Leggi i primi capitoli
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IL ROMANZO Fedora Milano non sa darsi una spiegazione: il direttore della sua testata l’ha fatta rientrare dalle ferie per andare a intervistare il direttore di un’antica farmacia veneziana, fondata cinquecento anni prima. Niccolò Bellavitiis è un uomo tanto colto ed enigmatico quanto affascinante e il suo racconto sull’arte della cura è ipnotico, ma perché tanta fretta? Improvvisamente l’attenzione della donna è calamitata da un misterioso contenitore in peltro. Quello strano recipiente, spiega Bellavitiis, serviva per trasportare la Theriaca, un composto chimico di origini antichissime la cui formula nasconde delle proprietà molto potenti in grado di cambiare le sorti dell’intera umanità, un fluido foriero di una sapienza ambita e pericolosa che trascinerà Fedora in uno spaventoso tunnel senza fine…. L’AUTORE Mauro Santomauro è nato nel 1949 ed è stato farmacista della Serenissima, salendo alla ribalta delle cronache quando rinunciò a trasferire la sua farmacia in terraferma. Nella sua vita è stato chimico, distillatore, imprenditore e contadino e si è divertito come giocatore e poi allenatore di baseball, batterista in un settetto jazz, maker ante litteram come produttore di accessori d’arredo. Ha pilotato aerei da turismo e ha praticato immersioni subacquee. La sua vera passione è il buon cibo. Vive con la moglie e i due figli a Treviso. La congiura dello speziale di Mauro Santomauro © 2014 Libromania S.r.l. Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO) www.libromania.net ISBN 9788898562428 Prima edizione eBook maggio 2014 Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta, memorizzata o trasmessa in alcuna forma o con alcun mezzo elettronico, meccanico, in disco o in altro modo, compresi cinema, radio, televisione, senza autorizzazione scritta dell’Editore. 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Capitolo Uno Venezia, Ponte di Rialto, 4 dicembre 1537 Lodovico scese lentamente i gradini del Ponte, un po’ inquieto al pensiero che, proprio in quel punto, suo cugino Vincenzo Quadrio fosse morto nel crollo del precedente viadotto in legno che univa le due rive del Canal Grande. Sembrava che un destino beffardo, o forse solo l’imprevidenza e l’ignavia degli uomini, non volesse che il mercato di Rialto (punto nevralgico degli affari, dei commerci e cuore politico di Venezia) avesse il suo ponte: già nel 1310, infatti, il vecchio ponte di barche venne danneggiato durante una rivolta che minacciò di destabilizzare la stessa Serenissima; e ancora, nel 1444 quando la struttura in legno cedette rovinosamente, per la gran folla accorsa ad assistere al passaggio della sposa del marchese di Ferrara. Fu nel 1524 che Vincenzo, poco più che sedicenne, figlio di sua zia Antonia e di un anno più anziano di lui, affogò nelle putride acque del Canal Grande. Quel ponte di legno, che centinaia di uomini di affari, servi, banchieri, nobili, funzionari e commercianti attraversavano ogni giorno, fra botteghe e bacari1 aggrappati pericolosamente ai bordi esterni, in una mattinata non particolarmente ventosa, schiantò in un raccapricciante stridio di marcescenti assi divelte e di ferri arrugginiti dalla salsedine. Tra le macerie galleggianti, nel bel mezzo di frutta e verdure varie precipitate, tra quarti di bue e coratelle di agnello rovinate, semi nascosto dalle pezze di broccato e di mussola provenienti dalle botteghe ormai sradicate, galleggiava a faccia in giù il corpo di Vincenzo, apprendista speziale della Serenissima. La sua sfortuna era stata quella di essersi alzato più presto del solito per aprire di buon mattino la bottega ai piedi del ponte di Rialto, l’antica spezieria2 Alla Testa d’Oro, ove prestava la sua opera come studente praticante di farmacia in attesa di ottenere l’attestato che gli avrebbe permesso di aprirne una tutta sua. Il destino volle, quel giorno, che Vincenzo, provenendo da Campo San Bartolomio, giungesse alla sommità del ponte nel momento esatto in cui questo crollò e venisse trascinato nella rovinosa caduta che lo tramortì prima e l’affogò poi, consegnandolo infine al canale che divenne la sua ultima dimora. Soltanto nel 1591 i veneziani si decisero finalmente, dopo crolli e incendi, a sostituire il loro ponte più importante, ma più indecente, con uno fatto finalmente in pietra, disegnato da Antonio da Ponte, un architetto svizzero che soffiò l’incarico al nostrano e più famoso Andrea Palladio, progettandolo ad arcata unica con negozi su entrambi i lati, ospitati ciascuno in un porticato coperto e poggiato, come una palafitta, su migliaia di pali in legno d’olmo piantati sulle opposte rive del canale a fargli da fondamenta. Splendida opera di architettura e ingegno rivestita di elegante Pietra d’Istria che avrebbe resistito fino ai giorni nostri, affinché milioni di turisti provenienti da tutto il mondo potessero fotografarlo e mostrarlo come trofeo digitale ad amici e parenti. Ovviamente tutto ciò non avrebbe consolato il povero Vincenzo. Come pure il sapere che l’essere meno solerte e mattiniero gli avrebbe salvato la vita. Ma allora non avremmo potuto raccontare e leggere questa storia. Di buon passo, facendosi strada e destreggiandosi tra i mercanti e i compratori, Lodovico attraversò l’Erbaría, la Casaría, la Naranzaría, la Beccaría e la Pescaría (nell’ordine: il mercato di erbe, formaggi, agrumi, carne e pesce) i cui prodotti provenienti dalla laguna e dalla terraferma, ma anche da lidi lontani ed esotici, riempivano l’aria di afrori stimolanti e di ammorbanti fetori, tra grida e richiami in veneziano e in idiomi foresti. In quel momento, i barcaioli delle peate e delle batéle3 stavano scaricando le merci appena trasportate dalle navi provenienti dall’Oriente, dall’Occidente e dalle città della terraferma, domini di Venezia: zucchero di Candia, pepe, comino da Malta, noci di galla e moscate, scorpioni vivi dal Marocco, balsamo del Perù, canfora, oppio, benzoino, muschio, incenso, pietre preziose e persino vipere dei Colli Euganei, destinate certamente a qualche spezieria. Scese lungo la ruga degli Oresi e si diresse verso il Palazzo del Magistrato dei Dieci Savi, dove si pagavano le Decime, cioè le tasse o gravezze, che colpivano le rendite sugli immobili situati nel Dogado. Allo scoccare del mezzogiorno si sarebbe dovuto incontrare con il N.H. Domenico Bembo con il quale avrebbe stipulato, davanti al notaro Candiani, il contratto di affitto per dei locali in San Luca, adibiti a bottega e sovrastante abitazione, per quarantaquattro ducati l’anno. Un buon prezzo per una zona così centrale, a metà strada tra Rialto e San Marco. Lodovico era eccitato pensando che, dopo, avrebbe fatto una capatina nella zona delle Carampane, fino al Ponte delle Tette a far visita a quella nuova ragazza, Veronica, dagli splendidi capelli rosso Tiziano (come si usava tra le meretrici dell’epoca) che trovava così belli i suoi grandi e penetranti occhi neri... Faceva freddo quella mattina di dicembre e Lodovico si strinse nel suo ferariol de budrato fodrà de ormesin4 ovvero un tabarro foderato della seta proveniente dalla città di Ormus, che la Vecchia gli aveva finito di cucire per l’occasione. La Vecchia era sua zia Antonia (la madre dello sfortunato cugino Vincenzo) che nel Sestiere di San Marco, da tempo, tutti conoscevano con quel nomignolo. Non era un inelegante epiteto riferito alla sua età (aveva “ solo” quarantacinque anni, tuttavia non pochi per quell’epoca) o agli abiti sempre scuri e dimessi che abitualmente indossava, ma piuttosto un’amara allusione all’aura di annientamento che la permeava, allo sguardo anzi tempo avvizzito e stanco di chi ha visto la speranza e l’illusione della gioventù, ma che troppo precocemente ne ha visto morire i frutti. E uno di quei frutti, il miglior virgulto cui affidare il perpetuare della sua linfa, suo figlio Vincenzo, giaceva nell’umida terra del Campo Santo della parrocchia di San Paterniano. Ma il Cupo Mietitore aveva già maramaldeggiato sulla sua famiglia. Alvise, il marito di Antonia, della Vecchia insomma, per anni era stato pratico di bottega presso la spezieria Alla Testa d’Oro fino a quando morì precocemente. La causa della sua morte era dovuta, quasi certamente, all’avvelenamento da arsenico e mercurio contenuti nel cinabro nativo, un minerale che si credeva curasse l’epilessia e la sifilide e che a lungo (anche se già alla fine del Duecento le leggi ne proibissero la lavorazione a Rialto)5 egli aveva macinato nei pesanti mortai del laboratorio, assorbendone quantità alla fine letali. Aveva lasciato la moglie, un figlio quindicenne e un piccolo gruzzolo che sarebbe dovuto servire, un giorno, ad aprire una bottega da speziale se e quando il suo giovine erede avesse avuto la capacità, l’energia e la costanza per ottenere il Privilegium in Arte Aromataria. Questa era la certificazione che la Serenissima concedeva a chi volesse esercitare l’arte tramandata da Galeno e da Dioscoride6. Sino al Settecento a Venezia non esistevano insegnamenti strutturati come i moderni corsi universitari, ma erano gli stessi speziali, riuniti in Fraglie o Collegi, che sottoponevano gli aspiranti futuri colleghi a un severo e spossante esame, previo un tirocinio di ben otto anni presso una spezieria, prima di assegnare il titolo di Maestro in Farmacia. Infine lo Speziale diveniva tale solo dopo aver recitato il Capitolare degli Speziali7 che dal 1258, forse il più vecchio al mondo, costituisce per i farmacisti l’equivalente del giuramento di Ippocrate e che, ancora sorprendentemente attuale, così inizia: “ Giuro davanti ai Santi Vangeli di Dio che preparerò e farò in modo che siano preparati tutti i medicamenti, elettuari 8 e sciroppi, sia gli unguenti che gli empiastri e tutte le medicine onestamente e senza frode con le usuali spezie e se non potrò trovarne alcune, invece di quelle metterò solo altre spezie... neppure venderò, né permetterò sia venduta alcuna cosa se non col suo nome, e inoltre non stringerò accordi o farò società con nessun medico al fine di ingannare i compratori, naturalmente nelle medicine, negli elettuari, nelle polveri e negli sciroppi... e così pure curerò secondo legge e con discrezione tutti gli ammalati e i feriti e gli affetti da altre malattie che avrò incominciato a curare e li consiglierò secondo la loro infermità e non prolungherò con la frode la loro malattia... e così pure non somministrerò né permetterò venga somministrata né consiglierò ad alcuno di somministrare qualsivoglia medicina velenosa o abortiva...” I titoli rilasciati nelle terre della Serenissima erano così ambiti che, per conseguirli, accorrevano a Venezia studenti da mezza Europa. A quest’ultimi, la pragmatica Repubblica Serenissima faceva pagare una cospicua tassa maggiorata. Nel tempo, gli Speziali di Venezia accumularono tanta benemerenza e fama ‒ acquisite anche all’estero nell’ideare e allestire medicamenti ‒ che nel 1706 la loro fu definita dal Consiglio dei Dieci (uno dei massimi organi di governo) “ Nobile Arte” e come somma ricompensa veniva concesso, a chi la esercitava, il diritto di sposare una nobile. Un non disprezzabile incentivo, a prescindere dall’aspetto e dall’indole della futura sposa! Per comprendere meglio il livello di grado sociale ed economico raggiunto dagli speziali veneziani, basti sapere che essi consentivano a tutti i loro clienti, a esclusione dei poveri che non pagavano nulla, il pagamento dilazionato dei farmaci dispensati, cioè un terzo alla consegna e il resto ad avvenuta guarigione del malato. Il che può voler dire delle due cose l’una: o lo speziale riponeva un’estrema fiducia nell’efficacia delle medicine da lui preparate, o il prezzo dei farmaci era così elevato che ci si poteva permettere anche la prematura e infruttuosa dipartita del cliente debitore. Alvise aveva sempre anelato al prestigio che si stava creando intorno agli speziali e ai privilegi conseguenti; non per sé ‒ non se ne sentiva degno ‒ ma per il suo giovine figlio. E si adoperò sino allo stremo perché questi venisse accettato come apprendista presso la rinomata spezieria Alla Testa d’Oro sul Ponte di Rialto. Tutto ciò che guadagnava Alvise lo consegnava nelle mani della moglie Antonia, sparagnina e attenta ad amministrare il denaro con oculatezza e a non dissipare neanche un bagattin, moneta allora appena sufficiente a comperare beni di uso comune come il pane, da cui il termine “ bagatella”. E quando le monete avevano raggiunto un certo numero, Antonia le 9 cambiava in pezzi di maggior valore, i bessi di rame, che a loro volta venivano convertiti in soldi, poi in gazzetee infine in lired’argento che erano ciascuna l’equivalente di ben duecentoquaranta bagattini. Quest’accurata e quasi ossessiva operazione di economia domestica, protrattasi negli anni, aveva prodotto un discreto patrimonio. All’insaputa dei suoi familiari, Antonia teneva tutte quelle monete in casa. Non sotto il proverbiale materasso, ma cucite astutamente e con perizia tra la fodera e il tessuto di un vecchio e liso tabarro che nascondeva tra gli stracci nella parte più dimenticata della soffitta. La sua bravura di sarta, occupazione che intratteneva per incrementare il bilancio familiare, le fu di grande aiuto nel dissimulare alla perfezione il denaro meglio che non in una cassaforte. Qualche malalingua nel Sestiere diceva in giro che la Vecchia prestasse anche soldi a interesse e questo spiegherebbe la rapida crescita del suo capitale. A ogni modo qui narreremo, più che l’origine, la destinazione del denaro tanto caparbiamente accumulato dalla vecchia Antonia. E della bizzarria della sorte che, per il tramite dell’ingenua generosità del figliolo Vincenzo, stava per giocarle un ennesimo brutto scherzo. Dopo la morte del padre,Vincenzo aveva intrapreso gli studi e l’apprendistato per diventare speziale, più per onorare la memoria e i desideri in vita del genitore, che per reale vocazione. Essendo di buona indole, altruista e volonteroso, si era tuttavia guadagnato la benevolenza e la simpatia del suo maestro e datore di lavoro. Una fredda mattina invernale ‒ la madre era uscita per andare a messa nella parrocchia vicina ‒ Vincenzo stava ancora sotto le coltri calde a godersi il suo meritato giorno di riposo, quando un concitato scampanio al portone lo ridestò bruscamente. Sportosi ancora insonnolito dal balcone sovrastante l’ingresso di casa, il ragazzo vide un vecchio mendicante male in arnese che, tremante per il freddo, gli chiedeva la carità. Mosso a compassione per lo sfortunato cristiano, ma non disponendo di denari,Vincenzo si ricordò di un vecchio tabarro appartenuto al padre che aveva visto una volta in soffitta e, sicuro che non sarebbe servito a nessuno in famiglia e di non aver bisogno del permesso della madre per un cappotto così stracciato, si risolse a farne dono al questuante. Di lì a poco la madre fece ritorno. Salì in soffitta, ma quasi subito ne ridiscese, pallida e tremante. Con voce flebile Antonia chiese conto al figlio del cappotto scomparso e, alla conseguente risposta di questi, la Vecchia se ne uscì con un terribile gemito colmo d’angoscia. In italiano sintetizzeremmo così il suo dire, estrinsecando il rimprovero della genitrice nei confronti dello stolto rampollo per aver disperso il peculio e aver incalzato anzitempo la di lei dipartita. Ma per chi è più ferrato nell’ostica lingua veneta, riportiamo qui le sue esatte parole: “ Ti me gà sassinà! Ah, poareta mi, che desgrassià... i schei de na vita. Cossa ti gà fato, mona d’un fiolo!” Buono sì, ma non privo di una certa inventiva, Vincenzo non si perse d’animo e, confortata la madre che forse non tutto era perduto, indossò il suo cappotto più nuovo e uscì di casa. Procuratosi da un suo amico tessitore un naspo di quelli che servono ad avvolgere le matasse di filato, si diresse verso Rialto. Giunto nei pressi del Ponte si sedette in un cantone e, fingendosi debole di mente, prese a cantilenare mentre rigirava tra le mani l’arcolaio, ammiccando e sorridendo ai passanti con l’occhio vacuo del minus habens. Oggi, nella nostra più sensibile società, si direbbe “ diversamente intelligente”. Passò l’intera giornata e, quando ormai sul far della sera credette vani i suoi sforzi, ecco comparire il mendicante con il prezioso cappotto. Avvicinatolo, con un largo sorriso lo apostrofò: “ Fratello, non posso vedere un cristiano sopportare i rigori dell’inverno con un così misero tabarro. Accetta di scambiare il tuo vecchio con il mio, perché l’anima mia te ne sarà grata!” Naturalmente al poveraccio non sembrò vero di aver avuta, per ben due volte in una giornata, tanta fortuna. Ringraziò quello che credeva essere un pio veneziano un po’ tocco e se ne andò felice per la sua strada. E così pure Vincenzo che, restituito l’aspo all’amico, tornò trionfante a casa per comunicare all’angosciata madre che il tesoro era stato ricuperato. Tesoro di cui, come sappiamo,Vincenzo non avrebbe goduto. Dopo la tragica scomparsa del ragazzo, alla Vecchia non era rimasto alcun motivo per continuare a vivere: con il figlio se ne era andata la sua stessa ragione di esistere e con lui anche la possibilità di onorare le ultime volontà del marito defunto. Fu sua cognata, madre di Lodovico che, un po’ per pietà nei confronti della Vecchia, ma soprattutto per favorire il proprio figlio, un giorno le propose un patto scellerato: occuparsi del nipote come fosse la sua vera madre. Sul momento la Vecchia rifiutò, inorridita al pensiero di poter sostituire nel suo cuore il figlio morto con il nipote: era affezionata a Lodovico, ma il suo affetto per lui non era che un pallido simulacro a confronto con l’amore materno. I giorni, le settimane e i mesi passarono e nell’animo esacerbato della Vecchia l’istinto di conservazione e il desiderio mai sopito di ritrovare, dopo tanto dolore, il calore di una presenza viva fra quelle fredde stanze, la spinsero tuttavia al gran passo: avrebbe preso in casa Lodovico e lo avrebbe allevato, curato, istruito come avrebbe fatto, se la Provvidenza non glielo avesse portato via, con il suo vero figlio. E forse un giorno il dolore si sarebbe attenuato. Capitolo Due Roma, Stazione Termini, Carnevale 2012 “ S’informano i signori viaggiatori che il treno Frecciargento 9406 delle ore sette e quarantacinque da Roma Termini per Venezia Santa Lucia partirà con circa mezz’ora di ritardo a causa del maltempo. TrenItalia si scusa per il disagio ” sincopò la voce dall’altoparlante, scandendo le parole nel modo disarticolato dei sintetizzatori vocali che hanno ormai sostituito i più costosi esseri umani. “ Merda!” L’imprecazione proruppe, neanche tanto sommessamente, dalle labbra di Fedora Milano, suscitando l’ilare reazione di alcuni passeggeri e lo sguardo severo dell’anziana signora seduta nel sedile di fronte. Era già stato frustrante interrompere un languido sogno di natura erotico-sentimentale, uno di quelli la cui trama sembrava tratta dalle belle commedie americane che le piacevano tanto allorché, all’alba del suo primo giorno di ferie, il telefono di camera sua aveva squillato in tono wagneriano. Ma il peggio era giunto con la voce del funzionario di turno il quale, ben lungi dallo scusarsi per l’inconcepibile intrusione nella sua vita onirica, le aveva intimato con un così breve preavviso di partire per Venezia. “ Milano!” aveva latrato l’infame dalla cornetta. “ Il Federici, che Dio gli atomizzi le gonadi, è stato ricoverato stanotte per una colica renale, la Donatella è in maternità per l’ennesima volta... su quell’imbecille raccomandato di Rossetto non posso far nessun affidamento... resti solo tu. Passa in Rai per le istruzioni e i biglietti del treno... ah, seconda classe... ovvio, sai i problemi di budget...” “ Ovvio un accidente! Lui che viaggiava solo in Executive” s’era trattenuta dal ribattere Fedora. “ E tieni acceso il cellulare: ti contatterà l’operatore di supporto che ti seguirà a Venezia... fai buon viaggio!” aveva concluso con involontario sarcasmo il suo abietto superiore. Così come gli animali a sangue freddo abbisognano del calore per avviare il loro metabolismo, Fedora aveva assoluta necessità di due alcaloidi, elementi indispensabili per poter mettere in funzione, al risveglio, i suoi ibernati neuroni: nicotina e caffeina. E di ciò aveva approfittato il suo capo, riagganciando prima che lei potesse abbozzare una qualsiasi reazione. In attesa che la moka sul fornello facesse il suo dovere, con riflesso pavloviano, 10 si accese la prima sigaretta della giornata. Dicono che tanto più è breve il periodo tra il risveglio e la prima boccata di fumo, tanto maggiore sia la dipendenza dal tabacco. Nel caso di Fedora il tempo era calcolabile nell’ordine dei millesimi di secondo. La nicotina fece il suo effetto. Rivoli voluttuosi fluirono dai polmoni al sangue. Migliaia di globuli rossi la distribuirono, come solerti postini, alle cellule nervose che, rese fameliche dal lungo digiuno notturno, aspettavano impazienti di rimettersi al lavoro. Gli ordini dal cervello cominciarono a partire, i messaggi elettrici defluirono attraverso gli assoni di milioni di cellule neuronali come un’onda di piena verso i distretti più lontani, risvegliando ogni organo del corpo, ogni funzione percettiva, fibra muscolare, ghiandola endocrina ed esocrina, in un crescendo rossiniano fino a quando il dottor Frankenstein, che era nascosto nel corpo della ragazza, poté finalmente esclamare: “ Essa vive!” E fu in quel momento che la ragazza formulò un pensiero orrendo: non aveva il tempo necessario per il trucco! Sin da piccola Fedora aveva imparato a truccarsi. Dapprima di nascosto, usando i colori improbabili dei fondotinta e dei rossetti venduti nelle confezioni di Barbie con cui, secondo i suoi fabbricanti, l’eterea fanciulla di coscia lunga avrebbe dovuto accendere gli amorosi sensi del suo eterno fidanzato, l’ambiguo Ken. Poi, a guisa d’apprendista strega, venne introdotta all’esoterica arte della dissimulazione e dell’inganno femminino dalle tre sorelle più grandi: Sabrina la maggiore, Arianna la mezzana e Irma la penultima. Furono loro che fecero della sorellina minore il tenero oggetto del loro malsano e insoddisfatto istinto di maternità, trasformando un roseo batuffolo dalle guanciotte morbide e invitanti, in una baldracchetta in nuce, pronta a sfilare sulle passerelle di uno di quegli osceni concorsi di bellezza per bambine che mandano in visibilio turpi moltitudini di videodipendenti. A questo punto un cinefilo accorto non avrà potuto non notare come i rispettivi nomi delle sorelle siano anche i titoli di altrettanti film del noto regista Billy Wilder. È necessaria perciò una breve digressione: Tiberio, padre di Fedora e nativo di Roma, dopo la seconda guerra mondiale frequentò con un certo successo l’Istituto Sperimentale di Cinematografia, diplomandosi a pieni voti direttore di fotografia. Aveva avuto eccellenti insegnanti: Antonioni, Germi, Visconti, Lattuada, insomma il meglio della nascente cinematografia italiana. Tuttavia il suo sogno più grande era quello di emigrare in America e lavorare con i grandi registi d’oltre oceano. Fu durante le riprese di un documentario ambientato nella laguna veneziana, però, che il destino giocò le sue mosse scrivendo un altro copione per il futuro padre di Fedora. In una tiepida giornata di primavera, allorquando Venezia dà il massimo del suo fascino decadente, a bordo di un vaporetto della linea diretta che porta dalla stazione ferroviaria a Rialto, avvinghiato alla sua inseparabile cinepresa Arriflex 16mm ST e al suo fido treppiede Cartoni, Tiberio incrociò casualmente lo sguardo di lei: Valeria, una sottile e sinuosa cerbiatta dagli inverosimili occhi color del miglior whisky d’annata, ma dal temperamento di una baccante dionisiaca. Fu amore e sesso a prima vista, consumato con passione nel monolocale con altana, affittato dagli imprudentemente fiduciosi genitori di lei, a poca distanza dall’Istituto Statale d’Arte del quale la ragazza frequentava, con poca convinzione, l’ultimo anno. Gli incontri si succedettero con progressiva frequenza nei mesi che seguirono. Tiberio era magicamente attratto da Valeria. Il corpo della ragazza dalle voluttuose e flessuose movenze feline e il viso meravigliosamente angelico erano un contrasto assolutamente inebriante. Tiberio era costantemente attratto da lei come l’ago di una bussola dal Polo Nord magnetico. Un po’alla volta, quasi senza accorgersene, se ne innamorò perdutamente. Ciò nonostante, mentre erano ancora distesi sul letto d’amore della loro stanzetta, in una plumbea mattinata primaverile, il ticchettio della pioggia sui coppi del tetto come colonna sonora e preludio all’imminente tragedia, lui trovò il coraggio (o la vigliaccheria) di confessarle che doveva partire per un lungo periodo. Sentiva che doveva inseguire il suo sogno, anche se questa sua decisione avrebbe probabilmente posto fine in modo irreparabile alla loro nascente storia d’amore. Inaspettatamente non ci furono lacrime, grida o invettive. Lei certamente più matura di Tiberio sapeva, in cuor suo, che quel momento tanto temuto prima o poi sarebbe arrivato. Anche se ringraziava il Cielo, ogni giorno che passava, che non fosse quello giusto. Tiberio riuscì a emigrare negli Stati Uniti e, aiutato da un lontano cugino che lavorava a Los Angeles noleggiando attrezzeria di scena a teatri e a produttori cinematografici, iniziò la sua avventura hollywoodiana. La gavetta fu dura e frustrante: di giorno vagava instancabile per gli Studios distribuendo le sue referenze alla ricerca di un ingaggio; la sera riparava radio, televisioni e impianti musicali in una cantina nel seminterrato del palazzo scalcinato dove suo cugino gli aveva trovato un alloggio di fortuna. Non erano ancora i tempi in cui gli italiani si dimostrarono essere tra i migliori direttori di fotografia e Tiberio passò lunghi mesi a rincorrere la fortuna che sembrava essere sempre un passo avanti a lui. Un giorno però la sorte si fermò ad aspettarlo. La Paramount stava cercando un direttore della fotografia per il nuovo film di Samuel “ Billy” Wilder, tratto da una commedia di Ernest Lehman e Samuel Taylor: Sabrina. Un curriculum lasciato da Tiberio attirò l’attenzione di un funzionario della Major. Fu convocato in tutta fretta. Il colloquio andò benissimo: quel giovane italiano dimostrava competenza e professionalità non disgiunte da un entusiasmo contagioso e da una dose di accattivante sicurezza di sé. Al regista piacque e, come accade solo negli States, a un illustre sconosciuto venne affidato un incarico importante in una grossa produzione. Tiberio era raggiante: i suoi sforzi e i suoi sacrifici, finalmente, erano stati premiati. Il lavoro cominciò in modo eccellente. La sua bravura professionale e la sua guasconesca cordialità gli valsero sin da subito gli apprezzamenti di colleghi e attori. Le riprese andarono avanti per circa un mese, fino a quando la sorte che governa i nostri destini e quindi anche quello di Tiberio, non accelerò di colpo la sua corsa. Era ormai quasi sera quando Tiberio attraversò a piedi l’ingresso principale degli studi della Paramount per dirigersi verso casa. Non sapeva resistere a quell’impulso, un po’provinciale, che lo spingeva ad allungare il percorso per poter passare sotto il Melrose Gate, il famoso arco bianco che fa da ingresso agli Studios. Ma il sapere che di lì erano passate le più importanti stelle del cinema come Valentino, Sarah Bernhardt o Marlene Dietrich era un’emozione che valeva quel piccolo sacrificio. Tiberio non poteva sapere quanto grande, invece, esso si sarebbe rivelato. L’autocarro che trasportava vecchi rottami sbucò all’improvviso da una strada laterale, immettendosi repentinamente lungo il viale. Percorse pochi metri sbandando vistosamente tra lo stridio di pneumatici e l’odore di gomma bruciata. Il guidatore, troppo ubriaco per accorgersi di quel giovane magro che gli stava attraversando la strada, non tentò neanche un accenno di frenata. L’urto fu tremendo. Tiberio, preso in pieno, volò in aria per una dozzina di metri, gesticolando come un pupazzo mosso da un marionettista epilettico, per poi fracassarsi sull’asfalto con un raccapricciante rumore di ossa infrante. Rimase in coma per un mese. Oltre alle numerose fratture agli arti superiori, al collo del femore sinistro e all’edema cerebrale, era il suo cuore ad aver subito il danno peggiore. Nonostante la sua giovane età, il forte trauma gli aveva procurato un infarto miocardico. Dopo essere stato tra la vita e la morte per diverse settimane, Tiberio venne dimesso dall’ospedale in una piovosa mattinata d’autunno. Oltre alla genuina solidarietà dei colleghi di lavoro (Wilder in persona era andato a fargli visita durante la degenza) non ebbe altre consolazioni. Il film era stato terminato senza di lui. Solo una piccola citazione nei titoli di coda, che naturalmente nessuno notò, rimase come labile traccia della sua sfortunata avventura americana. La riabilitazione sarebbe durata a lungo e lui non aveva abbastanza soldi per potersi permettere di vivere solo e senza sussidi in terra straniera. Tornò in Italia con il morale a pezzi: il sogno della sua vita s’era infranto, insieme alle sue ossa, in quel suo prematuro Viale del Tramonto ad Hollywood. Dal ponte della nave che lo riportava a casa, guardò per un’ultima volta quella che per lui era stata la terra promessa, mentendo a sé stesso che un giorno sarebbe ritornato. Non lo fece mai più. La temibile e tristemente famosa malattia nota come sindrome da Florence Nightingale11 colpisce, come comunemente è noto, un gran numero di donne. Essa agisce come potente afrodisiaco sulle poverine, obnubilando le normali capacità di giudizio e inducendole a dedicarsi con totale spirito di abnegazione alla cura del proprio partner ferito nel corpo e nella psiche. Anche quando questi ti ha mollato per l’America! A tale terribile malattia Valeria non riuscì purtroppo a scampare. Si prese tanta cura di quell’avanzo umano sbarcato dalla nave che, in tre mesi di amorevoli brodini e coccole struggenti, Tiberio tornò a nuova vita. Si sposarono a Venezia con tutti i crismi. Dal copione: zoom sulla gondola della sposa panoramica su chiesa straripante di gente e addobbi, primo piano di mamma in lacrime, campo lungo di papà in alta uniforme da sott’ufficiale dei carabinieri, corteo di motoscafi, inesauribile pranzo a Torcello, carrellata su amici scurrili euforicamente ubriachi e su amiche ciarliere e invidiose, finale con interminabile viaggio di nozze in treno per la lontana ed esotica Taormina. Un mese dopo, Valeria era incinta, o meglio, lo era solo ufficialmente. Nella versione ufficiosa il fattaccio era accaduto tre mesi prima, durante il periodo di convalescenza di Tiberio. Si sa, le infermiere a volte allacciano un rapporto professionale molto stretto con i pazienti in cura. Pare inoltre che, a quel tempo, l’ostetricia fosse ancora una disciplina esatta, poiché succedeva molto spesso che il momento del concepimento del nascituro, calcolato dal medico, non coincidesse sempre con la prima notte di nozze. Misteri della scienza! Nata settimina per tutti, salvo che per il cocciuto ginecologo, venne presentata ai parenti e amici festanti una bella bimba, dalle guance rubizze come un’avvinazzata e dai capelli corvini presi della madre, cui venne imposto il nome di Sabrina. Imposto è la parola giusta, perché Tiberio fu irremovibile: non aveva potuto finire il film, ma almeno poteva darne il nome alla sua primogenita. Il problema nasceva quando il regista americano creava una nuova pellicola. Tiberio allora, dall’altra parte dell’oceano, metteva in lavorazione un suo personale copione. Vennero così prodotte: Arianna, Irma e, da ultima, Fedora. Fortuna volle che non arrivasse mai il maschio, altrimenti la sua sorte era segnata: sarebbe stato Buddy. 12 A interrompere la filmografia familiare, alla fine ci pensò l’esausta moglie Valeria, quando scoprì e utilizzò il più sicuro dei contraccettivi orali: “ No, caro. Anche stasera ho il mal di testa!”