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Introduzione
All’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World
Trade Center e il Pentagono, un’immensa ondata d’emozione ha attraversato il mondo. In Francia, per parlare del mio paese, Jean-Marie
Colombani titola, sulla prima pagina di “Le Monde” (13 settembre),
Siamo tutti americani, mentre un sondaggio ipsos-Le Point-bfm rivela
che il 70 per cento dei francesi intervistati approva «l’atteggiamento di
George Bush dopo gli attentati dell’11 settembre» 1. Il 19 settembre 2001,
Jacques Chirac depone un fascio di fiori a New York in Union Square,
come tributo simbolico alle vittime. Reca l’omaggio dei francesi, «terribilmente scioccati e scossi per l’accaduto». Il presidente della Repubblica è allora il primo capo di Stato straniero a incontrare George W.
Bush jr. dopo gli attentati. Nelle due settimane subito dopo il fatidico
giorno, al Memoriale per la pace di Caen, il più importante luogo di
commemorazione delle battaglie combattute per la liberazione della
Francia nel 1944-45, arrivano ottomila lettere di solidarietà. Le immagini shock dello skyline newyorchese invaso dal fumo nero hanno risvegliato in una generazione di francesi il ricordo del sacrificio dei gi 2 sulle
spiagge della Normandia. Nei giorni difficili, i due popoli si ritrovano
in una medesima comunità di valori.
Tre anni dopo, questa simpatia e questa solidarietà senza (quasi)
ombre che fine hanno fatto? A nove francesi su dieci, la Casa Bianca ormai ispira una diffidenza palese, e altrettanto avviene in molti paesi europei. Con una conversione a 180 gradi, Jean-Marie Colombani titola
ormai Siamo tutti non-americani? (“Le Monde” del 15 maggio 2004).
Nel frattempo, è stato passato il Rubicone. La seconda guerra contro
l’Iraq (2003), perpetrata su ordine della Casa Bianca malgrado il parere
maggioritario del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha dato la
sensazione che in America sia accaduto «qualcosa d’irreversibile» (Luizard, 2004, p, 382). I dieci milioni di manifestanti che nei cinque continenti hanno marciato in favore di una soluzione pacifica, il 15 febbraio
2003, non hanno piegato il corso della storia. Contro il parere della
maggioranza degli Stati del pianeta, sulla base di tesi sostenute da falsi
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dio benedica l’america
grossolani 3, lo Zio Sam ha invaso uno Stato sovrano, ne ha distrutto le
infrastrutture amministrative, ha privatizzato l’economia e instaurato
un regime d’occupazione militare, il tutto in nome della salvaguardia
della sicurezza americana (guerra preventiva) e della democrazia (rovesciare il tiranno Saddam Hussein). Con questa politica del fatto compiuto, variante appena mascherata del diritto del più forte, gli Stati Uniti hanno dilapidato in qualche mese un immenso capitale di simpatia,
alienandosi la comunità internazionale. Come si è arrivati a questo punto? La «vera e propria crisi psichica» che ha segnato l’America e il mondo dopo l’11 settembre (Todd, 2004, p. 12) ha fatto molto 4. Ma a leggere la stampa francese ed europea, la crescente incomprensione che si è
sviluppata tra le due sponde dell’Atlantico è legata innanzitutto a una
variabile fondamentale: la religione. La Casa Bianca sarebbe “presa in
ostaggio” da una casta di religiosi esaltati che considerano la Bibbia l’unico punto di partenza valido per poter comprendere bene l’odierna
realtà internazionale.
Molti osservatori rimangono perplessi davanti alla palese religiosità
del presidente Bush e alla retorica manichea della sua amministrazione,
anche nel suo stesso paese, dove a volte è chiamato “l’ayatollah americano” 5. Vi si deve ravvisare una profonda rottura nella storia statunitense,
una crisi millenarista passeggera o sono semplici effetti tribunizi? Questo libro esplora le questioni scaturite dai rapporti tra religione e politica
negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001, usando come punto di partenza la crisi irachena del 2003. Dopo questa svolta, s’interroga su quel
che può effettivamente significare quel “Dio benedica l’America” 6 ripetuto come un mantra, quindi ricolloca gli attuali interrogativi all’interno
della storia americana e decritta via via la funzione politica della “religione civile”, l’ascesa dei protestanti evangelici e l’impatto della secolarizzazione, in aumento contro ogni apparenza. Infine delinea i contorni di
una nuova religiosità, ancora incerta, che esalta gli Stati Uniti e il loro
modello di società, ponendoli come nuovo nume tutelare di un mondo
globalizzato. E se il primo dio della Casa Bianca fosse l’America stessa?
Materiali per un’inchiesta
Questa riflessione parte da un preciso punto di vista, quello delle scienze sociali delle religioni. Il libro non costituisce né un saggio di geopolitica né un compendio della storia recente degli Stati Uniti. Si concentra
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sul nodo gordiano dei rapporti tra religione, società e politica negli Stati
Uniti del dopo-11 settembre 2001. Questa linea, tuttavia, non esclude a
priori alcun punto di vista. «Fatto sociale totale» (Marcel Mauss), la religione non potrebbe essere compresa prescindendo dai contesti culturale, politico, economico e geostrategico in cui s’iscrive, e ciò ha giustificato il ricorso a numerosi lavori “fuori campo” nell’elaborazione di quest’analisi. Sono stati particolarmente sfruttati tre campi di ricerca: i rapporti tra religione, cultura e società negli Stati Uniti (Finke, Stark, 1997;
Kaspi, 2003; Noll, 2002; Richet, 2001; Valantin, 2003; Wuthnow, 1989),
il protestantesimo di tipo evangelico (Ammerman, 1987; Ben Barka,
1998; Fath, 2002a; Gutwirth, 1998; Noll, 2001; Smith, 1998) e la religione civile americana (Anderson, 2000; Bellah, 1975a; Coles, 2002;
Sheffer, 1999; Wuthnow, 1988). Attraverso questi interrogativi prioritari, si pone tutta la questione della gestione sociale e politica del religioso
negli Stati Uniti. Come fa il gigante con la bandiera a stelle e strisce, un
«Gulliver nei guai» (Hoffman, 1968), a venire a patti con la sua forza religiosa? Sopporta legami e impedimenti o al contrario decuplica il sua
ardore di conquista e si arrischia nelle “crociate” più avventurose? Partendo dalla problematica generale, la prospettiva si può ampliare o restringere. Aprendo l’orizzonte, sono state esplorate piste più ampie, in
particolare la globalizzazione (Huntington, 1997; Barber, 2002; Jenkins,
2004), la secolarizzazione (Davie, 2002; Berger, 1999; Bruce, 2002), il
mutamento delle forme contemporanee del religioso (Hervieu-Léger,
2003; Moskowitz, 2001; Orsi 1999) e le specificità poste dalla cultura
protestante (Bruce, 1998; Troeltsch, 1998; Willaime, 1992). La chiusura della prospettiva d’analisi, peraltro, ha permesso di trattare questioni delicate, al cuore del dibattito sul «Dio dell’America» (Noll,
2002). Particolare attenzione è stata dedicata alla New Christian Right
(Durham, 2000; Ben Barka, 1999) e al wilsonismo (Knock, 1995;
Nordholt, 1991), al neoconservatorismo (Drury, 1999; Kessler, 1998),
senza dimenticare il ruolo dell’utopia e del messianismo (Desroche,
1969; Séguy, 1999) o la questione dell’eccezionalismo americano (Lipset, 1996; Randaxhe, 2003).
In presenza di problematiche scottanti, ogni ricerca è una scintilla.
Questo saggio non aspira a una sintesi pirotecnica, tanto più che dalla
fine della guerra i lavori si sono moltiplicati a un ritmo esponenziale,
come se lo Zio Sam, una volta libero dai rivali, alla fine si fosse rivelato
meno alla mano di quanto non lo si fosse creduto. La rassegna delle ricerche avviate è un obiettivo a se stante: questo studio ha altre priorità.
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Ma un’analisi che sia tale non può non porre con chiarezza i termini del
discorso, a cominciare dalle ipotesi e dalle analisi rappresentative delle
differenti scuole di pensiero. È sulla scia di quest’esigenza che è stata valutata ogni interpretazione senza idee preconcette. Nel corso dell’indagine si è poi precisata via via l’ipotesi finale di questo libro, ovvero uno
scivolamento della Civil Religion americana verso un dispositivo ideologico in cui l’America stessa tende a identificarsi nel messia.
Fondata principalmente sulle ricerche pubblicate in scienze sociali
(cfr. la bibliografia in fondo al volume), questa riflessione è stata alimentata anche da fonti di prima mano. A parte i materiali biografici
pubblicati (Bush, 1999; Andersen, 2002; Freiling, 2004 ecc.), questo libro attinge soprattutto a cinque tipi di documenti. I primi quattro
vengono dagli Stati Uniti: da una parte la grande stampa americana,
quotidiana (“The Washington Post”, “New York Times”) o settimanale (“Times”, “Newsweek”), dall’altra la letteratura grigia dei circoli
del potere washingtoniano, spesso reperibile su Internet (“Project for a
New American Century”, “Progressive Policy Institute”); infine
“Christianity Today”, il principale mensile protestante evangelico
d’oltreoceano 7, senza dimenticare... la produzione cinematografica
hollywoodiana, rivelatrice della cultura washingtoniana all’inizio del
xxi secolo almeno quanto poteva esserlo Molière delle buone maniere
parigine del xvii secolo. A questi quattro filoni, va aggiunto un punto
d’osservazione esterno agli Stati Uniti. Quale terreno migliore dell’Europa per ottenere fonti critiche e divergenti? Spesso citato, a torto o a
ragione, come antimodello in materia di gestione del religioso nello
spazio pubblico, il Vecchio Continente offre proprio per questo un
ricco punto di vista sulla realtà politico-religiosa americana. A costo di
cercare fino in fondo l’altro volto del Giano occidentale, attraverso la
stampa nazionale è stata registrata la voce della Francia, cantora di un
«altro mondo» 8.
Alle fonti di questo saggio
Alla Francia, tuttavia, non sarà data un’importanza smisurata. Va riconosciuto che l’approccio di questo paese alle realtà politico-religiose
americane non sempre brilla per elasticità 9. Claude-Jean Bertrand già
sottolineava, alla metà degli anni settanta, che i libri francesi dedicati
alle Chiese americane «sovente spiccano per la loro condiscendente la12
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conicità o i loro errori» (Bertrand, 1975, p. 6). Una generazione dopo,
sono stati fatti innegabili progressi, come testimonia segnatamente la
sintesi proposta da Isabelle Richet (2001), ma spesso i filtri culturali
franco-europei che intervengono nell’ottica con cui si guarda alla religione oltreoceano restano percettibili, e talvolta opachi per poter arrivare a comprenderla in profondità. Malgrado un’apparente vicinanza, fra
le due culture politiche e religiose, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, emerge un vero e proprio fossato antropologico che non si può esaurire con qualche stereotipo trito e ritrito. Lo scarto è accentuato dal tropismo francocentrico, tentato per svariati motivi da una «laicità di
astensione e diffidenza nei confronti del religioso» (Willaime, 2004, pp.
308-28). È dunque con raddoppiata prudenza che è stata intrapresa questa riflessione, e con la consapevolezza che il fatto di iniziare partendo
da un contesto francese rende ardua l’impresa più di quanto non la
semplifichi.
Martin Marty osservava a ragione nel 1981 che «sin dall’epoca coloniale le radici bibliche dell’America rimangono forti, incredibilmente
forti per i francesi o per altri, la cui cultura è stata cattolica più che esplicitamente biblica» (Marty, 1981, p. 159). Per quanto un po’ caricaturale 10, questa constatazione pone l’accento su come possa risultare difficile per dei francesi di cultura cattolica la comprensione sociostorica di un
universo religioso come quello del protestantesimo americano. Per contro, l’osservazione di Martin Marty induce a pensare che l’approccio alla
realtà religiosa americana non potrà non essere agevolato partendo da
un aspetto specifico del protestantesimo.
È proprio questo il retroterra del libro. L’idea della ricerca è nata
nel novembre-dicembre 2000, in occasione di un soggiorno a Chicago
motivato da un lavoro sociostorico sull’evangelista protestante Billy
Graham, la principale “star” religiosa americana dai tempi della Seconda guerra mondiale (cfr. Fath, 2002a). Allora, l’approfondimento dell’universo protestante evangelico americano aveva aperto alcuni orizzonti. Ultraminoritario in Francia, questo tipo di cristianesimo è talmente radicato nel paesaggio sociale e politico americano da non poter
essere trascurato. A tre mesi dagli attentati dell’11 settembre 2001, proprio quando il mondo, oscillando tra solidarietà e preoccupazione, si
interrogava sulle voci di una “crociata” provenienti dalla Casa Bianca, le
reazioni evangeliche americane sembravano avere un autentico peso politico. È questo aspetto specifico, nel contesto degli Stati Uniti del
dopo-11 settembre, a costituire il punto di partenza del libro. La crisi
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irachena del 2002-04 ha in seguito abbondantemente confermato la necessità di una riflessione approfondita sui rapporti tra sfera politica e sfera religiosa all’interno dell’esecutivo americano. Sullo sfondo di una crisi diplomatica internazionale, questo dramma in tre atti (crescendo di
una guerra annunciata, invasione lampo e per finire invasione e resistenza) ha fornito materiale straordinario. Ha cristallizzato con intensità
inedita i riflessi messianici di una nazione americana posta di fronte a
una scelta cruciale: quale portata, e quali limiti, dare a una potenza ferita, posta di fronte al mistero del male (Evil) e all’incertezza del domani?
In questo contesto ad alta tensione, la messa in scena e la strumentalizzazione del “Dio” della Casa Bianca ha talvolta raggiunto picchi che
hanno suscitato dibattiti, reazioni viscerali e mobilitazioni religiose di
massa (come il Presidential Prayer Team). È all’analisi di queste poste in
gioco che è dedicato il saggio.
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