli semplicemente afferma che da un lato questa lista non è in contrasto con l’approccio delle capacitazioni ma che dall’ altro lato esso non la richiede: “Aristotle believes, as Nussbaum (1988) notes, ‘that there is just one list of functionings (at least at a certain level of generality) that do in fact constitute human good living’ (p.152). That view would not be inconsistent with the capability approach presented here, but not, by any means, required by it.” (p.46) Questa citazione fornisce un’ulteriore conferma della regola ii) sopra riportata ma allo stesso tempo riconosce che quello della Nussbaum è effettivamente un tipo di approccio delle capacitazioni. La seconda modifica Il secondo cambiamento che la Nussbaum apportò all’approccio del Sen riguardò il carattere individualistico delle capacitazioni. Ella ritiene che sia dovere dello Stato assicurare le capacitazioni agli individui, e che ogni individuo debba avere la libertà di definire il suo proprio well-being e di conseguenza di scegliere gli obiettivi da perseguire. Al fine di permettere ai propri cittadini di vivere una vita da essi stessi determinata, lo Stato deve assicurare loro le capacitazioni necessarie, non i funzionamenti, perché da un punto di vista politico sono quelle e non questi che lo Stato ha il dovere di fornire. E l’essere umano deve avere la libertà di scegliere le capacitazioni che gli necessitano nella realtà, una volta che lo Stato gliele abbia assicurate: “Where adult citizens are concerned, capability, not functioning, is the appropriate political goal….It is perfectly true that functionings, not simply capabilities, are what render a life fully human, in the sense that if there were no functioning of any kind in a life, we could hardly applaud it, no matter what opportunities it contained. Nonetheless, for political purposes it is appropriate that we shoot for capabilities, and those alone. Citizens must be left free to determine their own course after that.”10 Ed ancora: “…the basic political principles focus on promoting capabilities, not actual functionings, in order to leave to citizens the choice whether to pursue the relevant function or not to pursue it….the content of the capabilities list gives a central role to citizens’ powers of choice and to traditional political and civil liberties.”11 10 11 Si veda Nussbaum (2000, p.87) . Si veda Nussbaum (2000, p.105) . 5 GLI ASPETTI EMPIRICI DELLA MISURAZIONE DELLA CONDIZIONE UMANA 5.1 Gli sviluppi concettuali relativi al benessere ed i metodi operativi elaborati per la sua misurazione Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato l'evoluzione degli aspetti concettuali e definitori del benessere nella speculazione teorica. Questa evoluzione, unita al crescente malessere sociale che aveva nella gran parte dei Paesi industrializzati nonostante la crescita economica, o anche a causa di essa, ha stimolato vivacemente la ricerca indirizzata alla definizione di un'adeguata misura del benessere sociale. Tuttavia la ricerca si è in generale sviluppata tramite un’analisi che riesce ad elaborare metodologie complesse ed efficaci sì da un punto di vista descrittivo, ma che sono ambiguamente interpretabili se considerate come reali misure del benessere complessivo. In effetti, quando dalla teoria si è passati su di un piano operativo, è venuto a mancare tra i ricercatori un consenso generale sul concetto stesso di benessere. 5.2 La specificazione della funzione del benessere sociale Una soluzione concettualmente corretta del problema della misurazione del benessere sociale potrebbe risiedere nello specificare adeguatamente una sua funzione. Questo però pone una serie di difficoltà, le principali delle quali vengono esposte di seguito: i) La definizione dei criteri da usare per specificare il significato di "benessere" sociale, considerato questo come l'insieme delle condizioni nelle quali ogni individuo può perseguire il proprio benessere individuale. ii) La difficoltà di valutare, cioè misurare, il benessere. iii) La difficoltà di formulare giudizi sul benessere sociale che è stato definito e misurato. Questa terza difficoltà è superabile qualora il benessere sia concepito come l'espressione delle preferenze di una singola entità che non necessariamente è un individuo bensì, e molto spesso, è un gruppo di persone capaci di armonizzare le proprie preferenze. Se si superassero le tre difficoltà, la funzione del benessere sociale potrebbe essere concepita come l'espressione delle preferenze di un gruppo politico omogeneo o comunque composto di individui capaci di armonizzare le proprie preferenze grazie ad un accordo esistente sugli interessi fondamentali. In questo caso esisterebbe una pluralità di funzioni del benessere sociale, ognuna delle quali sarebbe l'espressione, ad esempio, di un movimento dell'opinione pubblica, di un partito politico, di una linea di pensiero, e così via. Secondo questa accezione la funzione del benessere sociale consentirebbe: • una formalizzazione coerente delle preferenze espresse dal "gruppo", così permettendo una conoscenza più chiara dei valori che esso si propone di perseguire, conoscenza ugualmente necessaria sia alle persone appartenenti al "gruppo" sia a quelle ad esso esterne; • l'evidenziazione delle eventuali incongruità nel sistema di valori del "gruppo". In conclusione sarebbe possibile specificare in modo corretto una funzione del benessere sociale se si fosse disposti ad accettare le seguenti caratteristiche di fondo: • L'identificazione e la valutazione del benessere individuale vengono fatte senza deduzione dalle preferenze individuali ma secondo l'accezione del Rawls o del Sen, considerando l'individuo inserito in una ben definita società, titolare di specifici diritti e persecutore di specifici valori etici oltreché del proprio interesse economico. • La valutazione sociale del benessere di tutti gli individui è fatta considerando questi congiuntamene tramite la formalizzazione delle preferenze espresse dal "gruppo" di persone definito sopra. 5.3 Il PIL come indicatore del benessere Nel periodo intercorrente tra le due guerre mondiali, mentre nell'ambito teorico l'interpretazione del concetto di benessere si evolveva verso definizioni sempre più sofisticate, da un punto di vista empirico si considerava il benessere in termini strettamente economici nell'osservanza di un'impostazione pragmatica che nasceva dall'unanime accettazione dell’approccio del Pigou. D'altro canto, a partire dal secondo dopoguerra e per almeno altri vent'anni, il tentativo di prendere in considerazione delle componenti extra-economiche del benessere sarebbe stato comunque considerato inutile dalla maggioranza degli studiosi, dato che prevaleva tra di loro la convinzione che "una volta accertato l'effetto di una qualche causa del benessere economico, si potesse, a meno di chiare indicazioni contrarie, considerare questo effetto come probabilmente equivalente, in direzione se non in grandezza, all'effetto sul benessere complessivo"12. Dunque il primo tentativo di definire il benessere di una società fu fatto con la sua associazione alla ricchezza della società stessa. Essendo però in quegli anni tra le due guerre molto difficile, per non dire impossibile, la misurazione della ricchezza, questa fu sostituita da un flusso, il PIL (oppure il reddito) pro capite, intendendosi le variazioni di benessere associabili alle variazioni del PIL (oppure del reddito). In questa accezione diveniva possibile effettuare misurazioni del benessere ed utilizzarle per confronti intertemporali (per uno stesso Paese) ed internazionali (tra più Paesi). L'uso del PIL pro-capite come misura del benessere trovò la sua giustificazione teorica, nei Paesi industrializzati, nella linea di pensiero che identificava la crescita economica con la fonte di ogni prosperità. Lo stesso 12Pigou (1920). S.Kuznets (1941, pp.3-4), uno dei principali costruttori della contabilità nazionale, affermava: "National income may be defined as the net value of all economic goods produced by the nation... Any claim to significance such a total would have, would lie in its presumptive usefulness as an appraisal of the contribution of economic activity to the welfare of the country's inhabitants, present and future..." Nel 1948 l'ONU adottò un sistema standard di contabilità nazionale (SNA, System of National Accounts), che facilitò, come si è detto, i confronti intertemporali anche fino ad un lontano passato, e quelli tra nazioni diverse, in virtù di essere espresso in termini monetari. A questi fini lo SNA ebbe un indubbio successo, che dura tutt'ora; come indicatore del benessere umano il successo fu minore. In effetti la stessa ONU, in un rapporto del 1953 in cui si davano definizioni del livello di vita ai fini di comparazioni internazionali13, raccomandava l'uso simultaneo di altre informazioni sulle condizioni ambientali e sociali in genere. Le critiche al PIL L'uso del PIL come indicatore del benessere fu criticato, anche aspramente, secondo due linee diverse. Il primo gruppo di critiche riguardò il modo di aggregazione di alcune sue componenti: si ritenne che alcune fossero ridondanti, oppure che non contribuissero al benessere di un Paese, e che quindi andassero tolte nella valutazione di questo. I critici della seconda linea rilevarono, d’altro canto, che il PIL, per quanto migliorato, non avrebbe potuto rappresentare una concezione non esclusivamente economicistica del benessere: occorreva aggiungergli altri indicatori, come quelli, ad esempio, relativi alla distribuzione del reddito, allo sfruttamento dell'ambiente, alla povertà, alle condizioni fisiche e sociali della vita umana; infine, occorreva aggiungergli indicatori del possesso di beni intangibili, quali ad esempio la libertà, la giustizia, la sicurezza. Infatti, nonostante che in apparenza il valore del PIL pro-capite costituisca uno strumento oggettivo e facilmente realizzabile per confrontare economie diverse, in realtà presenta notevoli debolezze strutturali che rendono ingiustificato l’ampio uso che ne è stato fatto come indicatore di benessere. Di seguito esponiamo i principali motivi che limitano l'uso del PIL ad un preciso contesto (quello della crescita economica complessiva) rendendolo inadeguato a misurare il benessere sociale. i) Il PIL pro-capite non è un indicatore di stock ma di flusso di beni e di servizi espressi monetariamente; in altre parole misura l'incremento della ricchezza economica di un Paese e non la ricchezza stessa. In questo modo non viene contabilizzata la diminuzione di ricchezza che dovrebbe risultare dall'esaurimento delle risorse non rinnovabili e dal deterioramento ambientale. Risorse non rinnovabili ed ambiente sono soggetti, per effetto della crescita economica, a gravi danni dei quali 13 Diversi PVS, che sotto la spinta dell'ONU seguivano il modello dei Paesi più sviluppati, costruirono un sistema di contabilità nazionale e per mezzo di questo valutarono il proprio progresso socio-economico. occorre tener conto per avere una rappresentazione della situazione sociale che possa essere interpretata in termini di benessere. ii) Il PIL non fornisce informazioni sulla struttura produttiva e sulla distribuzione del reddito di un Paese perché è una misura aggregata. Ma sono invece proprio queste le informazioni che consentirebbero di esprimere un giudizio sul grado di sviluppo economico e sociale raggiunto dal Paese. Ad esempio le economie differenziate a livello territoriale e/o settoriale presentano profonde disuguaglianze nei livelli di reddito e nella distribuzione delle risorse produttive. Queste disuguaglianze incidono fortemente sul grado di benessere di un sistema sociale e non si può prescindere da una loro considerazione per giudicare una situazione in termini di benessere. iii) Nella misura del PIL confluiscono solamente i beni e servizi di mercato, ovvero quelli che sono oggetto di scambio e che implicano un trasferimento monetario. Per i beni e servizi non di mercato14 non esiste un mercato nel quale si possa formare un valore monetario da inserire nel PIL; oppure il mercato esiste ma le sue parti costituenti non entrano in gioco in maniera abituale e regolare. iv) Il PIL non può tener conto di tutto la serie di componenti fondamentali della qualità della vita le quali non possono esser misurate in termini monetari, come la soddisfazione nel lavoro, la sicurezza del lavoro, la possibilità di scegliere l'impiego del proprio tempo libero, e così via15. Inoltre esistono alcuni beni e servizi il cui valore sociale può differire da quello di mercato. Da tutti questi motivi risulta evidente che il valore del PIL è un’espressione inadeguata dell'effettivo livello qualitativo di vita; ma finché è durata la “mania della crescita”, negli anni ’50 e ’60, le variazioni della produzione complessiva sono state giudicate delle buone approssimazioni delle variazioni del benessere. Nel frattempo, tuttavia, il valore del benessere in termini di crescita economica cominciò ad essere messo in discussione, come i saggi del Galbraith (1958), del Packard (1960) e del Mishan (1967) indicano, e dalla fine degli anni ‘60 la ricerca relativa ad altri indicatori e in generale a meno rozzi metodi di misurazione del benessere si andò intensificando insieme al sorgere di una nuova sensibilità ai problemi del benessere16, più attenta ai problemi dello sviluppo sociale e culturale, più orientata verso la distribuzione 14 I beni non di mercato hanno un peso rilevante sia nei Paesi in via di sviluppo sia nelle economie di mercato avanzate. Nei primi i beni e i servizi non merchant sono largamente diffusi nelle forme di autoconsumo e di scambio tramite baratto. Nei secondi i beni e i servizi non di mercato coprono tutti settori di sussistenza nei quali non vengono effettuate imputazioni, quali i servizi prestati nell'ambito familiare e le forme di volontariato. 15 Tra l’altro, la difficoltà del PIL a contabilizzare le transazioni non monetarie implica che esso sottostimi l'attività economica totale. 16 La “controcultura” antimaterialistica degli anni ’60. del reddito piuttosto che verso un suo continuo aumento, più consapevole dell'importanza delle questioni ambientali e dei limiti delle risorse naturali17. Nell'ambito di questa nuova sensibilità non solo furono evidenziati i limiti del valore del PIL come indicatore sintetico dell’andamento dell'economia in generale, ma soprattutto fu dichiarata la sua assoluta inadeguatezza a fornire una misura del benessere. Una sorta di polemica sorse nei confronti dell' “abuso” della nozione di PIL, tanto che si ebbero reazioni vivaci alla pretesa di quantificare una realtà complessa come il benessere di una società con una misura tanto incongrua come il suo PIL. Già agli inizi degli anni quaranta lo stesso Kuznets, che a dir la verità nel tempo non era stato particolarmente stabile nelle opinioni, nello specificare il significato preciso degli aggregati della contabilità nazionale aveva evidenziato i rischi di un loro uso improprio al di fuori del contesto analitico per il quale erano stati formulati. Ed ancor prima (1933, p.7) aveva messo in forte dubbio la possibilità di considerare il PIL come una misura del benessere, che “…runs in terms of subjective feelings, whose commensurability for various individuals is to be doubted and whose relation to the objectively perceptible economic goods is not, in the present state of knowledge, determined with sufficient precision to permit even purely qualitative economic analysis. Consequently, the concept of income enjoyed has to be abandoned…”. 5.4 Una classificazione dei principali approcci alla misurazione del benessere A seguito delle critiche illustrate nel paragrafo precedente, gli studi finalizzati a dare un’espressione quantitativa più adeguata alle componenti del benessere sono stati numerosi e la ricerca in questo senso è tuttora molto intensa. Nel campo di questa ricerca distinguiamo le tre impostazioni seguenti: i) l’impostazione “oggettivista” o della “contabilità estesa”; ii) l’impostazione “normativista”; iii) l’impostazione “soggettivista” degli “indicatori psicologici”. L’impostazione “oggettivista” Si possono ricondurre all’approccio oggettivista gli studiosi che ritengono vano ogni tentativo di costruire una contabilità sociale tramite la quale sia possibile ottenere una rappresentazione d’insieme dello stato della società. Secondo questi ricercatori le varie teorie sociali non sono adeguate a consentire di individuare e definire il supporto informativo necessario per giungere a costruire un sistema integrato di statistiche sociali. Vi furono perfino studiosi, come ad esempio l’Arkipoff (1977), che affermarono che il termine benessere è vuoto di significato perché la sua interpretazione è per sua natura ambigua e così non è possibile stabilirne esattamente il contenuto. 17 L’ “ambientalismo” anticrescita degli anni ’70. La stessa ONU ha esteso lo SNA con una contabilità ambientale satellite. Inoltre non è possibile, per loro, costruire un indicatore sociale in sostituzione del valore del reddito perché manca la possibilità di definire una comune unità di misura tramite la quale misurare tutti i diversi aspetti della situazione sociale. Date queste premesse, oggetto di misura può unicamente essere il benessere economico reale di un Paese. Una misura adeguata non può comunque essere fornita dai semplici conti nazionali ed è quindi necessario effettuarne un appropriato aggiustamento. È opportuno inoltre notare che per loro il termine benessere non deve essere inteso in maniera restrittiva, ma anzi scopo di questi autori è proprio quello di contabilizzare il maggior numero possibile di aspetti rilevanti al fine di costruire una rappresentazione che possa essere interpretabile in termini di benessere generale; naturalmente ognuno degli aspetti proposti da tenere in considerazione deve essere in qualche modo ricondotto alla scala monetaria, e questo rappresenta un limite notevole per una misura del benessere sociale. Un primo approccio al problema di questa misurazione fu quello di approfondire l'uso del cambio per confrontare gli aggregati economici di Paesi diversi, verificando la possibilità di stimare il PIL pro capite in termini di parità dei poteri di acquisto, al fine di tener conto della struttura interna dei prezzi dei Paesi tra i quali si voleva effettuare il confronto. Un secondo approccio al problema fu quello di tentare un aggiustamento dei conti economici nazionali ritenuti inadeguati ad esprimere il benessere economico reale delle nazioni. Un terzo approccio può essere identificato nella ricerca finalizzata all'integrazione del sistema dei conti nazionali con indicatori relativi all'ambiente e al capitale naturale. L'impostazione “normativista” Secondo l'impostazione normativista le statistiche sul reddito nazionale non sono adatte a misurare il benessere in quanto non considerano i progressi che non hanno valore monetario (oppure che sono valutati in forma imperfetta dai prezzi di mercato) e quindi non contabilizzano i costi sociali della crescita economica. I normativisti ritengono che accanto ai dati correntemente disponibili relativi alle risorse impiegate nei vari settori sarebbe auspicabile la messa a punto di statistiche sociali atte a misurare i differenti aspetti del benessere in forma diretta; in altre parole auspicano la messa a punto di indicatori normativi. Questi dovrebbero consentire un giudizio sul benessere sociale e rappresentare la base informativa della persona che si trova in condizioni di dover decidere se un certo cambiamento, dal quale alcuni trarranno vantaggio mentre altri perdite, è un bene per la società. È evidente da questo come la costruzione degli indicatori normativi sia strettamente collegata alla specificazione della funzione del benessere sociale. Gli studi relativi agli indicatori sociali normativi affrontano due generiche categorie di problemi di fondo: • la scelta degli aspetti da considerare come elementi del benessere, a livello sia individuale che collettivo; • la definizione di metodologie formali che consentano di quantificare gli aspetti più diversi di una situazione sociale e che permettano, inoltre, di ottenere dei risultati numerici che siano concettualmente interpretabili secondo l'accezione di benessere accolta. Questo secondo problema è reso arduo dall'assenza di un numerario comune tramite il quale esprimere elementi diversi non misurabili con il metro monetario; tale problema è stato quello la cui soluzione è stata finora più approssimativa. L'impostazione degli “indicatori soggettivi” Nell’ambito dell’impostazione soggettivista si attribuisce una grande importanza agli elementi del benessere individuale quali le attitudini, le soddisfazioni e le aspirazioni personali. Questi elementi del benessere possono esser misurati soltanto tramite una testimonianza diretta degli individui, con il metodo dell'indagine campionaria. Gli indicatori soggettivi misurano gli elementi del benessere attraverso la percezione degli individui. L'impostazione soggettivista viene giustificata, tra l’altro, dal fatto che uno dei motivi più profondi del malessere sociale, nonostante un eventuale reddito medio elevato, sia costituito dalla separazione tra la reale natura dei bisogni e la natura delle soddisfazioni che vengono proposte. L'origine ultima del benessere reale dipende dal grado di soddisfazione raggiunto dall'individuo; non avendo informazioni sulla reale natura dei bisogni delle persone, non si possono proporre delle corrispondenti modalità di soddisfazione e di conseguenza l'insoddisfazione di reali bisogni diminuisce il benessere. Tramite questi indicatori non si cerca di raccogliere preferenze individuali sugli stati sociali, perché altrimenti si ritornerebbe ad una impostazione di tipo welfarista (basata sull’individualismo etico) e il teorema dell’Arrow impedirebbe l'espressione di una preferenza sociale e quindi in ultima analisi la misura del benessere sociale. Un sistema di indicatori soggettivi è quindi una forma neutrale di raccolta delle opinioni, dei desiderata, dei bisogni in genere della collettività, e questa raccolta si rende tanto più necessaria in quanto frequentemente gli obiettivi della classe politica si discostano dai bisogni della collettività18. 5.5 La contabilità estesa I sistemi di conti nazionali estesi furono sviluppati essenzialmente per misurare il benessere. Tra gli antesignani di questo tipo di contabilità annoveriamo il Kendrick (1967) ed il Sametz (1968) ma il saggio che riportava una metodologia approfondita è dovuto a Nordhaus e Tobin (1972), con la illustrazione della loro Measure of Economic Welfare (MEW). 18 Negli ultimi anni alcuni organismi statistici ufficiali hanno iniziato ad inserire indicatori soggettivi nelle loro raccolte di statistiche: nel Regno Unito il General Household Survey inserisce dei questionari soggettivi relativamente a svariati aspetti della vita; in Francia l'INSEE, nella sua indagine periodica sulle abitazioni, comprende anche quesiti soggettivi che vanno al di là dello scopo di analisi del settore della rilevazione; negli USA, i “Social Indicators” contengono, in ogni capitolo, un paragrafo dedicato a quanto è noto sull'argomento del capitolo stesso sotto l'aspetto soggettivo. Nordhaus e Tobin: benessere effettivo e benessere garantito Nella loro opera del 1972, “Is Economic Growth Obsolete?”, gli autori si proposero di rimediare alle debolezze del reddito pro capite quale misura del benessere economico provvedendo ad un aggiustamento dei conti nazionali. Per loro la più evidente insufficienza del PIL era quella di essere un indice della produzione e non del consumo, che, invece, dovrebbe essere il fine ultimo della attività economica. Nordhaus e Tobin tentarono di costruire una misura alternativa e sperimentale del benessere economico capace di riflettere le più evidenti discrepanze tra l'indicatore del PIL e il benessere economico. Da un punto di vista concettuale la misura del benessere economico, secondo gli autori, era una misura complessiva del consumo reale annuale delle famiglie. Il consumo così inteso comprendeva tutti i beni e servizi, di mercato e non, valutati o in base ai prezzi di mercato o in costo-opportunità per i consumatori. I consumi pubblici venivano contabilizzati se forniti dal governo o dalle altre istituzioni; erano esclusi se davano origine ad esternalità negative. Nordhaus e Tobin fornirono due misure del benessere economico: una rappresentata dai consumi effettivi, l'altra dai consumi garantiti, ottenuti aggiungendo ai primi l'eccedenza della formazione netta effettiva di capitale su quella teorica, calcolata al fine di assicurare lo sviluppo dei consumi ad un certo tasso. Quando in un sistema economico il benessere garantito fosse risultato maggiore di quello effettivo, il prodotto sarebbe aumentato, l'economia si sarebbe mossa su di un sentiero di crescita equilibrata più elevato, e il benessere garantito sarebbe aumentato più velocemente del tasso tendenziale di progresso tecnologico. Un eccesso di benessere effettivo sul benessere garantito avrebbe manifestato, invece, la situazione è opposta. Gli aggiustamenti del PIL proposti da Nordhaus e Tobin comportavano: a) una riclassificazione dei conti nazionali delle spese finali, al fine di ottenere un più comprensivo concetto di consumo ed un parziale aggiustamento anche dei beni capitali; b) l'imputazione del consumo prodotto da attività non di mercato (i servizi prestati gratuitamente nell'ambito familiare, i servizi per i vantaggi che derivano dal tempo libero, i servizi resi dal capitale di consumo); c) la detrazione del valore delle disutilità esterne. Le stime elaborate in base a questo metodo erano poi utilizzate per aggiustare i conti nazionali. Relazioni tra il benessere ed i conti estesi Nei decenni successivi una contabilità estesa di questo tipo fu preparata non soltanto per gli USA ma anche per molti Stati europei e per l’Australia; tramite di essa si poté determinare che: • il benessere (calcolato con la contabilità estesa) è correlato positivamente con il PIL, • il benessere deriva più dalle attività non di mercato che da quelle di mercato, • la parte di benessere che deriva dal tempo libero non è inferiore a quella derivante dal reddito, • la produzione di beni e servizi all’interno della famiglia è responsabile, in termini di benessere, di più di un quarto di quanto è imputabile al PIL. Si noti come da questi risultati si possano trarre le due conclusioni di fondo: • gran parte del benessere non può essere fatto discendere da beni e soprattutto da servizi associabili ad un prezzo, • gran parte del benessere non è associabile con la produzione materiale. Il benessere sostenibile Uno dei punti cardine dell’estensione della contabilità nazionale riguardò l’integrazione del capitale naturale19 nello SNA , ai fini di individuare il consumo e la ricostituzione delle risorse naturali tali da essere compatibili con il miglioramento della qualità della vita nel presente e nel futuro. In effetti il concetto di consumo sostenibile ha un’origine lontana nel tempo in quanto può essere fatto risalire a Hicks (1946), che lo definì come il massimo consumo possibile che lasciava il consumatore “as well-off as before”. Nordhaus e Tobin (1972) aggiunsero al consumo anche gli investimenti netti, definendo, e tentando di stimare, il benessere (nella loro concezione) sostenibile, con l’affermazione della necessità di tener conto dello sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili. Zolotas (1981) inserì lo sfruttamento delle risorse naturali e i costi ombra per alcune poste negative in un gruppo di conti nazionali estesi per gli USA per gli anni dal 1950 al 1975, costruendo in tal guisa un indice degli aspetti economici del benessere (EAW). Trovò che questo indice aumentava più lentamente del PIL e congetturò che ci sarebbe stato, nel futuro, un momento in cui un aumento del PIL non avrebbe più prodotto benessere: “beyond a certain point, economic growth may cease to promote social welfare. In fact, it would appear that, when an industrial society reaches an advanced state of affluence, the rate of increase in social welfare drops below the rate of economic growth, and tends ultimately to become negative.” Il caso dell’Indonesia Un caso esemplare di misurazione dello sfruttamento delle risorse naturali fu studiato dal World Resources Institute, che calcolò, per il 1984, nella misura del 17.3% del PIL l’impoverimento delle risorse naturali dell’Indonesia causato dall’erosione del suolo, il disboscamento e l’estrazione del petrolio20. Sempre lo stesso Istituto calcolò che dal 1971 al 1984 le tre forme di impoverimento avevano causato, per l’Indonesia, una diminuzione annuale media del PIL pari al 9%. El Serafy (1993) criticò il metodo di calcolo dell’impoverimento delle risorse naturali usato dal WRI, in specie per quanto riguardava l’estrazione del petrolio: “Since the resource stocks are normally much larger than annual extraction, re-estimation of their size, as well as incorporation of 19 Il capitale naturale era considerato costituito da beni che possono essere ricondotti alle seguenti tre principali categorie: 1) le risorse del sottosuolo; 2) gli ambienti fisici naturali; 3) gli organismi viventi. 20 Si vedano Repetto, Magrath, Wells, Beer e Rossino (1989). changes in their value…following price fluctuations, can dwarf the adjustment specifically due to extraction.” Così propose di sostituirlo con la determinazione del costo d’uso dello sfruttamento delle risorse naturali, intendendo per costo d’uso quella porzione di ritorni che si sarebbe avuta dalla vendita di risorse non rinnovabili, al netto dei costi di estrazione, e che avrebbe dovuto essere reinvestita in altre attività al fine di mantenere un equivalente flusso di reddito dopo che lo stock di risorse fosse stato completamente sfruttato. Tale costo d’uso, come frazione dei suddetti ritorni netti, è pari a 1/(1+r)n+1, dove r è il tasso d’interesse dell’investimento ed n è il numero di anni della vita residua dello stock di risorse al tasso corrente di estrazione. Le percentuali di diminuzione del PIL indonesiano calcolate con il metodo del costo d’uso sono riportate nelle Tavola 1. Anno 1975 (minimo) 1979 (massimo) 1971-84 (media annua) Deforesta- Erosione Estrazione Totale zione del suolo del petrolio -3.3 -1.1 -5.6 -10.1 -9.3 -0.7 -9.8 -19.8 -6.8 -7.8 -14.6 Fonti: Repetto et al. (1986) ed El Serafy (1993). Tavola 1 – Aggiustamenti apportati da El Serafy (193) al calcolo dell’impoverimento delle risorse naturali dell’Indonesia effettuato dal World Resources Institute per il periodo 1971-1984; in % del PIL. La contabilità nazionale satellite Nell’ultimo decennio sono state apportate significative revisioni alla contabilità nazionale da parte sia dell’ONU che del Dipartimento del Commercio USA, recependo alcuni suggerimenti fatti da diversi studiosi volti a collegare l’accumulazione e il deprezzamento di alcune attività con i conti del reddito, nonché l’attività economica con le risorse naturali ed ambientali. In particolare, da un lato anche il deprezzamento delle attività fisse del “business” è stato sottratto al PIL per dar luogo al prodotto netto, sebbene sia stata fatta la stessa cosa con il deprezzamento delle attività fisse dello Stato e delle risorse naturali. Dall’altro lato, sono stati aggiunti allo stock di capitale gli impianti e le scorte posseduti dal “business”, mentre non lo sono stati l’edilizia statale e le riserve minerali aggiuntive. Così il vecchio SNA è stato sostituito all’ONU dal Sistema di conti ambientali ed economici, mentre il Bureau di Analisi Economica (BEA) del Dipartimento del Commercio USA ha proposto di passare dalla contabilità nazionale corrente agli Integrated Economic and Environmental Satellite Accounts (IEESA) che presentavano due caratteristiche salienti: (i) il trattamento delle risorse naturali ed ambientali come parte della ricchezza nazionale, e (ii) la disaggregazione delle voci contabili in modo da sottolineare le interazioni tra economia e ambiente naturale. 5.6 L’approccio “normativista” Daly e Cobb (1989) estesero ulteriormente, rispetto allo schema dello Zolotas, i conti nazionali inserendo un indicatore della distribuzione del reddito21, e questo inserimento produsse una misura del benessere, l’Indice del benessere economico sostenibile (ISEW) , ancora meno simile al PIL: tra il 1975 ed il 1990 il reddito degli USA aumentò costantemente mentre l’ISEW diminuì di circa del 25%. In effetti molti studiosi22 avevano da tempo indicato la necessità di costruire una misura del benessere che tenesse conto non soltanto dei beni economici ed ambientali ma anche di istanze sociali come la povertà e la discriminazione, ma soltanto con l’ISEW si riuscì ad integrarli in un singolo schema contabile e a misurare in termini di benessere ed in modo coerente gli effetti dell’attività macroeconomica e della disuguaglianza sociale. Questo indice fu calcolato per molti Paesi industrializzati e nella quasi totalità dei casi si verificò un aumento dell’indice fino al 1970, seguito poi dalla sua costanza o da una diminuzione. La considerazione congiunta di poste di contabilità nazionale e di indicatori sociali extracontabili fanno dell’ISEW una misura esplicitamente normativa. Il lavoro di Daly e Cobb Per costruire l’indice, Daly e Cobb partirono dall’assunto che ciò che è rilevante per il benessere economico è il flusso corrente di servizi per l’umanità e non l’output corrente dei beni scambiati sui mercati. Perciò essi partirono dalla spesa per consumi privati del BEA e quindi fecero una lunga serie di aggiustamenti ai consumi determinati ufficialmente al fine di stimare il flusso sostenibile di servizi utili. Il primo aggiustamento, per la distribuzione del reddito23, derivò dal fatto “that an additional thousand dollars in income adds more to the welfare of a poor family than it does to a rich family”24. Così, più grande è il grado di disuguaglianza dei redditi e minore è il flusso di benessere economico associato ad un particolare flusso aggregato di servizi di consumo. Dopo aver aggiustato la spesa per consumi del BEA per la disuguaglianza dei redditi, Daly e Cobb tennero conto dei flussi di quattro servizi omessi dalla misurazione ufficiale dei consumi derivati da: il lavoro domestico, lo stock di beni di consumo durevole, le strade ed autostrade, e la spesa pubblica per la salute e l’istruzione. I due autori 21 Già Atkinson nel 1970 aveva iniziato a trattare il tema dell’influenza sul benessere della disuguaglianza dei redditi. 22 Tra questi il Sen (1981,1992), che nel 1993, p.40, scrisse: “Economics is not solely concerned with income and wealth but also with using those resources as means to significant ends, including the promotion and enjoyment of long and worthwhile lives. If…the economic success of a nation is judged only by income…, as it so often is , the important goal of well-being is missed”. 23 I due autori considerarono diversi indicatori di disuguaglianza dei redditi ma alla fine scelsero un indice basato sulla quota parte di reddito pertinente al quintile più basso delle famiglie perché quest’approccio “gives special weight to the plight of the poorest members of society, which fits well with the theory of justice propounded by John Rawls” (Daly and Cobb, 1994, p.465). 24 Daly e Cobb (1994, p.445). proseguirono poi la serie di passi di aggiustamento dalle spese per consumi privati al benessere economico sostenibile con la deduzione delle spese correnti per beni di consumo durevoli; essi cercarono anche di tener conto delle spese personali di natura intermedia, non producenti benessere, deducendo i costi derivati dagli incidenti d’auto e dal controllo dell’inquinamento, nonché le spese private per l’istruzione e la sanità. Un’altra deduzione dai consumi privati consistette nella stima dei costi derivanti dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, e acustico; per il 1990 questi costi furono calcolati in 39 miliardi di dollari (del 1972), una cifra sorprendetemente bassa che gli stessi autori definirono altamente inaffidabile. Alla stessa stregua di Repetto, Magrath, Wells, Beer e Rossino (1989), i due autori stimarono e sottrassero la perdita annua di servizi per la produzione associati all’urbanizzazione di suoli agricoli Anche l’estrazione di greggio, carbone, gas naturale e combustibile nucleare costituiva un impoverimento del capitale naturale considerato nell’ISEW. A questo proposito i due autori osservarono: “depletion of nonrenewable resources…[is] a cost borne by future generations that should be subtracted from (debited to) the capital account of the present generation”. Dopo aver dedotto varie forme di sfruttamento del capitale naturale, Daly e Cobb cercarono di tener conto dei danni ambientali imposti alle generazioni future a causa dell’attività economica passata. In particolare, la metodologia dell’ISEW riconosceva che la combustione di combustibili fossili, la produzione di energia nucleare e l’uso di gas CFC produceva l’accumulazione di inquinanti persistenti nell’ambiente globale. Sebbene sia corretto ritenere che il trasferimento di stock sempre maggiori di materiali rischiosi alle generazioni future sia incoerente con lo sviluppo sostenibile, il metodo di stima dei danni ambientali usato dai due studiosi presenta numerosi difetti e deve essere notevolmente migliorato. Daly e Cobb hanno trasformato i consumi calcolati dal BEA nell’ISEW per mezzo di venti aggiustamenti, ma alla fin fine molti di questi sono troppo limitati per spiegare la sempre crescente divergenza esistente tra il PIL pro capite e l’ISEW pro capite che sembra esserci stata a partire dal 1970. Come mostrato nella Tavola 2, la spesa per consumi privati negli USA è cresciuta di 928 miliardi di dollari tra il 1950 e il 1990 mentre l’ISEW è cresciuto di soli 438 miliardi. Quindi nel periodo l’aggiustamento totale rispetto ai consumi del BEA è stato di –490 miliardi di dollari, denotando andamenti marcatamente divergenti tra le misure dei consumi ufficiali e del benessere sostenibile (secondo l’ISEW). Il 58% di questa divergenza è però attribuibile ai danni ambientali, la cui misura è notevolmente approssimata: l’ISEW fornisce un indicatore qualitativamente molto interessante ma quantitativamente inaffidabile. Anno Consumo calcolato dal BEA (1) Aggiustamenti totali al consumo (2) ISEW (1) + (2) Danni ambientali nel lungo periodo 1950 337.3 42.9 380.2 -85.1 1990 1265.6 -447.4 818.2 -370.6 Variazione 928.3 -490.3 438.0 -285.5 nel periodo 1950-1990 Tavola 2 – Componenti del divario tra il consumo ufficiale negli USA calcolato dal BEA e l’ISEW; miliardi di $ a prezzi 1972. Il “Genuine Progress Index” Normativo è anche un indice che costituisce l’ultima versione dell’ISEW, il Genuine Progress Index (GPI), calcolato, soltanto per gli USA, dal 1950 ad oggi. Tiene conto di più di 20 aspetti della vita economica ignorati dal PIL, dei contributi economici di svariati indicatori sociali ed ambientali, nonché della distribuzione del reddito. Al PIL sono aggiunti il valore del tempo passato nei lavori di casa e nel volontariato, nonché quello dei servizi dei beni di consumo durevoli e delle strade. Sono sottratti: le spese indotte dalla criminalità, dagli incidenti automobilistici e dalla polluzione; alcuni costi sociali come quelli derivati dai divorzi e dalla perdita di tempo libero; il deprezzamento derivato dallo sfruttamento dell’ambiente e delle risorse naturali. Alle variabili che non sono valutate dal mercato è imputato un valore monetario e questa imputazione è effettuata soggettivamente mentre le poste del PIL sono definite e stimate oggettivamente. Non vi sono percezioni psicologiche del benessere. Per la sua costruzione, così, il GPI è omogeneo al PIL e può essere utilizzato dai decisori politici per l’individuazione di alcuni problemi relativi alla qualità della vita e per l’implementazione di manovre atte a risolverli. 6 GLI INDICATORI SOCIALI 6.1 Cenni storici Nel 1930 un gruppo di studio degli USA costruì, a livello di contea, il primo indice sociale, il Plane Living Index. Erano gli anni della grande recessione, e gli studiosi stavano investigando sui problemi inerenti la mobilità geografica della popolazione tra le diverse aree non urbane del Paese, in relazione al loro reddito economico. Per giudicare il livello di vita delle singole contee furono utilizzati tre indicatori, tutti espressi pro capite: l'entità dell'imposta sul reddito, il numero dei telefoni e il numero di apparecchi radio. Ogni variabile venne standardizzata con il corrispondente indice nazionale e quindi aggregata con le altre mediante una media aritmetica semplice che formò quindi l’indice sintetico. Questa fu l’origine del movimento degli indicatori sociali”, come viene spesso chiamato nella letteratura, il quale prese vita sempre negli USA intorno al 1965, per poi diffondersi fra tutti i Paesi maggiormente sviluppati. L’idea di base del movimento fu che il benessere reale non poteva essere rappresentato mediante le poste dello SNA ma doveva tener conto di beni relativi all’alimentazione, all’abitazione, all’educazione, alla salute; e poi delle attese di vita, della qualità dell’ambiente, della criminalità e della povertà. Le applicazioni divennero sempre più numerose ed elaborate, e vennero evidenziati due dei principali problemi metodologici connessi con gli indici: il significato e la rappresentatività degli indicatori rispetto ai fenomeni reali che avrebbero dovuto misurare e la difficoltà di elaborare una sintesi delle numerose serie di osservazioni. Uno dei primi contributi teorici tesi alla determinazione di un concetto ampio di benessere fra quello dello statistico americano Davis, nel 1945, che affermò che la qualità della vita era un concetto più ampio di quello legato al consumo (che comunque deve comprendere non soltanto i consumi privati e quelli pubblici, ma anche la fruizione dei beni non economici che la natura mette a disposizione gratuitamente) e doveva quindi estendersi alle condizioni di lavoro, al possesso di beni, alle libertà umane, civili, politiche, sindacali e di scelta. L'importanza del contributo di Davis fu che influenzò in tal senso la ricerca successiva sugli indicatori sociali anche se negli anni in cui egli scrisse era lecito basare il livello della vita sui consumi, dato che la recessione prima e la guerra poi avevano creato delle situazioni di vera povertà. L'importanza degli indicatori sociali risiede anche nell’esigenza di fare confronti internazionali tra i Paesi al fine di coordinare le rispettive politiche e definire quelle in comune, nell'ambito di una sempre maggiore volontà, se non un altro dichiarata, dei governi di cooperazione e di integrazione. Per questa ragione la parte più significativa della ricerca relativa agli indicatori sociali si è svolta nell'ambito degli organismi internazionali ed uno dei maggiori sforzi è stato rivolto a costruire un sistema internazionale integrato di statistiche sociali, coordinando a tal fine la raccolta di dati nei vari paesi. Una distinzione molto generale può essere condotta tra gli indicatori semplici e quelli sintetici. I primi sono delle semplici serie di dati, mentre i secondi vengono costruiti tramite rielaborazioni più o meno complesse dei dati iniziali. Nei metodi che verranno esposti di seguito si considererà soltanto il secondo genere di indicatori 6.2 L’approccio della Adelman e della Morris Nel 1971 le ricercatrici americane I. Adelman e C.T. Morris effettuarono un’analisi statistica delle caratteristiche sociali, politiche ed economiche di alcuni Paesi con differenti gradi di sviluppo. Esse utilizzarono numerosi indici diretti ed indiretti dei fenomeni sociali ed economici di questi Paesi al fine di misurare non tanto il loro grado di sviluppo socioeconomico quanto il loro potenziale di sviluppo. Le due ricercatrici partirono dall’assunzione del principio che le funzioni economiche utilizzate per analizzare le economie avanzate nei Paesi in via di sviluppo possono prendere forme differenti perché incorporano variabili politiche, sociali ed istituzionali. Un'analisi quantitativa delle interazioni tra le influenze economiche ed extraeconomiche dello sviluppo si presentava, tuttavia, alquanto complessa per la mancanza di indicatori adeguati delle caratteristiche istituzionali dei Paesi. Dato questo fatto, il lavoro delle due ricercatrici fu uno dei primi tentativi di superare tale difficoltà definendo ed elaborando misure di dati qualitativi da includere negli studi sullo sviluppo socioeconomico. Ciò avrebbe permesso la considerazione sistematica di quelle forze sociali e politiche che sulla base di esperienze passate apparivano rilevanti. Nella fase preparatoria della costruzione degli indicatori qualitativi la Adelman e la Morris partirono da definizioni aprioristiche, in base alle quali poter graduare il fenomeno sociale osservato e individuare una o più variabili, esprimibili quantitativamente, adeguate a rappresentarlo. In una seconda fase procedettero ad analizzare i dati disponibili, in modo da verificare se la situazione reale del Paese esaminato si adattava bene, in termini di misura, alla formulazione del concetto definito a priori. L'eventuale inadeguatezza della misura iniziale veniva poi usata per riformulare il concetto e misurare meglio le caratteristiche della situazione reale. Adelman e Morris continuarono in un processo di confronti successivi fino a classificare “in via di sviluppo” 74 Paesi. L'analisi statistica si concentrò poi su questo campione, trascurando i Paesi sviluppati perché le studiose volevano analizzare il processo di transizione delle economie con un basso reddito dalla fase di stagnazione economica a quella di crescita sostenuta. Per l'analisi statistica utilizzarono variabili: per le quali la classificazione si basava sulle caratteristiche pubblicate; per le quali era necessario considerare elementi sia statistici che qualitativi; puramente qualitative. In totale utilizzarono quarantuno variabili che in base alla natura del fenomeno che esprimevano erano state divise in tre grandi categorie: socio culturali, politiche, ed economiche. Esse sintetizzavano i principali aspetti delle trasformazioni sociali, politiche ed economiche che generalmente sono associate al processo di crescita di uno Stato moderno. Le relazioni di interdipendenza tra le diverse tipologie di indicatori furono individuate tramite l'analisi fattoriale. I risultati di questa analisi effettuata sull’intero campione di PVS furono poi utilizzati per selezionare e riclassificare i singoli Paesi in base a livello di sviluppo economico. In particolare fu possibile ordinarli in tre gruppi: con un basso livello di sviluppo; con un livello intermedio; con livello alto. Questa differenziazione nei tre gruppi era necessaria per tenere in considerazione i problemi relativi alla misurazione e alla comparabilità delle statistiche relative a Paesi con differenti livelli di sviluppo. Tale analisi delle relazioni fra i vari cambiamenti sociali e politici ed il livello di sviluppo economico fu, inoltre, effettuata sia per il breve che per il lungo periodo. Le differenze tra le due analisi risiedettero principalmente nella scelta degli indicatori utilizzati. Nell'analisi di lungo periodo l’analisi fattoriale fu applicata al reddito pro capite e agli indici che rappresentavano la struttura sociale e politica dei 74 PVS nel periodo 1957-1962. Le variabili puramente economiche (ad eccezione del reddito) non furono considerate in quanto le studiose vollero focalizzare l'attenzione sulla natura dell'interdipendenza tra estesi livelli di sviluppo e le trasformazione delle istituzioni politiche e dei valori culturali associata ai processi di industrializzazione e di urbanizzazione. L'analisi di breve periodo della dinamica processo di sviluppo dei PVS fu, invece, effettuata allo scopo di esaminare le relazioni esistenti tra il tasso di crescita del PNL pro capite al 1963-64 ed alcuni indicatori della struttura politica, sociale ed economica. Fra questi ultimi esse utilizzarono le misure del grado di industrializzazione, del livello di sviluppo tecnologico, dell'efficienza dei sistemi fiscali e finanziari, nonché indicatori dinamici dei recenti cambiamenti nelle strutture e nelle istituzioni economiche. 6.3 L’Indice della qualità della vita fisica e l’Indice internazionale della sofferenza umana Negli anni ’70 il cosiddetto movimento per i bisogni di base determinò un paniere di beni che nei PVS avrebbero dovuto essere considerati prioritari rispetto allo sviluppo economico. Gli obiettivi del movimento per i bisogni di base si scontrarono negli anni ’80 con le politiche di aggiustamento strutturale della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, orientate a sviluppare economie di mercato nei PVS. Ma alla fine del decennio gli scarsi risultati di queste politiche portarono l’ONU alla costruzione di un nuovo indice, l'Indice dello sviluppo umano (HDI), formato dalla combinazione di due indicatori della condizione sociale (dell’aspettativa di vita alla nascita e dell’istruzione posseduta) con uno economico (il reddito pro capite). Analizzeremo questo indice, di grande successo, nel prossimo capitolo. Il PQLI Nella stessa linea di pensiero del movimento per i bisogni di base, ma più parsimoniosamente, Morris (1979), al fine di misurare il benessere con un solo valore, costruì l’Indice della qualità della vita fisica (PQLI), formato dalla media non ponderata di indicatori della mortalità infantile, dell’alfabetismo e dell’aspettativa di vita all’età di un anno, misurati ciascuno mediante una scala da zero (valore peggiore possibile) a cento (valore migliore possibile)25. L’indice aveva pretese molto limitate, come lo stesso Morris (1979) aveva affermato: “[The PQLI] has very limited objectives. It does not try to measure….freedom, justice, security, or other intangible goods. It does, however, attempt to measure how well societies satisfy certain life-serving social characteristics”. Il PQLI non fornisce informazioni molto diverse da quelle fornite dal PIL nel caso di Paesi opulenti, essendo molto alta la correlazione tra le due variabili. Viceversa, nei Paesi con reddito medio-basso i punteggi del PQLI hanno un andamento sostanzialmente diverso da quello del PIL. L’HSI Uno sforzo più ambizioso di misurare il benessere è fatto dall’Indice di sofferenza umana (HSI), pubblicato originariamente dal Population Crisis Committee (1987). Esso usa i dieci indicatori listati nella Tavola 3 per misurare le dimensioni del benessere sociale, ciascuno valutato su di una scala da zero (il valore più favorevole) a dieci (il meno favorevole). L’indice sintetico è ottenuto con una semplice addizione dei dieci valori. · Aspettativa di vita · Calorie fornite giornalmente · Accesso ad acqua potabile pulita · Immunizazione infantile · Iscrizione alla scuola secondaria · PIL pro capite · Tasso d’inflazione · Telefoni · Libertà politica · Diritti civili (anni) (pro capite) (%) (%) (%) ($) (% annuo) (numero pro capite) (0-10) (0-10) Fonte: Population Crisis Committee (1992). Tavola 3 – Indicatori componenti l’Indice di sofferenza umana. La procedura di costruzione dello HSI è molto semplice ma anche grossolana. In primo luogo i dieci indicatori sono stati prescelti senza una ragione teorica nota e con forti sovrapposizioni; ad esempio l’acqua potabile induce buona salute che a sua volta induce alte attese di vita. In secondo luogo, forti dubbi emergono sulla maniera di misurare le libertà politiche ed i diritti civili; in terzo, 25 La scala dell’alfabetizzazione varia dallo 0 al 100% della popolazione di 15 anni ed oltre che è alfabetizzata. La scala della mortalità infantile varia da 229 morti (0%) a 7 morti (100%) per 1000 nati vivi. La scala dell’aspettativa di vita si estende dai 38 (0%) ai 77 anni (100%). Si veda Morris (1979, p.41-44). il significato dell’inflazione in termini di benessere è ambiguo; un’alta inflazione è giudicata negativamente per lo sviluppo economico da molti studiosi; ma se ridistribuisce la ricchezza reale dai ricchi ai poveri, è desiderabile o no? In quarto luogo, la scala di valutazione di alcuni indicatori componenti è del tutto incomprensibile ed arbitraria. E così via. 7 GLI ORGANISMI INTERNAZIONALI 7.1 Gli indicatori sociali della Banca mondiale Fin dal 1978 la Banca mondiale ha raccolto dati aggregati utili ai Paesi in via di sviluppo a misurare la crescita economica ed il livello di povertà26, pubblicandoli annualmente nel suo “World Development Report”. In seguito, nei primi anni ottanta, la Banca mondiale raffinò le sue pubblicazioni individuando una serie di indicatori27 dello sviluppo di base: popolazione, area, PIL pro capite, aspettative di vita, tasso di analfabetismo degli adulti, tasso di inflazione. In effetti la Banca mondiale si era resa conto che lo sviluppo economico è un fenomeno composto da molti aspetti e che il solo livello del PIL è un indicatore inadeguato a denotare il livello di sviluppo o di povertà di un Paese. Nella Tavola 4 sono riportati il PIL pro capite, le aspettative di vita ed il tasso di analfabetismo degli adulti per cinque PVS e si può notare che tre di essi, l’India, il Kenya ed il Mali, hanno lo stesso PIL pro capite ma differiscono notevolmente negli altri due indicatori, denotando così livelli di sviluppo molto differenti. Il PIL non può essere considerato un buon indicatore dello sviluppo, sebbene la Banca mondiale abbia difficoltà ad operare con classificazioni dei Paesi diverse da quella che fa uso del solo PIL: “the main criterion used to classify economies and broadly distinguish different stages of economic development is GNP per capita" (World Bank, 1994, p.157). Paese PIL pro capite in $ (al tasso di cambio ufficiale) India Kenya Mali Nicaragua Nigeria 310 310 310 340 320 Aspettativa di vita in anni Tasso di analfabetismo adulto in % 61 59 48 67 52 52 31 68 35 49 Fonte: World Bank(1994, p.162) Tavola 4 – Indicatori di base della Banca mondiale per alcuni Paesi a basso reddito. 26 27 Si veda World Bank (1978). Si veda World Bank (1995). 7.2 Gli indicatori sociali nell’ambito delle Nazioni Unite Dall'epoca della sua fondazione, l'ONU si è preoccupata delle questioni riguardanti lo sviluppo, la qualità della vita ed altri aspetti della condizione umana, conformemente alle finalità, enunciate nell'articolo 55 della sua Carta, di favorire l'innalzamento del tenore di vita, il pieno impiego e le condizioni di progresso e di sviluppo nel sistema economico e sociale dei Paesi aderenti. Queste preoccupazioni si sono manifestate per molto tempo nei lavori e nei progetti di studio dell'organizzazione. Gli sviluppi ed i risultati di questi lavori, in particolare di quelli relativi alle tematiche sociali e demografiche, si sono riflessi nell'opera svolta dall'Ufficio Statistico delle Nazioni Unite, l'UNSO. Nell'ambito delle finalità sopra riportate, nel 1954 venne pubblicato un documento redatto da un gruppo di esperti, il “Rapporto sulla definizione e la valutazione dei tenori di vita dal punto di vista internazionale”, seguito nel 1961 da una “guida provvisoria” elaborata dall'UNSO congiuntamente all'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura, l'Organizzazione internazionale per il lavoro, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura e l'Organizzazione mondiale della sanità. Nel 1966 venne appositamente costituita una commissione di esperti per gli indicatori sociali che nel 1969 presentò il suo primo lavoro, dal titolo “Toward a Social Report” pubblicato dal Dipartimento Americano della Salute, Istruzione e Benessere. Tale lavoro ha rappresentato un primo tentativo per la costruzione di un sistema integrato di conti sociali, identificandosi in esso le sette componenti del benessere sociale indicate nella Tavola 5. - la salute e le malattie - la mobilità sociale - l’ambiente fisico - l'apprendimento delle scienze e delle arti - l'istruzione - la sicurezza sociale - la partecipazione alla vita politica Tavola 5 – Aree componenti il well-being per le Nazioni Unite. Ciascuna componente è stata anche correlata al PIL e i risultati hanno messo in luce l'esistenza di una relazione positiva tra il PIL e la salute, la mobilità sociale, l'apprendimento delle scienze e delle arti, nonché la riduzione della povertà, mentre hanno indicato una relazione negativa tra il PIL e l'ambiente fisico. Per le restanti componenti la loro relazione con il PIL è incerta. E’ interessante notare che generalmente, nell'accezione degli studiosi delle Nazioni Unite, gli indicatori sociali hanno una finalità essenzialmente descrittiva e, al contrario dell'accezione dei ricercatori dell’OCSE, non implicano giudizi di valore. Indicateurs sociaux: guide preliminaire Nel 1975 venne pubblicato dall'UNSO il rapporto “Towards a System of Social and Demographic Statistics”, che nasceva come aggiornamento alla data della sua pubblicazione dello stato degli studi tecnici finalizzati alla elaborazione di un sistema integrato di statistiche demografiche e sociali. Quindi nel 1978, sempre seguendo una concezione non ristretta degli indicatori sociali e dei loro scopi, l'UNSO pubblicò un lavoro nel quale si sviluppava una struttura operativa tesa alla loro definizione: “Indicateurs sociaux: guide preliminaire et series illustratives”. Questa guida passava in rassegna tutti gli usi e le concezioni degli indicatori sociali esistenti all'epoca, dando particolare importanza alle misure delle condizioni di vita e all'individuazione dei fattori economici e sociali che l'influenzavano. Uno dei principi base della guida era quello di collegare lo sviluppo degli indicatori sociali al progetto di integrazione delle statistiche demografiche e sociali esposto nel rapporto “Towards a System of Social and Demographic Statistics” sopra indicato. In quanto all'individuazione delle singole aree sociali, nella guida essa venne effettuata ponendo a confronto il lavoro di ricerca svolto da quattro organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite, il Consiglio per la Mutua Assistenza Economica (CMEA), l'OCSE e la CEE. Le aree di interesse suggerite da ognuna di esse si riferivano, tranne alcune eccezioni, alle più importanti componenti del benessere socioeconomico. Non furono prese in considerazione da alcuna organizzazione le aree della libertà e della insoddisfacente condizione sociale; l'OCSE si distinse perché incluse gli aspetti della partecipazione politica ed escluse quelli relativi alla consistenza e alla distribuzione della popolazione e quelli relativi alla struttura familiare. Nel programma dell'ONU non venne considerata l'analisi ambientale perché era già stata ampiamente trattata in due lavori precedenti: il “Sistema per lo sviluppo delle statistiche per l'ambiente” ed un rapporto tecnico sui “Concetti e Metodi di statistiche ambientali”. Il manuale degli indicatori sociali Nel 1989 l'ONU pubblicò il “Manuel des Indicatateurs Sociaux”, nel tentativo di armonizzare le esperienze acquisite negli ultimi dieci anni e di soddisfare ad alcune delle esigenze apparse nel frattempo. Nel manuale furono conservate le premesse fondamentali della guida preliminare ed un accento particolare fu posto sulla misura del tenore di vita e sulle circostanze che l'influenzavano. Lo specifico obiettivo del manuale era quello di offrire un sistema teorico e pratico che potesse servire ai diversi Paesi membri e alle Organizzazioni Internazionali alla messa a punto di indicatori sociali. Esso evidenziava anche importanza e l'utilità di indicatori relativi a gruppi particolari della popolazione, quali ad esempio le donne, i bambini, le persone anziane, quelle portatrici di handicap nonché la popolazione rurale. Il tentativo del manuale di soddisfare ad esigenze di coerenza e di omogeneità nel vocabolario e nelle metodologie adottate tendeva a favorire i confronti tra i Paesi e lo sviluppo a livello internazionale di programmi interdisciplinari relativi al tenore di vita e allo sviluppo socioeconomico. Le aree di interesse considerate nel manuale furono concepite in modo da riflettere le tensioni ed i problemi sociali posti all’attenzione dei governi dagli analisti. Esse sono analoghe a quelle riportate nella prima “Liste de preoccupatios sociales” dell’OCSE, del 1973, imperniate in particolare sugli aspetti fondamentali e collaterali del benessere. 7.3 Lo Human Development Index Si è detto che alla fine degli anni ottanta l’insoddisfazione per i programmi di aggiustamento strutturale della Banca mondiale e del Fondo Monetario Internazionale indusse l'’ONU a sviluppare un nuovo indicatore sociale, lo Human Development Index (HDI), derivante dalla composizione di tre soli attributi, il reddito pro capite, le aspettative di vita alla nascita ed un indicatore dell’istruzione. Lo HDI fu sviluppato alla fine degli anni ottanta da una componente delle Nazioni Unite, lo United Nations Development Programme (UNDP), sotto la guida di un gruppo di consulenti esterni formato da G. Ranis, A. Sen, K. Griffin, M. Desai e P. Streeten (UNDP,1990, p.iv). L’indice fu creato sulla seguente base, nella quale si rivela l’influsso del pensiero del Sen: “The basic objective of development is to create an enabling environment for people to enjoy long, healthy, and creative lives…Human development is a process of enlarging people’s choices…[At] all levels of development, the three essential ones are for people to lead a long and healthy life, to acquire knowledge and to have access to resources needed for a decent standard of living”(UNDP, 1990, p.9-10). Ancora l’influenza del Sen è rivelata nel considerare l’aumento della ricchezza come un mezzo e non come un fine nella promozione dei due aspetti dello sviluppo umano: “the formation of human capabilities – such as improved health, knowledge and skills – and the use people make of their acquired capabilities – for leisure, productive purposes or being active in cultural, social and political affairs” (UNDP, 1990, p.10). In quanto al calcolo analitico dell’indice, notiamo innanzitutto che, poiché l’UNDP sa che generalmente i redditi bassi soddisfano essenzialmente ai bisogni di base mentre quelli alti sono utilizzati anche per il tempo libero e bisogni non strettamente necessari, nell’HDI il reddito pro capite subisce una trasformazione non lineare per tener conto del contributo decrescente del reddito allo sviluppo umano. Così, fin dal 1991, l’UNDP inserisce nel suo HDI di un dato Paese un valore del reddito trasformato mediante la formula W ( y ) = y 1−ε /(1 − ε ) dove e con y = reddito pro capite del Paese ε = α/(α+1) con α numero intero nonnegativo αy° ≤ y ≤ (α+1)y° dove y° è il reddito pro capite complessivo di tutti i Paesi. Se y ≤ y° si pone ε = 0 e W(y) = y. Ciascuno dei tre attributi dell’HDI (il reddito pro capite trasformato, le aspettative di vita alla nascita e l’indicatore dell’istruzione), per ogni Paese i, è trasformato in modo da fornire un indicatore parziale I ij = ( x i − xij ) /( x i − x i ) dove x ij è l’attributo i = 1,2,3, del Paese j, x i = valore massimo dell’attributo i, x i = valore minimo dell’attributo i. I valori massimi e minimi utilizzati per i tre attributi dal 1995 in poi sono riportati nella Tavola 6. Attributo Accesso all’istruzione: • Alfabetizzazione adulta (peso di 2/3) • Rapporto d’iscrizione scolastica combinata (peso di 1/3) Aspettativa di vita alla nascita PIL pro capite Valore Valore massimo minimo 100% 100% 0% 0% 85 anni $ 40 000 25 anni $ 200 Fonte: UN (1995, p.134) Tavola 6 – Valori massimi e minimi degli attributi componenti l’HDI. Nonostante il suo vasto uso, l’HDI ha molti difetti. In primo luogo è funzione di tre soli attributi, che quindi non sembrano sufficienti a rappresentare compiutamente la condizione umana di un Paese. In secondo luogo questi attributi, sia pur normalizzati, costituiscono l’indice mediante una semplice media aritmetica, cioè considerandoli tutti e tre della stessa importanza. E’ poi un indice con scarso potere discriminante tra i Paesi, come viene mostrato indicativamente nella Tavola 7, dove i primi 10 Paesi nell’ordinamento del 1995 posseggono valori molto simili tra di loro. Altri difetti saranno illustrati in seguito. 7.4 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’OCSE A partire dal 1960 e fino all'inizio degli anni settanta l'espansione economica è stata molto sostenuta nella maggior parte dei Paesi dell'OCSE. Durante questi anni il tenore di vita dei Paesi membri è migliorato, ma nonostante questo la qualità della vita ha cominciato a farsi sentire come un problema non trascurabile e questa preoccupazione si è acuita durante la recessione del 1973-74. La crescita economica nella considerazione generale è continuata ad essere perseguita ma si è cominciato a riflettere sui suoi aspetti qualitativi e sui suoi effetti collaterali nocivi per la società nel suo insieme. L'aumentata sensibilità per le questioni riguardanti il benessere sociale, inteso in senso lato, ha suscitato negli studiosi e negli uomini politici forte interesse per i metodi adeguati a misurare le conseguenze del funzionamento del sistema socioeconomico sul benessere. Paese Aspettativa di vita (anni) Canada USA Giappone Paesi Bassi Finlandia Islanda Norvegia Francia Spagna Svezia 77.4 76.0 79.5 77.4 75.7 78.2 76.9 76.9 77.6 78.2 Alfabetizza- Rapporto zione adulta d’iscrizione scolastica (%) (%) 99 100 99 95 99 77 99 88 99 96 99 81 99 88 99 86 98 86 99 78 Valore PIL pro dell’HDI capite trasformato ($) 5359 0.950 5374 0.937 5359 0.937 5343 0.936 5337 0.934 5343 0.933 5345 0.932 5347 0.930 5307 0.930 5344 0.929 Fonte: UN (1995, p.155) Tavola 7 – Valori dell’HDI per i primi 10 Paesi; anno 1992. In questa atmosfera l'OCSE lanciò un programma di elaborazione di indicatori sociali, inserendosi nelle numerose attività analoghe svolte a livello nazionale ed internazionale e proponendosi come riferimento principale per l'attività di ricerca. Il punto di partenza degli studi fu una dichiarazione del 1970 nella quale fra l'altro si affermava che la crescita economica non doveva essere considerata come fine ultimo ma piuttosto come un mezzo per creare condizioni di vita migliori; era necessario prestare maggiore attenzione agli aspetti qualitativi della crescita; nella formulazione delle decisioni politiche era inoltre necessario analizzare attentamente quelle scelte economiche e sociali che implicavano l'allocazione di risorse crescenti. Il concetto di benessere nell'approccio dell'OCSE La teoria del benessere e quella della scelta sociale, e in particolare il problema dei confronti interpersonali di benessere, esulavano dal programma di studi affrontato dagli specialisti dell'OCSE. Nel contesto di questo programma il termine di benessere sociale era impiegato, in forma molto ristretta, semplicemente per indicare il benessere globale degli individui e non come concetto nel quale fosse insita una considerazione delle strutture istituzionali della società; queste non venivano contemplate nella individuazione delle aree di interesse e nella specificazione dei relativi indicatori sociali. Le istituzioni, così come il sistema politico, l'economia, la struttura della famiglia e il sistema di educazione, concorrevano all'elaborazione degli indicatori solo in quanto influenzavano il benessere degli individui e non in quanto componenti di un loro benessere globale. D’altro canto, anche se non detto espressamente, dal lavoro dell'OCSE si poteva estrapolare una nozione di benessere inteso come capacità di scelta per le preferenze legittime, secondo la definizione del Sen. Il programma dell'OCSE di elaborazione degli indicatori sociali L’OCSE, di concerto con i Paesi membri, definì una procedura molto pragmatica per elaborare un progetto sistematico di miglioramento della costruzione degli indicatori sociali, fino ad allora ritenuti inadeguati e parziali. La strategia di fondo fu stabilita organizzando gli studi in due fasi: nella prima sarebbero state individuate le preoccupazioni sociali da analizzare; nella seconda sarebbero stati elaborati gli indicatori corrispondenti. Nella prima fase il risultato fondamentale di un gruppo di lavoro costituito appositamente fu una lista nella quale venivano individuate 24 preoccupazioni sociali comuni alla maggior parte dei Paesi membri. Questa lista fu approvata dal consiglio dell'OCSE come base per la seconda fase del programma e fu pubblicata nel 1973. In seguito, alcune delle aree precedentemente individuate furono modificate e ridefinite, e in una pubblicazione del 1976 furono stabilite le preoccupazioni sociali fondamentali riportate nella Tavola 8. 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) Salute Evolversi della personalità per l'acquisizione delle conoscenze Occupazione e qualità del lavoro Impiego del tempo libero Situazione economica personale Ambiente fisico Ambiente sociale Sicurezza personale ed amministrazione della giustizia Occasioni sociali e partecipazione alla vita pubblica Accessibilità (fisica, istituzionale, economica, ecc.) Tavola 8 – Preoccupazioni sociali di base definite dall’OCSE nel 1976. È importante notare come fra le questioni sollevate ma non risolte durante la prima fase del programma figuri un problema di natura generale: la definizione degli elementi soggettivi. La percezione, infatti, che gli individui e particolari gruppi della popolazione hanno del loro benessere è una componente necessaria ed importante di un programma di indicatori sociali; questo tipo di informazioni consente una rappresentazione più accurata della realtà sociale e di conseguenza una descrizione più veritiera della stessa. Senza il genere di informazioni di questo tipo nella formulazione degli obiettivi alcuni elementi di fondo potrebbero invece essere trascurati perché fallacemento ritenuti non significativi. L'obiettivo centrale della seconda fase del programma fu espressamente definito nei seguenti treaspetti: 1) mettere a punto le specificazione applicabile ad una serie di indicatori sociali esplicitamente destinati a mettere in evidenza, in maniera valida, il livello di benessere relativo a ciascuna preoccupazione sociale indicata nella lista; 2) cercare un accordo comune tra i Paesi membri per formulare una classificazione esauriente delle aree di interesse; 3) seguire nel tempo l'evoluzione dei livelli di benessere espressi dagli indicatori. Nel 1976 i risultati di questa seconda fase furono raccolti dall'OCSE in una pubblicazione dal titolo: Misura del benessere sociale. I progressi compiuti nell'elaborazione degli indicatori sociali. Analogamente alla prima fase, anche la seconda non fu concepita per ottenere dei risultati definitivi, ma per elaborare i principi fondamentali utili all'elaborazione degli indicatori. Direttamente collegato alle conclusioni di questo lavoro, nel 1982 venne pubblicato un ulteriore rapporto dal titolo: ”The OECD List of Social Indicators”. La lista delle preoccupazioni sociali fu in esso ulteriormente modificata e ridefinita, omettendo ad esempio l’”accessibilità” e l’”amministrazione della giustizia” e fornendo una definizione più concreta delle altre aree. In generale il rapporto del 1982 rispecchiò un maggiore livello di maturità e di consenso, sia rispetto alle finalità degli indicatori sociali, sia rispetto alle loro relazioni con i sistemi ufficiali di dati di allora. 7.5 I criteri di selezione dei requisiti degli indicatori sociali dell’OCSE I principi ispiratori, sia teorici che metodologici, rappresentano delle costanti di fondo dell'intero programma dell'OCSE. Evidenziamo pertanto alcuni dei requisiti fondamentali che devono essere soddisfatti dagli indicatori elaborati. 1. La validità Un indicatore sociale deve essere costituito da una misura diretta e valida che permetta di osservare il livello di una preoccupazione sociale e le sue variazioni nel tempo. Ad esempio il numero di anni trascorsi a tempo pieno da un individuo all'interno del sistema educativo non è una misura valida dell'evolversi della personalità per l’acquisizione di conoscenze. L'indicatore deve riflettere il più esattamente possibile la preoccupazione sociale così come essa viene percepita e di conseguenza le sue variazioni devono riflettere il grado in cui le esigenze nascenti da questa preoccupazione si sono attenuate o acuite. In altre parole nell'accezione dell'OCSE un indicatore esprime implicitamente un giudizio di valore in quanto a sue variazioni corrispondono variazioni della componente di benessere considerate, fermi restando gli altri elementi. La “validità” è ritenuta criterio fondamentale, ed in esso è riflessa anche la posizione teorica dell'approccio dell'OCSE. 2. La possibilità di aggregazione Un indicatore sociale può essere molto utile per esporre una sintesi descrittiva della condizione umana, per effettuare confronti globali tra diversi Paesi ed anche per seguire la dinamica generale di una situazione nel tempo. In tutti questi casi, quando la finalità perseguita non è strettamente analitica, può essere desiderabile riuscire a formulare un'espressione sintetica che consenta di riassumere l’informazione. Tramite questa procedura, portata all'estremo, si potrebbe arrivare a definire un unico indicatore del benessere sociale, e il suo potere di sintesi descrittiva sarebbe analogo a quello del PIL quando viene utilizzato come indicatore dello stato dell'economia nazionale. Questo metodo, tuttavia, viene generalmente escluso a priori per vari motivi, i principali dei quali sono: • Si ritiene che se anche fosse possibile definire un indicatore globale del benessere sociale, esso non fornirebbe alcuna informazione concreta e sarebbe inutilizzabile ai fini normativi. • L’aggregazione di un indicatore espresso in unità differenti richiederebbe una procedura esplicita di ponderazione. Oltre alla difficoltà di individuare un criterio per la specificazione dei pesi da utilizzare, l'intelligibilità dell'indicatore composto potrebbe risentirne a causa della commistione di componenti diversi, sia da un punto di vista sostanziale che da uno metodologico. • Le variazioni di un indicatore globale sarebbero non significative relativamente alla dinamica interna delle diverse componenti del benessere e alle loro reciproche interazioni.. 3. La possibilità di disaggregazione Si distinguono normalmente tre differenti finalità in funzione delle quali la possibilità di disaggregare le serie dei dati è ritenuta fondamentale. Le descriviamo di seguito. Prima finalità: considerazioni normative. La disaggregazione dei dati nasce spesso da esigenze morali, etiche o legali che esigono una qualche valutazione dell'equità caratterizzante la distribuzione dei beni e servizi, dei diritti e delle responsabilità. Sono considerazioni normative quelle che spingono a disaggregare gli indicatori per età e per sesso, per appartenenza etnica o razziale oppure per nazionalità. Ad esempio la povertà, l'ignoranza, le cattive condizioni di alloggio sono delle preoccupazioni sociali per ognuna delle quali viene specificato un indicatore. Ma se questi problemi affliggono soprattutto una parte della popolazione, ad esempio un gruppo razziale oppure la popolazione rurale, allora la situazione è più grave e la stessa disparità di condizioni costituisce una preoccupazione sociale da considerare a sé. Seconda finalità: considerazioni analitiche Le variazioni di un indicatore esprimono variazioni del benessere ma non le sue cause. Ma la disaggregazione dei dati facilita l'individuazione di alcune variabili esplicative, che sono il risultato di una costruzione sistematica che deriva da un esplicito modello concettuale in grado di interpretare il processo sociale considerato, evidenziandone i fattori causanti e le varie interazioni. In realtà questi modelli sono spesso inadeguati a causa della differenza fra i concetti sui quali si basa l'elaborazione teorica e i fenomeni che vengono concretamente misurati. In altre parole non è sempre possibile ottenere indicatori “validi” secondo l'accezione considerata in precedenza. Gli indicatori sociali non possono quindi risolvere i numerosi problemi teorici e tecnici legati alla costruzione di modelli esplicativi per i fenomeni sociali; ma possono però contribuire a costruire dei modelli più utili dal punto di vista operativo. Terza finalità: considerazioni dinamiche Questa finalità è strettamente legata alle prime due e si riferisce fondamentalmente alla necessità di controllare nel tempo l'andamento dei vari fenomeni sociali. In particolare, sono necessari degli indicatori che consentano di valutare le conseguenze di particolari programmi controllandone l’efficacia. I programmi ai quali ci si riferisce sono soprattutto quelli dedicati a specifici gruppi di popolazione, considerati favoriti in termini di condizioni di benessere. 7.6 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’Unione Europea Molti articoli nei Trattati di Parigi e di Roma sono dedicati ai problemi sociali e all'impegno rivolto alla loro soluzione da parte della Comunità Europea e delle sue istituzioni specializzate. Conformemente allo spirito di questi articoli, nel 1974 il Consiglio Europeo adottò con una risoluzione il “Programma di Azione Sociale” presentatogli dalla Commissione. Uno degli obiettivi del Programma consisteva nello sviluppare degli indicatori sociali in grado di fornire una rappresentazione adeguata della situazione sociale. Nell'ambito dell'Istituto Statistico della Comunità Europea (EUROSTAT) si costituì a questo scopo un gruppo di lavoro che si avvalse del contributo di altri gruppi della Commissione e delle varie pubblicazioni in materia a livello internazionale. Nel 1977 l'EUROSTAT pubblicò un primo lavoro sugli indicatori sociali la cui finalità principale consisteva nel rendere possibili i confronti fra le situazioni sociali dei diversi Paesi membri e tra i loro sviluppi nel tempo. L'importanza di questi confronti veniva interpretata “...... sia come mezzo per incoraggiare la progressiva convergenza delle condizioni sociali all'interno della Comunità, sia come strumento essenziale per prendere decisioni relative agli obiettivi comuni in campo sociale”. Una seconda finalità attribuita agli indicatori sociali consistenza nello svolgere una funzione divulgativa. Nel lavoro del 1977 venne proposta una classificazione degli elementi caratterizzanti la situazione sociale. Vennero individuate varie aree di interesse per descrivere la situazione più in dettaglio, evidenziandone gli aspetti considerati più interessanti. È importante notare come ognuna di esse non rappresentava componenti del benessere sociale, e neppure nel loro insieme costituivano una classificazione esaustiva delle preoccupazioni sociali come invece era nelle intenzioni dei lavori dell'ONU. Le serie dei dati nella prima pubblicazione dell'EUROSTAT in materia di indicatori sociali vennero classificate secondo gli “interessi” riportati nella Tavola 9. 1) Demografia 2) Occupazione 3) Condizioni di lavoro 4) Tenore di vita 5) Protezione sociale 6) Sanità 7) Educazione 8) Abitazione Tavola 9 – Interessi di base da rappresentare tramite indicatori sociali secondo l’EUROSTAT, 1977. Gli indicatori relativi ad ogni area avevano per lo più la forma di serie storiche dalle quali venivano ricavati alcuni rapporti significativi e le serie di numeri indice. Le serie, infatti, riflettevano per lo più fenomeni economici che si supponevano essere direttamente correlati con il fenomeno che si voleva descrivere. Ad esempio il tenore di vita veniva misurato dal PIL, dal reddito nazionale disponibile e da vari aspetti relativi alla composizione dei consumi. Riguardo all'educazione invece, venivano considerate significative le serie relative alle spese delle amministrazioni pubbliche per l'istruzione. Rimanendo in linea con l'impostazione iniziale, nel 1984 l’EUROSTAT presentò un’ulteriore pubblicazione (la terza in materia di indicatori sociali) nella quale le serie storiche venivano classificate in modo differente. La differenza non derivava da una mutata concezione delle aree di interesse o da una loro ridefinizione; più semplicemente in quel momento si riteneva opportuno mettere in evidenza quei particolari aspetti della situazione sociale, ed è per questo motivo che il numero delle aree di interesse veniva ridotto. Si riporta nella Tavola 10 la lista dei fenomeni sociali descritti nel lavoro del 1984. 1) disoccupazione 2) condizioni di lavoro 3) tendenza dell'occupazione nelle industrie manifatturiere 4) posizione alle donne nella Comunità Tavola 10 – Fenomeni sociali da rappresentare tramite indicatori sociali secondo l’EUROSTAT, 1984. Inoltre si illustrarono alcuni indicatori sintetici ottenuti rielaborazioni elementari dei dati e relativi ad interessi generali. tramite Bibliografia Adelman I., Morris C.T. (1971), Society, Politics and Economic Development: A Quantitative Approach. Arkipoff K. (1977), “Problems in Welfare Measurement”, in The Review of Income and Wealth, n.2. Arrow K.J. (1951), Social Choice and Individual Values, New York: Wiley. Atkinson A.B. (1970), “On Measurement of Inequality”, in Journal of Economic Theory, 2, pp.244-263. Bentham J. (1789), An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Payne: Oxford Clarendon Press. Bergson A. 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