Globalizzazione, cooperazione internazionale e migrazioni

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Globalizzazione, cooperazione internazionale e migrazioni
 MIGRAZIONI: EVENTO GLOBALE DA INTERPRETARE Globalizzazione, cooperazione internazionale e migrazioni Riccardo Moro
Compito di questa riflessione è articolare alcune considerazioni sul contesto internazionale in cui si sviluppa il fenomeno delle migrazioni e sulla relazione tra questo e la cooperazione internazionale. In particolare si cercherà di sottolineare l’esistenza di una corresponsabilità nell’incidere sulle cause che portano molte persone ad abbandonare il loro paese per affrontare, spesso in totale insicurezza, viaggi disperati alla ricerca di opportunità economiche che possano cambiare la propria vita e quella dei propri cari. Guardando al futuro, questa corresponsabilità si gioca nella scelta e nella realizzazione di politiche nazionali e di cooperazione internazionali. Come si vedrà, l’obiettivo di queste politiche non sta tanto nell’identificare strumenti di contrasto, che si rivelano sistematicamente inefficaci, quanto nel rafforzare relazioni e processi di lungo periodo che riducano disuguaglianze spesso sconvolgenti. 1. Il contesto: una globalizzazione imperfetta Una interdipendenza sempre maggiore Come già hanno accennato nel loro intervento Nicola Doni e Sebastiano Nerozzi 1 , il fenomeno delle migrazioni si sviluppa all’interno di ciò che oggi chiamiamo globalizzazione. Se la tendenza ad una sempre maggiore interazione e integrazione è antichissima, il grado di interdipendenza è oggi particolarmente intenso, e, a partire dagli anni ’90, ci ha fatto parlare di globalizzazione. Con questo termine 2 intendiamo il contesto di facile circolazione dei capitali e delle informazioni che si è reso possibile soprattutto grazie alla recente rivoluzione telematica. In passato la progressiva caduta dei prezzi dei trasporti ha permesso una intensificazione dell’internazionalizzazione del commercio, cioè la possibilità di vendere in tutto il mondo la propria produzione e, di conseguenza, la possibilità di acquistare prodotti provenienti da ogni angolo del pianeta. A questo fenomeno si è aggiunto il processo di finanziarizzazione dell’economia, risultato delle politiche di ispirazione monetarista messe in atto dal 1979 in avanti, soprattutto nel Regno Unito e negli Usa, nel tentativo non sempre efficace di combattere l’inflazione dopo la seconda crisi petrolifera degli anni ‘70. I sistematici rialzi dei tassi di interesse frutto di quelle politiche attirarono nel sistema finanziario ingenti risorse altrimenti destinate all’impiego nel settore reale, avviando un’ipertrofia del mercato 1
Cfr Doni N., Nerozzi S., Migrazioni, clandestinità e mercato del lavoro, in questo stesso volume. Per un facile approfondimento dell’idea di globalizzazione mi permetto di rimandare a Moro R., Governare la globalizzazione. Una sfida possibile per costruire la pace, AVE, Roma, 2003. 2
finanziario che si è autoalimentata con la creazione prodotti finanziari sempre più raffinati ed ha acquisito dimensioni sproporzionate rispetto al settore reale di cui sino a quel momento era stato al servizio 3 . Questa dinamica, unita alla rivoluzione informatica e telematica, ha creato un unico mercato finanziario mondiale. Superato anche legislativamente il tabù del controllo del movimento dei capitali, gli operatori hanno potuto giocare senza ostacoli su tutto lo scacchiere internazionale. A questo, però, non è corrisposto un adeguato irrobustimento istituzionale che provvedesse il mercato finanziario globale di un efficace sistema di regolazione. La mancanza di un efficace meccanismo antitrust in grado di svolgere la propria funzione in termini globali si è composta con un processo di deregulation legislativo nelle diverse dimensioni nazionali, determinando un fenomeno progressivo di riduzione del numero degli operatori del settore, attraverso successive acquisizioni e fusioni che tendono a concentrare il potere finanziario mondiale in un’area del pianeta relativamente ristretta, cioè l’emisfero settentrionale e in particolare Nord America e Europa occidentale, concorrendone ad alzare i livelli medi di reddito. La facilità di trasmettere informazioni e capitali che la tecnologia oggi consente ha reso più semplice anche la delocalizzazione produttiva, che ha comportato un ingresso di capitali e investimenti produttivi stranieri nel Sud del mondo. In diversi casi questo è avvenuto nel rispetto delle persone coinvolte nel processo produttivo, pagando cioè salari equi ai collaboratori locali, concorrendo a migliorare le condizioni dei territori in cui l’investimento produttivo veniva realizzato: i nuovi lavoratori locali esercitano una nuova domanda di beni che suscita un effetto espansivo e moltiplicatore sull’economia locale. Non sono mancati però casi di sfruttamento delle condizioni di povertà, senza alcun beneficio per le persone e le comunità locali, quando nel processo di delocalizzazione i livelli salariali locali sono stati tenuti a livelli irriguardosamente bassi, giocando sulla disperata esigenza di lavoro di molte persone che vivono sotto il livello di povertà assoluta 4 . Internazionalizzazione del commercio, finanziarizzazione dell’economia, rivoluzione informatica che permette rapida e facile circolazione delle informazioni e dei capitali hanno creato un contesto ricco di opportunità che ha favorito un mercato finanziario globale, processi di delocalizzazione e interdipendenza economica sempre maggiore. Ma il fenomeno della globalizzazione è più ampio e coinvolge, proprio in ragione della facilità di circolazione delle informazioni, anche la dimensione della comunicazione e delle relazioni sociali. In particolare è riscontrabile nella diffusione a livello mondiale di molte forme di espressione sia artistica sia giornalistica. Si pensi alla distribuzione mondiale di una parte almeno della produzione dell’industria cinematografica (soprattutto nordamericana, ma non solo) e di molta musica, o 3
Come ricorda Marco Onado, nel 2007 per ogni dollaro di PIL mondiale (ca. 55 trilioni di dollari), esistevano nel mondo 16 dollari di attività finanziarie (cioè titoli, obbligazioni, pagherò, etc.), per un totale di 890 trilioni di dollari, delle quali ben 660 di soli derivati. Già queste cifre danno l’idea di quanto più grande sia la dimensione della finanza rispetto all’economia reale (cioè la produzione – e l’acquisto – di beni e servizi). Se si pensa che questi 890 trilioni possono essere scambiati molte volte al giorno, originando un flusso di transazioni ancora più elevato, che di fatto è amministrato da un numero contenuto di operatori finanziari il cui cervello operativo è concentrato in poche piazze del Nord del mondo, ci si rende conto di come chi faceva parte dell’élite finanziaria internazionale prima della crisi potesse sentirsi nei fatti onnipotente. Gli ultimi due anni ci hanno mostrato che non era cosi. Cfr. M. Onado, I nodi al pettine. La crisi finanziaria e le regole non scritte, Roma, Laterza, 2009, p. 16 e 57‐58 4
Accanto a queste forme di delocalizzazione perversa e vero proprio sfruttamento esistono anche altre forme di investimento straniero che comportano ridotti benefici interni. In particolare ci riferiamo a numerosi recenti investimenti cinesi, normalmente legati a commesse pubbliche dei paesi del Sud del mondo per la realizzazione di infrastrutture (e in particolare per la realizzazione di strade), in cui buona parte della forza lavoro, direttiva e no, proviene dalla stessa Cina e favorisce l’insediamento di attività commerciali che offrono prodotti del paese di origine sia alla comunità dei lavoratori espatriati, sia all’intera comunità locale, spiazzando non solo i prodotti importati da altri paesi, ma anche parte almeno della produzione locale. alla funzione assunta nel mondo dell’informazione da network come CNN, BBC e Al Jazeera o al ruolo svolto dalla rete satellitare TV5 per la francofonia. Ricevere le stesse notizie, ascoltare la stessa musica e guardare gli stessi film (con la potentissima capacità che ha lo star system di suscitare mode e comportamenti che, diventando modelli di consumo, influenzano le scelte economiche dei consumatori), determina una familiarità con usi, simboli e, più generalmente, informazioni comuni in tutto il mondo. Pur con tutti i limiti, oggi gli uomini e donne che abitano il pianeta vivono una condizione di cittadini del mondo molto più reale di quanto sia mai avvenuto in passato. Le tensioni In un quadro ideale si potrebbe immaginare che alla condizione cui abbiamo fatto cenno corrispondano intriganti contaminazioni culturali che convivono con culture identitarie coltivate in dialogo reciproco, capaci di organizzare e sostenere (grazie ad un efficiente sistema finanziario internazionale mondiale che facilita la massimizzazione del rendimento dei capitali) anche un’adeguata protezione sociale, garantendo nei fatti ciò che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite afferma, cioè la tutela dei diritti fondamentali per tutti i cittadini del pianeta, mettendo a disposizione di tutti scuole, ospedali e infrastrutture per migliorare la vita sociale. Sappiamo che le cose naturalmente non stanno così. La povertà Il disequilibrio più imbarazzante riguarda la distanza scandalosa tra la povertà diffusa nel Sud del mondo e il benessere che coinvolge la quasi totalità di chi vive nel Nord. Le differenze non si determinano solo in termini di reddito, ma anche di più generale condizioni sociali e di vita. La tabella 1, che presentiamo da un’elaborazione di dati della Banca Mondiale, mostra le distanze tra i livelli di reddito procapite delle diverse aree del pianeta, insieme ad alcuni indicatori sociali rilevanti per misurare il progressivo avvicinamento agli Obiettivi di Sviluppo del 2015 5 . Anche una lettura non specialistica riesce a evincere differenze enormi fra i dati. I numeri rappresentano volti di donne, uomini e bambini. Proprio quelli che riguardano i bambini colpiscono con più durezza. Differenze di mortalità entro il quinto anno di vita che vanno da 146 a 4 danno conto di situazioni sociali che sembrano provenire da pianeti diversi e le cui differenze non possono non essere definite scandalose. 6 5
Per una presentazione sintetica degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio si rinvia alla seconda parte di questo intervento. 6
Il 146 per mille di mortalità “under 5” significa che 146 bambini su 1000 nati vivi, cioè 1 bimbo ogni 7, muoiono prima di compiere cinque anni. Nei paesi ricchi la media di questo valore è 4. Sono 142 bambini su mille in meno. Nel Nord del mondo la morte di un bimbo piccolo è rarissima e sconvolgente. Nelle zone rurali in Africa è un’esperienza vissuta praticamente da ogni famiglia. TABELLA 1 Alcuni indicatori sociali
Africa Sub
Sahariana
Reddito procapite Attesa di vita alla nascita Mortalità entro il 5° anno di età Incidenza tubercolosi Frequenza scuole primarie Alfabetizzazione adulti Parti assistiti da personale sanitario Accesso a servizi igienici Accesso all'acqua potabile Malnutrizione Emissioni CO2 Utilizzatori di Internet Popolazione dollari
USA
Est Europa
e Asia
Cenrale
America
Latina
Romania
Albania
Area
Euro
Marocco
1.082
3.833
3.274
7.930
3.840
2.580
38.821
52
73
70
73
77
71
80
146
26
23
15
15
34
4
369
50
56
115
17
92
13
% pop
in età
74
95
94
97
94
89
100
% pop
>15
anni
62
91
98
98
99
56
100
% tot
45
89
95
98
100
63
100
% pop
31
78
89
72
97
72
100
% pop
58
91
95
88
97
83
100
% pop
29
9
6
5
5
5
..
tonn.
Pro
capite
0,9
2,5
7,0
4,1
1,1
1,6
8,1
% pop
4,5
26,6
23,4
23,9
15,1
33,0
61,6
milioni
818,0
565,3
441,3
21,5
3,1
31,2
325,9
anni
ogni
1000
nati vivi
ogni
100.000
ab.
Elaborazione da World Bank, World Development Indicators 2009 Condizioni così faticose non riguardano una piccola minoranza della comunità internazionale. Il numero di persone che ha fame, secondo i dati della FAO, ha superato il miliardo e venti milione di persone nel 2009. Le stime della Banca Mondiale attestano che circa un miliardo e trecento milioni vivono con meno di un dollaro al giorno e, addirittura, tre miliardi, cioè la metà della popolazione mondiale, dispone per vivere di meno di due dollari al giorno. Confrontate con i livelli di consumo cui è abituato il cittadino medio europeo, compresi chi scrive e chi legge queste righe, queste cifre sono impressionanti. La democrazia Un’ ulteriore “tensione” oggi presente nel pianeta è quella dello stato e dello sviluppo della democrazia. In molti paesi purtroppo i diritti sono almeno parzialmente violati e la democrazia limitata. La povertà non è una causa obbligata di questi fenomeni, ma può esercitare una influenza pesante, nel momento in cui riduce le opportunità di educazione e formazione, e quindi pregiudica la disponibilità di strumenti per una partecipazione efficace alla vita politica della comunità. Ma la riflessione sulla democrazia nel pianeta non riguarda solo i paesi con minor benessere. Vi è una più ampia e generale limitazione della democrazia quando si determina una condizione, come effettivamente accade oggi, in cui le persone non riescono a partecipare efficacemente al processo di formazione delle decisioni e ad esercitare, quindi, efficacemente la propria responsabilità di membri della comunità. Sempre di più l’apertura delle frontiere apre spazi ai global player. Quelli finanziari ed economici (ma non vanno dimenticati quelli della criminalità organizzata o del terrorismo e il margine confuso che tra finanza e crimine a volte si può determinare) si muovono con grande velocità. La politica, che dovrebbe determinare le regole e gli obiettivi generali all’interno dei quali essi possono orientare i loro comportamenti, è più lenta, spesso trovandosi a seguire anziché ad orientare il loro agire. Un esempio utile è quello dei processi di delocalizzazione che abbiamo citato. Le scelte di delocalizzazione non vengono fatte dalle imprese all’interno di un quadro di sviluppo generale definito dalla comunità nella sua dimensione politica, che articoli il territorio in aree per l’attività economica e produttiva, spazi per la comunità, aree abitative, coltivazioni e tutela ambientale, etc. Al contrario, le scelte delle imprese creano un fatto compiuto a partire dal quale la comunità locale successivamente riempie il territorio (spesso senza disegnarlo) e non viceversa. Effetti speculari sono creati anche nel Nord del mondo, dove i processi di delocalizzazione comportano lo smantellamento dei siti industriali, con gravi perdite occupazionali che non sono facilmente recuperabili nel breve periodo, e con il degrado e la perdita di identità di molti territori, spesso abbandonati a selvagge speculazioni edilizie. In questo quadro, spesso pesantemente influenzato dalla disinvoltura di chi ha potere economico, i cittadini e le comunità locali, sia nei paesi di origine delle imprese sia in quelli di nuovo insediamento, non riescono ad incidere. La politica, cioè ancora una volta la comunità, si trova ad inseguire il cambiamento anziché orientarlo in una prospettiva democraticamente scelta e consapevole, L’ambiente Un mancato governo del territorio per orientare lo sviluppo economico e per utilizzare quello sviluppo come strumento di tutela del territorio stesso 7 ci introduce al terzo grave squilibrio che in questa breve analisi può essere evidenziato: quello dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, che ha nel cambiamento climatico l’aspetto a cui oggi la comunità internazionale è (finalmente) più sensibile. Non è questa la sede per un approfondimento del tema, basti ricordare come la preoccupazione per il cambiamento climatico e il consumo delle risorse non rinnovabili, energetiche e no, determini una tensione che smitizza “le magnifiche sorti e prospettive” che in qualche modo il modello di sviluppo liberista immaginava 8 . 7
Si pensi alla funzione di generale tutela ambientale che può essere svolta dall’agricoltura quando è sviluppata in modo equilibrato e, viceversa, alla devastazione suscitata in molte zone del Sud del mondo dal fenomeno della deforestazione. La terra viene sfruttata in modo eccessivamente intensivo “bruciandola” in pochi anni sino a renderla sterile, quindi si sottrae nuova terra alle foreste naturali per avviare un nuovo ciclo di sfruttamento, irresponsabilmente fiduciosi, grazie alle dimensioni di foreste come quella amazzonica, di poter disporre del fattore produttivo terra all’infinito. Il risultato di queste pratiche è la desertificazione di territori naturalmente umidi e fecondi, la riduzione della produzione di ossigeno nel pianeta e l’aumento dell’effetto serra con le note conseguenze sul clima. 8
Jean Babptiste Say nel 1803, teorizzando la “legge degli sbocchi”, assicurava l’assenza di limiti all’espansione economica e la capacità del mercato, se non alterato da interventi pubblici, di arrivare e mantenere nel tempo una condizione di piena occupazione. Dalla tesi dell’economista francese in avanti, la corrente neoclassica e Le istituzioni internazionali Dalla sommaria descrizione che abbiamo accennato si può notare come il tempo di globalizzazione che stiamo vivendo offra opportunità di grande rilievo in un contesto purtroppo tuttora ricco di gravi squilibri. In questo quadro è particolarmente evidente la debolezza delle istituzioni internazionali. Se a livello nazionale le Costituzioni offrono una fonte di diritto vincolante che permette alle istituzioni nazionali di perseguire il bene comune con una certa efficacia 9 , a livello internazionale non disponiamo di un diritto e di un sistema di istituzioni adeguatamente forte e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo rimane un’autorevole esortazione per i popoli e gli stati, ma non certo un documento che origina obblighi 10 . Sebbene rispetto al passato il sistema delle istituzioni internazionali si sia arricchito di soggetti e allargato per competenze, rimane largamente inadeguato ad esercitare con efficacia ed efficienza una effettiva governance e, nello stesso tempo, mostra evidenti limiti sul piano della democrazia e, a volte, della trasparenza. Il sistema formale delle istituzioni multilaterali è regolato da meccanismi di voto e di responsabilità interni disegnati secondo criteri diversi. Presso l’ONU ogni paese dispone di un voto, a prescindere dal numero di persone che lo abitano, e cinque dispongono addirittura di un diritto di veto. Per le istituzioni finanziarie quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, il voto dei paesi membri dipende dai PIL, con un meccanismo che riduce la voce dei più poveri. Né rappresentano forme di democrazia particolarmente avanzata consessi come il G8 o il G20, che svolgono una funzione preziosa di dialogo e costruzione del consenso, ma coinvolgono porzioni più o meno limitate della popolazione mondiale, rappresentandone oltretutto solo i governi e mai la complessità dei parlamenti e delle società. 2. Noi nel contesto: le fatiche Una cultura che si corrode e si trasforma, ma non evita la crisi Nel contesto che abbiamo descritto, e con le tensioni che lo caratterizzano, emergono alcune “fatiche” che la comunità umana sta mostrando. Guardando alla componente ricca del pianeta è sempre maggiore (e preoccupante) una sorta di corruzione di quelli che erano stati i fondamenti dello sviluppo economico e sociale dell’ultimo secolo per il mondo occidentale. L’obiettivo del miglioramento della tutela della dignità della vita delle persone, ha creato diverse forme di welfare, frutto di un convinto e diffuso consenso intorno all’idea che la tutela dei diritti si realizzi attraverso l’assicurazione dei servizi fondamentali, quali istruzione e assistenza sanitaria, da parte della comunità sociale e della sua espressione formale, cioè lo successivamente neoliberista, e con loro il mondo della politica e della pubblicistica, hanno visto nella crescita, cioè nell’aumento del Prodotto Interno Lordo (PIL) l’obiettivo da perseguire per tutti e da utilizzare per misurare le performance economiche di una comunità o di una nazione. Questa “fiducia” nella crescita raggiunge a volte livelli paradossali. Negli anni scorsi nel nostro paese sono state formulate critiche severe al protocollo di Kyoto, cioè il patto internazionale per la riduzione delle emissioni, argomentando che la sua applicazione sarebbe costata “almeno due punti percentuali del PIL” come scrissero molti giornali. Al di là dello scarsa logica di queste affermazioni (il costo dell’adeguamento degli impianti a nuove legislazioni di tutela ambientale comporta un aumento del fatturato delle imprese specializzate che si occupano di realizzare queste soluzioni e quindi, direttamente e indirettamente, un aumento del PIL, non certo una sua contrazione) esse mostrano come si possa affermare più importante la crescita del PIL alla tutela del pianeta. 9
Si pensi all’esperienza dell’Italia, uscita dalla Seconda Guerra Mondiale in condizioni di estrema povertà e gravi squilibri interni, che approva la Costituzione e alla luce dei suoi principi orienta politiche di sviluppo economico e di inclusione sociale basate su efficaci strumenti di corresponsabilità e redistribuzione fiscale cambiando letteralmente fisionomia al paese. 10
Si rimanda, a tal proposito, al saggio di Chiara Vitucci in questo volume. stato. Ma sempre di più oggi dal dibattito politico nascono sistematiche proposte di contrazione della dimensione e del ruolo dello stato sia dal punto di vista della raccolta fiscale, con più o meno demagogiche proposte di riduzione delle imposte, sia dal punto di vista delle realizzazioni, che dovrebbero secondo queste tesi essere lasciate al mercato o, al massimo, ai privati che operino in regime di convenzione. Il recentissimo dibattito americano sulla riforma sanitaria nella quale si propone di recuperare un diritto alla cura legato all’essere cittadino, all’essere persona umana (come avviene in molti paesi europei) rompe un clima di sistematica delegittimazione dello stato che ha goduto negli ultimi trent’anni di grandi consensi. Non si tratta di una questione solo politica. Si sta trasformando e affermando una cultura che sostituisce il legittimo interesse al diritto e il contratto al munus comunitario 11 . Il linguaggio, anche nell’apparato pubblico si trasforma e il cittadino non diventa nemmeno più utente ma cliente. Si perde la dimensione del servizio, del contributo per costruire la comunità e a tutto deve corrispondere un prezzo. Anche il servizio di leva, di certo il più discusso contributo che i cittadini offrivano al proprio paese, in passato rivestito di retorica, diventa professionale: diventa prestazione da erogare dietro il pagamento di un prezzo. In questa prospettiva, valori un tempo fondanti, come solidarietà e giustizia, si annacquano e si assiste ad un processo imbarazzante nel quale il benessere riduce la sensibilità sociale, anziché acuirla, e la memoria, che permetterebbe di ricordare che proprio grazie a quella sensibilità il benessere si è diffuso, si sfuma. O viene nascosta sotto la sabbia. Anche l’idea di libertà, in questa prospettiva, si altera, trasformandosi dallo spazio in cui i membri della comunità esercitano la propria responsabilità, alla rivendicazione di una “libertà da…”. L’esercizio di libertà diventa liberazione da qualcosa che limita: libertà dalla fame, libertà dai lacci e laccioli dello stato, etc. Così la libertà non è più l’ambito in cui si sceglie il proprio futuro e si lavora per realizzarlo, costruendo relazioni sociali e familiari, ma diventa un sottrarsi dalla relazione con l’ambiente e con le persone. La sfera privata viene protetta e si arriva addirittura a rivendicare la “libertà” di mettere in atto comportamenti che nello stesso momento si giudicano pubblicamente riprovevoli, legittimando doppie morali che alla lunga rendono inconsistenti anche il fondamento delle presunte pubbliche virtù, con un esito nel quale non esistono più strumenti, né consenso, per affermare che cosa sia giusto e che cosa sbagliato, che cosa sia bene e che cosa sia male 12 . Ma una comunità, locale o internazionale, che si richiude in se stessa e in cui i membri cercano di sottrarsi alla relazione di responsabilità, ben presto cessa di essere una comunità. In qualche modo anche la recente crisi finanziaria può essere letta in questa chiave. Si è rivendicato il diritto di ricercare il proprio interesse definendolo legittimo (ma più che legittimo, soprattutto dopo la deregulation, era solo “non illegale”), senza alcuna assunzione di responsabilità sociale 13 , senza doversi fare carico degli altri nel proprio agire 11
Cfr. Roberto Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino 1998. I recenti scandali che hanno toccato cittadini italiani con responsabilità politiche pubbliche sono un esempio evidente di questa dinamica. Rivendicare il diritto di agire in qualsivoglia maniera nel proprio privato, purché questo non avvenga pubblicamente – non dia scandalo pubblicamente ‐ mostra una schizofrenia etica (in privato è bene o almeno possibile, in pubblico è male) che a sua volta rivela l’assenza di una anche solo elementare costruzione etica. 13
È una tendenza purtroppo non recentissima: cfr. Milton Friedman, Capitalism and Freedom, University of Chicago Press, Chicago 1962 e più precisamente l’articolo "The Social Responsibility of Business is to Increase its Profits" comparso sul New York Times Magazine il 13 settembre 1970. In chi sostiene che l’unica responsabilità è quella verso il denaro investito e che perciò l’unico fine stia nella massimizzazione dei profitti, è spesso presente la convinzione (vera o spacciata per tale) che questo crei spontaneamente, grazie alla mano invisibile del mercato, il massimo benessere sociale possibile. La crisi che stiamo vivendo, le disuguaglianze che aumentano in Europa o l’abissale distanza tra Africa e paesi ricchi dimostrano chiaramente quanto queste credenze abbiano fondamento. 12
professionale. Un numero elevatissimo di clienti che non erano in grado di fornire adeguate garanzie 14 sono stati indotti ad indebitarsi oltre misura, grazie al fatto che le banche non si assumevano direttamente il rischio di insolvenza ma, trasformando i crediti in titoli, ne cedevano il rischio ad altri operatori. Questi, a loro volta, mimetizzavano la rischiosità di questi titoli “impacchettandoli” insieme a titoli più sicuri in prodotti finanziari sempre più elaborati e rivendendoli al pubblico degli investitori 15 . I nuovi creditori a loro volta cedevano il rischio ad altri investitori in una catena senza fine in cui le responsabilità venivano sistematicamente scaricate e si lucrava nel brevissimo periodo e sulla singola operazione. Quando un discreto numero dei debitori iniziali eccessivamente esposti si è trovato in situazioni di insolvenza, l’allarme per i mancati pagamenti e le perdite conseguenti ha attraversato tutto il sistema finanziario lungo il percorso delle cessioni di rischio. La sfiducia e la paura hanno indotto disinvestimenti massicci, facendo crollare i mercati finanziari in tutto il mondo. Il crack delle borse ha alimentato nuova paura che ha fatto contrarre gli acquisti dei beni durevoli (come le automobili), generando licenziamenti e provocando l’estensione della crisi dal sistema finanziario all’economia reale, con un prezzo in termini di occupazione estremamente pesante in tutto il mondo. Tornando ad una lettura etica e culturale di questo passaggio, è piuttosto evidente come la rivendicazione di una autonomia dalla responsabilità sociale, il ricercare esclusivamente il proprio profitto sottraendosi ad una relazione di responsabilità nei confronti degli altri non ha solo determinato conseguenze pesantissime sugli interlocutori diretti, meno abili nella gestione dei propri negozi (cioè le famiglie eccessivamente indebitate che hanno perso casa e futuro), ma anche sull’intera comunità (con la crisi generalizzata e le banche incapaci di prestarsi denaro a vicenda e far funzionare il mercato perché reciprocamente sospettose), e in ultima istanza, sugli stessi operatori che hanno agito in modo spregiudicato (che dopo i profitti iniziali hanno incontrato le ingenti perdite provocate dalla crisi o, come Lehman Brothers, il fallimento). Va ricordato che il conto dei danni di questo gioco pericoloso è stato pagato soprattutto dai vari Stati nazionali, chiamati a soccorrere le banche in difficoltà (cioè i responsabili della crisi) e a frenare, con la spesa pubblica, la caduta generalizzata dei redditi, dei consumi e degli investimenti. Mentre le banche tornano, con il sostegno dei soldi pubblici, nelle condizioni di raccogliere nuovi profitti, con operazioni speculative sul mercato dei cambi e dei derivati ancora privi di nuova regolazione, gli Stati accumulano pesanti debiti che dovranno essere ripagati dai cittadini con maggiori tasse e col taglio dei servizi. Il mito dell’armonia e dell’efficienza di un mercato lasciato a se stesso, “libero da” regole e norme definite dallo stato/comunità, rivela ancora una volta, con questa crisi, la sua falsità e la sua vera intenzione: permettere ai potenti di massimizzare i propri profitti sottraendo risorse vitali e negando l’esercizio dei diritti 14
Ci si riferisce ai cosiddetti clienti “sub prime”, cioè sotto la linea che distingue chi è solvibile da chi non offre sufficienti garanzie, a cui sono stati erogati – irresponsabilmente – gli omonimi crediti che hanno originato lo scoppio della crisi finanziaria nel 2008. A questi clienti vennero erogati soprattutto mutui legati alla proprietà della casa. Molti vennero indotti a indebitarsi ulteriormente a causa dell’aumento dei prezzi immobiliari Usa: se la casa vale di più, può garantire un debito ancora maggiore. Quando i prezzi immobiliari crollarono, le famiglie in difficoltà si trovarono nell’impossibilità di usare la propria casa per coprire a sufficienza i debiti e si avviarono le insolvenze che hanno suscitato la crisi. 15
La deregulation del mercato finanziario permette agli operatori di fare praticamente qualsiasi cosa, riducendo al minimo le informazioni sui titoli venduti. La rivoluzione informativa inoltre ha reso possibile la creazione di prodotti finanziari estremamente elaborati (titoli costituiti da gruppi di altri titoli, derivati etc). Il risultato di questi due fattori è che non si compra un titolo sapendo esattamente che cosa rappresenta o che cosa sia, ma solo sulla fiducia di chi lo emette e lo vende. Questo ha permesso la ‘mimetizzazione’ dei titoli rischiosi. Se a questo si aggiunge il fatto che le agenzie di rating non hanno vigilato in modo adeguato, mancando di segnalare che gli operatori stavano realizzando operazioni spregiudicate, si comprende come lo scoppio della crisi fosse a questo punto inevitabile. fondamentali alla maggior parte della popolazione. Esattamente il contrario di ciò che abbiamo scritto nelle nostre Costituzioni Lo sviluppo umano, i diritti e il rischio di una prospettiva etnocentrica Nella relazione con ciò che oggi si chiama Sud del mondo, cioè il generico insieme dei paesi (e degli ambienti) con situazioni di povertà e vulnerabilità più diffusa, il mondo occidentale ha avuto un ruolo fondamentale nell’influenzare i processi di sviluppo. Spesso però è stato commesso l’errore – da cui non si è alieni tuttora – di immaginare lo sviluppo come una sorta di itinerario più o meno determinato che è già stato percorso dai paesi “sviluppati”, appunto, e va seguito da quelli “in via di sviluppo”. Con prospettive differenti, diverse personalità negli ultimi decenni hanno dato un contributo di straordinaria rilevanza alla maturazione di una cultura che guarda allo sviluppo come a una sfida che deve essere raccolta da ogni comunità locale, nazionale e regionale in modo ogni volta originale, richiedendo il protagonismo delle comunità coinvolte e non quello di chi è più ricco e più forte. L’enciclica Populorum Progessio 16 che papa Paolo VI pubblica nel 1967, la riflessione in campo pedagogico di Paulo Freire 17 e la diffusione del concetto di “sviluppo umano” 18 promossa dagli economisti Amartya Sen 19 e Mahbub ul Haq 20 , sono tre esempi di grandissima autorevolezza, fra i tanti contributi provenienti da ambienti diversi, che concorrono a suscitare una attenzione nuova nel modo di guardare allo sviluppo, alla lotta alla povertà e alle relazioni internazionali e più generalmente alla questione dell’uomo nel pianeta. La riflessione sullo sviluppo umano è preziosa, e segue di poco quella sui diritti umani che condusse nel 1948 alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Si tratta di patrimoni di grande valore nel dialogo internazionale e nella riflessione su come orientare l’impegno per migliorare le condizioni di vita nel pianeta. Occorre però una vigilanza affinché i diritti non vengano declinati in modo etnocentrico. L’Europa occidentale e il Nord America si sentono patria dei diritti e nelle relazioni internazionali vivono sempre la tentazione di considerarsi creatori e custodi di questa cultura. Anche in termini di linguaggio o dal punto di vista degli strumenti politici individuati per tutelare quei diritti si corre la tentazione di guardare alla nostra esperienza come al modello che tutti dovrebbero seguire. Agli occhi di un cittadino africano o latinoamericano, europei e nordamericani non sono i campioni dei diritti e della libertà, sono i responsabili dello schiavismo e del colonialismo, che hanno sottratto persone e materie prime dal Sud del mondo, e tuttora, grazie al maggiore potere politico nelle istituzioni internazionali, influenzano le regole del commercio internazionale per mantenere lo sfruttamento dei territori del Sud. Quando nel Nord parliamo di sviluppo e cooperazione dovremmo sempre tenere presente queste sensibilità. Né è significativamente 16
Paolo VI, Populorum Progressio, Città del Vaticano 1967, varie edizioni e reperibile in rete all’indirizzo http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/encyclicals/documents/hf_p‐vi_enc_26031967_populorum_it.html 17
Il suo libro più famoso è naturalmente Psicologia degli oppressi, pubblicato nel 1962 e reperibile in Italia anche per i tipi di EGA, Torino 2002. 18
Per una velocissima introduzione al concetto di sviluppo umano e all’omonimo programma delle Nazioni Unite si veda il seguente indirizzo internet: http://hdr.undp.org/en/humandev/origins/ 19
Fra i tanti testi di Amartya Sen quello forse più precisamente dedicato allo sviluppo umano è Sen A., Development as Freedom, Anchor Books, New York 1999, tradotto in Italiano come Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000. 20
Mahub ul Haq fu uno dei tessitori che portarono all’avvio del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo umano (UNDP) e il vero costruttore dell’indice di sviluppo umano (HDI) che dal 1990 le Nazioni Unite calcolano come informazione sulla qualità della vita e le opportunità di ogni nazione per migliorare la vita dei propri membri. Un suo testo esplicitamente dedicato a presentare il nuovo approccio è Mahbub ul Haq, Human Development in a Changing World, Human Development Report Occasional Papers n.1, UNDP, New York 1992, reperibile in rete all’indirizzo http://hdr.undp.org/en/reports/global/hdr1992/papers/mahbub_ul_haq.pdf utile un atteggiamento emotivo e paternalista verso i paesi impoveriti, le cui emergenze commuovono e provocano una solidarietà urgente, che si concretizza, e spesso si esaurisce, nello spazio di un sms. Il terrorismo Queste considerazioni ci portano ad un’ultima riflessione, riguardo chi non si riconosce nel mainstream, nelle correnti maggioritarie o di moda e, a modo suo, “non ci sta”. Ci riferiamo alle tensioni legate ad un dialogo interculturale e interreligioso faticoso che degenerano nei fenomeni di terrorismo. Non si tratta di fenomeni che possono essere classificati come esclusivamente criminali. Oltre all’elemento criminale vi è una componente legata a un sentimento di dignità culturale negata che alimenta le tensioni oggi in atto. Purtroppo tensioni di questo tipo sono antiche e difficili da eliminare. Il fatto nuovo del tempo in cui viviamo è il facile accesso a forme di attacco dimostrativo e cruento giocate sull’intero pianeta, gestendone gli effetti comunicativi sul piano globale, e incidendo in questo modo sull’agenda politica internazionale. 3. Il fenomeno migratorio. Alcune considerazioni Abbiamo premesso alla trattazione del tema delle migrazioni, un quadro piuttosto ampio del contesto in cui questo fenomeno si sviluppa, perché crediamo sia possibile analizzarlo e comprenderlo solo alla luce della globalizzazione nei suoi molteplici aspetti e nei suoi risvolti concreti. . Il quadro tracciato ci è dunque utile per chiarirne non solo alcuni elementi significativi, ma anche per sottolineare come un governo del fenomeno delle migrazioni può realizzarsi solo agendo sulle dinamiche generali di questo contesto. Per essere più chiari, le ragioni che originano le migrazioni sono legate prima di tutto alle enormi differenze di reddito tra zone ricche e resto del mondo, che muovono le persone a cercare opportunità di reddito che permettano di cambiare la loro vita e che non riescono a trovare nei paesi di origine. Ma più ampiamente è connesso alla fatica di vivere in un contesto caratterizzato dalle “tensioni” e difficoltà di cui abbiamo parlato, che mostrano una povertà multidimensionale e non semplicemente legata alla dimensione prettamente economica e reddituale. Ridurre il fenomeno migratorio, o orientarlo in modo che possa svilupparsi nel rispetto della dignità della vita di chi si muove e di tutti, significa agire sulle cause che quel fenomeno originano. Significa, in termini concreti, agire sugli strumenti di governance internazionale per ridurre le distanze, facilitare il dialogo e migrazioni virtuose (che vanno cioè a soddisfare domande di lavoro rispettose della vita delle persone) e non viaggi disperati seguendo illusioni o sfruttamento. Devono essere, dunque soluzioni, che, in ultima istanza, mirino seriamente ad allentare le tensioni che abbiamo descritto. Un’azione di questo tipo è però possibile solo attraverso una lettura non solo economica, ma consapevole delle condizioni sociali e delle dinamiche culturali che sono presenti nelle diverse aree del pianeta, nonché del ruolo che culture diverse possono rivestire, in un tempo in cui sempre di più, con la globalizzazione, hanno occasione di incontrarsi, e spesso anche di scontrarsi, timorose che proprio un dialogo mal gestito possa indebolirne l’identità. In altre parole occorre essere consapevoli che il fenomeno migratorio si sviluppa in un contesto caratterizzato da grandi opportunità che la globalizzazione mette a disposizione, ma anche da forti tensioni di cui molti migranti sono parte. Anzi, proprio il fenomeno diffuso del movimento delle persone è una delle attuali tensioni che caratterizzano la comunità internazionale. Il liberismo e la sua interpretazione neoclassica avevano formalizzato in un sistema elegante la teoria che permette una efficiente allocazione di tutti i fattori produttivi, e un conseguente equilibrio economico di piena occupazione, attraverso la libera circolazione dei fattori produttivi. Il prezzo del capitale, quello del lavoro e, secondo alcuni teorici, quello della terra variano a seconda della loro abbondanza o scarsità in relazione alle necessità della produzione; differenze di rendimento e remunerazione dei fattori produttivi fanno sì che essi si spostino là dove più profittevole è il loro impiego, con effetti di riequilibrio messi in atto più o meno rapidamente attraverso i meccanismi di domanda e offerta. Queste tesi, e la più generale cultura che le generava, si sono diffuse negli anni influenzando forze politiche e sociali. Ma il mondo che chiedeva regole improntate ad un mercato del tutto libero di autoregolamentarsi ha sempre mostrato più di una contraddizione. Se ha vinto (almeno nei paesi ricchi del Nord del mondo) la battaglia sulla libera circolazione dei capitali , che oggi possono essere esportati e investiti senza trasgredire leggi nazionali che impediscono il trasferimento all’estero, mostra una severa incoerenza per quanto riguarda il fattore produttivo lavoro. Per raggiungere livelli di impiego ottimali, in un contesto di interdipendenza internazionale, occorrerebbe consentire la libera circolazione del fattore lavoro, cioè dei lavoratori. Come è noto, viceversa, il movimento dei migranti è ostacolato proprio in forma maggiore dalle componenti politiche che si ispirano e alimentano il neoliberismo, in una palese contraddizione delle proprie stesse credenze. Abbiamo affermato che il movimento dei migranti è causato primariamente, ma non esclusivamente, dalle enormi opportunità di reddito presenti nei paesi di arrivo, rispetto a quelle presenti in quelli di origine. Il dato statistico aiuta ad avere un’idea della dimensione di questa disparità 21 . I paesi che occupano i primi posti nella classifica della provenienza degli immigrati italiani, Romania, Albania, Marocco, offrono redditi procapite rispettivamente di 7.930, 3.840 e 2.580 dollari, cioè 5, 10 e 15 volte più piccoli del reddito procapite dell’area Euro che ammontava nel 2008 a 38.821 dollari. Un lavoratore marocchino può guadagnare, in media, in un mese in Italia, quanto guadagnerebbe in un anno e tre mesi a casa. Come si evince dall’analisi dei dati 22 , inoltre, a spostarsi non sono solo persone che provengono dai paesi più poveri, né quelli con minori istruzioni. Al contrario molti lavoratori provengono da paesi a medio reddito e dispongono di istruzione superiore, adattandosi a ruoli lavorativi molto meno qualificati rispetto a quelli cui potrebbero accedere con la loro formazione. Accanto alla speranza di godere di redditi smisuratamente più alti di quelli ottenibili nei paesi di provenienza, vi sono diverse altre ragione che possono di volta in volta spingere le persone a lasciare il proprio paese: la guerra, la mancanza di libertà, l’insicurezza alimentare… Spesso queste concause sono contemporaneamente presenti. Il tempo di globalizzazione che viviamo, con la facile circolazione delle informazioni, facilita ulteriormente il fenomeno, non solo perché i trasporti sono oggi generalmente più accessibili, ma perché la cosiddetta industria culturale mondiale, insieme all’informazione e più generalmente alla televisione, rende familiari ai cittadini che abitano nel Sud, i modelli di comportamento e i livelli di benessere comuni nel Nord del mondo. Vedere sullo schermo le caratteristiche del paese dove si potrebbe migrare e riscontrare le differenze, rende la migrazione non più un viaggio verso l’ignoto, ma verso una realtà che si è già vista, si crede di conoscere, e per questo attira con forza ancora maggiore. 21
22
Cfr Tabella 1 Cfr. Caritas italiana, Dossier immigrazione 2009, Roma 2009. Come abbiamo già affermato, “governare” il fenomeno ha senso solo se con questo termine intendiamo concorrere a eliminare le cause che originano la migrazione, cioè ridurre le distanze tra paesi ricchi e paesi impoveriti. Al di là della insensatezza di una politica che tentasse di privare dei lavoratori stranieri le società del Nord del mondo, che come hanno spiegato bene Doni e Nerozzi offrono un contributo prezioso alle società presso le quali lavorano, tentare di fermare i flussi è semplicemente impossibile. L’assurdo e inefficace muro costruito al confine tra Stati Uniti e Messico ne è un esempio lampante. Nessuno può fermare gli uomini quando la condizione di bisogno li mette nella determinazione di cercare un futuro più dignitoso per sé e per i loro figli. Prima di passare ad esaminare come e in quale direzione è possibile mettere in atto strumenti di assunzione di corresponsabilità, è bene chiarire una funzione preziosa svolta dal mondo dei migranti. Lavorare in un paese lontano non significa solo partecipare di un livello di benessere personale e comunitario superiore. Nella quasi totalità dei casi è un notevole atto di solidarietà. Ci riferiamo all’ammontare delle rimesse che gli immigrati inviano nei loro paesi. Esse sono una componente preziosa del finanziamento dello sviluppo per i paesi di origine. Nella tabella 2 vengono presentati l’ammontare stimato dei flussi delle rimesse inviate nei loro paesi dai lavoratori emigrati, insieme con quello degli aiuto ufficiale allo sviluppo (APS) erogati dai governi e gli investimenti esteri diretti. La quota delle rimesse potrebbe apparire significativamente più consistente se si riuscisse ad avere adeguata contezza degli invii effettuati attraverso i canali non bancari e non ufficiali, spesso necessari ai migranti quando vivono in condizioni di clandestinità. Come si vede il flusso di rimesse supera largamente la quota degli aiuti ufficiali, mostrando come l’emigrazione non rompe la relazione con i paesi di origine, ma la orienta ad una condizione di responsabilità spesso molto faticosa. Tabella 2 Flussi finanziari netti in entrata nei paesi del Sud del mondo anno 2008 (miliardi di dollari USA) Est Asia e Pacifico Investimenti esteri diretti netti Rimesse Aiuto Pubblico allo Sviluppo 185,1 69,6 8,7 Europa e Asia Centrale America Latina e Caraibi 170,8
53,1
12,7
Medio Asia Africa Sub Oriente e meridionale Sahariana Nord Africa 107,5
63,3
7,9
22,5
33,7
18,8
47,5 66 12,8 32,4
19,8
38,9
Totale*
565,8
305,5
119,8
I dati dell'APS 2008 sono stime sulla base dell'andamento degli anni precedenti. * Il totale dell'APS contiene 20 miliardi non ripartibili geograficamente. Elaborazione da dati Banca Mondiale e OCSE. 4. Una responsabilità per la politica Quanto abbiamo provato a descrivere sinora ci porta a dire che è compito della politica incidere sul fenomeno delle migrazioni, con due obiettivi generali. Il primo è favorire condizioni perché i migranti possano essere accolti in condizioni di dignità, protetti dallo sfruttamento e titolari di diritti ‐ dunque beneficiari dei servizi fondamentali, quali salute e istruzione ‐ come avviene per ogni membro della comunità nella quale entrano. Il secondo è creare le condizioni perché si riduca la componente del flusso migratorio provocata dalle difficili condizioni di vita nei paesi di origine. È a questo obiettivo che dedicheremo le riflessioni successive con due attenzioni specifiche. La prima riguarda le interdipendenze di cui abbiamo parlato, e porta a ricordare l’impossibilità di costruire percorsi nel Sud del mondo senza tenere conto di quanto avviene nel Nord e viceversa. Ogni progetto politico non può che essere collocato nel contesto della globalizzazione, consapevoli delle interazioni in atto, pena la sterilità di qualsivoglia proposta. La seconda, coerente con la precedente, è legata alla considerazione che, proprio viste le considerazioni sulla interdipendenza, occorre riflettere sulla titolarità di chi deve definire le politiche. Lo sviluppo di ogni comunità riguarda i membri di quella comunità e non può essere monopolizzato da chi non ne fa parte. Peraltro, proprio le interdipendenze chiamano in causa, o meglio in corresponsabilità, anche chi vive fuori da quella comunità. Sempre di più oggi il futuro di una comunità riguarda anche il resto del mondo. Ecco allora che tocca all’Europa farsi carico del futuro della parte povera del pianeta, ma in ragione delle scelte che le comunità che lo abitano faranno, così come il futuro del mondo ricco riguarda anche i cittadini del Sud del mondo. Naturalmente è molto facile formulare affermazioni teoriche di questo tipo, molto più complesso è declinarle in proposte concrete. Per quanto sia difficile però, rimane una strada obbligata, sebbene tuttora sia oggi poco battuta o guardata con esitazioni 23 , quando non mistificata con un atteggiamento paternalistico che immagina semplicisticamente, come abbiamo già accennato, che lo sviluppo sia un percorso più o meno lineare ancora da percorrere da parte di molti paesi. Un’idea di sviluppo di questo tipo, piena di rischi ideologici, si è affermata nel dopoguerra, quando non si aveva la consapevolezza dei limiti ambientali dello sviluppo economico e si era in piena guerra fredda tra il blocco occidentale e l’Unione Sovietica. Si fa risalire al presidente americano Truman 24 il lancio pubblico di un’idea di sviluppo come un sentiero lungo il quale alcuni paesi (e gli Usa fra questi) sono avanti e altri devono ancora camminare. Truman usava, probabilmente in buona fede, l’irriguardoso aggettivo “sottosviluppati” nei confronti dei paesi che avevano un PIL procapite distante da quello del Nord ricco e riteneva moralmente doverosa un’azione dei ricchi in aiuto di chi viveva condizioni di povertà. Aiutare i poveri era peraltro politicamente utile per sottrarli, in coerenza con la “dottrina Truman” 25 , alla sfera di 23
Sul piano giuridico il dibattito intorno alla Costituzione europea ha tentato di introdurre una innovazione. Si è proposto di introdurre fra i diritti riconosciuti dall’Unione anche quelli dei cittadini che non appartengono all’Unione e abitano fuori del suo territorio, rendendo così l’intervento di cooperazione internazionale per la tutela dei diritti fondamentali obbligatorio. Purtroppo l’esito della Costituzione è stato diverso da quanto auspicato inizialmente. Peraltro questa proposta non ha ottenuto il consenso della maggioranza dei paesi europei, ma il solo fatto che si stata proposta segna l’avvio di una sensibilità e di una discussione in una direzione che speriamo feconda per il futuro. 24
Nell’insediamento alla Presidenza degli Stati Uniti nel 1949 Harry S. Truman pronunciò il famoso discorso in cui parlava di sviluppo e sottosviluppo delineando la responsabilità degli Usa e dei paesi ricchi nell’aiutare tutti i paesi a raggiungere la condizione di sviluppati. Mosso anche da preoccupazioni pragmatiche per garantire la leadership Usa nel mondo, minacciata dal totalitarismo sovietico, il presidente americano fu nel tempo molto criticato nel Sud del mondo per i limiti ideologici di questa concezione di sviluppo. Non va però ignorata una componente di sincerità nella sua azione che, comunque, costituì la prima forma di assunzione di responsabilità politica nei confronti delle disuguaglianze del pianeta. Né va sottovalutato il fatto che lo sviluppo dei paesi poveri, in un contesto di sfaldamento degli imperi coloniali, fosse visto dagli Stati Uniti come una grande opportunità per aumentare le proprie esportazioni, evitando così il rischio di nuove grandi depressioni come quella che aveva caratterizzato il decennio precedente la guerra appena terminata. Su questi aspetti si veda, ad esempio, Santoro C.M, La perla e l’ostrica. Alle fonti della politica globale degli Stati Uniti, Franco Angeli, Milano, 1987; Nerozzi S., “Building up a multilateral strategy for the United States: Jacob Viner, Alvin Hansen and the Council on Foreign Relations (1939‐1945)”, in Robert Leeson (ed.), American Power and Policy, III, Basingstoke, Palgrave‐Macmillan, 2009, pp. 24‐68. 25
Nel 1947 Truman indicò come dovere degli Stati Uniti aiutare i paesi che, anche in ragione di una situazione economica interna difficile, potevano essere tentati da una dipendenza, economica e politica, dall’Unione Sovietica, riferendosi esplicitamente alla Grecia e alla Turchia. Si avviò cosi una politica di cooperazione e aiuto per “garantire” influenza dell’Unione Sovietica che cercava di tessere alleanze e sostenere la nascita di governi filo‐sovietici nel Sud del mondo. A seguito della scelta del presidente americano, che mobilizzò le prime risorse finanziarie per il cosiddetto “aiuto allo sviluppo”, altri paesi si impegnarono e nacque ciò che oggi noi chiamiamo cooperazione internazionale. Dopo i primi interventi e un dibattito accademico molto intenso 26 nel 1961 le Nazioni Unite lanciarono il “Decennio dello sviluppo” e crebbe la sensibilità verso il Sud del mondo. Rimaneva forte però la concezione ideologica secondo la quale bastava “imitare” i paesi ricchi per diventare come loro. Così tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del Novecento si affermarono le politiche di aggiustamento strutturale: politiche di liberalizzazione selvaggia che vedevano nel mercato la capacità quasi messianica di procurare, attraverso la crescita, benessere a tutti. Loro caratteristica era precisamente quella di proporre “programmi carta carbone”, come vennero autorevolmente definiti 27 e solo verso la fine degli anni ’90, grazie anche all’affermarsi dell’idea di sviluppo umano cui abbiamo già fatto cenno, la consapevolezza dei loro limiti ha cominciato a diffondersi anche tra i decisori pubblici 28 . Pregiudizio e paternalismo sono purtroppo tuttora frequenti e la tentazione di costruire ricette universali è sempre presente. È questo il rischio maggiore anche della nuova stagione. Il passaggio di secolo e di millennio, col lancio delle campagne giubilari per la cancellazione del debito ha creato una sensibilità nuova. La società civile internazionale ha fatto sentire la propria voce e governi e istituzioni internazionali hanno modificato le loro agende e le loro modalità di intervento. Sono nate le “strategie di riduzione della povertà” che hanno avviato una nuova stagione della cooperazione internazionale. È in questo contesto che vanno declinate politiche che vogliano incidere responsabilmente sul fenomeno delle migrazioni. I possibili obiettivi A partire dalle riflessioni appena sviluppate, appare evidente come occorra una certa attenzione nell’indicare alcuni possibili obiettivi per le politiche di cooperazione. Tocca infatti, alle singole comunità nazionali scegliere obiettivi, strumenti e modalità del proprio percorso di sviluppo. Vi è però una responsabilità universale a identificare linee di sviluppo sulle quali universale coordinare politiche internazionali, volte a favorire, anziché ostacolare, le azioni e i percorsi dei singoli Stati. Un quadro per identificarle può essere quello delle tensioni di cui abbiamo parlato all’avvio: la drammatica questione della povertà, la crisi della democrazia, le minacce sull’ambiente. Ad esse occorre guardare tenendo conto delle “fatiche” che abbiamo citato: una cultura che si corrode e dunque ha bisogno di nuova linfa, un approccio etnocentrico in cui alcuni credono di dover insegnare ad altri, la presenza di chi non ci sta e sceglie il terrore. alcuni paesi alla democrazia, che prese il nome di Dottrina Truman. La dottrina Truman ispirò il seguente lancio del Piano Marshall, per favorire la ricostruzione e il rilancio economico dell’Europa Occidentale. 26
È in questi anni che si afferma la disciplina dell’economia dello sviluppo. Sebbene in parte nutrita di eccessivo ottimismo e di grandi illusioni ebbe il merito di porre al centro della riflessione persone e paesi poveri, con un approccio sensibilmente diverso da quella che era stata la storia dell’economia sino a quel momento, nata in epoca moderna dal famosissimo testo di Adam Smith intitolato proprio Indagine sulla nature e le cause della ricchezza delle nazioni. Per una splendida lettura libera e autocritica di questa stagione si veda Albert O. HIrschmann, Ascesa e declino dell’economia dello sviluppo, Rosenberg e Sellier, Torino 1983. Sui primi dibattiti interni agli organismi internazionali in merito alle modalità di condurre le politiche di sviluppo e al contributo dello stesso Hirschmann, cfr. Alacevich M., Le origini della Banca Mondiale. Una deriva conservatrice, Milano, Bruno Mondadori, 2007. 27
La formula spesso usata in inglese è “one size fits all”, “taglia unica per tutti”, ma per i programmi di aggiustamento strutturale scritti dal Fondo Monetario Internazionale si parò davvero di programmi “carta carbone” o “fotocopia”. Cfr. Susan George Third World Debt, tradotto in Italia per I tipi di EL, oppure Joseph. Stiglitz Globalisation and its discontents, WW.Norton & Company, New York 2002, trad. It. Einaudi, Torino. 28
Cfr. IMF, External Evaluation of the ESAF. Report of Independent Experts, IMF Washington 1998. Con queste attenzioni si può riflettere su percorsi che portino in termini generali ad aumentare la tutela della dignità della vita umana là dove essa è violata, con un protagonismo delle persone coinvolte e percorsi inclusivi. Concretamente significa dare strumenti istituzionali, politici ed economici alle popolazioni che vivono condizioni più faticose, in cui mancano cure e opportunità di istruzione, mancano opportunità di lavoro, e le possibilità di protagonismo di ogni comunità nazionale sono ridotte, sia a causa di dittature, sia per vincoli provenienti dall’esterno 29 . Gli attori Non è indifferente ricordare la molteplicità di attori coinvolti nelle azioni di cooperazione e più in generale nelle politiche che possono più fortemente incidere sulla qualità della vita nel Sud del mondo. Innanzi tutto giocano un ruolo significativo le istituzioni multilaterali. L’ONU e le sue differenti Agenzie e Programmi hanno un grande spazio in termini di influenza morale e politica e, in qualche caso, nella gestione di particolari situazioni 30 . Alla famiglia delle istituzioni multilaterali appartengono anche l’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO) che ha un ruolo non indifferente nella costruzione delle regole per gli scambi commerciali, e le istituzioni finanziarie internazionali: il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e le Banche regionali di sviluppo. Da esse dipendono una parte importante della regolazione dei mercati finanziari e i finanziamenti dei grandi programmi di sviluppo nei paesi a basso e medio reddito. Erano queste istituzioni negli anni ’80 e ’90 a indicare, e in qualche modo imporre, i programmi di aggiustamento strutturale e tuttora hanno un a forte influenza sulla definizione dei programmi che concorrono a finanziare. Un’altra categoria di attori di grande rilevanza è naturalmente quella dei governi, che sempre più, rispetto alla recente stagione di delegittimazione dello stato, assumono un ruolo centrale nella scelta delle strategie di sviluppo dei propri paesi. Se quelli del Sud si stanno appropriando sempre di più del proprio ruolo, più di qualche incongruenza si riscontra nel Nord. I governi del Nord affermano di dover lasciare sempre maggiore spazio ai governi locali, ma questo a volte, più che un’ opzione per suscitare protagonismi locali, pare solo una scelta deresponsabilizzante. In molti casi, di fronte a contesti locali complicati, ricchi di tensione e senza prospettive di ritorno economico o politico, è più agevole lasciar fare alle autorità locali, che coinvolgersi in faticosi percorsi di accompagnamento. Contemporaneamente però, e qui si determina la contraddizione, si assiste a casi di azioni mirate, per ottenere esiti precisi, interessanti per il paese del Nord, come avviene in alcuni zone particolarmente ricche dal punto di vista minerario, per le quali vengono fatti sottoscrivere accordi bilaterali di cooperazione, o promossi partenariati non sempre coerenti con la programmazione strategica complessiva del paese del Sud. Dal lato pubblico occorre citare anche il ruolo della cosiddetta cooperazione decentrata, messa in atto da enti locali che, con azioni spesso legate al coinvolgimento di soggetti del proprio territorio, promuovono l’accensione di legami con soggetti locali nei paesi in via di sviluppo. Questo modo di fare cooperazione permette una facile accessibilità ai percorsi che vengono avviati e per questo ha avuto un non piccolo successo negli ultimi anni: un progetto promosso dal proprio comune può essere conosciuto e può offrire opportunità di collaborazione più facili di uno coordinato da un ente nazionale “lontano”. Esiste peraltro il rischio che una crescita della cooperazione decentrata, senza un adeguato coordinamento a livello nazionale, possa creare qualche disequilibrio, concorrendo nei fatti a moltiplicare interventi su uno 29
I limiti ad un reale esercizio di sovranità possono frequentemente venire dall’esterno. Si pensi a titolo di esempio alla degenerazione del debito estero dei paesi del Sud, che impedisce di finanziare come si vorrebbe lo sviluppo interno, o alle regole del commercio internazionale, quando penalizzano le produzioni del Sud del mondo.. 30
Ad esempio l’aiuto alimentare in situazioni di emergenza sviluppato dal World Food Program (WFP), piuttosto che l’assistenza ai rifugiati coordinata dall’Alto Commissario per i Rifugiati (UNHCR). specifico settore, che potrebbe saturarsi, e a sottodimensionare gli interventi in altri settori magari più bisognosi. Accanto a queste due grandi categorie di attori della cooperazione esiste quella che raccoglie i soggetti della società civile. Se il mondo delle organizzazioni non governative (ONG) è stato protagonista in passato di un numero incalcolabile di progetti di ogni dimensione nel Sud del mondo, oggi sempre più, soprattutto attraverso la creazione di reti della società civile che collegano sinergicamente molteplici soggetti, diventa protagonista di azioni di lobbying che suggeriscono e influenzano i processi decisionali. L’attenzione si sposta sempre più dalla prospettiva del singolo progetto a quella delle politiche che maggiormente incidono sulla vita delle persone e rendono i progetti sostenibili nel tempo. Un ruolo specifico, infine, può essere svolto infine dalle comunità dei migranti. Preziose nel tenere vivo un dialogo con le terre di origine e una presenza culturale nei paesi di arrivo, le comunità dei migranti possono essere promotrici e protagoniste di percorsi creativi di gestione delle rimesse, concentrandole per ottenere condizioni migliori dal mondo bancario, e destinando una piccola percentuale a finanziare progetti di sviluppo nei paesi d’origine 31 . La leva data dalla dimensione delle rimesse è potentissima e sinora non è ancora stata, nonostante qualche proposta, utilizzata in forma adeguata. Gli strumenti della nuova stagione: MDG e PRSP Abbiamo affermato che dal 2000 è nata una nuova stagione. Per quanto compromessa dall’attentato alle Due Torri del settembre 2001, l’affermazione non è infondata. Nel settembre 1999 G7, Fondo Monetario Internazionale e Banca mondiale concordano di cambiare radicalmente le regole sul debito internazionale, promuovendo cancellazioni legate al corretto uso del denaro liberato: le risorse dovute in pagamento devono essere usate per la riduzione della povertà con il coinvolgimento della società civile che deve partecipare alla definizione delle strategie di lotta alla povertà e al monitoraggio di quanto avviene. È la prima volta che le cancellazioni del debito vengono legate strettamente alla riduzione della povertà ed è una vittoria delle campagne internazionali e dell’appello giubilare di Giovanni Paolo II. Per realizzare la nuova regola viene creato uno strumento nuovo, il Poverty Reduction Strategy Paper (PRSP), un documento che il governo locale deve redigere indicando per un periodo di 3‐5 anni quale sarà la sua programmazione economica e sociale. Il debito viene cancellato (ed eventuali nuovi prestiti erogati) se viene presentato un PRSP. Perché il documento sia accettato il governo deve dimostrare in primo luogo che esso è frutto di un processo partecipativo che abbia incluso la società civile; in secondo luogo che la spesa sociale aumenti ogni anno nel periodo considerato. In entrambi i casi di tratta di una novità assoluta. Nel settembre del 2000 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite va oltre e definisce gli Obbiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) 32 . Si tratta di otto grandi obiettivi, validi per tutte le nazioni del mondo, sia quelle ricche sia quelle impoverite, da raggiungersi entro il 2015 che, in estrema sintesi, tendono a dimezzare la povertà nel pianeta. L’enfasi è grande, gli obiettivi ambiziosi e i governi in tutto il mondo mostrano sembrano sinceramente impegnati. 31
Su questi aspetti si veda, ad esempio, A. Gallina, “Migrazioni e sviluppo locale. Nuove prospettive di ricerca”, in Id. Economie mediterranee. Tra globalizzazione e integrazione meso‐regionale, Troina, Città aperta, 2005, pp. 171‐190; Mc Cormick B. e Wabha J., “Overseas work experience, savings and entrepreneurship amongst return migrants to low development countries”, Scottish Journal of Political Economy, 2000 vol. 48, n. 2, pp. 164‐178. 32
MIllennium Development Goals. Si veda il sito delle Nazioni Unite specificamente dedicato agli Obiettivi: http://www.un.org/millenniumgoals/ Gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio avviano dunque una nuova stagione. Purtroppo questa positiva spinta all’azione viene violentemente indebolita poco dopo la sua nascita. La caduta delle due Torri a New York ha praticamente riscritto l’agenda internazionale facendo retrocedere il tema della lotta alla povertà agli ultimi posti. Oggi sei assiste ad un recupero di attenzione e ci si aspetta che, all’approsimarsi del 2015, cioè dell’anno in cui i MDG verranno verificati e si dovrà riconoscerne il parziale fallimento, possa esserci il consenso per una nuova iniziativa. Riguardo ad essi va ricordato che si tratta della prima volta che si formalizza un consenso di queste dimensioni su un programma cosi articolato. Occorre però non commettere l’errore che fatto per gli aggiustamenti strutturali: ciò che conta è avviare processi di assunzione di responsabilità che cambino permanentemente le dinamiche, non applicare ideologicamente una formula. Per quanto investire nell’istruzione o nella sicurezza alimentare sia comunque meglio che forzare liberalizzazioni selvagge, non basta investire denaro se non cambia il complesso di relazioni e non si avviano processi permanenti e sostenibili. Proprio la questione finanziaria porta ad una considerazione molto grave. Una delle ragioni del fallimento dei MDG, sebbene non l’unica, è la mancanza di fondi. I paesi ricchi hanno da tempo assunto l’impegno di dare per l’aiuto pubblico allo sviluppo (APS) lo 0,7% del PIL. Ma, a parte i paesi scandinavi e l’Olanda, molti paesi sono molto lontani da questo obiettivo. Come si può osservare nella tabella 3 e nel grafico 1 il contributo dei paesi OCSE cresce negli ultimi anni a seguito degli impegni lanciati durante il G8 del 2005, ma per molte nazioni questo target è tuttora lontanissimo. Colpisce la situazione italiana, che non riesce a decollare e supera in rarissimi casi lo 0,15% del PIL. Recentemente nel vertice del G20 convocato a Pittsburgh per discutere della crisi finanziaria i leader presenti hanno orgogliosamente parlato dei 5000 miliardi di dollari che i paesi ricchi in pochi mesi sono riusciti a destinare per combattere la crisi. È un dato effettivamente rilevante. Pur comprendendo le ragioni e la necessità di arginare la crisi, fa però impressione paragonare questa cifra al totale di 119 miliardi che lo stesso gruppo di paesi riesce a mettere a disposizione dello sviluppo . Decisamente occorrerebbe più coraggio. O forse solo più realismo. I denari pubblici, peraltro, per la cooperazione non sono la grandezza maggiore. Come abbiamo già osservato nella tabella 1 essi sono sensibilmente inferiori ai flussi originati dalle rimesse e dal commercio internazionale. Ma sono fondamentali per interventi sul quale il settore privato non interviene, un esempio per tutti la costruzione di infrastrutture come le strade. Tabella 3. Assistenza Ufficiale allo Sviluppo. 1991‐
1992 1996‐
1997 APS (% Pil) Paesi APS (milioni dollari Usa)
2004 0,78 0,79 0,87 0,85 0,73 0,39 0,41 0,37 0,24 0,36 0,23 0,40 0,41 0,28 0,25 0,27 0,23 0,63 0,15 0,16 0,19 0,17 2005 0,94 0,79 0,94 0,81 0,82 0,42 0,53 0,46 0,27 0,47 0,52 0,44 0,47 0,36 0,25 0,34 0,27 0,21 0,29 0,17 0,28 0,23 2006 1,02 0,90 0,89 0,80 0,81 0,54 0,50 0,40 0,32 0,51 0,47 0,39 0,47 0,36 0,30 0,29 0,27 0,21 0,20 0,17 0,25 0,18 2007 2008 2008 0,42 0,47 0,46 0,96 0,81 0,29 0,49 1,15 0,84 0,99 1,01 0,87 0,81 0,18 0,31 0,40 0,33 0,72 0,32 0,26 0,23 0,32 0,27 0,14 0,24 0,41 0,34 0,62 0,46 0,38 0,30 0,37 0,27 0,46 0,33 0,25 0,24 0,32 0,23 0,32 0,16 .. 0,15 0,31 0,21 0,20 0,10 2003 0,79 0,86 0,92 0,84 0,80 0,39 0,60 0,35 0,23 0,34 0,20 0,37 0,40 0,28 0,25 0,24 0,23 0,22 0,17 0,21 0,20 0,15 0,47 0,38 0,41 Fonte: OCSE 0,93 0,98 Svezia 4.730 0,91 0,92 Lussemburgo 0,95 0,88 Norvegia 3.967 0,81 0,82 Danimarca 2.800 0,81 0,80 Olanda 0,55 0,58 Irlanda 0,43 0,47 Belgio 0,39 0,43 Finlandia 0,37 0,43 Spagna 0,36 0,43 Regno Unito 0,50 0,42 Austria 1.681 0,37 0,41 Svizzera 2.016 0,38 0,39 Francia 10.957 0,37 0,38 Germania 13.910 0,32 0,34 Australia 3.166 0,29 0,32 Canada 4.725 0,27 0,30 N. Zelanda 0,22 0,27 Portogallo 0,19 0,20 Italia 0,16 0,20 Grecia 0,17 0,18 Giappone 0,16 0,18 Stati Uniti. 0,45 0,47 TOTALE 409 6.993 1.325 2.381 1.139 6.686 11.409 346 614 4.444 693 9.362 26.008 119.759 Alcuni ambiti Di seguito proviamo a citare alcuni ambiti in cui è rilevante sviluppare una politica internazionale coerente con le i criteri e le attenzioni che abbiamo provato a delineare. Sicurezza alimentare Questo è il primo degli otto MDG. È particolarmente urgente nel momento in cui i mercati alimentari sono piuttosto volatili e hanno subito, durante il 2008 violentissimi incrementi dei prezzi internazionali e locali, dovuti a fenomeni esclusivamente speculativi. Per quanto esistano dinamiche che impattano sulla produzione alimentare 33 , il cibo prodotto nel mondo è superiore e ogni anno si gettano tonnellate di derrate deperibili. Vi è un grave problema di distribuzione. La soluzione non sta nel portare derrate in avanzo dal Nord al Sud, quanto nell’investire in istituzioni (cioè mercati) che facilitino la distribuzione regionale e locale, facilitare crediti mirati alla produzione e regolare il mercato finanziario, proteggendo i prodotti alimentari da rischi speculativi. Commercio Occorre concludere il negoziato che deve definire le nuove regole per commerciare. In sede di WTO da diversi anni non si raggiunge un accordo. I paesi del Sud chiedono maggiori aperture dei mercati dei paesi del Nord, perché aumentare le loro vendite significa disporre di risorse maggiori per cambiare le condizioni dei propri paesi. Di fatto su questo tema la tensione è altissima anche perché storicamente i paesi ricchi hanno imposto ai paesi del Sud del mondo di aprire i loro mercati, mentre proteggevano, soprattutto in materia agricola, i propri. In questo modo i prodotti del Nord raggiungono facilmente e senza ostacoli i consumatori del Sud, mentre i prodotti del Sud, che sarebbero più convenienti, non riescono a entrare nei mercati del Nord a causa dell’imposizione di dazi e contingentamenti. Ambiente La questione ambientale è oggi la nuova questione internazionale. Un intervento a contenere i rischi di cambiamento climatico richiede la collaborazione di tutti. È del tutto inutile infatti operare sforzi in una parte del pianeta se contemporaneamente l’altra aumenta le sue emissioni. I paesi del Sud hanno chiesto in questi anni che add essi fossero richiesti parametri meno onerosi, per evitare di essere, a causa dei costi dell’adeguamento produttivo alle norme di Kyoto, meno competitivi. La discussione è in corso e richiede un consenso unanime difficile da costruire. Energia Il mercato dell’energia è concentrato in poche mani. La ricerca di combustibili alternativi è direttamente utile per ridurre l’impatto sull’ambiente, ma favorisce anche l’apertura di un mercato oligopolistico, 33
L’aumento del consumo di carne e derivati del latte, provocato dalla domanda delle popolazione recentemente uscite dalla povertà in India e Cina (insieme ad una meno rilevante crescita della domanda di carne nei paesi ricchi), porta ad aumentare la produzione agricola per mangimi. Con le note e condivisibili pressioni in favore di fonti di energia pulita, cresce anche la produzione di biocombustibili. In un caso e nell’altro aumentano le superfici coltivate. In alcune regioni vengono reperite in terreni nuovi, in altre si utilizzano superfici effettivamente sottratte alla produzione per il consumo umano. In ogni caso, la produzione per il consumo alimentare umano è comunque aumentata. Le ragioni dell’aumento dei prezzi alimentari e della loro fluttuazione sono da ricercare nelle speculazioni finanziarie, come spieghiamo nel prossimo paragrafo dedicato alle possibili riforme. permettendo anche, si pensi al biodiesel, gradi di autosufficienza molto superiori per tutti i paesi rispetto al passato. Digital divide Nel mondo esiste una differenza notevole tra Nord e Sud per quanto riguarda gli accessi agli strumenti informatici e a internet. Ridurre questa distanza è un obiettivo che si è data la comunità internazionale e può offrire opportunità di cambiamento molto consistenti nel Sud del mondo. Cure mediche La necessità di estendere l’accesso alle cure mediche non ha bisogno di essere argomentato. È uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio ed è lontano dall’essere realizzato non perché esistano ragioni tecniche ad impedirlo, ma solo per ragioni di costi. Il sistema sanitario comporta costi da parte dello stato che sono elevati per i paesi ricchi e insostenibili per i governi del Sud. Questo è un ambito in cui la collaborazione finanziaria dei paesi ricchi è assolutamente doverosa. Istruzione Valgono le stesse considerazioni formulate nel punto precedente. Esiste da diversi anni il programma internazionale Education for All, ma tuttora non ha permesso un’alfabetizzazione universale. Acqua Quasi un miliardo di persone vive senza acqua potabile e/o senza impianti sanitari. Questo comporta un’impennata delle infezioni e delle malattie anche mortali provocate dalla mancanza di igiene e dalla sete. Si discute oggi se la disponibilità d’acqua sia un bisogno da erogare attraverso il mercato, ovvero un diritto, da soddisfare quindi da parte dello stato. Ovviamente come si parla di diritto al cibo, si deve parlare di diritto all’acqua. Il ruolo dei privati può essere utile per provvedere alle soluzioni tecniche e organizzative per la distribuzione in un quadro normativo vincolante (per tariffe e impegni di chi eroga l’acqua) definito dallo stato. Anche in questo caso l’impegno internazionale è largamente inadeguato. Possibili riforme Considerando gli ambiti che abbiamo citato come spazi per la cooperazione internazionale si possono individuare alcune possibili linee di riforma su cui può o dovrebbe essere avviata iniziativa politica. MDG Gli obiettivi non saranno raggiunti entro il 2015. Occorre giungere presto alla definizione di nuovi obiettivi e strategie, per anticipare gli esiti ed evitare un diffondersi del pessimismo causato da questo fallimento. Voices and votes Oggi nelle Istituzioni Finanziarie Internazionali si vota in base al PIL. Occorre andare verso un meccanismo che dia almeno ad ogni paese la stessa rappresentanza. Questa riforma, di cui si sta già concretamente parlando col nome di voices and votes (voci e voti), dovrebbe valere sia per il FMI che per la Banca mondiale. Organismi ONU Il consiglio per gli affari economico e sociali delle Nazioni Unite (ECOSOC) oggi, a differenza di quanto avviene per il Consiglio di Sicurezza, non ha alcun potere. In particolare non ha quello di comminare sanzioni. Fondere i due Consigli o dare poteri istituzionali più consistenti al primo è una riforma necessaria per creare uno strumento di coordinamento e governance politica in grado di occuparsi di questioni sociali e non solo di crisi militari. Aree regionali È opportuno rafforzare il percorso che sta creando istituzioni di livello regionale. Un dialogo tra aree regionali semplifica una comunicazione fra quasi 200 stati ed è migliore di consessi autoconvocati (come G8 o G20) che generano comunque degli esclusi. È una tendenza in atto che va incoraggiata. Quote di produzione agricole Il primo ambito in cui una discussione tra aree regionali potrebbe diventare seriamente incisiva è quello della regolazione del mercato in ragione della sicurezza alimentare. In sintonia con lo spirito della prima normativa europea in tema agricolo, un’analisi del fabbisogno alimentare mondiale e un’articolazione di quote produttive che consentano spazio a tutti i produttori e accesso a quantità ragionevoli ai consumatori, ridurrebbe una competizione selvaggia che oggi favorisce oligopoli 34 , non garantisce sicurezza alimentare e non protegge dalle speculazioni, penalizzando nei fatti soprattutto i più poveri. Un tavolo di concertazione di questo tipo ridurrebbe i rischi di deforestazione e offrirebbe un contributo positivo all’ambiente che beneficerebbe della risorsa terra usata in modo sostenibile. Quote di produzione di energia Un meccanismo analogo potrebbe essere creato per gestire la produzione energetica. L’autorità ONU per l’energia atomica svolge un ruolo di controllo sul nucleare dal punto di vista della sicurezza, manca una sede per discutere di pianificazione, consentendo coerenza anche con le attenzioni ambientali. Nuova architettura finanziaria Occorre un sistema finanziario che senza paura del mercato né delle regole, fissi i paletti per l’azione degli operatori vincolandoli alla responsabilità sociale, per evitare esposizioni irresponsabili come furono quelle degli anni ’70 nei confronti dei paesi del Sud che originarono la crisi del debito estero o, più recentemente, la crisi finanziaria di questi anni. In una nuova architettura occorre consentire ai paesi del Sud accesso a prestiti erogati a condizioni sostenibili, con un protagonismo partecipato dai governi stessi e dalla società civile e adeguati sistemi di garanzia per evitare emergenze legate all’insolvenza e conseguenti crisi di sfiducia. Esiste una riflessione in corso in sede OCSE e in sede G20, ed esiste una piattaforma che sta già sperimentando soluzioni regionali in America Latina. È una strada da percorrere senza esitazioni, per evitare le degenerazioni a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni con le conseguenze sulla vulnerabilità delle persone. Divieto di emettere titoli derivati il cui sottostante sia legato ai prezzi alimentari (ed energetici) Un elemento prezioso e particolare di una nuova architettura finanziaria è quello che guarda alla regolazione dell’emissione di titoli derivati. In particolare occorre vietare l’emissione di titoli il cui valore sia legato a prezzi di prodotti alimentari. Questo eviterebbe il rinnovarsi di episodi incresciosi come quelli accaduti nel 2008, quando in pochissimi mesi i prezzi alimentari esplosero per poi ridiscendere in modo altrettanto rapido e senza alcuna ragione riconducibile alle dinamiche del mercato reale. Pochi operatori, in grado di influenzare i prezzi alimentari, li fecero alzare artatamente ritirando i prodotti, mentre investivano in derivati legati ai prezzi di quei prodotti. L’aumento dei prezzi alimentari rendeva più remunerativi i titoli. Alla scadenza dei titoli, incassati i guadagni, i prodotti sono stati rimessi sul mercato 34
Gli oligopoli sono oggi ulteriormente favoriti dallo sviluppo delle biotecnologie, dall’uso dei prodotti OGM e dalla tutela dei loro brevetti. provocando un abbassamento del loro prezzo. Grazie a questo aumento forzato il numero di persone che ha fame ha nel 2008 di nuovo superato il miliardo. APS: contributo obbligatorio Un tema particolarmente caro a chi scrive è quello che presenta la contribuzione dei paesi ricchi alla cooperazione (il famoso 0,7% del PIL) come un atto obbligatorio e non come una liberalità. In un ambito nazionale il pagamento delle tasse è obbligatorio e l’evasione comporta una sanzione penale. Questo per rendere evidente che la comunità si fonda su una assunzione di corresponsabilità comune che si concreta nel pagamento delle tasse. La raccolta fiscale in questa prospettiva diventa elemento fondante la stessa identità comunitaria. Tutto ciò vale per i paesi a livello nazionale ed è ratificato dalle Costituzioni. La legislazione internazionale invece è debolissima. Nonostante la Dichiarazione Universale sui Diritti dell’Uomo, che orienta tutti a sentirsi responsabili della loro tutela, nessuno considera i fondi della cooperazione come un obbligo. Anzi sono presentati come una liberalità generosa. Questo tra l’altro li rende sistematicamente volatili. A seconda delle scelte nazionali del donatore, la cifra può salire o scendere, rendendo più difficile una programmazione per chi da quei fondi dipende. L’obbligatorietà dei contributi alla cooperazione, con un sistema di sanzioni per i trasgressori, rafforzerebbe la comunità internazionale, costruirebbe una giustizia e una solidarietà più reali, e offrirebbe più mezzi, e prevedibili, a chi ha più bisogno. Naturalmente si tratta di una riforma molto articolata, che introduce il concetto di fiscalità internazionale, oggi solo teorico, ma anche in questo caso è un tema da preparare per il futuro con sollecitudine. Titoli di proprietà Sul piano delle regole e di eventuali innovazioni legislative, occorrerebbe promuovere un’iniziativa soprattutto per il continente africano, rivolta ad assicurare ai contadini la proprietà legale delle terre tradizionalmente coltivate. Spesso le legislazioni attuali creano strumenti di registrazione catastale e fondiaria facilmente raggirabili da avventurieri (e imprese) senza scrupoli che sottraggono legalmente le terre ai contadini, giocando sulla loro scarsa dimestichezza con faccende legali. Al di là delle truffe, che sono tutt’altro che rare, il tema del passaggio dalla proprietà collettiva tradizionale della terra alla registrazione moderna che porta alla identificazione di un proprietario legale specificamente identificato è un tema di grande importanza sia per le abitazioni, sia per la terra coltivabile. E nelle zone rurali impatta di conseguenza sulla sicurezza alimentare. Fiscalità nazionale e locale Sono necessarie nei paesi a minor reddito procapite iniziative legislative che creino un sistema fiscale adeguato e trasparente per avviare un processo di contribuzione fiscale interno che alla lunga crei le condizioni per un’indipendenza finanziaria. Un paese non è libero finché dipende dagli aiuti esterni. Si tratta di un tema anche in questo caso difficile. Molti paesi, di fronte alla scarso reddito medio, o alla mancanza di una vera e propria anagrafe, rinviano la costruzione di una anagrafe fiscale adeguata e di un sistema di contribuzione progressivo. È però un passaggio prezioso che va preparato per maturare risultati domani. Il prossimo futuro Da questo elenco non esaustivo si può cogliere come esistano spazi per riforme che possono orientare in modo significativo il futuro della comunità internazionale e dei suoi paesi membri. Come si vede poco spazio è stato dato a iniziative che riguardino direttamente il mondo dei migranti. In effetti chi scrive ritiene che non si possa immaginare di incidere sul fenomeno delle migrazioni se non attraverso una azione politica complessiva che favorisca un movimento verso una più generale miglior tutela della dignità della vita delle persone. Occuparsi di migrazioni e migranti allora, dal punto di vista internazionale, non è molto diverso che occuparsi di fame o di sviluppo economico o di ambiente. Come abbiamo cercato di spiegare nella prima parte di questo intervento, viviamo in un contesto di interdipendenze non solo geografiche, ma settoriali e culturali. Tutto è interconnesso e non si può sognare più né l’isola deserta, né l’ultraspecializzazione. Una considerazione va aggiunta in conclusione. Guardando alla presenza di lungo periodo dei migranti nei paesi di arrivo, con l’affacciarsi della seconda generazione (che in Italia è già attivissima, sia pure per ora, per ragioni d’età, soprattutto nel mondo della scuola e la parco giochi), ci deve essere chiaro che non ha più senso parlare di “integrazione”. Dobbiamo guardare ad un risultato nuovo, i cui contorni non conosciamo, che sarà il frutto della capacità di accoglienza e dialogo reciproco. Una nuova condizione, che conterrà le precedenti identità e ne genererà una nuova più ricca. Una città come Torino, che ha subìto un impatto straordinario negli anni ’60, quando praticamente raddoppiò la sua popolazione per l’arrivo di immigrati dal Meridione italiano che venivano in città per lavorare alla Fiat allora in piena espansione, è oggi una città diversa dalla Torino precedente. Dopo anni di fatica e tensioni oggi Torino è una città nuova, più ricca e più bella, in cui figli di torinesi e figli di meridionali sono “nuovi torinesi” più simili fra loro che ai loro genitori. Che piaccia o no (e a chi scrive, “nuovo torinese” figlio di torinesi, piace) questa è la prospettiva a cui dobbiamo guardare nel nostro paese. Ma la stessa prospettiva dobbiamo immaginare sul piano internazionale. Ciò che sapremo costruire non è qualcosa di già scritto. Non è l’”integrazione” in un modello. È qualcosa di nuovo che farà crescere e favorirà la pace35 nella misura in cui giocheremo la nostra responsabilità con attenzione. A chi tocca agire? A tutti. A chi fa politica, per evidenti ragioni. Ai cittadini che con le loro scelte economiche possono premiare imprese che si muovono con maggiore o minore coerenza verso obbiettivi che i cittadini preferiscono. Ancora ai cittadini, singolarmente o organizzati nella società civile, per dialogare esplicitamente con la politica, nazionale e internazionale. A chi fa cultura per cercare di capire che cosa accade e raccontarlo. Alle religioni, strada perché l’uomo riconosca la sua identità e la sua vocazione e non per inscenare mediocri o sanguinose competizioni. Abbiamo bisogno di responsabilità, rigore e dialogo. Speriamo che scrivere e leggere queste righe possa essere un piccolo contributo in queste tre direzioni. 35
Non è abbiamo parlato esplicitamente, ma l’orizzonte delle prospettive politiche che abbiamo suggerito è, naturalmente, la pace. Vale tuttora il grande messaggio di Paolo VI (1967): “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Cfr. Populorum Progressio n. 76.