PAPERS - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Transcript
PAPERS - Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli -PAPERS- BRUNO CARTOSIO 2008 – 1968: RITORNARE AL FUTURO. IDEE, CULTURE E POLITICA A CONFRONTO Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – Papers I “Papers” sono costituiti da testi proposti nell’ambito delle iniziative promosse dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. I “Papers” sono pubblicati dalla Fondazione per gentile concessione dell’autore. Testo della relazione introduttiva al convegno “2008-1968: ritornare al futuro. Idee, cultura e politica a confronto” Milano 10 dicembre 2008 © 2008 – by Fondazione Giangiacomo 2 Feltrinelli 1. Vorrei mettere in epigrafe a questa introduzione una citazione dallo scrittore americano William Faulkner che Barack Obama ha incluso, parafrasandola, nel suo discorso sulla razza, tenuto a Filadelfia il 18 marzo 2008. Le parole che Faulkner fa pronunciare a uno dei personaggi di Requiem for a Nun sono: “The past is never dead. It is not even past”. Quelle di Obama: “The past isn’t dead and buried. In fact, it isn’t even past”: “Il passato non è morto e sepolto. In effetti non è neppure passato”. Il concetto, pur con accentuazioni diverse, è nella sostanza lo stesso nelle due citazioni e ha un’attinenza con questo incontro. L’idea che ha presieduto alla sua organizzazione è che ci si debba guardare indietro, da dove ci si trova, per avere la percezione tanto di dove si è veramente, quanto del percorso compiuto per arrivarci e, aggiungiamo, di quello che abbiamo davanti a noi. La “solidarietà tra epoche diverse”, per usare le parole in questo caso dello storico Marc Bloch in Apologia della storia, è tale, “ha in sé tanta forza”, che se la si interrompe si perdono quelle “relazioni di intelligibilità” che danno senso al vivere degli uomini nel tempo, nel loro tempo. Scriveva ancora lo storico francese: “L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse però non è meno vano affaticarsi a comprendere il passato, quando non si sappia nulla del presente”. Quindi, rovesciando in positivo la sua formulazione: conoscere il passato – nel titolo di questo incontro: il ’68 – a partire dalla conoscenza del 2008 e tornare all’analisi del 2008 prendendo il ’68 come uno dei possibili punti di partenza. Capire quello che si è diventati, quali sono stati i percorsi e attraverso quali percorsi, ora, formuliamo i nostri giudizi sull’allora e sull’oggi e elaboriamo premesse per il domani. A voler dare una veste forse fin troppo ambiziosa all’intenzione di questo incontro si potrebbe dire che vorremmo ragionare su quanto e come è cambiato questo nostro mondo con gli occhi sia di chi ha l’età per avere esperito tanto quello di quarant’anni fa quanto questo, sia di chi esperisce questo, e quell’altro lo ha solo studiato. Oppure, meno ambiziosamente, più che tra due momenti storici, il confronto è tra le rappresentazioni che dell’uno e dell’altro momento danno generazioni diverse, a partire da come vivono il presente – e pensano al futuro – persone che appartengono, appunto, a generazioni differenti. “Come pensano al futuro”, ho appena detto, perché nel titolo di questo incontro, “ritornare al futuro” è racchiusa un’implicazione ottativa, in una certa misura programmatica. Il titolo non è il facile richiamo a un film di successo di qualche anno fa; è la dichiarazione di un proposito, che si colloca tra l’intenzione, il desiderio e la speranza: nella crisi attuale, in questo presente così spiacevole e contrario, cercare di recuperare lo spirito necessario per ripensare al futuro, ecco: questo, se vogliamo, come si faceva in quegli anni. E farlo con passione. Queste sono le uniche cose di quell’altro momento di crisi che varrebbe la pena cercare di recuperare. Nell’aprile scorso, spiegando in un’intervista a La Repubblica il titolo di un suo libro appena uscito, Forget 68, Daniel Cohn-Bendit – uno dei leader del Sessantotto francese – 3 diceva: “Il Sessantotto è finito! Questo non vuol dire che quel passato sia morto, ma soltanto che è sepolto da quaranta tonnellate di selciato che, da allora, hanno segnato e trasformato il mondo”. Certo che è finito, lo è da un pezzo. E certo che il mondo è cambiato. Oggi la “solidarietà tra epoche diverse” ha senso se ci aiuta a esaminare criticamente i tracciati di quel selciato, su cui camminiamo disagevolmente, e soprattutto se ci serve a riprogettarne il percorso. Ci riusciremo? Nelle ultime due righe del suo libro di vent’anni fa sugli anni Sessanta – Years of Hope, Days of Rage – il sociologo, storico ed ex militante della Nuova sinistra statunitense Todd Gitlin ha inserito una citazione: “ ‘Non è dato a te di portare a termine il compito’, ha detto il rabbino Tarfon mille e novecento anni fa, ‘e tuttavia non ti è permesso rinunciare’ ”. Non ci è permesso neppure di pensare che quello che non abbiamo fatto noi nessun altro lo farà, né che non possa farlo meglio di noi. 2. La “solidarietà tra epoche diverse” include continuità e discontinuità e conflitto: non è detto che ciò che non era possibile ieri o non sembra possibile oggi non lo sarà neppure domani. “La mia storia” personale e familiare, ha detto Barack Obama mesi fa con un ironico e autoironico understatement, “non ha fatto di me il più convenzionale dei candidati”. Eppure Obama ha vinto. Fermiamoci un momento sulle elezioni presidenziali statunitensi. Nella lunghissima campagna elettorale gli anni Sessanta sono stati quasi incessantemente evocati, spesso per giocarli a favore o contro questo o quel candidato. L’occasione lo giustificava: McCain era un eroe della guerra del Vietnam, che segnò almeno metà di quegli anni; Barack Obama e Hillary Clinton rappresentavano ognuno a suo modo lo sbocco simbolico delle dinamiche di denuncia, rivendicazione e lotta aperte dai movimenti sociali di quei “lunghi anni Sessanta” iniziati a metà del decennio precedente con il movimento afroamericano e proseguiti fino all’acquisizione di dimensioni di massa del movimento di liberazione delle donne. E’ chiaro che l’evento pone domande sul passato: chi avrebbe mai pensato che un afroamericano diventasse presidente? Finora solo Hollywood aveva avuto il coraggio di immaginarlo. Come è potuto accadere, dunque, che un afroamericano e una donna abbiano potuto competere per quella carica nel 2008? In altre parole: come si fa a comprendere l’importanza storica, epocale, dell’elezione di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti se si ignora la storia che ha preceduto questo fatto? Nel corso del 1960, l’anno prima che Obama nascesse, 70.000 giovani neri parteciparono in tutto il Sud ai sit in per conquistare il diritto di sedersi dove volevano nei bar e nelle tavole calde e 3000 di loro furono arrestati. Nel 1961, il suo anno di nascita, 700 dimostranti – tra cui Martin Luther King – venivano arrestati ad Albany, in Georgia, perché protestavano contro la segregazione razziale e le discriminazioni a carico dei neri. Tre anni prima, il giovane nero Clennon King era stato giudicato pazzo e internato in manicomio per 4 avere chiesto di iscriversi all’Università del Mississippi. Se Obama, invece, ha potuto studiare a Columbia e Harvard e diventare il primo direttore afroamericano della Harvard Law Review nel 1990 vuol dire non solo che il Massachusetts non era il Mississippi, ma anche che qualcosa era già cambiato, tanto da permettere che le qualità personali potessero portare un afroamericano figlio di “nessuno” a un incarico così prestigioso. Però non si può isolare la storia personale dal contesto entro cui acquista il suo significato storico. Quindi, la domanda: è vero che l’elezione di Obama chiude la dinamica conflittuale aperta intorno alla metà degli anni Cinquanta dalle lotte di massa contro la segregazione razziale, contro il razzismo istituzionale e per la conquista dei diritti civili? La risposta è: sì, sul piano simbolico. Pur riconoscendo tutta l’importanza – grande – che i simboli hanno nella storia e nella cultura delle nazioni, bisogna dire che la success story di Obama testimonia che la collettività afroamericana è ora socialmente molto più diversificata al suo interno di quanto fosse decenni fa, ma anche che il successo di Obama – il terzo nero a diventare senatore in tutto il Novecento (e il primo fu eletto soltanto nel 1967) – non rappresenta, né sintetizza l’elevazione sociale di quella collettività, che rimane, sociologicamente, la componente più povera, più discriminata e più carcerata degli Stati Uniti. D’altro canto, le aspettative che in tutto il mondo sono state caricate sulle spalle di Obama non testimoniano forse che l’oggi della sua elezione si proietta nel futuro? Considerazioni analoghe si potrebbero fare sulla candidatura alla presidenza di Hillary Clinton, la prima di una donna nella storia statunitense. Nello stesso anno in cui Hillary Clinton nasceva, il 1947, Marynia Farnham e Ferdinand Lundberg pubblicavano un libro, Modern Woman: The Lost Sex, che rimase fino agli anni Sessanta la bibbia in base alla quale veniva fissato il ruolo sessuale ancillare della donna negli Stati Uniti. Domanda: il quasi successo di Hillary Clinton conferma la caduta definitiva di quel sessismo o sciovinismo maschile che il movimento femminista di fine anni Sessanta denunciava come endemico nella società? Anche in questo caso si dovrebbe tenere conto della divaricazione dei piani: su quello simbolico la risposta sarebbe affermativa; su quello sociale, dovrebbe invece registrare che ai tanti “passi avanti” delle donne fanno da contraltare le persistenze discriminatorie sul piano salariale e sull’accesso ai posti di responsabilità. Il “tetto di cristallo” che impedisce alle donne di arrivare alla cima della piramide istituzionale non è stato infranto, ma ha subito 18 milioni di incrinature, ha detto Hillary Clinton nel suo discorso di chiusura della campagna, nel giugno scorso. Quasi diciotto milioni erano i voti che lei aveva accumulato nel corso delle primarie democratiche fino a quel momento. In futuro, ha detto subito dopo, a nessuna donna si potrà più impedire di perseguire e raggiungere l’obiettivo che lei stessa non ha potuto raggiungere in questa occasione 3. I contenuti antirazzisti e antisessisti di cui sono rappresentative le vicende di Obama e Clinton caratterizzano la storia dei lunghi anni Sessanta statunitensi. Non sono invece presenti, 5 per esempio, nel Sessantotto messicano o cecoslovacco. In Italia, Germania, Francia parte di quei contenuti arriveranno soltanto più tardi, con il femminismo. Sono forti ovunque, invece, dopo la metà del decennio centrale, l’opposizione alla guerra in Vietnam e l’antiautoritarismo, anche se con varianti diverse da paese a paese. Ma non voglio soffermarmi sul passato; vorrei tornare al rapporto tra passato e presente e viceversa. A quarant’anni dal 1968, le memorie sui “lunghi anni Sessanta” rientrano nel più ampio discorso storico. Del resto, forse che la storiografia sul fascismo, sulla Seconda guerra mondiale o sulla Resistenza ha dovuto attendere quattro decenni prima di procedere oltre la memorialistica? In Italia la storiografia sugli anni Sessanta è meno ampia che altrove, che in Francia, forse; di sicuro negli Stati Uniti. E però quasi ovunque quegli anni rimangono argomento di contrapposizioni forti, molto spesso giocate sul terreno di una pubblicistica e di memorie che ignorano la storiografia e la deontologia della ricerca storica. Vorrei fare qualche considerazione, poco diplomatica, prima sulla storia nella pubblicistica, poi sulla memoria. Avendo in mente quello che ancora Marc Bloch definiva il “mestiere di storico”, e proprio a partire da dove ci troviamo in questa fase politico-culturale in Italia, mi sembra di poter dire che il campo del discorso sulla storia si è aperto come mai prima d’ora alla superficialità, a revisionismi di convenienza e addirittura a quella nuova pratica che è stata definita “rovescismo”: si tratta non del riscrivere la storia che ogni generazione e ogni scuola o componente sociale fanno e hanno sempre fatto o cercato di fare, ma della messa in circolazione sui media di scempiaggini pseudostoriche, che vedono la luce solo perché legittimate da questo nostro presente politico-culturale. E’ lo scempio del senso: o diventa tutto uguale, i “ragazzi di Salò” come I ribelli della montagna, oppure piace più il fascismo che chi lo ha combattuto, magari per le stesse ragioni per cui piacciono più i SUV che, diciamo, le Punto: quello che fluttua nell’aria è la fascinazione per i falsi simulacri di potenza, l’adesione egoistica alla moda dell’arroganza…echi del “chi se ne frega”. Si tratta di scempiaggini che non sono prive di incidenza. Circolano, e con loro circola l’idea che ogni opinione è lecita, indipendentemente dalla ricerca e dal rispetto per i fatti. Si riverberano sul passato e lo ricostruiscono a immagine e somiglianza dell’ideologia dominante. Il punto è quanto la deontologia intrinseca alla pratica storiografica – l’etica, la moralità cui il ricercatore è tenuto – viene svalutata nell’uso opportunistico, mediatico e a volte spettacolare che si fa del discorso storico o, appunto, pseudostorico. Qualche anno fa Nicola Gallerano aveva giustamente preso sul serio quel fenomeno complesso che è l’”uso pubblico della storia” e aveva dedicato pagine importanti alla sua analisi. Qui mi riferisco solo ad alcuni suoi aspetti deteriori; direi che parlo dei seminterrati dell’edificio analizzato da Gallerano. L’ideologia dominante, sedimento della subcultura dei ceti dominanti nel nostro presente, è diventata egemonica al punto da indurre alcuni a ritenere di potersi permettere di spostare nel terreno dell’opinabile, quindi al di fuori del campo della ricerca e della verifica, intere fette del 6 bagaglio storico del nostro passato. Un esempio di ciò riguarda, in queste ultime settimane, Antonio Gramsci – verrebbe da dire il povero Gramsci: prima, la ripetuta messa in circolazione giornalistica di opinioni fantasiose sulla sua morte – almeno due ipotesi contemporaneamente, addirittura in alternativa tra loro: assassinio da parte dei suoi stessi compagni o suicidio, a scelta del lettore – e poi la ripresa di antiche favole sulla sua conversione al cattolicesimo in punto di morte. Questa pubblicistica non cambia il corso della ricerca propriamente storiografica, che continua a discutere criticamente di fascismo e Resistenza, di comunisti e democristiani, di politica e cultura. Ma molto più della ricerca propriamente storica questa stessa pubblicistica contribuisce a creare il clima di opinione che modella il senso comune. Per essere più precisi: si muove all’interno di quel clima di opinione e da esso è legittimata, ma nello stesso tempo contribuisce a rafforzarlo e ad allargarne la portata mistificatrice. Addirittura, in qualche caso detta l’agenda del sistema dell’informazione. Si guardi a quanti sono stati gli articoli, su quanti giornali, che hanno ripreso, discusso, confutato o satireggiato la storia della conversione di Gramsci. La banalizzazione dei discorsi e dei contenuti, il “rovescismo”, l’”opinionismo” incompetente distruggono il valore stesso dell’autorevolezza che deriva dalla serietà professionale ed etica per sostituirla con il nuovissimo metro legittimante della “visibilità”, della popolarità mediatica, della falsa autorità conferita dal successo economico o elettorale. Quando Giampaolo Pansa, nei dibattiti dedicati ai suoi libri recenti, risponde alle obiezioni di merito riguardanti metodo, contenuti e implicazioni ideologiche delle sue narrazioni pseudostoriche, cita prima di tutto il numero delle copie che i suoi libri hanno venduto; vale a dire: se il pubblico mi compra vuol dire che ho ragione. Esattamente come chi, parlando dei palinsesti televisivi, ignora la miseria intellettuale dei programmi e dice: diamo al pubblico quello che il pubblico vuole. E ancora come chi, su un altro piano, indica nel maggior numero di voti ottenuti nelle elezioni la fonte di una investitura che gli dà pregiudizialmente ragione e lo intitola a cambiare le leggi a proprio favore e piacimento. Trent’anni fa Richard Nixon espresse come meglio non si può questa concezione del potere che si autolegittima: “Quando il presidente fa una cosa, vuol dire che non è illegale”. Negli anni che si stanno chiudendo George W. Bush ha ingaggiato avvocati e accademici per dare fondamento giuridico a quello stesso presupposto autoritario. La questione, qui appena esemplificata in alcune delle sue possibili articolazioni, la si può ricondurre ai temi ben più ampi dell’egemonia perduta della ragione illuministica, della svalutazione del pensiero scientifico a favore di quello religioso o magico, del prevalere del principio di autorità su quello dell’autorevolezza. L’incidenza del pensiero laico rischia la irrilevanza. Lo stesso vale per il pensiero critico. E il pensiero economico-politico dominante in questi ultimi decenni – diciamo dal Premio Nobel a Milton Friedman, nel 1976, fino a ora – non ha dato sostegno ad altro che all’attacco contro mondo del lavoro e fasce deboli delle società e alla crescita delle sperequazioni sociali. La stessa damnatio del Sessantotto in Italia, cui una parte della stampa, della cultura e della politica attribuiscono opportunisticamente quasi tutte le 7 possibili responsabilità per i mali di scuola e università – se non dell’intera società – ha a che fare con questo stato di fatto: il sole calante della ragione proietta ombre lunghe sulla realtà, e più la ragione scende verso il crepuscolo, più si allungano le ombre. Questo solo possiamo dire, oggi: nonostante tutto, non è ancora notte. Non è una consolazione, ma aiuta a capire come sia proprio l’angoscia per il calare delle tenebre che ha fatto diventare Barack Obama, povero lui, la speranza di tre quarti del mondo. Ora, la memoria. Esiste un altro versante della riduzione della storia all’esperienza personale e quindi alla memoria. Se l’esperienza vissuta e la ricostruzione della memoria nel presente diventano le sole fonti di legittimazione dei contenuti del ricordo, rendono indiscutibili il giudizio, l’interpretazione, l’opinione. Scriveva Maurice Halbwachs nel suo I quadri sociali della memoria: “Al di fuori del sogno, il passato, in realtà, non ricompare tale e quale; anzi, tutto sembra indicare che esso non si conserva, ma che lo si ricostruisce a partire dal presente”. E’ dunque il presente che detta i criteri della rimemorazione e, quando si riduca la storia a memoria, della ricostruzione storica. Ma non tutti ricostruiscono il passato in ossequio al giudizio negativo che ne dà il senso comune oggi dominante. Nel caso del Sessantotto, tra chi lo ha “fatto” e non ne è pentito, esiste anche l’attaccamento ostinato, oppure affettuoso e nostalgico al proprio passato come al tempo migliore della propria vita. La memoria di quegli anni può allora diventare la “memoria possessiva”, di cui hanno scritto Peter Braunstein in un saggio su Ácoma del 1999, Anna Bravo, nel suo A colpi di cuore del 2008, e a cui aveva già fatto riferimento Peppino Ortoleva vent’anni fa, scrivendo nel suo Saggio sui movimenti del 68 dei tratti “patrimoniali” che caratterizzavano parti della memorialistica prodotta appunto da chi aveva “fatto il ‘68”. In questi casi la memoria funziona come strumento di autodifesa identitaria. E’ uno degli strumenti attraverso cui persone e gruppi difendono nel tempo un’identità a cui continuano a riconoscere valore. Ma proprio per questo, quando le figure del nostalgico e dello storico coincidano nella stessa persona, la memoria possessiva può deformare la ricostruzione storica, riducendola più o meno acriticamente al territorio dell’esperienza individuale e di gruppo e chiudendo la storia entro i confini di quel territorio. Una parte della storiografia statunitense sugli anni Sessanta soffre certamente di questo limite. Infine, a volte, chi si chiude nel bozzolo apologetico del proprio passato tende poi a svalutare la ricerca storica, inevitabilmente smitizzante, di chi sia “venuto dopo”, di fatto non riconoscendo a chi impieghi gli strumenti propri del mestiere il diritto di esplorare quel “suo” territorio. Proprio su questo cadono a proposito le parole che ha scritto Sandro Portelli, recensendo sul manifesto qualche giorno fa Sangue d’Italia, di Sergio Luzzatto: “Sono due gli elementi di forza del discorso di Luzzatto: la rivendicazione, contro ideologismi e strumentalità, della professione dello storico; e la posizione generazionale che gli permette, una volta data per assodata e condivisa la valenza politica e morale dell’antifascismo e della Resistenza, [di] prendere le distanze da miti e retorica e cercare 8 di ragionare sulle fonti e, per quanto possibile, sui fatti [, con ciò, tra l’altro, sottraendo] ai revisionisti l’arma della dissacrazione”. 4. Per finire, due brevi notazioni conclusive, che riavvicinano questa introduzione ai lavori dei gruppi di discussione che seguiranno. Se è vero che il ’68 italiano è stato “l’anno degli studenti”, come evitare di farsi domande su questo 2008 in cui le mobilitazioni studentesche hanno riempito le strade e le aule delle scuole secondarie e delle università?, e viceversa: in che modo la nascita e l’evoluzione del movimento attuale ci interroga sul movimento che lo ha preceduto quarant’anni fa? In quali modi le trasformazioni intervenute d’allora in poi nella scuola e nell’università, nella composizione sociale degli studenti, nella cultura, nella politica e nella società circostanti hanno indotto o ostacolato il movimento attuale? A chi ha “fatto il ‘68” può forse venire naturale domandarsi se siano o no presenti, ora, i contenuti antiautoritari e i sottotesti ideologici presenti in quella rivolta (e nelle successive, di cui magari ci si dimentica). Chi, invece, tenderà a guardare a queste manifestazioni come a fenomeni generazionali – i protagonisti sono studenti, giovani in entrambi i casi – si farà altre domande. In ogni caso sarà lo scambio tra presente e passato e rendere feconda l’esplorazione. Si tratta dunque di ragionare criticamente su continuità e discontinuità, ma soprattutto di ricostruire percorsi, segnare distanze, confrontare contenuti e contesti. A volte è la cronaca a invitare alla riflessione, a volte è la memoria, altre la storia stessa. E’ stato quasi impossibile, nei giorni scorsi, evitare di scontrarsi con la denigrazione pubblicistica del ’68 studentesco con cui parte della pubblicistica tentava di screditare l’Onda, il movimento attuale. L’opportunistica evocazione dei fantasmi del vandalismo o peggio, del “6 politico”, oppure del “18 politico” o addirittura del “30 politico” è stata presente nei commenti a sostegno della necessità di “riformare” scuola e università. I consigli ai governanti di oggi dell’ex ministro dell’Interno Cossiga hanno fornito una chiave interpretativa del passato e potrebbero avere anticipato una chiave per comprendere il futuro del movimento attuale degli studenti. Il “buon senso” che si dice guidi la mano del legislatore che vuole riformare la scuola si incaglia nelle secche di ossimori come la “discriminazione positiva” – scimmiottatura improbabile della affirmative action statunitense degli anni Sessanta di Lyndon Johnson. Ma i lunghi anni Sessanta includono anche il ’69 operaio. Difficile estromettere dalla storia quel movimento di massa straordinario che trasformò le organizzazioni sindacali e portò poi alla conquista della Statuto dei diritti dei lavoratori. Per un attimo, il protagonismo di quel movimento diede l’impressione di poter portare a realizzazione il dettato costituzionale: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”. Se non ci siamo arrivati è perché tutti i movimenti, anche quello operaio, stanno dentro dinamiche più grandi, che li comprendono. E se la distanza tra quel momento e oggi è la stessa distanza che passa tra la capacità di conquistare diritti e l’essere costretti a difendere con le 9 unghie e coi denti quei diritti oggi minacciati è perché il ’69 operaio è stato anche il ’69 delle bombe di Piazza Fontana – e tra due giorni è il trentanovesimo anniversario di quel fatto tragico. Per lo storico, quelle bombe fanno fare un salto di qualità all’antagonismo con cui i poteri istituzionali si erano opposti fino a quel momento all’iniziativa dei movimenti sociali, quello contro la guerra, che metteva in crisi le alleanze internazionali del nostro paese; quello studentesco, che metteva in discussione i pilastri insieme del sistema scolastico e dell’obbedienza all’autorità; quello operaio, che contestava ai padroni in controllo totale ed esclusivo sulle vite e le aspirazioni dei lavoratori. Un paio d’anni ancora e quello delle donne avrebbe minato alla radice l’autoritarismo maschile e il sistema patriarcale. Le bombe aprirono una dialettica nuova, che sarebbe stata tragica in molte altre occasioni e che portò fuori dai lunghi anni Sessanta. Il Sessantotto si chiuse allora? Sì, ma non del tutto e solo per quello che, nei tempi della storia, è un momento. Se dagli Stati Uniti, in questo 2008, ci viene un insegnamento è di non dare mai tutto per concluso per sempre. E anche Marc Bloch ci ammonisce che epoche diverse hanno tra loro curiose e imprevedibili forme di solidarietà. 10 © Fondazione Giangiacomo Feltrinelli -PAPERS dicembre 2008 11