Measuring the Human Condition - Dipartimento di Economia e Diritto

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Measuring the Human Condition - Dipartimento di Economia e Diritto
LA MISURAZIONE DELLA CONDIZIONE
UMANA
Indice
1 Una panoramica
2 L'utilitarismo ed il benessere classico
2.1 L'utilità cardinale
2.2 Le critiche al cardinalismo del Pigou e l'utilità ordinale
2.3 L'approccio dello Harsanyi e i limiti della concezione utilitarista
2.4 Le “preferenze rivelate” del Samuelson
2.5 La funzione del benessere sociale di Bergson e Samuelson
2.6 Il teorema di impossibilità dell’Arrow
2.7 Ricusazione dell’individualismo etico
3 La ridefinizione della razionalità sociale ed il ruolo dello Stato
3.1 Questioni lasciate irrisolte nell'analisi del benessere
3.2 La riformulazione del Sen
3.3 Benessere, giustizia, libertà individuale e confronti
interpersonali
3.4 Alcune conclusioni intermedie
4 L’approccio delle “capacitazioni”
4.1 I “funzionamenti” e le “capacitazioni” del Sen
4.2 Mezzi di vita e funzionamenti rilevanti
4.3 Capacitazioni, well-being e qualità della vita
4.4 La valutazione del well-being
4.5 Le capacitazioni nel lavoro di Martha Nussbaum
5 Gli aspetti empirici della misurazione della condizione umana
5.1 Gli sviluppi concettuali relativi al benessere ed i metodi
operativi elaborati per la sua misurazione
5.2 La specificazione della funzione del benessere sociale
5.3 Il PIL come indicatore del benessere
5.4 Una classificazione dei principali approcci alla misurazione del
benessere
5.5 La contabilità estesa
5.6 L’approccio “normativista”
6 Gli indicatori sociali
6.1 Cenni storici
6.2 L’approccio della Adelman e della Morris
6.3 L’Indice della qualità della vita fisica e l’Indice internazionale
della sofferenza umana
7 Gli Organismi internazionali
7.1 Gli indicatori sociali della Banca mondiale
7.2 Gli indicatori sociali nell’ambito delle Nazioni Unite
7.3 Lo Human Development Index
7.4 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’OCSE
7.5 I criteri di selezione dei requisiti degli indicatori sociali
dell’OCSE
7.6 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’Unione Europea
Bibliografia
1 UNA PANORAMICA
Questo saggio riguarda il benessere o, se si vuole, la qualità della vita o
ancora il well-being, ma non in termini definitori bensì in quelli, meno
interessanti da un punto di vista speculativo ma certamente di più da uno
applicativo, della sua misurazione.
Non si può trattare quest’ultima senza aver delineato, sia pur
sommariamente e senza dettagli, il cammino fatto dall’economia del benessere,
dal suo apparire nei primi anni del novecento fino alla sua trasformazione in
well-being e all’approccio delle capacitazioni del Sen, quasi un secolo dopo; così i
capitoli 2, 3 e 4 sono dedicati ad un excursus su quelle che sono state proposte
come teorie del benessere umano, sui loro difetti, le modificazioni, i punti fermi
che, una volta definiti, non sono stati più abbandonati.
La teoria è iniziata con il determinare i benesseri degli individui di una
collettività e con il tentare di aggregarli in un benessere sociale valido per tutta
questa (cap. 2); ma l’Arrow ha dimostrato che pur sotto condizioni molto blande
questa aggregazione fornisce risultati incoerenti e quindi si è dovuti ripiegare su
di una definizione di benessere direttamente formulata per un’intera società (cap.
3). La concezione individualistica è ritornata in auge, nell’ultimo decennio del
secolo scorso, con l’approccio delle capacitazioni del Sen, che da un lato ha
rivalutato con acuta e poderosa intuizione il benessere, o meglio il well-being, di
una persona ma dall’altro ha costruito una teoria inapplicabile al livello empirico
(cap.4); le modifiche apportate dalla Nussbaum, tuttavia, hanno reso l’approccio
delle capacitazioni più trattabile applicativamente, e per mezzo di esse si è
arrivati a costruire una definizione del well-being articolata dal punto di vista
teorico ma anche adatta alla misurazione.
Gli aspetti empirici di questa sono trattati nei capitoli seguenti. Si inizia
con il benessere considerato in termini esclusivamente economici; poi esteso a
tener conto delle ricchezze ambientali, e poi ancora a contabilizzare le perdite ed i
ricavi di varia natura connessi con lo sviluppo dell’attività economica (cap.5). Si
passa poi alla connotazione del benessere tramite panieri diversi di indicatori
sociali (cap.6) ed infine si espongono gli indicatori costruiti dai maggiori
organismi internazionali: la Banca mondiale, le Nazioni Unite, l’OCSE e l’Unione
Europea (cap.7).
2 L'UTILITARISMO ED IL BENESSERE
CLASSICO
2.1 L'utilità cardinale
Il benessere1 di una popolazione è sempre stato un concetto di difficile
definizione e quando, in qualche modo, è stato definito, ancor più difficile è stata
la sua misurazione, nonostante che questa sia stata un obiettivo costantemente
perseguito da uomini di scienza, politici, della strada, man mano che i loro
interessi si sono allargati dal livello locale a quello mondiale, e la misura del
benessere sia stata sempre più spesso utilizzata per effettuare confronti; per
tempi diversi, all’interno di un singolo Paese, e tra nazioni, allo stesso tempo.
Naturalmente, esistono studiosi che affermano che il benessere non sia
misurabile, ancorché sia possibile definirlo. E' una posizione, la loro, teorica,
accademica: per quale motivo ci sarebbero migrazioni da un Paese ad un altro (e
generalmente non viceversa) se gli emigranti non valutassero le condizioni di vita
del primo tanto inferiori a quelle del secondo da valere l'abbandono della patria,
un viaggio costoso e rischioso, l'arrivo in un luogo in cui spesso si è mal sopportati
o anche indesiderati? In modo naïf, se si vuole, magari anche molto naïf, chi ha
deciso di emigrare ha dato una definizione (certamente soggettiva) di benessere,
l'ha misurato nei due Paesi, e ha preso la decisione di trasferirsi da quello con
benessere che lui valuta minore a quello con benessere che valuta maggiore.
Questo esempio motiva chiaramente l'ammissibilità della definizione e
della misurazione del benessere ai fini di una comparazione tra le condizioni di
vita di due Paesi diversi. Ma altrettanto realismo si ha quando i cittadini di un
Paese, in ispecie dopo rilevanti cambiamenti politici che hanno portato a
percettibili trasformazioni della vita, sia in senso economico (ad es. nel reddito)
che sociale (ad es. nell'occupazione), in relazione alla sicurezza sia interna che
esterna (ad es. nelle alleanze di difesa), e così via, comparano le condizioni di vita
di un tempo con quelle di un altro, sebbene riferite allo stesso Paese. Anche in
questo caso si assiste ad una definizione (certamente soggettiva e, se si vuole,
anche nebulosa) del benessere, e alla sua quantificazione.
L'utilità cardinale del Pigou
Le definizioni e i modi della sua misurazione sono tanti. Essi hanno dato
luogo, tra l’altro, allo svilupparsi di un'intera disciplina di studi: l'Economia del
Benessere.
Il pensiero dell'economista inglese A.C.Pigou è generalmente considerato il
punto di partenza per ogni studio finalizzato alla definizione ed alla misurazione
del benessere di una collettività, che lui interpretava come somma delle
soddisfazioni individuali. Il termine stesso di Economia del benessere deriva dal
1
Che intendiamo come traduzione di welfare in inglese.
titolo di una sua opera del 1920 con la quale espose la propria versione della
teoria del benessere in termini di utilità cardinale.
Il Pigou in realtà riconobbe che il benessere complessivo si componeva di
stati psichici differenti e difficilmente definibili, ma nel ricercare le cause che
potevano influenzarlo circoscrisse il campo di indagine al solo benessere
economico, da lui espressamente definito come l'"insieme delle soddisfazioni
assoggettabili a misurazione mediante il metro della moneta". In effetti,
accogliendo esplicitamente il principio positivista della necessità di eliminare
dall'analisi ogni "arbitraria" considerazione filosofica, propose un approccio alla
definizione di benessere che presentava il vantaggio di considerare come oggetto
di studio un qualcosa di osservabile e misurabile.
Direttamente dalla nozione di utilità cardinale discendevano poi le
caratteristiche delle soddisfazioni personali, le quali erano misurabili tramite
una funzione di utilità ed erano quindi, in virtù della cardinalità, confrontabili
tra diversi individui e sommabili per l'intera società dando luogo al suo benessere
complessivo. Poiché la soddisfazione era da lui considerata soltanto in termini
economici, il benessere dell’intera società veniva ad essere proporzinale, in
ultima analisi, al suo reddito nazionale.
Il Pigou assumeva, poi, che il reddito fosse soggetto ad un’utilità marginale
decrescente. Così il benessere complessivo di una società poteva aumentare anche
con reddito nazionale mantenuto costante: bastava che si operasse una
redistribuzione del reddito dai più ricchi ai più poveri. In questo consisteva la
condizione di equità.
D’altro canto, se il reddito di uno o più componenti la società aumentava
senza modificare la distribuzione negli altri individui, il benessere complessivo
cresceva. In questo consisteva la condizione di efficienza.
Prescindendo quindi dalla redistribuzione, il massimo della soddisfazione
complessiva sarebbe stato ottenuto massimizzando il benessere di ogni individuo
componente la società, con l’attribuzione di un peso uguale alla felicità di
ciascuna persona2.
2.2 Le critiche al cardinalismo del Pigou e l'utilità ordinale
Il cardinalismo del Pigou, secondo il quale le utilità o soddisfazioni che
ogni individuo trae dalla fruizione di beni economici godono delle seguenti
caratteristiche:
a) sono misurabili in senso cardinale,
b) sono confrontabili fra individui diversi,
c) possono essere sommate per calcolare l'utilità collettiva della
società in cui gli individui vivono,
fu sottoposto a serrate critiche ed è ormai giudicato inammissibile dalla
stragrande maggioranza degli studiosi della materia.
2
Il fondamento di tale concezione – felicità di una società come soma delle soddisfazioni
individuali - può essere trovato negli scritti di Jeremy Bentham, filosofo utilitarista della seconda
metà del settecento.
Una delle critiche più radicali riguardò il confronto interpersonale delle
soddisfazioni individuali, che costituiva la base teorica necessaria per affrontare
il problema della distribuzione del reddito nazionale. Sarebbe stato possibile
effettuare questo confronto soltanto nel caso in cui tutti gli individui avessero
posseduto la medesima funzione di utilità; ma questa era un'ipotesi inverosimile
e per di più non verificabile, avendo alcuni studiosi evidenziato come la misura
della soddisfazione personale implicasse un processo di introspezione che per
definizione non poteva essere applicato a persone diverse. Altri, tra cui il Robbins
(1932), affermarono che la comparabilità implicava un giudizio di valore e che
quindi nei confronti interpersonali si ottenevano risultati diversi a seconda delle
premesse di valore fatte.
Un'altra forte critica riguardò la caratteristica c) per le implicazioni
concernenti il problema dell'equità relativa alla distribuzione del reddito.
L'approccio del Pareto
Molti economisti negli anni successivi al 1920 si dedicarono a superare le
incongruità teoriche presenti nelle affermazioni del Pigou e svilupparono un
filone di studi che viene indicato con il nome di nuova economia del benessere e le
cui premesse originarie vengono individuate nell'opera di Vilfredo Pareto,
curiosamente precedente a quella del Pigou. Influenzato dal sorgere del
neopositivismo del Circolo di Vienna, il Pareto (1906) aveva affermato che uno
studio del comportamento umano non poteva prendere le mosse da un'
"arbitraria" concezione filosofica quale quella dell'utilitarismo edonista, ma
doveva svolgersi secondo un'analisi neutrale, valida quindi in termini assoluti,
deducendo le proposizioni da un insieme di postulati di partenza. In particolare il
Pareto aveva osservato che in mancanza di adeguati strumenti scientifici di
misurazione non aveva senso pretendere di valutare l'utilità secondo un'unità di
misura oggettiva e quindi non era possibile confrontare i livelli di utilità di
individui diversi e tanto meno sommarli insieme.
Ma, secondo il Pareto, il confronto interpersonale delle utilità, oltre a non
essere possibile, non era neanche necessario perché lo studio del comportamento
razionale dell'individuo nella fruizione di beni economici richiedeva unicamente
la conoscenza del modo in cui il soggetto ordinava le varie alternative aperte alla
sua scelta. Ne derivava, quindi, la possibilità di utilizzare, per determinare il suo
benessere, una funzione di utilità soltanto ordinale.
L’”ottimo” paretiano
Sul piano sociale il Pareto era arrivato a definire una situazione di "ottimo"
che si basava su considerazioni di efficienza allocativa e produttiva: si ha
un'efficiente allocazione delle risorse tra gli individui componenti una società
quando non ne è possibile alcuna riallocazione che consenta di aumentare il
benessere di un solo individuo senza al contempo diminuire quello di un altro. Si
noti che la definizione di "ottimo" usata dal Pareto è molto particolare (e può
trarre in inganno) perché con essa si indica non una specifica situazione (di
allocazione delle risorse tra gli individui “migliore” secondo un dato criterio) ma
un insieme di diversi possibili stati allocativi, ciascuno dei quali è contraddistinto
da una differente distribuzione della ricchezza sociale.
Sulla corrispondenza tra mercato e “ottimo” paretiano si basano i due
teoremi fondamentali dell’Economia del benessere: nel primo si asserisce che nel
caso di concorrenza perfetta l’allocazione delle risorse che si ha in un mercato
concorrenziale, se esiste, costituisce un “ottimo” paretiano. Il secondo teorema si
basa su considerazoni di equità, che mancano nell’approccio del Pareto: sotto
alcune condizioni riguardanti le funzioni di utilità individuali e le funzioni di
produzione, da una allocazione delle risorse efficiente ma considerate non equa è
possible passare ad un’altra qualsiasi situazione di “ottimo”, e quindi anche ad
una che sia considerata equa, modificando adeguatamente quella distribuzione
delle risorse e lasciando poi all'operare del mercato concorrenziale il compito di
attivare i meccanismi attraverso i quali può essere raggiunta l'efficienza.
Il principio dell'indennizzo
L'approccio del Pareto fu criticato per diversi aspetti. Innanzitutto nella
sua argomentazione fu evidenziata un'ambiguità che il de Finetti (1969) così
illustrò:
"La condizione di optimum [paretiano] è solo una condizione
necessaria perché un punto possa essere considerato ottimo, ma di
per sé non significa che sia buono, mentre l'uso che se ne fa mostra
che si soggiace spesso alla tendenza a suggestionarsi in tal senso".
Ma fu ancor più criticato nella parte riguardante l'aggregazione delle
utilità individuali in una funzione che indicasse il benessere dell’intera società.
L'aggregazione paretiana, che si fondava sull'individualismo etico (ogni individuo
è libero nei giudizi su se stesso e sugli stati del mondo in relazione a se stesso),
sulla misura ordinale delle utilità e sulla loro inconfrontabilità, produceva
risultati incoerenti con i principi di libertà e consentiva soltanto un ordinamento
parziale degli stati del mondo.
Molti economisti tentarono di superare i limiti della concezione paretiana
del benessere pur rimanendo nell'ambito dell'utilità ordinale. Significativi in
questo senso sono i contributi di Kaldor (1939) e di Hicks (1939) i quali cercarono
di introdurre nella teoria economica l'aspetto della distribuzione del reddito
tramite il cosiddetto principio dell'indennizzo, in base al quale un aumento del
reddito complessivo di una società migliora sempre il benessere dell'intera società
qualora gli individui che ne siano avvantaggiati indennizzino quelli svantaggiati
pur conservando, i primi, un vantaggio netto.
2.3 L'approccio dello Harsanyi e i limiti della concezione utilitarista
Anche J.C.Harsanyi (1955) dette una definizione di benessere basata su di
un approccio prettamente utilitaristico, sostenendo che questo non soltanto non è
restrittivo - dato che copre tutto ciò di cui si può occupare la politica economica ma offre una preziosa base informativa difficilmente sostituibile qualora lo si
abbandoni e si seguano altri approcci. L'utilitarismo, secondo Harsanyi, è l'unica
impostazione tramite la quale si dispone di uno strumento per evitare "ogni
discriminazione iniqua fra bisogni umani ugualmente urgenti di una persona e
quelli di un'altra persona".
Nell'accezione dello Harsanyi l'aggregazione delle utilità individuali per
definire una funzione di benessere sociale, cioè per l’intera collettività, avviene
tramite un sistema di ponderazione basato sui valori delle utilità marginali degli
individui, indipendentemente dalla loro utilità assoluta. In altre parole
l'importanza sociale di ogni persona viene basata sulla misura della sua utilità
marginale, la quale deriva dal giudizio di valore del singolo. La funzione del
benessere complessivo di una società, dunque, è data della somma delle utilità
personali ponderate con le utilità marginali delle persone che la costituiscono.
I limiti della concezione utilitarista di benessere
A prescindere dalla difficoltà di inserire in una misura dell'utilità
personale le informazioni qualitative, un punto debole dell'approccio utilitarista
consisteva nell'attribuire alle preferenze dei singoli individui un'autorità
assoluta, che verosimilmente discendeva dal vecchio principio della sovranità del
consumatore.
Inoltre, in un'ottica sociale è evidente che esistono delle cose che hanno
valore anche se nessuno esprime delle preferenze per esse; viceversa esistono
delle cose dannose per la società in quanto tale ma preferite da qualche singolo
individuo (e quindi inserite nella funzione di benessere sociale).
Fatte queste considerazioni, ci si accorge che perde validità uno dei due
principi costitutivi dell'utilitarismo: l'uso dell’operatore somma, secondo il quale
il metodo appropriato per stabilire il valore da assegnare ad uno stato sociale,
date le informazioni rilevanti contenute nelle utilità, è semplicemente quello di
sommarne gli elementi (eventualmente, come in Harsanyi, dopo averli ponderati
con le rispettive utilità marginali).
L'altro principio costitutivo, l'ipotesi secondo la quale se un individuo è
razionale, allora con il suo comportamento tende a massimizzare la propria
funzione di utilità, fu anch’esso molto criticato.
2.4 Le “preferenze rivelate” del Samuelson
Per superare l'impostazione utilitaristica, considerata arbitraria, lo
statunitense Samuelson pubblicò nel 1938 sulla rivista inglese Economica un
saggio nel quale dichiarava di voler "...sviluppare la teoria del comportamento del
consumatore liberandola dalle residuali tracce del concetto di utilità". Animato
anche lui da uno spirito positivista, il Samuelson sostenne che l'utilità è un
concetto imposto a priori e impossibile da verificare empiricamente; non è quindi
corretto basarsi su di esso per formulare delle affermazioni scientifiche sulle
preferenze di un individuo e su ciò che egli considera come il proprio benessere.
La deduzione della struttura delle preferenze del soggetto – sostenne ancora - è
possibile soltanto tramite l'osservazione diretta (la “rivelazione”) del suo
comportamento (delle sue “preferenze”).
Aderì all'approccio delle preferenze rivelate anche I.M.D.Little, il quale nel
3
1949 negli Oxford Economic Papers scrisse che "La nuova formulazione è
scientificamente molto più rispettabile dal momento che se il comportamento di
3
Si veda Little (1950).
un individuo è coerente, allora deve essere possibile spiegare quel comportamento
senza far riferimento ad altro fattore che al comportamento stesso".
Parzialmente vi aderì anche J.R.Hicks nella sua Modifica della teoria della
domanda, del 1956, scrivendo che "la teoria econometrica della domanda studia
esseri umani, ma solamente in quanto entità aventi certi schemi di
comportamento di mercato; essa non asserisce, non pretente in alcun modo di
essere capace di scrutare nelle loro menti".
I limiti dell'approccio delle preferenze rilevate
L'ipotesi fondamentale di questo approccio è che gli individui rivelano la
propria struttura delle preferenze attraverso le loro scelte effettive. Una delle
condizioni necessarie per il verificarsi di questa ipotesi è che tutti gli ordinamenti
individuali delle preferenze godano della proprietà della connessione, ovvero che
le relazioni binarie di preferenza degli individui formino un insieme completo di
alternative, e che si verifichi sempre una di esse. In realtà questa condizione non
è necessariamente verificata, e per di più non è possibile dall'osservazione di un
comportamento distinguere i casi in cui l'individuo sia indifferente tra le
alternative da quelli in cui l'individuo non possiede una struttura di preferenza;
ovviamente nel mondo reale le due situazioni sono profondamente differenti.
Collegata con questa osservazione è anche quella che evidenzia che in
realtà non sempre le scelte sono fatte dopo aver formulato un sistema completo di
alternative possibili. Se quindi una decisione è presa dopo una valutazione
"incompleta", l'osservazione di un simile comportamento non può indicare
correttamente le preferenze associate a quel comportamento.
Di più, una scelta potrebbe essere "obbligata", cioè dettata dalla mancanza
di alternative, e allora da essa non può essere dedotta alcuna considerazione
sulle preferenze sottostanti. Una scelta, inoltre, potrebbe essere influenzata da
attività promozionali di un qualche genere ed in questo caso le preferenze
rivelate non soltanto non rifletterebbero quelle reali ma anche le distorcerebbero.
2.5 La Funzione del benessere sociale di Bergson e Samuelson
Il concetto analitico di Funzione del benessere sociale nacque con l'opera
dell'economista statunitense Bergson (1938), mentre le implicazioni e le
applicazioni di una tale funzione furono approfondite dal Samuelson (1947). La
sua forma funzionale è molto generale, e l’additiva e la moltiplicativa ne
costituiscono casi particolari; essa aggrega le utilità delle singole persone, cioè si
basa sul postulato dell’individualismo etico; le preferenze sociali sono convesse.
Essa soddisfa, inoltre, al principio di Pareto.
L'impossibilità dei confronti interpersonali venne aggirata chiamando i
singoli individui ad esprimere le loro preferenze nei confronti delle possibili
alternative nell'ordinamento sociale. Nel far ciò ogni individuo doveva tener conto
non solo della quantità e della qualità dei beni e dei servizi che potevano essere
ottenuti nelle varie alternative, ma anche del modo in cui essi potevano essere
ottenuti e venire distribuiti, nonché di tutte le altre caratteristiche che potevano
contribuire a contraddistinguere una situazione sociale da un'altra.
Una funzione del benessere sociale di questo tipo è definita
“individualistica” perché riflette le preferenze che ogni individuo di una società
esprime nell' ”ordinare” ogni coppia di situazioni che gli si può presentare,
subordinatamente al fatto che le preferenze individuali non siano in conflitto tra
di loro.
Critiche alla Funzione del benessere sociale individualistica
Data una società di n individui, una Funzione del benessere sociale
dovrebbe quindi essere una trasformazione dall'insieme di tutte le n-uple
possibili degli ordinamenti individuali all'insieme di tutti i possibili ordinamenti
di preferenza sociale sui vari stati sociali.
Ma questa trasformazione è stata giudicata impossibile da molti studiosi a
causa di due ordini di difficolta:
i) Nell'aggregazione delle preferenze sarebbe necessario un sistema di
ponderazione che non è possibile stabilire senza ricorrere a considerazioni
soggettive. In particolare, da un lato attribuire a ciascun individuo un peso
uguale significa accettare l'ipotesi poco verosimile e in tutti i casi non verificabile
che ogni individuo possieda la medesima funzione di utilità; dall’altro lato, dare a
ciascuno un peso diverso può condurre a discriminazioni.
ii) Nell'aggregazione degli ordinamenti individuali di preferenza si
generano ordinamenti collettivi che possono presentare caratteristiche non
transitive e condurre a decisioni irrazionali.
2.6 Il teorema di impossibilità dell’Arrow
Il problema dell'identificazione di una volontà collettiva formata a partire
dalle volontà individuali fu in particolare affrontato dall'Arrow (1951), nella cui
opera viene convenzionalmente indicata l'origine della moderna teoria delle scelte
sociali. Arrow partì dall'assunto che una Funzione del benessere sociale doveva
necessariamente soddisfare a 4 requisiti fondamentali seuenti:
a) Dominio universale. Il dominio della Funzione del benessere sociale
deve comprendere tutte le n-uple di ordinamenti delle preferenze individuali
sull'insieme degli stati sociali alternativi, che possiamo indicare con X.
b) Principio di Pareto. Per ogni x ed y in X, se ciascun individuo preferisce
strettamente x ad y, allora x deve essre socialmente preferito ad y.
c) Non dittatorialità. Non deve esistere un individuo tale che le sue
preferenze su ogni coppia di stati sociali (x, y) siano necessariamente riflesse
nell'ordinamento sociale di preferenza.
d) Indipendenza dalle alternative irrilevanti. La scelta sociale relativa ad
un dato insieme di alternative non deve essere influenzata dal modo in cui gli
individui ordinano le alternative che non rientrano in quell'insieme.
L'autore dimostrò formalmente che rispettando queste condizioni la scelta
sociale non può essere formalizzabile tramite una relazione funzionale perché per
alcune configurazioni degli ordinamenti individuali viene generata una
successione intransitiva di preferenze. Dunque impossibilità di costruire una
Funzione del benessere sociale.
Posteriormente all'opera di Arrow furono sviluppate numerose linee
distinte di ricerca volte a superare questa impossibilità, ma, a meno di cambiare
l'impostazione di base, tutti gli studiosi in un modo o nell'altro finirono per
arrivare a risultati di impossibilità.
2.7 Ricusazione dell’individualismo etico
Stante questa impossibilità, nacque un particolare filone di studi che
rifiutò l’individualismo etico ed esaminò il benessere sociale in termini di
democrazia secondo un approccio eclettico che mescolava la trattazione più
strettamente economica con varie impostazioni sociologiche e politiche. Le
difficoltà delineate nel passaggio dagli ordinamenti di preferenza individuali alle
scelte sociali coerenti condussero alcuni autori, tra i quali il Frisch ed il
Tinbergen, a sostituire alle preferenze individuali le preferenze dei responsabili
della politica economica relativamente all'intera collettività.
Il Tinbergen distinse le componenti del benessere sociale in due generiche
categorie: (i) le componenti di un individuo considerato "da solo" e (ii) le
componenti dell'individuo quando entra in contatto con gli altri individui. Alla
prima categoria appartengono gli elementi che determinano il benessere
materiale e spirituale dell'individuo, come ad esempio le quantità di beni
disponibili, le possibilità d'istruzione, il diritto di partecipare alle decisioni. Alla
seconda appartengono invece gli elementi che determinano le relazioni fra gli
individui, come il grado di libertà personale, il grado di giustizia, il clima sociale e
la pace, sia interna che internazionale.
Quando il Tinbergen formulò il suo approccio la difficoltà di esprimere in
termini quantitativi gran parte degli elementi da includere in una Funzione del
benessere sociale (non definite a partire dale funzioni individuali) era tale da non
fargli ritenere possibile la costruzione pratica di tale funzione. Tale difficoltà non
è oggi definitivamente superata, ma nell'ambito dell'Economia del benessere si è
sviluppata in questa direzione un'intensa ricerca che si è concretizzata
principalmente nella definizione di indicatori normativi del benessere sociale.
La teoria dei “titoli validi” del Nozick
Il Nozick (1974) sviluppò la teoria dei titoli validi nella quale sono
considerate giuste le situazioni distributive che rispettano i diritti fondamentali
(umani, civili, politici, ecc.) degli individui. Era quindi una teoria della giustizia
distributiva, finalizzata a garantire i diritti delle persone e non a soddisfare le
loro preferenze.
La prima teoria del Sen
Anche il Sen (1976b) formulò un concetto di benessere riferito ad un
gruppo di individui, estendendo al reddito e al benessere nazionali l’approccio
seguito dallo Hicks (1940) e dal Samuelson (1950) all’analisi del reddito reale
personale attraverso confronti a prezzi costanti. Egli introdusse in questa
impostazione dapprima il concetto di beni denominati e poi quello di titolo valido.
L’idea di base di tale approccio era che la capacità dei diversi gruppi della
popolazione di disporre di beni e servizi si manifesta attraverso le relazioni
vigenti in una data società, le quali dipendono dalle caratteristiche giuridiche,
economiche, sociali e culturali di questa. E il titolo valido di un soggetto indica il
paniere di beni e servizi su cui egli può comandare (cioè disporre liberamente) nei
modi consentiti dalle circostanze in cui opera. Nelle sue parole, è:
“l’abilità dei soggetti a comandare il cibo attraverso i mezzi legali
disponibili nella società, ivi compreso l'uso delle possibilità di
produzione, le opportunità di scambio, i diritti nei confronti dello
Stato e le altre forme di acquisizione del cibo.”
Così la povertà non significa semplicemente un basso livello di reddito
reale ma diviene la situazione individuale nella quale il potere sulle risorse cade
sotto una certa soglia (la cosiddetta linea della povertà4).
Il processo di sviluppo economico di un Paese, nell'accezione del Sen,
diviene allora l’espansione o la contrazione dei titoli validi e delle capacità
derivanti dalla loro attribuzione. L’insieme di titoli validi di un soggetto
comprende tutti i paniere di merci che quel soggetto ha deciso di ottenere.
Se il sistema è caratterizzato dalla proprietà privata e lo scambio è
regolato dal mercato, allora l’insieme dei titoli validi dipende in modo essenziale
dalle dotazioni iniziali del soggetto e dalla relazione tra queste e l’insieme dei
panieri che egli può ricevere scambiando sul mercato. Seguendo questa
impostazione, nella sua opera Poverty and Famines del 1981 il Sen sostenne che
le gravissime carestie del Bengala nel 1943 e del Bangladesh nel 1974 furono
provocate non tanto dalla riduzione delle quantità prodotte di cibo, quanto da un
improvviso e rapido peggioramento delle opportunità di scambio di alcuni strati
della popolazione. Questo esempio è significativo del fatto che il giudizio sul
benessere di un individuo richiede che si specifichino le sue capacità, cioè le
funzioni che egli riesce ad esercitare su di un certo paniere di beni.
Si noti che l'idea sottostante a questa affermazione è che un soggetto
potrebbe avere i titoli validi ma non la capacità effettiva di utilizzarli. In altre
parole, ogni soggetto è dotato di un insieme di funzioni di utilizzazione, ciascuna
delle quali specifica gli utilizzi, possibili per il soggetto in questione, relativi ai
beni posseduti. Il benessere del soggetto può allora essere interpretato come la
valutazione della funzione di utilizzazione adottata dal soggetto in
corrispondenza di un dato insieme di beni.
4
Introdotta per la prima volta da Rowntree (1902).
3 LA RIDEFINIZIONE DELLA RAZIONALITÀ
SOCIALE ED IL RUOLO DELLO STATO
3.1 Questioni lasciate irrisolte nell'analisi del benessere
I tre principali filoni di analisi del benessere descritti nel precedente
capitolo possono essere classificati, molto sinteticamente, nel modo seguente:
1. l'approccio di tipo pigouviano e della Funzione del benessere sociale, che si
avvale di premesse di valore esplicite definenti le preferenze riguardanti la
distribuzione, l'impiego delle risorse e tutto ciò che coinvolge i rapporti tra
economia ed etica politica;
2. l'approccio del Pareto ed i suoi sviluppi tramite il principio di indennizzo,
con il quale si evitano o si riducono al minimo i problemi di ottimo che
implichino problemi di preferenza; rientrano tra questi ultimi i problemi
distributivi e quelli relativi all'impiego delle risorse nei vari usi finali;
3. l'approccio al benessere in termini di democrazia, nel quale si cercano di
determinare non tanto gli ordinamenti individuali di preferenza quanto i
criteri con i quali una volontà collettiva possa essere formata
democraticamente;
ma tutti e tre hanno lasciato irrisolti una serie di problemi che in parte
indichiamo di seguito e che hanno portato allo sviluppo di nuove teorie che
descriveremo nei prossimi paragrafi.
Un primo problema riguarda l'operatività delle definizioni di benessere, in
quanto si è creato un forte contrasto tra la complessità formale dei vari approcci e
le scarse implicazioni, per di più spesso controverse, che concretamente si
possono trarre per la Politica economica. Particolarmente controversa era la
soluzione del problema relativo alla distribuzione del reddito. Dopo l'analisi
pigouviana, che si basava sulla distinzione dell'aspetto dell'efficienza da quello
della distribuzione delle risorse, riapparve periodicamente la difficoltà di una
valutazione del benessere che si basasse simultaneamente su considerazioni sia
di efficienza che di equità distributiva.
Alcuni studiosi ritennero che l'esiguità delle conoscenze empiriche
riguardo alle componenti del benessere non permettesse di tener conto
dell'aspetto distributivo nel valutare un sistema economico, per cui l'aspetto
dell'efficienza produttiva sarebbe stato l'unico criterio con il quale giudicare la
desiderabilità di un dato assetto. Altri studiosi, al contrario, sostennero che
l'importanza dell'efficienza produttiva era minore di quella dell'equità nella
distribuzione delle risorse o anche dell'importanza della flessibilità e rapidità
dell'adattamento del sistema ai cambiamenti nei gusti della popolazione e nella
disponibilità delle risorse.
Un altro tema di largo e più recente dibattito ebbe per oggetto le relazioni
tra la crescita economica e lo sviluppo sociale. Mentre al riguardo dei Paesi più
arretrati la teoria dello sviluppo economico si era ampiamente estesa, al riguardo
di quelli più industrializzati l'analisi si era essenzialmente basata su modelli di
crescita economica e soltanto di recente l'attenzione degli studiosi è andata
spostandosi su di un concetto di sviluppo dei Paesi più industrializzati inteso in
senso anche sociale.
Questa impostazione è nata dall'aggravarsi in questi Paesi dei problemi
socio-economici i quali, se a volte vengono attenuati dalla maggiore crescita
economica, spesso, invece, vengono da essa resi ancor più gravi.
Strettamente collegata al filone di studi di questa impostazione è la ricerca
tesa alla formulazione di indicatori sociali adeguati a fornire una descrizione il
più possibile completa della realtà socio-economica. Finché, infatti, si considerava
la crescita come l'essenza degli obiettivi della Politica economica, le informazioni
necessarie alla conoscenza della condizione umana erano adeguatamente fornite
dai tradizionali indicatori economici, primo fra tutti il Prodotto Interno Lordo.
Ma nei Paesi industrializzati, mentre aumentava il reddito medio, si
aggravavano i problemi collegati sì ai fenomeni economici, ma di natura extraeconomica, e si moltiplicavano di conseguenza le manifestazioni di malessere
sociale, derivate ad esempio dal degrado ambientale o dalla congestione urbana.
In una simile situazione era necessario ridefinire in termini di sviluppo
anche sociale gli obiettivi delle manovre di politica economica, e quindi reperire
informazioni più complete di quelle fornite dai soli indicatori economici; definire,
cioè, una nuova sorta di indicatori capaci di fornire informazioni sul benessere
inteso in modo da comprendere tutti gli aspetti principali della vita degli
individui.
3.2 La riformulazione del Sen
Il Sen (1975) fu lo studioso che con maggior impegno si dedicò alla ricerca
di una nuova formulazione della scelta sociale che fosse in grado di superare i
limiti delle funzioni del benessere sociale del tipo Bergson-Samuelson o del tipo
dell’Arrow. Queste funzioni tentavano di aggregare le preferenze individuali
utilizzando come base informativa unicamente gli ordinamenti individuali, ma i
tentativi furono destinati a scontrarsi con il teorema di impossibilità.
Molti ricercatori ritennero che i risultati di impossibilità derivavano da tre
argomentazioni che limitavano l'uso di informazioni nel processo di scelta sociale
e di conseguenza impedivano la definizione di un adeguato criterio di decisione.
Le tre argomentazioni riguardavano:
i) L'ordinalismo. Le scelte sociali devono essere unicamente funzione degli
ordinamenti individuali e non possono dipendere dal modo in cui gli individui
confrontano i loro ordinamenti. La teoria delle scelte sociali giustificava questa
asserzione perché le preferenze individuali sono una nozione "oggettiva", non
soggetta ad interpretazioni. In realtà l'ipotesi sottostante non è fondata:
esprimere una preferenza per uno "stato" non equivale ad affermare che quello
stato "sia il migliore".
ii) La condizione di neutralità. Questa discende dall'impostazione secondo
la quale i livelli di benessere o di utilità dei singoli individui sono la sola base
legittima per giungere ad una valutazione aggregata degli stati sociali. Ma
risulta chiaro come questa impostazione possa portare a giudicare le situazioni
sociali con valutazioni anche paradossali.
iii) I confronti interpersonali. Sono impossibili i confronti interpersonali e
quindi le aggregazioni di "interessi" personali.
In relazione al punto i) il Sen osservò che attribuire un simile significato al
concetto di scelta è ancor meno giustificabile di un confronto interpersonale delle
utilità. Inoltre, in relazione al punto iii), era di basilare importanza decidere se i
confronti interpersonali dovessero avere una valenza descrittiva oppure
normativa. In entrambi i casi è possibile formulare metodi che consentono di dare
una certa validità ai confronti interpersonali, ma rimane irrisoluta la difficoltà
per la quale all'interno dell'impostazione individualistica non esiste un criterio
per privilegiare un tipo di confronto rispetto ad un altro.
Circa i problemi di aggregazione il Sen affermò che nascevano dal
tentativo di ricondurre allo stesso schema, uniforme ed eccessivamente generico,
tipi di aggregazione molto diversi, quali:
a) le decisioni di assemblea,
b) i giudizi sul benessere sociale,
c) gli indicatori a contenuto normativo.
Il Sen osservò che il tipo a) esprimeva l'aggregazione di opinioni, mentre il
tipo b) esprimeva l'aggregazione dei livelli di benessere personali, ovvero di
interessi suscettibili di una qualche interpretazione. Il tipo c), d'altro canto,
indicava un'aggregazione tesa non tanto a determinare decisioni concrete quanto
a consentire di giudicare in modo sistematico stati diversi seguendo criteri ben
definiti.
3.3 Benessere, giustizia, libertà individuale e confronti interpersonali
Nella prima metà degli anni settanta gli studiosi cominciarono a
confrontarsi con l'esigenza di individuare una condizione di ottimo sociale
all'interno della quale venisse rispettata la libertà di ogni individuo. Ogni
situazione sociale doveva essere valutata secondo alcuni principi dei quali diamo
la versione del Sen:
• Principio di Pareto; se ogni individuo nella società preferisce una
certa situazione sociale ad un'altra, allora questa situazione deve
essere considerata migliore per la società nel suo complesso;
• Rispetto della libertà personale; vi sono certe questioni personali in
cui ogni individuo dovrebbe essere libero di decidere, e nelle scelte
su tali questioni ciò che egli ritiene migliore deve essere considerato
migliore per la società nel suo complesso, indipendentemente dalle
opinioni degli altri individui.
Nel saggio Libertà, unanimità e diritti il Sen (1976a) sostenne che non è
possibile costruire un sistema politico incorporando in esso i diritti fondamentali
e osservando allo stesso tempo il principio di Pareto. Il ragionamento si svolgeva
su di un complesso piano formale ma l'argomentazione di fondo era che il
principio di Pareto è valido ed irrinunciabile fintantoché si riconducono tutti i
sistemi di valore ad una scala di utilità e si definiscono gli ordinamenti sociali a
partire da quelli individuali.
Ma l'utilità - secondo il Sen - non ha niente di razionale e costituisce un
principio morale che non consente di raggiungere una posizione di ottimo sociale.
Un principio morale può essere visto come l'esigenza di escludere alcuni generi di
informazioni nel formulare giudizi morali; l'utilitarismo esige appunto di
considerare una persona unicamente come "il luogo dove si svolgono attività quali
il desiderare e il provare piacere o dolore".
Se si rilassa il principio di Pareto è possibile sviluppare altre impostazioni
che nel valutare una situazione possano tener conto delle informazioni più
rilevanti in modo da fare una scelta che sia inequivocabilmente razionale. In
questo caso il benessere sociale può essere definito secondo due approcci estremi:
• la concezione del benessere è unica e non può essere conosciuta da
tutti gli individui; ad esempio le concezioni dello Stato di Platone e
di Aristotele, nonché la tradizione cristiana, rientrano in questa
concezione "monista";
• esiste una pluralità di concezioni del benessere che sono non
necessariamente confrontabili tra di loro e possono essere anche in
contrasto.
Nel secondo approccio è il presupposto del liberalismo, il quale ritiene che
ognuna delle diverse concezioni è compatibile con la piena autonomia e la
razionalità della persona umana.
L'approccio del Rawls
J.Rawls (1971,1982) sostenne che sia l'utilitarismo classico che quello più
moderno dello Harsanyi implicavano una concezione di individuo che non
permetteva l'esistenza di una pluralità di approcci razionali al benessere.
L'esistenza di una pluralità di concezioni del benessere è invece garantita da una
concezione della giustizia che è indipendente da, e prioritaria a, ogni nozione di
benessere. L'unità di una società liberale e la fedeltà dei suoi cittadini alle
comuni istituzioni non si basano su di una nozione di benessere accettata da
tutti, ma su di un accordo collettivo che stabilisce che cosa sia giusto per persone
libere e moralmente uguali, che possono avere concezioni del benessere diverse ed
anche contrastanti.
Il Rawls si pose due interrogativi:
• se esiste una pluralità di concezioni del benessere, su che cosa si
devono basare i necessari confronti interpersonali?
• in che modo si possono risolvere le rivendicazioni tra loro
contrastanti dei cittadini?
Circa il secondo interrogativo la risposta secondo il Rawls risiedeva nelle
istituzioni sociali di base riconosciute dai cittadini; circa il primo, i confonti
interpersonali si basavano sull'idea che all'interno della pluralità delle concezioni
del benessere esistesse un'area che poteva essere considerata come l'intersezione
di tutte la diverse concezioni. Questa intersezione avrebbe compreso quell'
insieme di valori dai quali nessuna delle concezioni di benessere avrebbe potuto
prescindere e sui quali si sarebbe fondata la giustizia politica e sociale.
Due sono i principi fondamentali di giustizia che - ancora secondo il Rawls
- caratterizzano l'esigenza di uguaglianza fra i cittadini, esprimendo il primo le
concezioni essenziali di libertà ed il secondo quelle di efficienza ed uguaglianza.
Secondo il primo principio "ogni persona deve avere un uguale diritto alla più
estesa libertà compatibile con una simile libertà per gli altri". Il secondo afferma
che la disuguaglianza economica e sociale è permessa soltanto se le due
condizioni seguenti sono soddisfatte:
• il beneficio maggiore della disuguaglianza va al più svantaggiato;
• la disuguaglianza deve comunque permettere ad ognuno le stesse
occasioni ed opportunità.
I "beni primari" e le "capacità di scelta"
E' possibile confrontare il benessere di due individui valutando la
composizione dei rispettivi panieri di beni primari sociali; se questa composizione
indica uno svantaggio relativo, allora per i due principi fondamentali della
giustizia si giustifica una "reintegrazione" dell'individuo più svantaggiato.
I beni primari individuati dal Rawls (1982) rientrano nelle cinque
categorie seguenti:
1. le libertà fondamentali, come ad esempio la libertà di pensiero e di
coscienza; la libertà di associazione; tutte le libertà garantite dalla
integrità della persona così come dalle regole della legge; le libertà
politiche;
2. la libertà di movimento e la scelta di un'occupazione fra varie
opportunità;
3. le prerogative e gli incarichi delle posizioni di responsabilità; in
particolare quelle delle principali istituzioni economiche e politiche;
4. il reddito e la salute;
5. le basi sociali del rispetto di sé.
Riflettendo su queste categorie il Sen (1982) osservò che giudicare il
vantaggio sulla base dei beni primari non basta per effettuare dei confronti
interpersonali. Gli individui hanno bisogni molto diversi che variano con la
salute, la longevità, le condizioni climatiche, l'ubicazione, le condizioni di lavoro,
il temperamento, ed altro, per cui il paniere dei beni primari sociali non è
sufficiente ad evidenziare i vantaggi relativi e quindi per fare confronti
interpersonali di benessere. Come esempio riportò il caso di uno storpio che gode
del bene primario della libertà di circolare ma non ha la possibilità di usarlo.
L'uguaglianza, quindi, deve essere espressa in termini di capacità di
5
scelta : ogni individuo deve essere messo in grado di esercitare in maniera
effettiva i propri diritti e le proprie libertà e compito dello Stato è quello di
condurre i cittadini ad una capacità piena di scelta anche se essi non esprimono
alcun desiderio. Persone con un livello minimo di cultura possono non essere
neppure consapevoli dei propri diritti politici, e per questo motivo non soltanto
non li esercitano ma neppure ne avvertono eventuali lesioni.
5
Impostazione già delineate nel paragrafo 2.7 come derivate nell’opera Poverty and Famines, del
1981.
3.4 Alcune conclusioni intermedie
A questo punto possiamo affermare che sono stati raggiunti i seguenti
risultati:
• E' possibile specificare una funzione del benessere sociale, ma non
secondo un'impostazione di individualismo etico.
• Il benessere individuale deve essere definito sulla base di
informazioni più ampie ed adeguate di quelle che possono essere
dedotte dalle preferenze individuali, anche ammesso che esse
possano essere ricostruite a partire dalle scelte. La nozione di
benessere sociale è diversa da quella derivante dalla somma dei
benesseri individuali.
• Avendo definito il benessere individuale come capacità di scelta, la
valutazione puntuale degli interessi di ciascun individuo risulta
necessaria per misurare adeguatamente il suo effettivo benessere.
• Per formulare giudizi di benessere (nelle condizioni sopra indicate)
non è sufficiente conoscere le quantità totali di risorse disponibili ad
una collettività: il livello di benessere associato a quelle quantità,
infatti, non è indipendente dalla distribuzione delle quantità tra i
suoi componenti.
Su queste basi, per un individuo, sia esso un politico o un responsabile
della politica economica, diviene possibile esprimere una preferenza fra stati
sociali alternativi. Su queste basi, inoltre, sono anche utilizzabili indicatori
normativi, che possono essere definiti come misure, ad esempio, della povertà,
della disuguaglianza, del reddito nazionale, e di tutti quegli aspetti considerati
rilevanti in termini normativi.
Nella definizione di benessere come capacità di scelta uno degli elementi
fondamentali è costituito dalla considerazione dello "svantaggio iniziale", per cui
gli indicatori normativi, per costituire valide basi informative nell'ambito di
questo approccio, devono essere in grado di tener conto delle posizioni di
svantaggio degli individui sfavoriti.
Una difficoltà teorica
Accenniamo infine ad una difficoltà teorica evidenziata dallo stesso Sen nel
formulare un indice delle capacità fondamentali con il quale definire la "qualità
della vita", ovvero lo "standard of living", che è proprio il titolo della sua opera
nella quale viene trattato l'argomento.
Il benessere sociale è definito come capacità di scelta, ma è possibile che le
scelte liberamente effettuate dagli individui li conducano a delle situazioni
inique. Situazioni simili vengono create frequentemente ogni volta che l'oggetto
della scelta è la partecipazione ad una qualche forma di "lotteria"; in questo caso
si potrebbe dare all'individuo la libertà di scegliere una situazione che potrebbe
portare a dei risultati negativi (per l'individuo stesso), cioè a diminuire il proprio
campo di scelta e quindi, in definitiva, il proprio benessere.
Infatti se l'individuo effettua una scelta che gli causa perdite, anche
solamente economiche, la sua capacità di scelta, ex-post, è di fatto diminuita. Ma
se si impedisce all'individuo un simile comportamento si diminuisce la sua
capacità di scelta ex-ante.
Ancora una volta segue che la razionalità di in processo di decisione sociale
non soltanto non può essere assicurata su di un piano formale, ma è una nozione
insufficiente ad affrontare i problemi relativi al benessere sociale, che possono
essere risolti solo all'interno di una teoria della giustizia.
4 L’APPROCCIO DELLE “CAPACITAZIONI”
4.1 I “funzionamenti” e le “capacitazioni” del Sen
Negli anni ottanta e novanta Amartya Sen sviluppò un nuovo approccio
alla concezione di well-being, generalizzazione del vecchio “benessere”, da un lato
estendendo la sua nozione di “capacità di scelta”, ma dall’altro scostandosi
marcatamente da essa. La distanza dal suo vecchio approccio risiede
essenzialmente nel fatto che egli considera e definisce il well-being non più per
una collettività di persone ma per un individuo. L’estensione concerne la
determinazione di possibilità di fare o di essere che sono disponibili ad un
individuo, e che sono contenute nella particella elementare della sua teoria: il
“funzionamento6”.
Il fatto che non arrivi a definire un well-being sociale costituisce il
principale limite alla sua teoria.
Funzionamenti e capacitazioni
Un funzionamento rappresenta una parte dello stato di un individuo che è
oppure che può essere, che egli fa o che può fare; nelle parole del Sen (p.317):
“Functionings represent parts of the state of a person - in particular
the various things that he or she manages to do or be in leading a
life.”
Si noti che nella definizione di funzionamento non è contemplata la
“capacità” di fare o di essere. Per esempio, il digiuno può essere una parte dello
stato di un individuo: è un funzionamento.
Ma lo stato di digiuno può essere scelto da un individuo ricco per motivi
suoi propri, ad esempio religiosi; oppure perché è a dieta. Al contrario lo stato di
digiuno può essere obbligato per un individuo povero che non è in grado di
comperare cibo. Allora la posizione dei due individui rispetto al digiuno, che
rappresenta lo stesso funzionamento per ambedue, è differente: il ricco digiuna
ma potrebbe anche scegliere di non digiunare (sarebbe capace di non digiunare);
il povero digiuna ma non ha altra possibilità di scelta (non sarebbe capace di non
digiunare). Essi hanno differenti “capacitazioni”, o “capabilities” secondo la
terminologia del Sen (p.31):
“The capability of a person reflects the alternative combinations of
functionings the person can achieve, and from which he or she can
choose one collection.”
Si noti la “capacità di scelta” come elemento caratteristico della
“capacitazione”, elemento che abbiamo visto non essere presente nel
“funzionamento”. Se un gruppo di funzionamenti può essere scelto da una
persona (che quindi possiede la “capacità” di sceglierli) esso determina la
capacitazione di quella persona. Si osservi anche che l’ormai usuale traduzione
6
Functioning nella sua versione inglese.
Tutte le citazioni di questo capitolo che non siano esplicitamente attribuite ad altro autore sono
tratte da Sen (1993b).
7
italiana “capacitazione” dell’originale “capability” è ben infelice in quanto in essa
non è presente la commistione di capacità (capacity) e possibilità (possibility)
presente in “capability”.
La capacitazione, dunque, definisce le possibilità che un individuo ha di
raggiungere certi stati di essere; se questi stati sono valutati positivamente sono
stati di well-being. Nelle parole del Sen (p.30):
“The expression [capability] was picked to represent the alternative
combinations of things a person is able to do or be – the various
‘functionings’ he or she can achieve.”
Funzionamenti elementari e complessi
Naturalmente, in generale, ci sono più di un funzionamento; alcuni sono
elementari (e di base), come per esempio (p.36):
- essere nutriti adeguatamente,
- essere in buona salute,
- possedere una buona istruzione,
- evitare una mortalità prematura,
ed altri più complessi,come ad esempio:
- ottenere rispetto di sé,
- essere socialmente integrati.
Una definizione più analitica
Se descriviamo la condizione sociale di un gruppo di persone per mezzo di
(un vettore di) n funzionamenti, non è cosa certa che tutti questi siano disponibili
per ciascun individuo e che questi sia in grado di sceglierli. Il sottinsieme di
questi funzionamenti che un individuo può scegliere di essere o di fare
rappresenta la sua capacitazione.
Un gruppo di n funzionamenti può essere rappresentato da una ennupla di
variabili, ciascuna indicate con Fi , i=1,2,…,n. Essi rispecchiano situazioni
obiettive, che si riferiscono in generale agli stati dell’individuo. Ma di questi n
funzionamenti soltanto k≤n sono sia a lui disponibili sia da lui sceglibili: questa
collezione di k funzionamenti rappresenta la sua capacitazione.
Se lo spazio è a due dimensioni, formato ad esempio dai due
funzionamenti:
- essere nutrito adeguatamente (F1),
- possedere una buona istruzione (F2),
i sottinsiemi differenti e possibili sono quattro:
1. sia F1 che F2 sono assenti,
2. F1 è assente ma F2 è presente,
3. F2 è assente ma F1 è presente,
4. sia F1 che F2 sono presenti.
Se un individuo è in grado di godere sia di F1 che di F2 , la sua
capacitazione è formata dalla coppia (F1 , F2) e k=2; se viceversa può godere o del
solo F1 o del solo F2 , la sua capacitazione è formata da un solo funzionamento (F1
oppure F2 , rispettivamente) e k=1. Nel primo caso k=0.
Si può dare un’altra forma a queste definizioni tramite variabili booleane
che possono assumere i valori zero oppure uno, indicando l’assenza o la presenza
di un funzionamento. Nell’esempio precedente la coppia di funzionamenti F1 ed
F2 può essere associate a due assi cartesiani producendo i quattro punti (0,0),
(0,1), (1,0) e (1,1), corrispondenti alle quattro differenti capacitazioni che possono
essere formate con i due funzionamenti.
Per esempio, se un individuo ha la capacitazione (1,1) può scegliere o F1
(essere nutrito adeguatamente), o F2 (avere una buona istruzione) oppure anche
sia F1 che F2 .
4.2 Mezzi di vita e funzionamenti rilevanti
L’approccio delle capacitazioni non dà rilevanza diretta ai mezzi di vita (il
reddito reale, la ricchezza, i beni primari, e così via), ma può dare loro
un’importanza derivata poiché essi possono influenzare indirettamente, anche in
modo molto marcato, i funzionamenti disponibili (p.33).
In altri approcci al well-being i mezzi di vita sono spesso utilizzati per
definire la linea della povertà, con “a tendency to define basic needs in the form
of needs for commodities (e.g. for food, shelter, clothing, health care), and this
may distract attention from the fact that these commodities are no more than the
means to real ends (inputs for valuable functionings and capabilities)” (p.40).
Nell’approccio delle capacitazioni, al contrario, nell’analisi della povertà8 la
situazione sociale può essere descritta per mezzo di un piccolo numero di
funzionamenti che possono essere ritenuti centralmente rilevanti (p.31). Per
mezzo di questi funzionamenti possono essere definite delle “capacitazioni di
base” con le quali identificare la linea di povertà e fare la relative analisi:
“The identification of minimally acceptable levels of certain basic
capabilities (below which people count as being scandalously
‘deprived’) can provide a possible approach to poverty” (p.41).
In altri tipi di analisi sociale, ad esempio quella dello sviluppo umano, la
lista dei funzionamenti necessaria può anche essere lunga. Così è necessario
identificare lo spazio dei funzionamenti che contenga soltanto quelli rilevanti; la
scelta (chiaramente soggettiva) di questi costituisce un primo fondamentale
problema da risolvere in questo approccio. Nelle parole del Sen (p.32):
“There is no escape from the problem of evaluation in selecting a
class of functionings in the description and appraisal of
capabilities.”
4.3 Capacitazioni, well-being e qualità della vita
Le definizioni di well-being, qualità della vita e standard di vita per un
individuo possono tutte essere date in termini di capacitazioni. Infatti Sen (p.30)
afferma “to explore a particular approach to well-being and advantage in terms of
a person’s ability to do valuable acts or reach valuable states of being” ed ancora
(p.31) che la “quality of life [has] to be assessed in terms of the capability to
achieve valuable functionings”.
8
Così come in altri tipi di analisi.
Se i funzionamenti concernono soltanto la vita di un individuo, l’associata
capacitazione può essere considerata equivalente al suo standard di vita (p.37):
“A particularly important [exercise] is that of evaluating a person’s
standard of living. This, too, may take the form of focusing on the
person’s functionings, but in this case we may have to concentrate
only on those influences on well-being that come from the nature of
his own life, rather than from ‘other-regarding’ objectives or
impersonal concerns.”
Al contrario, se i funzionamenti sono più generali, ad esempio concernenti
la vita anche di altre persone, la capacitazione associata può essere considerata
equivalente al suo well-being (p.37):
“For example, the happiness generated by a purely other-regarding
achievement (e.g. the freeing of political prisoners in distant
countries) may enhance the person’s well-being without, in any
obvious sense, raising his living standard.”
Differenze sostanziali non sembrano sussistere, nel pensiero del Sen, tra
qualità della vita e standard di vita. Dalla precedente citazione si trae anche che
questi due concetti sono contenui in quello del well-being.
Capacitazioni e libertà
La libertà di condurre tipi di vita diversi è un concetto ovviamente
compreso nelle capacitazioni dell’individuo, sebbene “a full accounting of
individual freedom must, of course, go beyond the capabilities of personal living
and pay attention to the person’s other objectives (e.g. social goals not directly
related to one’s own life)” (p.33). Così i funzionamenti associati con la libertà
devono essere necessariamente compresi, per ogni individuo, nell’insieme che
definisce la sua capacitazione come suo well-being, mentre non sono strettamente
necessari quando si valuta la sua qualità della vita.
4.4 La valutazione del well-being
Se il well-being è definito in termini di capacitazioni, la sua valutazione
corrisponde alla valutazione di queste, cioè dell’insieme dei funzionamenti che le
costituiscono. Di conseguenza, se il primo problema fondamentale dell’approccio
delle capacitazioni è costituito, come già notato, dalla scelta dei funzionamenti
(p.32):
“The capability approach is concerned primarily with the
identification of value-objects, and sees the evaluative space in
terms of functionings and capabilities to function.”
ne sorge un secondo (anch’esso chiaramente soggettivo): la valutazione dei
funzionamenti. Nelle parole del Sen (p.37):
“The claim is that the functionings make up a person’s being, and
the evaluation of a person’s well-being has to take the form of an
assessment of these constituent elements.”
Riassumendo, dunque, due problemi devono essere risolti soggettivamente:
(1) la scelta dei funzionamenti necessari alla definizione della capacitazione
che viene ritenuta equivalente al well-being oppure alla qualità della vita;
(2) la determinazione dei loro valori relativi (cioè dei pesi), in quanto non tutti
i funzionamenti sono ugualmente rilevanti.
“This is, of course, itself a deeply evaluative exercise, but answering
question (1), on the identification of the objects of value, does not, on
its own, yield a particular answer to question (2), regarding their
relative values.” (p.33)
4.5 Le capacitazioni nel lavoro di Martha Nussbaum
Il Sen ha sviluppato l’approccio delle capacitazioni nello stretto rispetto di
due regole di base: i) identificare il well-being o la qualità della vita in termini
esclusivamente individuali; ii) esprimersi, nelle definizioni e nei concetti, in
forma assolutamente generale.
Questo comportamento ha il vantaggio di evitare che siano possibili molte
critiche ma, allo stesso tempo, ha la caratteristica di rendere l’approccio astratto
e difficilmente applicabile alla realtà. Lo stesso Sen riconosce che esso è, in
questo senso, non completato (p.47).
Queste due regole sono state superate dal filosofo tedesco Martha
Nussbaum, che ha sviluppato una versione dell’approccio delle capacitazioni che
potremmo chiamare “aristotelico”9.
La prima modifica
In primo luogo ha cambiato la relazione tra funzionamenti e capacitazioni.
Queste non sono più costituite da insiemi di funzionamenti che si ha la capacità
di ottenere: ogni funzionamento che può essere ottenuto è esso stesso una
capacitazione, cosicché la caratterizzazione del well-being è fatta per mezzo di un
insieme di k capacitazioni ognuna delle quali è un funzionamento disponibile ed
ottenibile.
Coerentemente con la sua posizione aristotelica, la Nussbaum specifca
dieci funzionamenti/capacitazioni, corrispondenti a dieci aree della vita umana,
che dovrebbero essere prese in considerazione nella definizione del well-being.
Queste capacitazioni furono elencate per la prima volta in Nussbaum (1990) e poi
cambiate nel 1993 e nel 1995. L’ultima modifica fu fatta dalla Nussbaum nel
2000, con l’elenco che riportiamo di seguito in originale e che ella definisce
formato dalle “Capacitazioni umane funzionali di base”:
a. currently life,
b. bodily health,
c. bodily integrity,
d. senses-imagination-thought,
e. emotions,
f. practical reason,
g. affiliation (sociability and dignity),
h. other species,
i. play,
j. control over one’s environment (political and material).
9
La posizione filosofica della Nussbaum è aristotelica.
Occorre notare che il Sen non rifiuta la possibilità di specificare una lista
di funzionamenti/capacitazioni. Egli semplicemente afferma che da un lato
questa lista non è in contrasto con l’approccio delle capacitazioni ma che dall’
altro lato esso non la richiede:
“Aristotle believes, as Nussbaum (1988) notes, ‘that there is just one
list of functionings (at least at a certain level of generality) that do
in fact constitute human good living’ (p.152). That view would not be
inconsistent with the capability approach presented here, but not,
by any means, required by it.” (p.46)
Questa citazione fornisce un’ulteriore conferma della regola ii) sopra
riportata ma allo stesso tempo riconosce che quello della Nussbaum è
effettivamente un tipo di approccio delle capacitazioni.
La seconda modifica
Il secondo cambiamento che la Nussbaum apportò all’approccio del Sen
riguardò il carattere individualistico delle capacitazioni. Ella ritiene che sia
dovere dello Stato assicurare le capacitazioni agli individui, e che ogni individuo
debba avere la libertà di definire il suo proprio well-being e di conseguenza di
scegliere gli obiettivi da perseguire. Al fine di permettere ai propri cittadini di
vivere una vita da essi stessi determinata, lo Stato deve assicurare loro le
capacitazioni necessarie, non i funzionamenti, perché da un punto di vista
politico sono quelle e non questi che lo Stato ha il dovere di fornire. E l’essere
umano deve avere la libertà di scegliere le capacitazioni che gli necessitano nella
realtà, una volta che lo Stato gliele abbia assicurate:
“Where adult citizens are concerned, capability, not functioning, is
the appropriate political goal….It is perfectly true that functionings,
not simply capabilities, are what render a life fully human, in the
sense that if there were no functioning of any kind in a life, we could
hardly applaud it, no matter what opportunities it contained.
Nonetheless, for political purposes it is appropriate that we shoot for
capabilities, and those alone. Citizens must be left free to determine
their own course after that.”10
Ed ancora:
“…the basic political principles focus on promoting capabilities, not
actual functionings, in order to leave to citizens the choice whether
to pursue the relevant function or not to pursue it….the content of
the capabilities list gives a central role to citizens’ powers of choice
and to traditional political and civil liberties.”11
10
11
Si veda Nussbaum (2000, p.87) .
Si veda Nussbaum (2000, p.105) .
5 GLI ASPETTI EMPIRICI DELLA MISURAZIONE
DELLA CONDIZIONE UMANA
5.1 Gli sviluppi concettuali relativi al benessere ed i metodi operativi
elaborati per la sua misurazione
Nei capitoli precedenti abbiamo esaminato l'evoluzione degli aspetti
concettuali e definitori del benessere nella speculazione teorica. Questa
evoluzione, unita al crescente malessere sociale che aveva nella gran parte dei
Paesi industrializzati nonostante la crescita economica, o anche a causa di essa,
ha stimolato vivacemente la ricerca indirizzata alla definizione di un'adeguata
misura del benessere sociale. Tuttavia la ricerca si è in generale sviluppata
tramite un’analisi che riesce ad elaborare metodologie complesse ed efficaci sì da
un punto di vista descrittivo, ma che sono ambiguamente interpretabili se
considerate come reali misure del benessere complessivo. In effetti, quando dalla
teoria si è passati su di un piano operativo, è venuto a mancare tra i ricercatori
un consenso generale sul concetto stesso di benessere.
5.2 La specificazione della funzione del benessere sociale
Una soluzione concettualmente corretta del problema della misurazione
del benessere sociale potrebbe risiedere nello specificare adeguatamente una sua
funzione. Questo però pone una serie di difficoltà, le principali delle quali
vengono esposte di seguito:
i)
La definizione dei criteri da usare per specificare il significato di
"benessere" sociale, considerato questo come l'insieme delle condizioni
nelle quali ogni individuo può perseguire il proprio benessere
individuale.
ii)
La difficoltà di valutare, cioè misurare, il benessere.
iii)
La difficoltà di formulare giudizi sul benessere sociale che è stato
definito e misurato.
Questa terza difficoltà è superabile qualora il benessere sia concepito come
l'espressione delle preferenze di una singola entità che non necessariamente è un
individuo bensì, e molto spesso, è un gruppo di persone capaci di armonizzare le
proprie preferenze.
Se si superassero le tre difficoltà, la funzione del benessere sociale
potrebbe essere concepita come l'espressione delle preferenze di un gruppo
politico omogeneo o comunque composto di individui capaci di armonizzare le
proprie preferenze grazie ad un accordo esistente sugli interessi fondamentali. In
questo caso esisterebbe una pluralità di funzioni del benessere sociale, ognuna
delle quali sarebbe l'espressione, ad esempio, di un movimento dell'opinione
pubblica, di un partito politico, di una linea di pensiero, e così via. Secondo
questa accezione la funzione del benessere sociale consentirebbe:
• una formalizzazione coerente delle preferenze espresse dal "gruppo", così
permettendo una conoscenza più chiara dei valori che esso si propone di
perseguire, conoscenza ugualmente necessaria sia alle persone
appartenenti al "gruppo" sia a quelle ad esso esterne;
• l'evidenziazione delle eventuali incongruità nel sistema di valori del
"gruppo".
In conclusione sarebbe possibile specificare in modo corretto una funzione
del benessere sociale se si fosse disposti ad accettare le seguenti caratteristiche di
fondo:
• L'identificazione e la valutazione del benessere individuale vengono fatte
senza deduzione dalle preferenze individuali ma secondo l'accezione del
Rawls o del Sen, considerando l'individuo inserito in una ben definita
società, titolare di specifici diritti e persecutore di specifici valori etici
oltreché del proprio interesse economico.
• La valutazione sociale del benessere di tutti gli individui è fatta
considerando questi congiuntamene tramite la formalizzazione delle
preferenze espresse dal "gruppo" di persone definito sopra.
5.3 Il PIL come indicatore del benessere
Nel periodo intercorrente tra le due guerre mondiali, mentre nell'ambito
teorico l'interpretazione del concetto di benessere si evolveva verso definizioni
sempre più sofisticate, da un punto di vista empirico si considerava il benessere
in termini strettamente economici nell'osservanza di un'impostazione pragmatica
che nasceva dall'unanime accettazione dell’approccio del Pigou. D'altro canto, a
partire dal secondo dopoguerra e per almeno altri vent'anni, il tentativo di
prendere in considerazione delle componenti extra-economiche del benessere
sarebbe stato comunque considerato inutile dalla maggioranza degli studiosi,
dato che prevaleva tra di loro la convinzione che "una volta accertato l'effetto di
una qualche causa del benessere economico, si potesse, a meno di chiare
indicazioni contrarie, considerare questo effetto come probabilmente equivalente,
in direzione se non in grandezza, all'effetto sul benessere complessivo"12.
Dunque il primo tentativo di definire il benessere di una società fu fatto
con la sua associazione alla ricchezza della società stessa. Essendo però in quegli
anni tra le due guerre molto difficile, per non dire impossibile, la misurazione
della ricchezza, questa fu sostituita da un flusso, il PIL (oppure il reddito) pro
capite, intendendosi le variazioni di benessere associabili alle variazioni del PIL
(oppure del reddito). In questa accezione diveniva possibile effettuare
misurazioni del benessere ed utilizzarle per confronti intertemporali (per uno
stesso Paese) ed internazionali (tra più Paesi).
L'uso del PIL pro-capite come misura del benessere trovò la sua
giustificazione teorica, nei Paesi industrializzati, nella linea di pensiero che
identificava la crescita economica con la fonte di ogni prosperità. Lo stesso
12Pigou
(1920).
S.Kuznets (1941, pp.3-4), uno dei principali costruttori della contabilità
nazionale, affermava:
"National income may be defined as the net value of all economic
goods produced by the nation... Any claim to significance such a
total would have, would lie in its presumptive usefulness as an
appraisal of the contribution of economic activity to the welfare of
the country's inhabitants, present and future..."
Nel 1948 l'ONU adottò un sistema standard di contabilità nazionale (SNA,
System of National Accounts), che facilitò, come si è detto, i confronti
intertemporali anche fino ad un lontano passato, e quelli tra nazioni diverse, in
virtù di essere espresso in termini monetari. A questi fini lo SNA ebbe un
indubbio successo, che dura tutt'ora; come indicatore del benessere umano il
successo fu minore. In effetti la stessa ONU, in un rapporto del 1953 in cui si
davano definizioni del livello di vita ai fini di comparazioni internazionali13,
raccomandava l'uso simultaneo di altre informazioni sulle condizioni ambientali e
sociali in genere.
Le critiche al PIL
L'uso del PIL
come indicatore del benessere fu criticato, anche
aspramente, secondo due linee diverse. Il primo gruppo di critiche riguardò il
modo di aggregazione di alcune sue componenti: si ritenne che alcune fossero
ridondanti, oppure che non contribuissero al benessere di un Paese, e che quindi
andassero tolte nella valutazione di questo.
I critici della seconda linea rilevarono, d’altro canto, che il PIL, per quanto
migliorato, non avrebbe potuto rappresentare una concezione non esclusivamente
economicistica del benessere: occorreva aggiungergli altri indicatori, come quelli,
ad esempio, relativi alla distribuzione del reddito, allo sfruttamento
dell'ambiente, alla povertà, alle condizioni fisiche e sociali della vita umana;
infine, occorreva aggiungergli indicatori del possesso di beni intangibili, quali ad
esempio la libertà, la giustizia, la sicurezza.
Infatti, nonostante che in apparenza il valore del PIL pro-capite
costituisca uno strumento oggettivo e facilmente realizzabile per confrontare
economie diverse, in realtà presenta notevoli debolezze strutturali che rendono
ingiustificato l’ampio uso che ne è stato fatto come indicatore di benessere. Di
seguito esponiamo i principali motivi che limitano l'uso del PIL ad un preciso
contesto (quello della crescita economica complessiva) rendendolo inadeguato a
misurare il benessere sociale.
i)
Il PIL pro-capite non è un indicatore di stock ma di flusso di beni e di
servizi espressi monetariamente; in altre parole misura l'incremento
della ricchezza economica di un Paese e non la ricchezza stessa. In
questo modo non viene contabilizzata la diminuzione di ricchezza che
dovrebbe risultare dall'esaurimento delle risorse non rinnovabili e dal
deterioramento ambientale. Risorse non rinnovabili ed ambiente sono
soggetti, per effetto della crescita economica, a gravi danni dei quali
13
Diversi PVS, che sotto la spinta dell'ONU seguivano il modello dei Paesi più sviluppati,
costruirono un sistema di contabilità nazionale e per mezzo di questo valutarono il proprio
progresso socio-economico.
occorre tener conto per avere una rappresentazione della situazione
sociale che possa essere interpretata in termini di benessere.
ii)
Il PIL non fornisce informazioni sulla struttura produttiva e sulla
distribuzione del reddito di un Paese perché è una misura aggregata.
Ma sono invece proprio queste le informazioni che consentirebbero di
esprimere un giudizio sul grado di sviluppo economico e sociale
raggiunto dal Paese. Ad esempio le economie differenziate a livello
territoriale e/o settoriale presentano profonde disuguaglianze nei livelli
di reddito e nella distribuzione delle risorse produttive. Queste
disuguaglianze incidono fortemente sul grado di benessere di un
sistema sociale e non si può prescindere da una loro considerazione per
giudicare una situazione in termini di benessere.
iii)
Nella misura del PIL confluiscono solamente i beni e servizi di mercato,
ovvero quelli che sono oggetto di scambio e che implicano un
trasferimento monetario. Per i beni e servizi non di mercato14 non esiste
un mercato nel quale si possa formare un valore monetario da inserire
nel PIL; oppure il mercato esiste ma le sue parti costituenti non
entrano in gioco in maniera abituale e regolare.
iv)
Il PIL non può tener conto di tutto la serie di componenti fondamentali
della qualità della vita le quali non possono esser misurate in termini
monetari, come la soddisfazione nel lavoro, la sicurezza del lavoro, la
possibilità di scegliere l'impiego del proprio tempo libero, e così via15.
Inoltre esistono alcuni beni e servizi il cui valore sociale può differire da
quello di mercato.
Da tutti questi motivi risulta evidente che il valore del PIL è
un’espressione inadeguata dell'effettivo livello qualitativo di vita; ma finché è
durata la “mania della crescita”, negli anni ’50 e ’60, le variazioni della
produzione complessiva sono state giudicate delle buone approssimazioni delle
variazioni del benessere. Nel frattempo, tuttavia, il valore del benessere in
termini di crescita economica cominciò ad essere messo in discussione, come i
saggi del Galbraith (1958), del Packard (1960) e del Mishan (1967) indicano, e
dalla fine degli anni ‘60 la ricerca relativa ad altri indicatori e in generale a meno
rozzi metodi di misurazione del benessere si andò intensificando insieme al
sorgere di una nuova sensibilità ai problemi del benessere16, più attenta ai
problemi dello sviluppo sociale e culturale, più orientata verso la distribuzione
14 I beni non di mercato hanno un peso rilevante sia nei Paesi in via di sviluppo sia nelle
economie di mercato avanzate. Nei primi i beni e i servizi non merchant sono largamente diffusi
nelle forme di autoconsumo e di scambio tramite baratto. Nei secondi i beni e i servizi non di
mercato coprono tutti settori di sussistenza nei quali non vengono effettuate imputazioni, quali i
servizi prestati nell'ambito familiare e le forme di volontariato.
15
Tra l’altro, la difficoltà del PIL a contabilizzare le transazioni non monetarie implica che esso
sottostimi l'attività economica totale.
16 La “controcultura” antimaterialistica degli anni ’60.
del reddito piuttosto che verso un suo continuo aumento, più consapevole
dell'importanza delle questioni ambientali e dei limiti delle risorse naturali17.
Nell'ambito di questa nuova sensibilità non solo furono evidenziati i limiti
del valore del PIL come indicatore sintetico dell’andamento dell'economia in
generale, ma soprattutto fu dichiarata la sua assoluta inadeguatezza a fornire
una misura del benessere. Una sorta di polemica sorse nei confronti dell' “abuso”
della nozione di PIL, tanto che si ebbero reazioni vivaci alla pretesa di
quantificare una realtà complessa come il benessere di una società con una
misura tanto incongrua come il suo PIL. Già agli inizi degli anni quaranta lo
stesso Kuznets, che a dir la verità nel tempo non era stato particolarmente
stabile nelle opinioni, nello specificare il significato preciso degli aggregati della
contabilità nazionale aveva evidenziato i rischi di un loro uso improprio al di
fuori del contesto analitico per il quale erano stati formulati. Ed ancor prima
(1933, p.7) aveva messo in forte dubbio la possibilità di considerare il PIL come
una misura del benessere, che
“…runs in terms of subjective feelings, whose commensurability for
various individuals is to be doubted and whose relation to the
objectively perceptible economic goods is not, in the present state of
knowledge, determined with sufficient precision to permit even
purely qualitative economic analysis. Consequently, the concept of
income enjoyed has to be abandoned…”.
5.4 Una classificazione dei principali approcci alla misurazione del
benessere
A seguito delle critiche illustrate nel paragrafo precedente, gli studi
finalizzati a dare un’espressione quantitativa più adeguata alle componenti del
benessere sono stati numerosi e la ricerca in questo senso è tuttora molto
intensa. Nel campo di questa ricerca distinguiamo le tre impostazioni seguenti:
i) l’impostazione “oggettivista” o della “contabilità estesa”;
ii) l’impostazione “normativista”;
iii) l’impostazione “soggettivista” degli “indicatori psicologici”.
L’impostazione “oggettivista”
Si possono ricondurre all’approccio oggettivista gli studiosi che ritengono
vano ogni tentativo di costruire una contabilità sociale tramite la quale sia
possibile ottenere una rappresentazione d’insieme dello stato della società.
Secondo questi ricercatori le varie teorie sociali non sono adeguate a consentire di
individuare e definire il supporto informativo necessario per giungere a costruire
un sistema integrato di statistiche sociali.
Vi furono perfino studiosi, come ad esempio l’Arkipoff (1977), che
affermarono che il termine benessere è vuoto di significato perché la sua
interpretazione è per sua natura ambigua e così non è possibile stabilirne
esattamente il contenuto.
17
L’ “ambientalismo” anticrescita degli anni ’70. La stessa ONU ha esteso lo SNA con una
contabilità ambientale satellite.
Inoltre non è possibile, per loro, costruire un indicatore sociale in
sostituzione del valore del reddito perché manca la possibilità di definire una
comune unità di misura tramite la quale misurare tutti i diversi aspetti della
situazione sociale. Date queste premesse, oggetto di misura può unicamente
essere il benessere economico reale di un Paese.
Una misura adeguata non può comunque essere fornita dai semplici conti
nazionali ed è quindi necessario effettuarne un appropriato aggiustamento. È
opportuno inoltre notare che per loro il termine benessere non deve essere inteso
in maniera restrittiva, ma anzi scopo di questi autori è proprio quello di
contabilizzare il maggior numero possibile di aspetti rilevanti al fine di costruire
una rappresentazione che possa essere interpretabile in termini di benessere
generale; naturalmente ognuno degli aspetti proposti da tenere in considerazione
deve essere in qualche modo ricondotto alla scala monetaria, e questo
rappresenta un limite notevole per una misura del benessere sociale.
Un primo approccio al problema di questa misurazione fu quello di
approfondire l'uso del cambio per confrontare gli aggregati economici di Paesi
diversi, verificando la possibilità di stimare il PIL pro capite in termini di parità
dei poteri di acquisto, al fine di tener conto della struttura interna dei prezzi dei
Paesi tra i quali si voleva effettuare il confronto. Un secondo approccio al
problema fu quello di tentare un aggiustamento dei conti economici nazionali
ritenuti inadeguati ad esprimere il benessere economico reale delle nazioni. Un
terzo approccio può essere identificato nella ricerca finalizzata all'integrazione
del sistema dei conti nazionali con indicatori relativi all'ambiente e al capitale
naturale.
L'impostazione “normativista”
Secondo l'impostazione normativista le statistiche sul reddito nazionale
non sono adatte a misurare il benessere in quanto non considerano i progressi
che non hanno valore monetario (oppure che sono valutati in forma imperfetta
dai prezzi di mercato) e quindi non contabilizzano i costi sociali della crescita
economica. I normativisti ritengono che accanto ai dati correntemente disponibili
relativi alle risorse impiegate nei vari settori sarebbe auspicabile la messa a
punto di statistiche sociali atte a misurare i differenti aspetti del benessere in
forma diretta; in altre parole auspicano la messa a punto di indicatori normativi.
Questi dovrebbero consentire un giudizio sul benessere sociale e rappresentare la
base informativa della persona che si trova in condizioni di dover decidere se un
certo cambiamento, dal quale alcuni trarranno vantaggio mentre altri perdite, è
un bene per la società.
È evidente da questo come la costruzione degli indicatori normativi sia
strettamente collegata alla specificazione della funzione del benessere sociale.
Gli studi relativi agli indicatori sociali normativi affrontano due generiche
categorie di problemi di fondo:
• la scelta degli aspetti da considerare come elementi del benessere, a livello
sia individuale che collettivo;
• la definizione di metodologie formali che consentano di quantificare gli
aspetti più diversi di una situazione sociale e che permettano, inoltre, di
ottenere dei risultati numerici che siano concettualmente interpretabili
secondo l'accezione di benessere accolta.
Questo secondo problema è reso arduo dall'assenza di un numerario
comune tramite il quale esprimere elementi diversi non misurabili con il metro
monetario; tale problema è stato quello la cui soluzione è stata finora più
approssimativa.
L'impostazione degli “indicatori soggettivi”
Nell’ambito dell’impostazione soggettivista si attribuisce una grande
importanza agli elementi del benessere individuale quali le attitudini, le
soddisfazioni e le aspirazioni personali. Questi elementi del benessere possono
esser misurati soltanto tramite una testimonianza diretta degli individui, con il
metodo dell'indagine campionaria. Gli indicatori soggettivi misurano gli elementi
del benessere attraverso la percezione degli individui.
L'impostazione soggettivista viene giustificata, tra l’altro, dal fatto che uno
dei motivi più profondi del malessere sociale, nonostante un eventuale reddito
medio elevato, sia costituito dalla separazione tra la reale natura dei bisogni e la
natura delle soddisfazioni che vengono proposte. L'origine ultima del benessere
reale dipende dal grado di soddisfazione raggiunto dall'individuo; non avendo
informazioni sulla reale natura dei bisogni delle persone, non si possono proporre
delle corrispondenti modalità di soddisfazione e di conseguenza l'insoddisfazione
di reali bisogni diminuisce il benessere.
Tramite questi indicatori non si cerca di raccogliere preferenze individuali
sugli stati sociali, perché altrimenti si ritornerebbe ad una impostazione di tipo
welfarista (basata sull’individualismo etico) e il teorema dell’Arrow impedirebbe
l'espressione di una preferenza sociale e quindi in ultima analisi la misura del
benessere sociale.
Un sistema di indicatori soggettivi è quindi una forma neutrale di raccolta
delle opinioni, dei desiderata, dei bisogni in genere della collettività, e questa
raccolta si rende tanto più necessaria in quanto frequentemente gli obiettivi della
classe politica si discostano dai bisogni della collettività18.
5.5 La contabilità estesa
I sistemi di conti nazionali estesi furono sviluppati essenzialmente per
misurare il benessere. Tra gli antesignani di questo tipo di contabilità
annoveriamo il Kendrick (1967) ed il Sametz (1968) ma il saggio che riportava
una metodologia approfondita è dovuto a Nordhaus e Tobin (1972), con la
illustrazione della loro Measure of Economic Welfare (MEW).
18
Negli ultimi anni alcuni organismi statistici ufficiali hanno iniziato ad inserire indicatori
soggettivi nelle loro raccolte di statistiche: nel Regno Unito il General Household Survey inserisce
dei questionari soggettivi relativamente a svariati aspetti della vita; in Francia l'INSEE, nella
sua indagine periodica sulle abitazioni, comprende anche quesiti soggettivi che vanno al di là
dello scopo di analisi del settore della rilevazione; negli USA, i “Social Indicators” contengono, in
ogni capitolo, un paragrafo dedicato a quanto è noto sull'argomento del capitolo stesso sotto
l'aspetto soggettivo.
Nordhaus e Tobin: benessere effettivo e benessere garantito
Nella loro opera del 1972, “Is Economic Growth Obsolete?”, gli autori si
proposero di rimediare alle debolezze del reddito pro capite quale misura del
benessere economico provvedendo ad un aggiustamento dei conti nazionali. Per
loro la più evidente insufficienza del PIL era quella di essere un indice della
produzione e non del consumo, che, invece, dovrebbe essere il fine ultimo della
attività economica. Nordhaus e Tobin tentarono di costruire una misura
alternativa e sperimentale del benessere economico capace di riflettere le più
evidenti discrepanze tra l'indicatore del PIL e il benessere economico.
Da un punto di vista concettuale la misura del benessere economico,
secondo gli autori, era una misura complessiva del consumo reale annuale delle
famiglie. Il consumo così inteso comprendeva tutti i beni e servizi, di mercato e
non, valutati o in base ai prezzi di mercato o in costo-opportunità per i
consumatori. I consumi pubblici venivano contabilizzati se forniti dal governo o
dalle altre istituzioni; erano esclusi se davano origine ad esternalità negative.
Nordhaus e Tobin fornirono due misure del benessere economico: una
rappresentata dai consumi effettivi, l'altra dai consumi garantiti, ottenuti
aggiungendo ai primi l'eccedenza della formazione netta effettiva di capitale su
quella teorica, calcolata al fine di assicurare lo sviluppo dei consumi ad un certo
tasso.
Quando in un sistema economico il benessere garantito fosse risultato
maggiore di quello effettivo, il prodotto sarebbe aumentato, l'economia si sarebbe
mossa su di un sentiero di crescita equilibrata più elevato, e il benessere
garantito sarebbe aumentato più velocemente del tasso tendenziale di progresso
tecnologico. Un eccesso di benessere effettivo sul benessere garantito avrebbe
manifestato, invece, la situazione è opposta.
Gli aggiustamenti del PIL proposti da Nordhaus e Tobin comportavano:
a) una riclassificazione dei conti nazionali delle spese finali, al fine di
ottenere un più comprensivo concetto di consumo ed un parziale
aggiustamento anche dei beni capitali;
b) l'imputazione del consumo prodotto da attività non di mercato (i servizi
prestati gratuitamente nell'ambito familiare, i servizi per i vantaggi che
derivano dal tempo libero, i servizi resi dal capitale di consumo);
c) la detrazione del valore delle disutilità esterne.
Le stime elaborate in base a questo metodo erano poi utilizzate per
aggiustare i conti nazionali.
Relazioni tra il benessere ed i conti estesi
Nei decenni successivi una contabilità estesa di questo tipo fu preparata
non soltanto per gli USA ma anche per molti Stati europei e per l’Australia;
tramite di essa si poté determinare che:
• il benessere (calcolato con la contabilità estesa) è correlato positivamente
con il PIL,
• il benessere deriva più dalle attività non di mercato che da quelle di
mercato,
• la parte di benessere che deriva dal tempo libero non è inferiore a quella
derivante dal reddito,
•
la produzione di beni e servizi all’interno della famiglia è responsabile, in
termini di benessere, di più di un quarto di quanto è imputabile al PIL.
Si noti come da questi risultati si possano trarre le due conclusioni di
fondo:
• gran parte del benessere non può essere fatto discendere da beni e
soprattutto da servizi associabili ad un prezzo,
• gran parte del benessere non è associabile con la produzione materiale.
Il benessere sostenibile
Uno dei punti cardine dell’estensione della contabilità nazionale riguardò
l’integrazione del capitale naturale19 nello SNA , ai fini di individuare il consumo
e la ricostituzione delle risorse naturali tali da essere compatibili con il
miglioramento della qualità della vita nel presente e nel futuro.
In effetti il concetto di consumo sostenibile ha un’origine lontana nel tempo
in quanto può essere fatto risalire a Hicks (1946), che lo definì come il massimo
consumo possibile che lasciava il consumatore “as well-off as before”. Nordhaus e
Tobin (1972) aggiunsero al consumo anche gli investimenti netti, definendo, e
tentando di stimare, il benessere (nella loro concezione) sostenibile, con
l’affermazione della necessità di tener conto dello sfruttamento delle risorse
naturali non rinnovabili.
Zolotas (1981) inserì lo sfruttamento delle risorse naturali e i costi ombra
per alcune poste negative in un gruppo di conti nazionali estesi per gli USA per
gli anni dal 1950 al 1975, costruendo in tal guisa un indice degli aspetti economici
del benessere (EAW). Trovò che questo indice aumentava più lentamente del PIL
e congetturò che ci sarebbe stato, nel futuro, un momento in cui un aumento del
PIL non avrebbe più prodotto benessere:
“beyond a certain point, economic growth may cease to promote
social welfare. In fact, it would appear that, when an industrial
society reaches an advanced state of affluence, the rate of increase
in social welfare drops below the rate of economic growth, and tends
ultimately to become negative.”
Il caso dell’Indonesia
Un caso esemplare di misurazione dello sfruttamento delle risorse naturali
fu studiato dal World Resources Institute, che calcolò, per il 1984, nella misura
del 17.3% del PIL l’impoverimento delle risorse naturali dell’Indonesia causato
dall’erosione del suolo, il disboscamento e l’estrazione del petrolio20. Sempre lo
stesso Istituto calcolò che dal 1971 al 1984 le tre forme di impoverimento avevano
causato, per l’Indonesia, una diminuzione annuale media del PIL pari al 9%.
El Serafy (1993) criticò il metodo di calcolo dell’impoverimento delle risorse
naturali usato dal WRI, in specie per quanto riguardava l’estrazione del petrolio:
“Since the resource stocks are normally much larger than annual
extraction, re-estimation of their size, as well as incorporation of
19
Il capitale naturale era considerato costituito da beni che possono essere ricondotti alle
seguenti tre principali categorie: 1) le risorse del sottosuolo; 2) gli ambienti fisici naturali; 3) gli
organismi viventi.
20 Si vedano Repetto, Magrath, Wells, Beer e Rossino (1989).
changes in their value…following price fluctuations, can dwarf the
adjustment specifically due to extraction.”
Così propose di sostituirlo con la determinazione del costo d’uso dello
sfruttamento delle risorse naturali, intendendo per costo d’uso quella porzione di
ritorni che si sarebbe avuta dalla vendita di risorse non rinnovabili, al netto dei
costi di estrazione, e che avrebbe dovuto essere reinvestita in altre attività al fine
di mantenere un equivalente flusso di reddito dopo che lo stock di risorse fosse
stato completamente sfruttato. Tale costo d’uso, come frazione dei suddetti
ritorni netti, è pari a 1/(1+r)n+1, dove r è il tasso d’interesse dell’investimento ed n
è il numero di anni della vita residua dello stock di risorse al tasso corrente di
estrazione. Le percentuali di diminuzione del PIL indonesiano calcolate con il
metodo del costo d’uso sono riportate nelle Tavola 1.
Anno
1975 (minimo)
1979 (massimo)
1971-84 (media
annua)
Deforesta- Erosione
Estrazione
Totale
zione
del suolo
del petrolio
-3.3
-1.1
-5.6
-10.1
-9.3
-0.7
-9.8
-19.8
-6.8
-7.8
-14.6
Fonti: Repetto et al. (1986) ed El Serafy (1993).
Tavola 1 – Aggiustamenti apportati da El Serafy (193) al calcolo
dell’impoverimento delle risorse naturali dell’Indonesia effettuato
dal World Resources Institute per il periodo 1971-1984; in % del
PIL.
La contabilità nazionale satellite
Nell’ultimo decennio sono state apportate significative revisioni alla
contabilità nazionale da parte sia dell’ONU che del Dipartimento del Commercio
USA, recependo alcuni suggerimenti fatti da diversi studiosi volti a collegare
l’accumulazione e il deprezzamento di alcune attività con i conti del reddito,
nonché l’attività economica con le risorse naturali ed ambientali. In particolare,
da un lato anche il deprezzamento delle attività fisse del “business” è stato
sottratto al PIL per dar luogo al prodotto netto, sebbene sia stata fatta la stessa
cosa con il deprezzamento delle attività fisse dello Stato e delle risorse naturali.
Dall’altro lato, sono stati aggiunti allo stock di capitale gli impianti e le
scorte posseduti dal “business”, mentre non lo sono stati l’edilizia statale e le
riserve minerali aggiuntive. Così il vecchio SNA è stato sostituito all’ONU dal
Sistema di conti ambientali ed economici, mentre il Bureau di Analisi Economica
(BEA) del Dipartimento del Commercio USA ha proposto di passare dalla
contabilità nazionale corrente agli Integrated Economic and Environmental
Satellite Accounts (IEESA) che presentavano due caratteristiche salienti: (i) il
trattamento delle risorse naturali ed ambientali come parte della ricchezza
nazionale, e (ii) la disaggregazione delle voci contabili in modo da sottolineare le
interazioni tra economia e ambiente naturale.
5.6 L’approccio “normativista”
Daly e Cobb (1989) estesero ulteriormente, rispetto allo schema dello
Zolotas, i conti nazionali inserendo un indicatore della distribuzione del reddito21,
e questo inserimento produsse una misura del benessere, l’Indice del benessere
economico sostenibile (ISEW) , ancora meno simile al PIL: tra il 1975 ed il 1990 il
reddito degli USA aumentò costantemente mentre l’ISEW diminuì di circa del
25%.
In effetti molti studiosi22 avevano da tempo indicato la necessità di
costruire una misura del benessere che tenesse conto non soltanto dei beni
economici ed ambientali ma anche di istanze sociali come la povertà e la
discriminazione, ma soltanto con l’ISEW si riuscì ad integrarli in un singolo
schema contabile e a misurare in termini di benessere ed in modo coerente gli
effetti dell’attività macroeconomica e della disuguaglianza sociale.
Questo indice fu calcolato per molti Paesi industrializzati e nella quasi
totalità dei casi si verificò un aumento dell’indice fino al 1970, seguito poi dalla
sua costanza o da una diminuzione.
La considerazione congiunta di poste di contabilità nazionale e di
indicatori sociali extracontabili fanno dell’ISEW una misura esplicitamente
normativa.
Il lavoro di Daly e Cobb
Per costruire l’indice, Daly e Cobb partirono dall’assunto che ciò che è
rilevante per il benessere economico è il flusso corrente di servizi per l’umanità e
non l’output corrente dei beni scambiati sui mercati. Perciò essi partirono dalla
spesa per consumi privati del BEA e quindi fecero una lunga serie di
aggiustamenti ai consumi determinati ufficialmente al fine di stimare il flusso
sostenibile di servizi utili.
Il primo aggiustamento, per la distribuzione del reddito23, derivò dal fatto
“that an additional thousand dollars in income adds more to the welfare of a poor
family than it does to a rich family”24. Così, più grande è il grado di
disuguaglianza dei redditi e minore è il flusso di benessere economico associato
ad un particolare flusso aggregato di servizi di consumo. Dopo aver aggiustato la
spesa per consumi del BEA per la disuguaglianza dei redditi, Daly e Cobb
tennero conto dei flussi di quattro servizi omessi dalla misurazione ufficiale dei
consumi derivati da: il lavoro domestico, lo stock di beni di consumo durevole, le
strade ed autostrade, e la spesa pubblica per la salute e l’istruzione. I due autori
21 Già Atkinson nel 1970 aveva iniziato a trattare il tema dell’influenza sul benessere della
disuguaglianza dei redditi.
22 Tra questi il Sen (1981,1992), che nel 1993, p.40, scrisse: “Economics is not solely concerned
with income and wealth but also with using those resources as means to significant ends,
including the promotion and enjoyment of long and worthwhile lives. If…the economic success of
a nation is judged only by income…, as it so often is , the important goal of well-being is missed”.
23 I due autori considerarono diversi indicatori di disuguaglianza dei redditi ma alla fine scelsero
un indice basato sulla quota parte di reddito pertinente al quintile più basso delle famiglie perché
quest’approccio “gives special weight to the plight of the poorest members of society, which fits
well with the theory of justice propounded by John Rawls” (Daly and Cobb, 1994, p.465).
24 Daly e Cobb (1994, p.445).
proseguirono poi la serie di passi di aggiustamento dalle spese per consumi
privati al benessere economico sostenibile con la deduzione delle spese correnti
per beni di consumo durevoli; essi cercarono anche di tener conto delle spese
personali di natura intermedia, non producenti benessere, deducendo i costi
derivati dagli incidenti d’auto e dal controllo dell’inquinamento, nonché le spese
private per l’istruzione e la sanità.
Un’altra deduzione dai consumi privati consistette nella stima dei costi
derivanti dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua, e acustico; per il 1990 questi
costi furono calcolati in 39 miliardi di dollari (del 1972), una cifra
sorprendetemente bassa che gli stessi autori definirono altamente inaffidabile.
Alla stessa stregua di Repetto, Magrath, Wells, Beer e Rossino (1989), i
due autori stimarono e sottrassero la perdita annua di servizi per la produzione
associati all’urbanizzazione di suoli agricoli Anche l’estrazione di greggio,
carbone, gas naturale e combustibile nucleare costituiva un impoverimento del
capitale naturale considerato nell’ISEW. A questo proposito i due autori
osservarono:
“depletion of nonrenewable resources…[is] a cost borne by future
generations that should be subtracted from (debited to) the capital
account of the present generation”.
Dopo aver dedotto varie forme di sfruttamento del capitale naturale, Daly
e Cobb cercarono di tener conto dei danni ambientali imposti alle generazioni
future a causa dell’attività economica passata. In particolare, la metodologia
dell’ISEW riconosceva che la combustione di combustibili fossili, la produzione di
energia nucleare e l’uso di gas CFC produceva l’accumulazione di inquinanti
persistenti nell’ambiente globale.
Sebbene sia corretto ritenere che il trasferimento di stock sempre maggiori
di materiali rischiosi alle generazioni future sia incoerente con lo sviluppo
sostenibile, il metodo di stima dei danni ambientali usato dai due studiosi
presenta numerosi difetti e deve essere notevolmente migliorato. Daly e Cobb
hanno trasformato i consumi calcolati dal BEA nell’ISEW per mezzo di venti
aggiustamenti, ma alla fin fine molti di questi sono troppo limitati per spiegare la
sempre crescente divergenza esistente tra il PIL pro capite e l’ISEW pro capite
che sembra esserci stata a partire dal 1970. Come mostrato nella Tavola 2, la
spesa per consumi privati negli USA è cresciuta di 928 miliardi di dollari tra il
1950 e il 1990 mentre l’ISEW è cresciuto di soli 438 miliardi. Quindi nel periodo
l’aggiustamento totale rispetto ai consumi del BEA è stato di –490 miliardi di
dollari, denotando andamenti marcatamente divergenti tra le misure dei consumi
ufficiali e del benessere sostenibile (secondo l’ISEW). Il 58% di questa divergenza
è però attribuibile ai danni ambientali, la cui misura è notevolmente
approssimata: l’ISEW fornisce un indicatore qualitativamente molto interessante
ma quantitativamente inaffidabile.
Anno
Consumo
calcolato
dal BEA
(1)
Aggiustamenti
totali al
consumo
(2)
ISEW
(1) + (2)
Danni
ambientali
nel lungo
periodo
1950
337.3
42.9
380.2
-85.1
1990
1265.6
-447.4
818.2
-370.6
Variazione
928.3
-490.3
438.0
-285.5
nel periodo
1950-1990
Tavola 2 – Componenti del divario tra il consumo ufficiale negli
USA calcolato dal BEA e l’ISEW; miliardi di $ a prezzi 1972.
Il “Genuine Progress Index”
Normativo è anche un indice che costituisce l’ultima versione dell’ISEW, il
Genuine Progress Index (GPI), calcolato, soltanto per gli USA, dal 1950 ad oggi.
Tiene conto di più di 20 aspetti della vita economica ignorati dal PIL, dei
contributi economici di svariati indicatori sociali ed ambientali, nonché della
distribuzione del reddito. Al PIL sono aggiunti il valore del tempo passato nei
lavori di casa e nel volontariato, nonché quello dei servizi dei beni di consumo
durevoli e delle strade. Sono sottratti: le spese indotte dalla criminalità, dagli
incidenti automobilistici e dalla polluzione; alcuni costi sociali come quelli
derivati dai divorzi e dalla perdita di tempo libero; il deprezzamento derivato
dallo sfruttamento dell’ambiente e delle risorse naturali.
Alle variabili che non sono valutate dal mercato è imputato un valore
monetario e questa imputazione è effettuata soggettivamente mentre le poste del
PIL sono definite e stimate oggettivamente. Non vi sono percezioni psicologiche
del benessere.
Per la sua costruzione, così, il GPI è omogeneo al PIL e può essere
utilizzato dai decisori politici per l’individuazione di alcuni problemi relativi alla
qualità della vita e per l’implementazione di manovre atte a risolverli.
6 GLI INDICATORI SOCIALI
6.1 Cenni storici
Nel 1930 un gruppo di studio degli USA costruì, a livello di contea, il
primo indice sociale, il Plane Living Index. Erano gli anni della grande
recessione, e gli studiosi stavano investigando sui problemi inerenti la mobilità
geografica della popolazione tra le diverse aree non urbane del Paese, in
relazione al loro reddito economico. Per giudicare il livello di vita delle singole
contee furono utilizzati tre indicatori, tutti espressi pro capite: l'entità
dell'imposta sul reddito, il numero dei telefoni e il numero di apparecchi radio.
Ogni variabile venne standardizzata con il corrispondente indice nazionale e
quindi aggregata con le altre mediante una media aritmetica semplice che formò
quindi l’indice sintetico.
Questa fu l’origine del movimento degli indicatori sociali”, come viene
spesso chiamato nella letteratura, il quale prese vita sempre negli USA intorno al
1965, per poi diffondersi fra tutti i Paesi maggiormente sviluppati. L’idea di base
del movimento fu che il benessere reale non poteva essere rappresentato
mediante le poste dello SNA ma doveva tener conto di beni relativi
all’alimentazione, all’abitazione, all’educazione, alla salute; e poi delle attese di
vita, della qualità dell’ambiente, della criminalità e della povertà. Le applicazioni
divennero sempre più numerose ed elaborate, e vennero evidenziati due dei
principali problemi metodologici connessi con gli indici: il significato e la
rappresentatività degli indicatori rispetto ai fenomeni reali che avrebbero dovuto
misurare e la difficoltà di elaborare una sintesi delle numerose serie di
osservazioni.
Uno dei primi contributi teorici tesi alla determinazione di un concetto
ampio di benessere fra quello dello statistico americano Davis, nel 1945, che
affermò che la qualità della vita era un concetto più ampio di quello legato al
consumo (che comunque deve comprendere non soltanto i consumi privati e quelli
pubblici, ma anche la fruizione dei beni non economici che la natura mette a
disposizione gratuitamente) e doveva quindi estendersi alle condizioni di lavoro,
al possesso di beni, alle libertà umane, civili, politiche, sindacali e di scelta.
L'importanza del contributo di Davis fu che influenzò in tal senso la ricerca
successiva sugli indicatori sociali anche se negli anni in cui egli scrisse era lecito
basare il livello della vita sui consumi, dato che la recessione prima e la guerra
poi avevano creato delle situazioni di vera povertà.
L'importanza degli indicatori sociali risiede anche nell’esigenza di fare
confronti internazionali tra i Paesi al fine di coordinare le rispettive politiche e
definire quelle in comune, nell'ambito di una sempre maggiore volontà, se non un
altro dichiarata, dei governi di cooperazione e di integrazione. Per questa ragione
la parte più significativa della ricerca relativa agli indicatori sociali si è svolta
nell'ambito degli organismi internazionali ed uno dei maggiori sforzi è stato
rivolto a costruire un sistema internazionale integrato di statistiche sociali,
coordinando a tal fine la raccolta di dati nei vari paesi.
Una distinzione molto generale può essere condotta tra gli indicatori
semplici e quelli sintetici. I primi sono delle semplici serie di dati, mentre i
secondi vengono costruiti tramite rielaborazioni più o meno complesse dei dati
iniziali. Nei metodi che verranno esposti di seguito si considererà soltanto il
secondo genere di indicatori
6.2 L’approccio della Adelman e della Morris
Nel 1971 le ricercatrici americane I. Adelman e C.T. Morris
effettuarono un’analisi statistica delle caratteristiche sociali, politiche ed
economiche di alcuni Paesi con differenti gradi di sviluppo. Esse utilizzarono
numerosi indici diretti ed indiretti dei fenomeni sociali ed economici di questi
Paesi al fine di misurare non tanto il loro grado di sviluppo socioeconomico
quanto il loro potenziale di sviluppo. Le due ricercatrici partirono dall’assunzione
del principio che le funzioni economiche utilizzate per analizzare le economie
avanzate nei Paesi in via di sviluppo possono prendere forme differenti perché
incorporano variabili politiche, sociali ed istituzionali.
Un'analisi quantitativa delle interazioni tra le influenze economiche ed
extraeconomiche dello sviluppo si presentava, tuttavia, alquanto complessa per la
mancanza di indicatori adeguati delle caratteristiche istituzionali dei Paesi. Dato
questo fatto, il lavoro delle due ricercatrici fu uno dei primi tentativi di superare
tale difficoltà definendo ed elaborando misure di dati qualitativi da includere
negli studi sullo sviluppo socioeconomico. Ciò avrebbe permesso la considerazione
sistematica di quelle forze sociali e politiche che sulla base di esperienze passate
apparivano rilevanti.
Nella fase preparatoria della costruzione degli indicatori qualitativi la
Adelman e la Morris partirono da definizioni aprioristiche, in base alle quali
poter graduare il fenomeno sociale osservato e individuare una o più variabili,
esprimibili quantitativamente, adeguate a rappresentarlo. In una seconda fase
procedettero ad analizzare i dati disponibili, in modo da verificare se la
situazione reale del Paese esaminato si adattava bene, in termini di misura, alla
formulazione del concetto definito a priori. L'eventuale inadeguatezza della
misura iniziale veniva poi usata per riformulare il concetto e misurare meglio le
caratteristiche della situazione reale.
Adelman e Morris continuarono in un processo di confronti successivi fino
a classificare “in via di sviluppo” 74 Paesi. L'analisi statistica si concentrò poi su
questo campione, trascurando i Paesi sviluppati perché le studiose volevano
analizzare il processo di transizione delle economie con un basso reddito dalla
fase di stagnazione economica a quella di crescita sostenuta. Per l'analisi
statistica utilizzarono variabili:
per le quali la classificazione si basava sulle caratteristiche pubblicate;
per le quali era necessario considerare elementi sia statistici che
qualitativi;
puramente qualitative.
In totale utilizzarono quarantuno variabili che in base alla natura del
fenomeno che esprimevano erano state divise in tre grandi categorie: socio
culturali, politiche, ed economiche. Esse sintetizzavano i principali aspetti delle
trasformazioni sociali, politiche ed economiche che generalmente sono associate
al processo di crescita di uno Stato moderno.
Le relazioni di interdipendenza tra le diverse tipologie di indicatori furono
individuate tramite l'analisi fattoriale. I risultati di questa analisi effettuata
sull’intero campione di PVS furono poi utilizzati per selezionare e riclassificare i
singoli Paesi in base a livello di sviluppo economico. In particolare fu possibile
ordinarli in tre gruppi: con un basso livello di sviluppo; con un livello intermedio;
con livello alto. Questa differenziazione nei tre gruppi era necessaria per tenere
in considerazione i problemi relativi alla misurazione e alla comparabilità delle
statistiche relative a Paesi con differenti livelli di sviluppo. Tale analisi delle
relazioni fra i vari cambiamenti sociali e politici ed il livello di sviluppo economico
fu, inoltre, effettuata sia per il breve che per il lungo periodo. Le differenze tra le
due analisi risiedettero principalmente nella scelta degli indicatori utilizzati.
Nell'analisi di lungo periodo l’analisi fattoriale fu applicata al reddito pro capite e
agli indici che rappresentavano la struttura sociale e politica dei 74 PVS nel
periodo 1957-1962. Le variabili puramente economiche (ad eccezione del reddito)
non furono considerate in quanto le studiose vollero focalizzare l'attenzione sulla
natura dell'interdipendenza tra estesi livelli di sviluppo e le trasformazione delle
istituzioni politiche e dei valori culturali associata ai processi di
industrializzazione e di urbanizzazione.
L'analisi di breve periodo della dinamica processo di sviluppo dei PVS fu,
invece, effettuata allo scopo di esaminare le relazioni esistenti tra il tasso di
crescita del PNL pro capite al 1963-64 ed alcuni indicatori della struttura
politica, sociale ed economica. Fra questi ultimi esse utilizzarono le misure del
grado di industrializzazione, del livello di sviluppo tecnologico, dell'efficienza dei
sistemi fiscali e finanziari, nonché indicatori dinamici dei recenti cambiamenti
nelle strutture e nelle istituzioni economiche.
6.3 L’Indice della qualità della vita fisica e l’Indice internazionale della
sofferenza umana
Negli anni ’70 il cosiddetto movimento per i bisogni di base determinò un
paniere di beni che nei PVS avrebbero dovuto essere considerati prioritari
rispetto allo sviluppo economico. Gli obiettivi del movimento per i bisogni di base
si scontrarono negli anni ’80 con le politiche di aggiustamento strutturale della
Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, orientate a sviluppare
economie di mercato nei PVS. Ma alla fine del decennio gli scarsi risultati di
queste politiche portarono l’ONU alla costruzione di un nuovo indice, l'Indice
dello sviluppo umano (HDI), formato dalla combinazione di due indicatori della
condizione sociale (dell’aspettativa di vita alla nascita e dell’istruzione posseduta)
con uno economico (il reddito pro capite). Analizzeremo questo indice, di grande
successo, nel prossimo capitolo.
Il PQLI
Nella stessa linea di pensiero del movimento per i bisogni di base, ma più
parsimoniosamente, Morris (1979), al fine di misurare il benessere con un solo
valore, costruì l’Indice della qualità della vita fisica (PQLI), formato dalla media
non ponderata di indicatori della mortalità infantile, dell’alfabetismo e
dell’aspettativa di vita all’età di un anno, misurati ciascuno mediante una scala
da zero (valore peggiore possibile) a cento (valore migliore possibile)25. L’indice
aveva pretese molto limitate, come lo stesso Morris (1979) aveva affermato: “[The
PQLI] has very limited objectives. It does not try to measure….freedom, justice,
security, or other intangible goods. It does, however, attempt to measure how
well societies satisfy certain life-serving social characteristics”.
Il PQLI non fornisce informazioni molto diverse da quelle fornite dal PIL
nel caso di Paesi opulenti, essendo molto alta la correlazione tra le due variabili.
Viceversa, nei Paesi con reddito medio-basso i punteggi del PQLI hanno un
andamento sostanzialmente diverso da quello del PIL.
L’HSI
Uno sforzo più ambizioso di misurare il benessere è fatto dall’Indice
di sofferenza umana (HSI), pubblicato originariamente dal Population Crisis
Committee (1987). Esso usa i dieci indicatori listati nella Tavola 3 per misurare le
dimensioni del benessere sociale, ciascuno valutato su di una scala da zero (il
valore più favorevole) a dieci (il meno favorevole). L’indice sintetico è ottenuto con
una semplice addizione dei dieci valori.
· Aspettativa di vita
· Calorie fornite giornalmente
· Accesso ad acqua potabile pulita
· Immunizazione infantile
· Iscrizione alla scuola secondaria
· PIL pro capite
· Tasso d’inflazione
· Telefoni
· Libertà politica
· Diritti civili
(anni)
(pro capite)
(%)
(%)
(%)
($)
(% annuo)
(numero pro capite)
(0-10)
(0-10)
Fonte: Population Crisis Committee (1992).
Tavola 3 – Indicatori componenti l’Indice di sofferenza umana.
La procedura di costruzione dello HSI è molto semplice ma anche
grossolana. In primo luogo i dieci indicatori sono stati prescelti senza una ragione
teorica nota e con forti sovrapposizioni; ad esempio l’acqua potabile induce buona
salute che a sua volta induce alte attese di vita. In secondo luogo, forti dubbi
emergono sulla maniera di misurare le libertà politiche ed i diritti civili; in terzo,
25
La scala dell’alfabetizzazione varia dallo 0 al 100% della popolazione di 15 anni ed oltre che è
alfabetizzata. La scala della mortalità infantile varia da 229 morti (0%) a 7 morti (100%) per 1000
nati vivi. La scala dell’aspettativa di vita si estende dai 38 (0%) ai 77 anni (100%). Si veda Morris
(1979, p.41-44).
il significato dell’inflazione in termini di benessere è ambiguo; un’alta inflazione è
giudicata negativamente per lo sviluppo economico da molti studiosi; ma se
ridistribuisce la ricchezza reale dai ricchi ai poveri, è desiderabile o no? In quarto
luogo, la scala di valutazione di alcuni indicatori componenti è del tutto
incomprensibile ed arbitraria. E così via.
7 GLI ORGANISMI INTERNAZIONALI
7.1 Gli indicatori sociali della Banca mondiale
Fin dal 1978 la Banca mondiale ha raccolto dati aggregati utili ai Paesi in
via di sviluppo a misurare la crescita economica ed il livello di povertà26,
pubblicandoli annualmente nel suo “World Development Report”. In seguito, nei
primi anni ottanta, la Banca mondiale raffinò le sue pubblicazioni individuando
una serie di indicatori27 dello sviluppo di base: popolazione, area, PIL pro capite,
aspettative di vita, tasso di analfabetismo degli adulti, tasso di inflazione.
In effetti la Banca mondiale si era resa conto che lo sviluppo economico è
un fenomeno composto da molti aspetti e che il solo livello del PIL è un indicatore
inadeguato a denotare il livello di sviluppo o di povertà di un Paese. Nella Tavola
4 sono riportati il PIL pro capite, le aspettative di vita ed il tasso di
analfabetismo degli adulti per cinque PVS e si può notare che tre di essi, l’India,
il Kenya ed il Mali, hanno lo stesso PIL pro capite ma differiscono notevolmente
negli altri due indicatori, denotando così livelli di sviluppo molto differenti. Il PIL
non può essere considerato un buon indicatore dello sviluppo, sebbene la Banca
mondiale abbia difficoltà ad operare con classificazioni dei Paesi diverse da
quella che fa uso del solo PIL: “the main criterion used to classify economies and
broadly distinguish different stages of economic development is GNP per capita"
(World Bank, 1994, p.157).
Paese
PIL pro capite in
$ (al tasso di
cambio ufficiale)
India
Kenya
Mali
Nicaragua
Nigeria
310
310
310
340
320
Aspettativa di
vita in anni
Tasso di
analfabetismo
adulto in %
61
59
48
67
52
52
31
68
35
49
Fonte: World Bank(1994, p.162)
Tavola 4 – Indicatori di base della Banca mondiale per alcuni
Paesi a basso reddito.
26
27
Si veda World Bank (1978).
Si veda World Bank (1995).
7.2 Gli indicatori sociali nell’ambito delle Nazioni Unite
Dall'epoca della sua fondazione, l'ONU si è preoccupata delle questioni
riguardanti lo sviluppo, la qualità della vita ed altri aspetti della condizione
umana, conformemente alle finalità, enunciate nell'articolo 55 della sua Carta, di
favorire l'innalzamento del tenore di vita, il pieno impiego e le condizioni di
progresso e di sviluppo nel sistema economico e sociale dei Paesi aderenti. Queste
preoccupazioni si sono manifestate per molto tempo nei lavori e nei progetti di
studio dell'organizzazione. Gli sviluppi ed i risultati di questi lavori, in
particolare di quelli relativi alle tematiche sociali e demografiche, si sono riflessi
nell'opera svolta dall'Ufficio Statistico delle Nazioni Unite, l'UNSO.
Nell'ambito delle finalità sopra riportate, nel 1954 venne pubblicato un
documento redatto da un gruppo di esperti, il “Rapporto sulla definizione e la
valutazione dei tenori di vita dal punto di vista internazionale”, seguito nel 1961
da
una
“guida
provvisoria”
elaborata
dall'UNSO
congiuntamente
all'Organizzazione per l'Alimentazione e l'Agricoltura, l'Organizzazione
internazionale per il lavoro, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per
l'Educazione, la Scienza e la Cultura e l'Organizzazione mondiale della sanità.
Nel 1966 venne appositamente costituita una commissione di esperti per
gli indicatori sociali che nel 1969 presentò il suo primo lavoro, dal titolo “Toward
a Social Report” pubblicato dal Dipartimento Americano della Salute, Istruzione e
Benessere. Tale lavoro ha rappresentato un primo tentativo per la costruzione di
un sistema integrato di conti sociali, identificandosi in esso le sette componenti
del benessere sociale indicate nella Tavola 5.
- la salute e le malattie
- la mobilità sociale
- l’ambiente fisico
- l'apprendimento delle scienze e delle arti
- l'istruzione
- la sicurezza sociale
- la partecipazione alla vita politica
Tavola 5 – Aree componenti il well-being per le Nazioni Unite.
Ciascuna componente è stata anche correlata al PIL e i risultati hanno
messo in luce l'esistenza di una relazione positiva tra il PIL e la salute, la
mobilità sociale, l'apprendimento delle scienze e delle arti, nonché la riduzione
della povertà, mentre hanno indicato una relazione negativa tra il PIL e
l'ambiente fisico. Per le restanti componenti la loro relazione con il PIL è incerta.
E’ interessante notare che generalmente, nell'accezione degli studiosi delle
Nazioni Unite, gli indicatori sociali hanno una finalità essenzialmente descrittiva
e, al contrario dell'accezione dei ricercatori dell’OCSE, non implicano giudizi di
valore.
Indicateurs sociaux: guide preliminaire
Nel 1975 venne pubblicato dall'UNSO il rapporto “Towards a System of
Social and Demographic Statistics”, che nasceva come aggiornamento alla data
della sua pubblicazione dello stato degli studi tecnici finalizzati alla elaborazione
di un sistema integrato di statistiche demografiche e sociali.
Quindi nel 1978, sempre seguendo una concezione non ristretta degli
indicatori sociali e dei loro scopi, l'UNSO pubblicò un lavoro nel quale si
sviluppava una struttura operativa tesa alla loro definizione: “Indicateurs
sociaux: guide preliminaire et series illustratives”. Questa guida passava in
rassegna tutti gli usi e le concezioni degli indicatori sociali esistenti all'epoca,
dando particolare importanza alle misure delle condizioni di vita e
all'individuazione dei fattori economici e sociali che l'influenzavano. Uno dei
principi base della guida era quello di collegare lo sviluppo degli indicatori sociali
al progetto di integrazione delle statistiche demografiche e sociali esposto nel
rapporto “Towards a System of Social and Demographic Statistics” sopra
indicato. In quanto all'individuazione delle singole aree sociali, nella guida essa
venne effettuata ponendo a confronto il lavoro di ricerca svolto da quattro
organizzazioni internazionali: le Nazioni Unite, il Consiglio per la Mutua
Assistenza Economica (CMEA), l'OCSE e la CEE. Le aree di interesse suggerite
da ognuna di esse si riferivano, tranne alcune eccezioni, alle più importanti
componenti del benessere socioeconomico. Non furono prese in considerazione da
alcuna organizzazione le aree della libertà e della insoddisfacente condizione
sociale; l'OCSE si distinse perché incluse gli aspetti della partecipazione politica
ed escluse quelli relativi alla consistenza e alla distribuzione della popolazione e
quelli relativi alla struttura familiare. Nel programma dell'ONU non venne
considerata l'analisi ambientale perché era già stata ampiamente trattata in due
lavori precedenti: il “Sistema per lo sviluppo delle statistiche per l'ambiente” ed
un rapporto tecnico sui “Concetti e Metodi di statistiche ambientali”.
Il manuale degli indicatori sociali
Nel 1989 l'ONU pubblicò il “Manuel des Indicatateurs Sociaux”, nel
tentativo di armonizzare le esperienze acquisite negli ultimi dieci anni e di
soddisfare ad alcune delle esigenze apparse nel frattempo. Nel manuale furono
conservate le premesse fondamentali della guida preliminare ed un accento
particolare fu posto sulla misura del tenore di vita e sulle circostanze che
l'influenzavano. Lo specifico obiettivo del manuale era quello di offrire un sistema
teorico e pratico che potesse servire ai diversi Paesi membri e alle Organizzazioni
Internazionali alla messa a punto di indicatori sociali. Esso evidenziava anche
importanza e l'utilità di indicatori relativi a gruppi particolari della popolazione,
quali ad esempio le donne, i bambini, le persone anziane, quelle portatrici di
handicap nonché la popolazione rurale. Il tentativo del manuale di soddisfare ad
esigenze di coerenza e di omogeneità nel vocabolario e nelle metodologie adottate
tendeva a favorire i confronti tra i Paesi e lo sviluppo a livello internazionale di
programmi interdisciplinari relativi al tenore di vita e allo sviluppo
socioeconomico. Le aree di interesse considerate nel manuale furono concepite in
modo da riflettere le tensioni ed i problemi sociali posti all’attenzione dei governi
dagli analisti. Esse sono analoghe a quelle riportate nella prima “Liste de
preoccupatios sociales” dell’OCSE, del 1973, imperniate in particolare sugli
aspetti fondamentali e collaterali del benessere.
7.3 Lo Human Development Index
Si è detto che alla fine degli anni ottanta l’insoddisfazione per i
programmi di aggiustamento strutturale della Banca mondiale e del Fondo
Monetario Internazionale indusse l'’ONU a sviluppare un nuovo indicatore
sociale, lo Human Development Index (HDI), derivante dalla composizione di tre
soli attributi, il reddito pro capite, le aspettative di vita alla nascita ed un
indicatore dell’istruzione. Lo HDI fu sviluppato alla fine degli anni ottanta da
una componente delle Nazioni Unite, lo United Nations Development Programme
(UNDP), sotto la guida di un gruppo di consulenti esterni formato da G. Ranis, A.
Sen, K. Griffin, M. Desai e P. Streeten (UNDP,1990, p.iv). L’indice fu creato sulla
seguente base, nella quale si rivela l’influsso del pensiero del Sen: “The basic
objective of development is to create an enabling environment for people to enjoy
long, healthy, and creative lives…Human development is a process of enlarging
people’s choices…[At] all levels of development, the three essential ones are for
people to lead a long and healthy life, to acquire knowledge and to have access to
resources needed for a decent standard of living”(UNDP, 1990, p.9-10).
Ancora l’influenza del Sen è rivelata nel considerare l’aumento della
ricchezza come un mezzo e non come un fine nella promozione dei due aspetti
dello sviluppo umano:
“the formation of human capabilities – such as improved health,
knowledge and skills – and the use people make of their acquired
capabilities – for leisure, productive purposes or being active in
cultural, social and political affairs” (UNDP, 1990, p.10).
In quanto al calcolo analitico dell’indice, notiamo innanzitutto che, poiché
l’UNDP sa che generalmente i redditi bassi soddisfano essenzialmente ai bisogni
di base mentre quelli alti sono utilizzati anche per il tempo libero e bisogni non
strettamente necessari, nell’HDI il reddito pro capite subisce una trasformazione
non lineare per tener conto del contributo decrescente del reddito allo sviluppo
umano. Così, fin dal 1991, l’UNDP inserisce nel suo HDI di un dato Paese un
valore del reddito trasformato mediante la formula
W ( y ) = y 1−ε /(1 − ε )
dove
e con
y = reddito pro capite del Paese
ε = α/(α+1)
con α numero intero nonnegativo
αy° ≤ y ≤ (α+1)y°
dove y° è il reddito pro capite complessivo di tutti i Paesi. Se
y ≤ y°
si pone ε = 0 e W(y) = y.
Ciascuno dei tre attributi dell’HDI (il reddito pro capite trasformato,
le aspettative di vita alla nascita e l’indicatore dell’istruzione), per ogni Paese i, è
trasformato in modo da fornire un indicatore parziale
I ij = ( x i − xij ) /( x i − x i )
dove x ij è l’attributo i = 1,2,3, del Paese j,
x i = valore massimo dell’attributo i,
x i = valore minimo dell’attributo i.
I valori massimi e minimi utilizzati per i tre attributi dal 1995 in poi sono
riportati nella Tavola 6.
Attributo
Accesso all’istruzione:
• Alfabetizzazione adulta (peso di 2/3)
• Rapporto d’iscrizione scolastica combinata (peso
di 1/3)
Aspettativa di vita alla nascita
PIL pro capite
Valore
Valore
massimo minimo
100%
100%
0%
0%
85 anni
$ 40 000
25 anni
$ 200
Fonte: UN (1995, p.134)
Tavola 6 – Valori massimi e minimi degli attributi componenti
l’HDI.
Nonostante il suo vasto uso, l’HDI ha molti difetti. In primo luogo è
funzione di tre soli attributi, che quindi non sembrano sufficienti a rappresentare
compiutamente la condizione umana di un Paese. In secondo luogo questi
attributi, sia pur normalizzati, costituiscono l’indice mediante una semplice
media aritmetica, cioè considerandoli tutti e tre della stessa importanza. E’ poi
un indice con scarso potere discriminante tra i Paesi, come viene mostrato
indicativamente nella Tavola 7, dove i primi 10 Paesi nell’ordinamento del 1995
posseggono valori molto simili tra di loro. Altri difetti saranno illustrati in
seguito.
7.4 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’OCSE
A partire dal 1960 e fino all'inizio degli anni settanta l'espansione
economica è stata molto sostenuta nella maggior parte dei Paesi dell'OCSE.
Durante questi anni il tenore di vita dei Paesi membri è migliorato, ma
nonostante questo la qualità della vita ha cominciato a farsi sentire come un
problema non trascurabile e questa preoccupazione si è acuita durante la
recessione del 1973-74. La crescita economica nella considerazione generale è
continuata ad essere perseguita ma si è cominciato a riflettere sui suoi aspetti
qualitativi e sui suoi effetti collaterali nocivi per la società nel suo insieme.
L'aumentata sensibilità per le questioni riguardanti il benessere sociale, inteso in
senso lato, ha suscitato negli studiosi e negli uomini politici forte interesse per i
metodi adeguati a misurare le conseguenze del funzionamento del sistema
socioeconomico sul benessere.
Paese
Aspettativa
di vita
(anni)
Canada
USA
Giappone
Paesi Bassi
Finlandia
Islanda
Norvegia
Francia
Spagna
Svezia
77.4
76.0
79.5
77.4
75.7
78.2
76.9
76.9
77.6
78.2
Alfabetizza- Rapporto
zione adulta d’iscrizione
scolastica
(%)
(%)
99
100
99
95
99
77
99
88
99
96
99
81
99
88
99
86
98
86
99
78
Valore
PIL pro
dell’HDI
capite
trasformato
($)
5359
0.950
5374
0.937
5359
0.937
5343
0.936
5337
0.934
5343
0.933
5345
0.932
5347
0.930
5307
0.930
5344
0.929
Fonte: UN (1995, p.155)
Tavola 7 – Valori dell’HDI per i primi 10 Paesi; anno 1992.
In questa atmosfera l'OCSE lanciò un programma di elaborazione di
indicatori sociali, inserendosi nelle numerose attività analoghe svolte a livello
nazionale ed internazionale e proponendosi come riferimento principale per
l'attività di ricerca. Il punto di partenza degli studi fu una dichiarazione del 1970
nella quale fra l'altro si affermava che la crescita economica non doveva essere
considerata come fine ultimo ma piuttosto come un mezzo per creare condizioni di
vita migliori; era necessario prestare maggiore attenzione agli aspetti qualitativi
della crescita; nella formulazione delle decisioni politiche era inoltre necessario
analizzare attentamente quelle scelte economiche e sociali che implicavano
l'allocazione di risorse crescenti.
Il concetto di benessere nell'approccio dell'OCSE
La teoria del benessere e quella della scelta sociale, e in particolare il
problema dei confronti interpersonali di benessere, esulavano dal programma di
studi affrontato dagli specialisti dell'OCSE. Nel contesto di questo programma il
termine di benessere sociale era impiegato, in forma molto ristretta,
semplicemente per indicare il benessere globale degli individui e non come
concetto nel quale fosse insita una considerazione delle strutture istituzionali
della società; queste non venivano contemplate nella individuazione delle aree di
interesse e nella specificazione dei relativi indicatori sociali. Le istituzioni, così
come il sistema politico, l'economia, la struttura della famiglia e il sistema di
educazione, concorrevano all'elaborazione degli indicatori solo in quanto
influenzavano il benessere degli individui e non in quanto componenti di un loro
benessere globale.
D’altro canto, anche se non detto espressamente, dal lavoro dell'OCSE si
poteva estrapolare una nozione di benessere inteso come capacità di scelta per le
preferenze legittime, secondo la definizione del Sen.
Il programma dell'OCSE di elaborazione degli indicatori sociali
L’OCSE, di concerto con i Paesi membri, definì una procedura molto
pragmatica per elaborare un progetto sistematico di miglioramento della
costruzione degli indicatori sociali, fino ad allora ritenuti inadeguati e parziali.
La strategia di fondo fu stabilita organizzando gli studi in due fasi: nella prima
sarebbero state individuate le preoccupazioni sociali da analizzare; nella seconda
sarebbero stati elaborati gli indicatori corrispondenti.
Nella prima fase il risultato fondamentale di un gruppo di lavoro costituito
appositamente fu una lista nella quale venivano individuate 24 preoccupazioni
sociali comuni alla maggior parte dei Paesi membri. Questa lista fu approvata
dal consiglio dell'OCSE come base per la seconda fase del programma e fu
pubblicata nel 1973. In seguito, alcune delle aree precedentemente individuate
furono modificate e ridefinite, e in una pubblicazione del 1976 furono stabilite le
preoccupazioni sociali fondamentali riportate nella Tavola 8.
1)
2)
3)
4)
5)
6)
7)
8)
9)
10)
Salute
Evolversi della personalità per l'acquisizione delle conoscenze
Occupazione e qualità del lavoro
Impiego del tempo libero
Situazione economica personale
Ambiente fisico
Ambiente sociale
Sicurezza personale ed amministrazione della giustizia
Occasioni sociali e partecipazione alla vita pubblica
Accessibilità (fisica, istituzionale, economica, ecc.)
Tavola 8 – Preoccupazioni sociali di base definite dall’OCSE nel
1976.
È importante notare come fra le questioni sollevate ma non risolte durante
la prima fase del programma figuri un problema di natura generale: la
definizione degli elementi soggettivi. La percezione, infatti, che gli individui e
particolari gruppi della popolazione hanno del loro benessere è una componente
necessaria ed importante di un programma di indicatori sociali; questo tipo di
informazioni consente una rappresentazione più accurata della realtà sociale e di
conseguenza una descrizione più veritiera della stessa. Senza il genere di
informazioni di questo tipo nella formulazione degli obiettivi alcuni elementi di
fondo potrebbero invece essere trascurati perché fallacemento ritenuti non
significativi.
L'obiettivo centrale della seconda fase del programma fu espressamente
definito nei seguenti treaspetti: 1) mettere a punto le specificazione applicabile
ad una serie di indicatori sociali esplicitamente destinati a mettere in evidenza,
in maniera valida, il livello di benessere relativo a ciascuna preoccupazione
sociale indicata nella lista; 2) cercare un accordo comune tra i Paesi membri per
formulare una classificazione esauriente delle aree di interesse; 3) seguire nel
tempo l'evoluzione dei livelli di benessere espressi dagli indicatori.
Nel 1976 i risultati di questa seconda fase furono raccolti dall'OCSE in una
pubblicazione dal titolo: Misura del benessere sociale. I progressi compiuti
nell'elaborazione degli indicatori sociali.
Analogamente alla prima fase, anche la seconda non fu concepita per
ottenere dei risultati definitivi, ma per elaborare i principi fondamentali utili
all'elaborazione degli indicatori.
Direttamente collegato alle conclusioni di questo lavoro, nel 1982 venne
pubblicato un ulteriore rapporto dal titolo: ”The OECD List of Social Indicators”.
La lista delle preoccupazioni sociali fu in esso ulteriormente modificata e
ridefinita, omettendo ad esempio l’”accessibilità” e l’”amministrazione della
giustizia” e fornendo una definizione più concreta delle altre aree. In generale il
rapporto del 1982 rispecchiò un maggiore livello di maturità e di consenso, sia
rispetto alle finalità degli indicatori sociali, sia rispetto alle loro relazioni con i
sistemi ufficiali di dati di allora.
7.5 I criteri di selezione dei requisiti degli indicatori sociali dell’OCSE
I principi ispiratori, sia teorici che metodologici, rappresentano delle
costanti di fondo dell'intero programma dell'OCSE. Evidenziamo pertanto alcuni
dei requisiti fondamentali che devono essere soddisfatti dagli indicatori elaborati.
1. La validità
Un indicatore sociale deve essere costituito da una misura diretta e valida
che permetta di osservare il livello di una preoccupazione sociale e le sue
variazioni nel tempo. Ad esempio il numero di anni trascorsi a tempo pieno da un
individuo all'interno del sistema educativo non è una misura valida dell'evolversi
della personalità per l’acquisizione di conoscenze. L'indicatore deve riflettere il
più esattamente possibile la preoccupazione sociale così come essa viene
percepita e di conseguenza le sue variazioni devono riflettere il grado in cui le
esigenze nascenti da questa preoccupazione si sono attenuate o acuite. In altre
parole nell'accezione dell'OCSE un indicatore esprime implicitamente un giudizio
di valore in quanto a sue variazioni corrispondono variazioni della componente di
benessere considerate, fermi restando gli altri elementi.
La “validità” è ritenuta criterio fondamentale, ed in esso è riflessa anche la
posizione teorica dell'approccio dell'OCSE.
2. La possibilità di aggregazione
Un indicatore sociale può essere molto utile per esporre una sintesi
descrittiva della condizione umana, per effettuare confronti globali tra diversi
Paesi ed anche per seguire la dinamica generale di una situazione nel tempo. In
tutti questi casi, quando la finalità perseguita non è strettamente analitica, può
essere desiderabile riuscire a formulare un'espressione sintetica che consenta di
riassumere l’informazione.
Tramite questa procedura, portata all'estremo, si potrebbe arrivare a
definire un unico indicatore del benessere sociale, e il suo potere di sintesi
descrittiva sarebbe analogo a quello del PIL quando viene utilizzato come
indicatore dello stato dell'economia nazionale. Questo metodo, tuttavia, viene
generalmente escluso a priori per vari motivi, i principali dei quali sono:
•
Si ritiene che se anche fosse possibile definire un indicatore globale
del benessere sociale, esso non fornirebbe alcuna informazione
concreta e sarebbe inutilizzabile ai fini normativi.
• L’aggregazione di un indicatore espresso in unità differenti
richiederebbe una procedura esplicita di ponderazione. Oltre alla
difficoltà di individuare un criterio per la specificazione dei pesi da
utilizzare, l'intelligibilità dell'indicatore composto potrebbe
risentirne a causa della commistione di componenti diversi, sia da
un punto di vista sostanziale che da uno metodologico.
• Le variazioni di un indicatore globale sarebbero non significative
relativamente alla dinamica interna delle diverse componenti del
benessere e alle loro reciproche interazioni..
3. La possibilità di disaggregazione
Si distinguono normalmente tre differenti finalità in funzione delle quali la
possibilità di disaggregare le serie dei dati è ritenuta fondamentale. Le
descriviamo di seguito.
Prima finalità: considerazioni normative.
La disaggregazione dei dati nasce spesso da esigenze morali, etiche o legali
che esigono una qualche valutazione dell'equità caratterizzante la distribuzione
dei beni e servizi, dei diritti e delle responsabilità. Sono considerazioni normative
quelle che spingono a disaggregare gli indicatori per età e per sesso, per
appartenenza etnica o razziale oppure per nazionalità. Ad esempio la povertà,
l'ignoranza, le cattive condizioni di alloggio sono delle preoccupazioni sociali per
ognuna delle quali viene specificato un indicatore. Ma se questi problemi
affliggono soprattutto una parte della popolazione, ad esempio un gruppo razziale
oppure la popolazione rurale, allora la situazione è più grave e la stessa disparità
di condizioni costituisce una preoccupazione sociale da considerare a sé.
Seconda finalità: considerazioni analitiche
Le variazioni di un indicatore esprimono variazioni del benessere ma non
le sue cause. Ma la disaggregazione dei dati facilita l'individuazione di alcune
variabili esplicative, che sono il risultato di una costruzione sistematica che
deriva da un esplicito modello concettuale in grado di interpretare il processo
sociale considerato, evidenziandone i fattori causanti e le varie interazioni. In
realtà questi modelli sono spesso inadeguati a causa della differenza fra i concetti
sui quali si basa l'elaborazione teorica e i fenomeni che vengono concretamente
misurati. In altre parole non è sempre possibile ottenere indicatori “validi”
secondo l'accezione considerata in precedenza. Gli indicatori sociali non possono
quindi risolvere i numerosi problemi teorici e tecnici legati alla costruzione di
modelli esplicativi per i fenomeni sociali; ma possono però contribuire a costruire
dei modelli più utili dal punto di vista operativo.
Terza finalità: considerazioni dinamiche
Questa finalità è strettamente legata alle prime due e si riferisce
fondamentalmente alla necessità di controllare nel tempo l'andamento dei vari
fenomeni sociali. In particolare, sono necessari degli indicatori che consentano di
valutare le conseguenze di particolari programmi controllandone l’efficacia. I
programmi ai quali ci si riferisce sono soprattutto quelli dedicati a specifici
gruppi di popolazione, considerati favoriti in termini di condizioni di benessere.
7.6 Gli indicatori sociali nell’ambito dell’Unione Europea
Molti articoli nei Trattati di Parigi e di Roma sono dedicati ai problemi
sociali e all'impegno rivolto alla loro soluzione da parte della Comunità Europea e
delle sue istituzioni specializzate. Conformemente allo spirito di questi articoli,
nel 1974 il Consiglio Europeo adottò con una risoluzione il “Programma di Azione
Sociale” presentatogli dalla Commissione. Uno degli obiettivi del Programma
consisteva nello sviluppare degli indicatori sociali in grado di fornire una
rappresentazione adeguata della situazione sociale. Nell'ambito dell'Istituto
Statistico della Comunità Europea (EUROSTAT) si costituì a questo scopo un
gruppo di lavoro che si avvalse del contributo di altri gruppi della Commissione e
delle varie pubblicazioni in materia a livello internazionale. Nel 1977
l'EUROSTAT pubblicò un primo lavoro sugli indicatori sociali la cui finalità
principale consisteva nel rendere possibili i confronti fra le situazioni sociali dei
diversi Paesi membri e tra i loro sviluppi nel tempo. L'importanza di questi
confronti veniva interpretata “...... sia come mezzo per incoraggiare la progressiva
convergenza delle condizioni sociali all'interno della Comunità, sia come
strumento essenziale per prendere decisioni relative agli obiettivi comuni in
campo sociale”. Una seconda finalità attribuita agli indicatori sociali consistenza
nello svolgere una funzione divulgativa.
Nel lavoro del 1977 venne proposta una classificazione degli elementi
caratterizzanti la situazione sociale. Vennero individuate varie aree di interesse
per descrivere la situazione più in dettaglio, evidenziandone gli aspetti
considerati più interessanti. È importante notare come ognuna di esse non
rappresentava componenti del benessere sociale, e neppure nel loro insieme
costituivano una classificazione esaustiva delle preoccupazioni sociali come
invece era nelle intenzioni dei lavori dell'ONU.
Le serie dei dati nella prima pubblicazione dell'EUROSTAT in materia di
indicatori sociali vennero classificate secondo gli “interessi” riportati nella Tavola
9.
1)
Demografia
2)
Occupazione
3)
Condizioni di lavoro
4)
Tenore di vita
5)
Protezione sociale
6)
Sanità
7)
Educazione
8)
Abitazione
Tavola 9 – Interessi di base da rappresentare tramite indicatori
sociali secondo l’EUROSTAT, 1977.
Gli indicatori relativi ad ogni area avevano per lo più la forma di serie
storiche dalle quali venivano ricavati alcuni rapporti significativi e le serie di
numeri indice. Le serie, infatti, riflettevano per lo più fenomeni economici che si
supponevano essere direttamente correlati con il fenomeno che si voleva
descrivere. Ad esempio il tenore di vita veniva misurato dal PIL, dal reddito
nazionale disponibile e da vari aspetti relativi alla composizione dei consumi.
Riguardo all'educazione invece, venivano considerate significative le serie
relative alle spese delle amministrazioni pubbliche per l'istruzione.
Rimanendo in linea con l'impostazione iniziale, nel 1984 l’EUROSTAT
presentò un’ulteriore pubblicazione (la terza in materia di indicatori sociali) nella
quale le serie storiche venivano classificate in modo differente. La differenza non
derivava da una mutata concezione delle aree di interesse o da una loro
ridefinizione; più semplicemente in quel momento si riteneva opportuno mettere
in evidenza quei particolari aspetti della situazione sociale, ed è per questo
motivo che il numero delle aree di interesse veniva ridotto. Si riporta nella
Tavola 10 la lista dei fenomeni sociali descritti nel lavoro del 1984.
1)
disoccupazione
2)
condizioni di lavoro
3)
tendenza dell'occupazione nelle industrie manifatturiere
4)
posizione alle donne nella Comunità
Tavola 10 – Fenomeni sociali da rappresentare tramite indicatori
sociali secondo l’EUROSTAT, 1984.
Inoltre si illustrarono alcuni indicatori sintetici ottenuti
rielaborazioni elementari dei dati e relativi ad interessi generali.
tramite
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