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La scuola come spazio comune per il pensiero
(a proposito di Le parole della vita di Lina Bertola)1
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Premessa
Ci sono libri che lavorano davvero in te perché diventano interlocutori,
prendono parte a un dialogo, sono come persone con cui puoi parlare. Può accadere anche per una sola frase. Nel caso del saggio di Lina Bertola – Le parole
della vita. Per un’educazione all’etica, Trento, Erickson, 2014 – non c’è pagina che
non abbia attirato la mia attenzione nel senso detto sopra. Sono tante le banalità
che ci tocca sentire sulla e nella scuola odierna, o meglio a monte della scuola
attuale. Per esempio da parte di parecchi pedagogisti di professione, spesso privi
di qualsiasi esperienza diretta nell’insegnamento. Fanno parte, senza in genere
rendersene conto, di un dispositivo di sorveglianza permanente, di un processo
di controllo diffusosi dalla fine degli anni ’80 a oggi. La pericolosità di quanto
stiamo vivendo risiede nel fatto che questo processo è accompagnato da discorsi
rassicuranti, da idee che suonano bene, benché siano perlopiù vuote.
Il volume di Lina Bertola, con le sue parole della vita (etica, tempo, lavoro, ecc.), è una sorta di abbecedario senza ordine alfabetico. Non vi è, a
ben guardare, neppure un indice. Così non puoi scegliere un paio di parole e
lasciar perdere il resto. Devi prenderti il piacere di leggere tutto e di seguire
il filo con cui l’autrice collega fra loro le varie voci. Il libro lo consente per
stile e brevità.
1 Testo da un intervento a braccio del 15 novembre 2014 nell’ambito di Scrittori e musica al
Ciani, con Lina Bertola, Paolo Di Stefano, Nicola Fantini, Andrea Fazioli, Edgardo Franzosini,
Laura Pariani e Raffaele Scolari, Lugano, Villa ex Asilo Ciani.
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Confrontarsi sul valore intrinseco delle cose e l’intimità con l’esistente
L’educazione è sempre educazione all’etica (Introduzione, p. 18) afferma Bertola
e, alla voce Deontologia, precisa qualcosa di centrale: «Rinunciando a confrontarsi
sul valore intrinseco delle cose, ci si attiene al rispetto di valori perlopiù formali,
la cui universalità è peraltro tuttora oggetto di dibattito. In questo clima culturale
l’appartenenza al mondo rischia di limitarsi alla condivisione di un orizzonte di
regole comuni. [...] si tratta di una versione quantomeno riduttiva dell’esperienza
etica» (p. 24). Confrontarsi sul valore intrinseco delle cose significa prima di
tutto mirare a un’intimità con l’esistente liberato dalle caricature in cui viene
umiliato. Non si tratta né di tendere alla rappresentazione abbastanza consensuale
di una prospettiva di vita e di costumi buoni, né di scivolare in un’ontologia
autoritaria, ma di fare del mondo un piano di ricerca e di problematizzazione
effettivamente comune. Un prato guardato da un bambino, da un pittore, da un
piccolo agricoltore, da uno speculatore non è lo stesso prato. Non basta riconoscere che in ogni caso è, per tutti, quel rettangolo di terra. Così è ancora un
astratto denominatore comune. Per uscire da questa situazione bisogna lasciare
che quel prato s’imponga come un vincolo tra noi: per esempio per la bellezza
del suo verde, per il suo odore. È innanzitutto questione di piccoli gesti, di tono
della voce, di attenzione al linguaggio per cercare di ascoltare ciò che nella parola risponde. Nel De Magistro di Sant’Agostino c’è un dialogo sulla preghiera.
Vi si dice che nella preghiera parliamo e che nello stesso tempo questo parlare
è ascoltare Dio.2 La parola, se badiamo a questa indicazione, dovrebbe essere
preghiera in senso laico; non dovrebbe solo nominare, ma portarci ad ascoltare in essa la risposta dell’esistente. Il verde e l’odore del prato, per riprendere
l’esempio appena fatto. È questione di piccoli gesti, di tono della voce, di attenzione alle parole, dicevo, da cui trapeli – attraverso le nostre debolezze di
uomini e insegnanti – un’amorevolezza e una ragionevolezza per l’esistente in
2 Sant’Agostino, De Magistro, in Tutti i dialoghi, testo latino a fronte, introduzione generale,
presentazioni ai dialoghi e note di Giovanni Catapano, traduzioni di Maria Bettetini, Giovanni
Catapano, Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2006, I, 2, p. 1663.
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genere e per gli studenti in particolare (cfr. p. 65, Ragione / Sentimento). Forse
è così possibile evitare un po’ quello che giustamente Gilles Deleuze rilevava
stigmatizzando i dibattiti: ci si illude di esprimersi sulle stesse questioni, quando
si parla invece di realtà diverse.
Memoria, non gabbie identitarie
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Il valore delle cose, l’intimità con queste ultime è ciò che vorrei legare al
tema dell’identità toccato da Lina Bertola nella voce omonima. Bisogna approfittare delle occasioni liberatorie che sono le contaminazioni evidenziate dalla
nostra società multiculturale. Gabbie identitarie e sentimento delle radici, come
mani che si aggrappano alla terra, fanno in fretta a trasformarsi in violenza.
Non basta tuttavia prendere atto passivamente di una multiculturalità di fatto.
Ci vuole la memoria del provenire da un passato contaminato che incontra le
contaminazioni attuali. È nella coscienza delle “impurità” che l’intimità cresce e
che le distanze possono trasformarsi in rispetto. La scuola è uno dei rari luoghi
comuni in cui coltivare la memoria del provenire da qualcosa di contaminato, da
un linguaggio attraversato da tracce e variazioni molteplici nel corso della sua
storia, volto a rendere conto di un esistente che è già in se stesso linguaggio,
comunicazione delle relazioni che esso è all’interno delle relazioni in cui via
via si trova.
La scuola è luogo comune, luogo di tutti, vissuto insieme agli altri. Ve ne
sono sempre meno. È un luogo in cui sperimenti che nessuna voce è univoca,
“pura”: né quella dello studente né quella dell’insegnante. Quest’ultimo si rende
conto di quanto i suoi allievi siano straordinariamente sfuggenti alle categorizzazioni. Ognuno deve però assumere il proprio ruolo: studente e insegnante tenuto a giudicare senza essere assetato di giudizio. Dice felicemente Lina Bertola
a proposito del compito in classe: è il punto di arrivo di un viaggio in comune,
ma è anche l’inizio di una relazione educativa in cui la valutazione ha modo
di perdere il suo alone di “giudizio universale” per proporsi «come linguaggio
per comunicare il valore di un’esperienza nella sua complessità» (p. 56, Valutare
/ Valutazione). Il compito in classe non è solo un mezzo per verificare le conoscenze, ma è il racconto di un’esplorazione che comporta una continuazione
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del viaggio per lo stesso insegnante, con scorci sempre pronti ad aprirsi in mezzo
a risultati buoni o meno buoni. Ognuno, dicevo, deve assumere il proprio ruolo.
Sennò si prende la scorciatoia della realtà presentata «senza intervalli, neutralizzata nei suoi processi e nelle sue temporalità: realtà senza sfondo, puro evento
comunicativo», usando le parole di Bertola (p. 41).
Pensare oltre la conoscenza
Sempre a proposito di rapporto con una realtà che non sia quella «senza
sfondo, puro evento comunicativo», la scuola ha il privilegio di lavorare sui tempi
lunghi, sulla continuità. Non è l’informazione in rete e nemmeno una conferenza. È una grande opportunità quella di penetrare lentamente e per improvvise
accelerazioni nei territori della ragione che, «nel cuore dell’Illuminismo», sottolinea opportunamente l’autrice, «esprime [...] il bisogno di pensare e non solo
di conoscere [...]. L’intreccio tra la conoscenza razionale e il pensiero che la
trascende, e insieme la alimenta, apre a quella forma di trascendenza laica che è
forse l’eredità più interessante dell’Illuminismo: apre a quell’orizzonte di senso
che non ammette spiegazioni scientifiche ma che, oltre a orientare il progresso
delle conoscenze, riesce a porre la nostra vita in contatto con la propria verità»
(p. 46). L’Illuminismo non è qui abbreviato rispetto alla sua ricchezza, come a
volte accade.3 Viene alla mente la bella distinzione kantiana tra limite (Grenze)
3 Una ricchezza che andrebbe anche vista più attentamente nel suo scontro e confronto col
Settecento estraneo ai Lumi e col Settecento antilluminista. Ne approfitto per ricordare a questo
proposito un bel libro di Paolo Farina il quale afferma che un’«indagine condotta in uno spirito
non manicheo sul terreno degli avversari avvia una riconsiderazione generale del Settecento,
realtà complessa ed irriducibile alla formula le siècle des Lumières, i cui avversari non erano, dal
primo all’ultimo, come il marchese di Geraci, né modesti o (addirittura) rozzi intellettualmente
né retrivi o (addirittura) feroci ideologicamente. La critica contro i Philosophes non fu determinata dall’esigenza di difendere sempre e soltanto il passato ma anche talora da istanze proiettate
verso l’avvenire» (Il disincanto della scienza. Giammaria Ortes 1713-1790: l’«economia nazionale» contro
i Lumi, Venezia, Marsilio, 2007, pp. 10-11).
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e confine (Schranke) che è semplice negazione che affetta una grandezza.4 Limite
segna invece la frontiera tra mondo fenomenico e noumenico, ma è ugualmente comune ai due mondi che divide, comportando così uno spazio al di
là di quanto delimita. Pensare oltre la conoscenza, prosegue Bertola, «significa
non smettere di porsi domande, continuare a immaginare mondi possibili (p. 47).
André Weil – uno dei massimi matematici del XX secolo – sostiene che per
conoscere non c’è niente di più fecondo delle analogie oscure, dei «riflessi
confusi tra una teoria e l’altra».5 Conoscenza e pensiero al di là di essa hanno
poi entrambi bisogno delle passioni celebrate da Diderot nelle sue Pensées philosophiques: «vi sono solo le passioni, e le grandi passioni, che possono elevare
l’animo alle grandi cose. Senza di esse, niente di sublime sia nei costumi sia nelle
opere; le arti tornano al loro stadio infantile e la virtù cade nelle minuzie».6 Gli
fa idealmente eco Lina Bertola che parla della scuola come altrove simbolico
in cui valorizzare pensiero e sentimento, «a dispetto di una tradizione e di una
cultura che ancora oggi faticano a riconoscere le ragioni dei sentimenti e il loro
valore cognitivo» (p. 57, Scuola).
Scuola, educazione all’etica e materie insegnanti
Scuola, quindi, come luogo comune dell’educazione all’etica, a un’etica come
intimità con l’esistente. L’etica non appiattita sulla deontologia, sul piano giuridico
pur così importante. Questa riduzione «non è nata nella casa dei Lumi» ci ricorda
con fermezza l’autrice (p. 89, L’educazione tra etica e deontologia). Il centro di quello
spazio comune dell’educazione all’etica nella scuola sono le materie nel loro divenire insegnante. Non mi piace l’espressione “materia insegnata”; peggio ancora
4 Cfr. Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, trad. it.
di R. Assunto, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 120.
5 André Weil, De la métaphysique aux mathématiques, in Œuvres Scientifiques. Collected Papers,
New York / Berlin / Heidelberg, Springer, 1979, II, p. 408.
6 Diderot, Pensées philosophiques, in Œuvres complètes, éd. établie par J. Assézat et M. Tourneux,
Paris, Garnier, 1875, t. I, pp. 127-128.
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“da insegnare” o “disciplina” (che rinvia a una discepolanza). Preferisco l’idea
di qualcosa di materiale che insegna. È come un focolare o una tavola alla quale
sedersi per pranzare. Si è lì per scaldarsi e per mangiare. Poi accade anche altro:
si parla, ci si relaziona, si stringono amicizie, si litiga, ci si riappacifica, ma se non
c’è legna e un fuoco alimentato, se non c’è chi ha preparato con cura il pranzo
non accade nulla. Le materie, se non sono un recinto angusto, possono essere
uno straordinario spazio comune. Avrei voglia di dire, a questo punto, che il
lavoro dell’insegnante è simile a quello della casalinga che cucina, pulisce, ma
deve sempre ricominciare. Prepara il pranzo e mezz’ora dopo ci sono solo resti,
pentole e piatti sporchi. L’insegnante si prepara, parla, spiega. Mezz’ora, un’ora,
un anno dopo che cosa resta? Allora il suo lavoro e quello della casalinga non
sono serviti a nulla? Ovviamente no. Eppure, se qualcuno di esterno al nostro
mondo di umani entrasse improvvisamente in una cucina a pranzo ultimato
potrebbe ritenere che, lì, vi siano solo sporcizia e disordine. Ho l’impressione
che parecchie persone alle nostre latitudini (perché non è così dappertutto),
quando parlano d’insegnanti e di scuola, appartengano momentaneamente a un
mondo non umano, come se arrivassero da chissà quale lontano pianeta.
La materia insegnante è come un focolare o una tavola apparecchiata per
pranzare, dove si siedono allievi e docenti. Ciò nonostante, è la grande negletta
dei molti discorsi sulla scuola. Spesso si ha l’impressione che bisognerebbe insegnare un po’ di tutto e un po’ di niente, soprattutto nella scuola media. È
quanto s’impone sempre più sotto la pressione di una realtà anestetizzata. La
materia insegnante può non solo essere simile a un focolare o a una tavola apparecchiata, ma pure alla cassetta disegnata dall’aviatore in Il piccolo principe di
Saint-Exupéry. L’invito reiterato a disegnare una pecora non dava risultati soddisfacenti. Ecco allora nascere sbrigativamente quella cassetta accompagnata da
un’indicazione evasiva: «La pecora che volevi sta dentro». Il piccolo principe
è finalmente soddisfatto; era ciò che voleva. Bertola nell’Introduzione (p. 12)
ricorda quella cassetta «in cui dormiva, invisibile, la pecora più vera, o meglio,
l’unica pecora verosimile». La materia insegnante ha modo di diventare quello
che la filosofa dice a proposito delle parole: «il luogo da cui può emergere e
prendere forma la realtà» (p. 12). Da cui la materia stessa può incessantemente
riemergere, rinascere.
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La scuola come spazio comune per il pensiero
La scuola come spazio comune per il pensiero e il pensiero come spazio comune
La scuola è spazio comune per il pensiero e il pensiero è già in se stesso
spazio comune. L’uomo cerca una casa in ciò che chiama “io”, ma è il pensiero
che può forse essere una casa per noi e per l’esistente. Di fatto esso è prodotto
congiuntamente da noi e dall’esistente. Se non ci fosse nulla da pensare e con
cui pensare non penseremmo proprio, non sentiremmo nulla, non avremmo
emozioni, intellezioni. E se emozione ha a che vedere con il “muovere da”, con
un movimento che ci porta fuori, fuori di noi, può forse avere un ruolo determinante nel far riemergere un poco di quel pensiero-spazio comune, di quel
pensiero come campo di forze generato dall’interazione tra una moltitudine
di cariche. Pensiero come campo di forze né veramente interno né veramente
esterno. C’è un pensiero come spazio comune da cui si stacca il pensiero tenuto
a bada dall’io. Quest’ultimo è una costruzione inevitabile e indispensabile. Il
pensiero, però, non si esaurisce lì. Nietzsche affermava che forse un giorno ci
si abituerà «anche da parte dei logici, a cavarsela senza quel piccolo “esso” (nel
quale si è volatilizzato l’onesto, vecchio io)».7 Sossio Giametta, filosofo e traduttore di Nietzsche, in un libro che s’intitola L’oro prezioso dell’essere scrive che
«L’individuo pensa che la vita sia sua, invece è lui che è della vita». L’individuo,
continua Giametta, «è una madre che sviluppa nel proprio grembo il figlio
d’altri».8 Riprenderò questa affermazione tra poco.
Questo ritrarsi dell’io che sto auspicando non implica rinunciare alla responsabilità, alla libertà, all’autonomia. Viviamo in un clima culturale, scrive Bertola,
che «rischia di consegnarci al libero mercato dell’omologazione», che «tende
a soffocare quell’io originale e unico che si esprime nella libertà di, ovvero
nell’esercizio della propria autonomia» (voce Libertà, pp. 34-35). La classe, le materie insegnanti, il pensiero come cassetta sotto cui dorme la pecora, «da cui può
emergere e prendere forma la realtà» (p. 12) sono anche i luoghi né interni né
esterni in cui può prendere forma un nuovo “io” più capace di far agire insieme
7 Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, versione di Ferruccio Masini, in Opere,
ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1968, vol.VI, t. II, 17, pp. 21-22.
8 Sossio Giametta, L’oro prezioso dell’essere, Milano, Mursia, 2013, p. 256.
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intelletto e sentimenti; più capace di rispondere liberamente all’esistente per
resistere meglio in compagnia all’omologazione, per portare in sé i figli d’altri,
riprendendo Giametta citato poco fa. Portare in sé i figli d’altri. Non servire
i mostri generati da una società che da una pluralità di fini più o meno reale
si è da tempo arresa a essere dominata da un fine unico: il mercato autoreferenziale accompagnato dai suoi belletti, dai suoi ornamenti come la nozione di
competenza usata per costringere in un angolo la conoscenza impedendole di
essere atto di resistenza. Non potrebbe essere più chiaro quanto s’incontra in
PISA 2012. Approfondimenti tematici nell’introduzione di Eva Roos: «PISA non
si prefigge di verificare se gli allievi padroneggino i contenuti delle varie discipline scolastiche. Si propone piuttosto di individuare in quale misura le loro
competenze permettano agli allievi di gestire le situazioni della vita quotidiana
e se siano in grado di affrontare le sfide della vita futura».9 Si sa dunque già che
cosa sarà la vita futura con le sue sfide? Il problema non sono le competenze
in senso generico, ma come sono intese oggi, funzionali cioè alla massima duttilità rispetto al mercato il cui unico rapporto con la realtà è, in senso globale,
determinato dalla volontà di trasformare tutto l’esistente, senza residui, a sua
immagine e somiglianza. In quest’ottica s’inchiodano studenti e insegnanti a
una fattualità immutabile, benché inneggiante senza pace all’innovazione. E in
quest’ottica è anche necessario perseguire obiettivi assolutamente giusti, come
la migliore integrazione scolastica dei nuovi migranti. Obiettivi nondimeno
flessi sotto il peso non di un disegno d’insieme – mediato per esempio dalla
Organisation for Economic Co-operation and Development (OECD) –, ma
dentro una molecolarizzazione che si nutre di ulteriore molecolarizzazione.
Questa molecolarizzazione mercantile ha, però, contemporaneamente bisogno
che gli Stati garantiscano coesione sociale in un contesto di erosione della solidarietà nella forma delle relazioni tra individui e di disgregazione dello Stato
sociale che essa stessa produce.
Torno, concludendo, alla scuola, alle materie insegnanti, al pensiero. Luoghi
né veramente interni né veramente esterni in cui può prendere vita un modo
nuovo d’intendere la scuola pubblica al di là della retorica, delle parole che si
9 Consorzio
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PISA.ch, Neuchâtel 2014, p. 5.
La scuola come spazio comune per il pensiero
sclerotizzano diventando incapaci di respiro, di orizzonte, d’invenzione della
realtà; incapaci di trovare quell’altro mondo che è in questo mondo. Trovare
quell’altro mondo che è in questo mondo: è l’idea surrealista del poeta Paul
Éluard con cui Lina Bertola conclude il libro. Un’idea feconda per rinvenire un
po’ di quel pensiero-spazio comune nel pensiero dell’io a volte asfitticamente
sistematizzato, privatizzato e privatizzante in una parola anch’essa diminuita. Ci
vuole un nuovo “io” che lasci rispondere nelle parole le cose, gli enti in quanto
enti come dono; un divenire-io che si ponga in condizione di lasciarsi risvegliare
da quel dono che non cessa di resistere a ogni dispotismo.
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