In settantottomila per il Romanino

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In settantottomila per il Romanino
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Grandi mostre/Buonconsiglio
In settantottomila
per il Romanino
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di Francesco Suomela Girardi
G
irolamo Romanino: chi fu realmente costui? Pittore struggente, barbaro nella sua carica trasgressiva, dalla carriera irregolare – non immune, questa,
da drammatiche delusioni professionali e da
cocenti critiche. Fu “borderline”, ma solo sul
piano espressivo, non certo un artista maudit, perché la sua vicenda biografica ci appare
perfino ben incardinata nelle istituzioni religiose e laiche di Brescia, sua città natale. Da
tempo la storia dell’arte gli ha riconosciuto
la statura di alfiere di un’avanguardia, di capofila di quella “guerriglia anticlassica”, come
scrivevano Carlo Ginzburg ed Enrico Castelnuovo, che ebbe soprattutto nella provincia
lombarda del primo Cinquecento il suo focolaio e nel realismo figurativo il suo grimaldello. Girolamo Romanino fu “un pittore in
rivolta nel Rinascimento italiano”. Celebrarlo, proprio al Castello del Buonconsiglio di
Trento dove affrescò uno dei più importanti
cicli profani dell’epoca, è stato per molte ragioni un evento, giustamente ascritto al novero delle più attese manifestazioni europee
dell’anno scorso. C’è indubbiamente un primo motivo di contesto: la mostra è giunta
infatti al termine di una lunga stagione di restauri nel Magno Palazzo, non solo sugli affreschi dell’artista bresciano, che ci restitui-
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scono l’antica residenza di Bernardo Cles al suo
fasto originario di residenza squisitamente rinascimentale. Per il principe vescovo fu un vero
colpo di fortuna quando Romanino, nella tarda primavera del 1531, gli offrì i propri servigi. Nel cantiere, d’altra parte, l’artista impresse
alla propria carriera forse la principale svolta di
tutta la sua parabola. Sconcertante è la naturalezza delle pose degli imperatori antichi e moderni nella Camera delle Udienze, provocatoria
persino l’iconografia della loggia, dove il carro di Fetonte è trascinato da tre cavalli al posto dei quattro citati dalle fonti classiche. Il ciclo clesiano è nell’insieme contraddistinto da
una strepitosa vivacità inventiva; le figure, come non lo erano mai state prima, appaiono vigorose e gigantesche, tuttavia animate da una
gestualità quasi teatrale. A Trento Romanino
ebbe l’occasione di riavvicinarsi all’arte tedesca,
soprattutto attraverso quello che fu il principa-
“Girolamo Romanino.
Un pittore in rivolta
nel Rinascimento italiano”
a cura di Francesco Frangi (Università di Pavia), Lia Camerlengo,
Ezio Chini e Francesca de Gramatica (conservatori del Castello del Buonconsiglio). Al progetto
ha partecipato anche Alessandro
Nova (Università di Francoforte),
autore dell’ultima monografia sull’artista (1994).
Questi i numeri dell’allestimen-
le medium di divulgazione dell’epoca, l’incisione. Alcuni affreschi del castello, come la celebre
Paga degli operai lungo la scala che dalla loggia
conduce al giardino, non possono che essere figli di un realismo icastico di marca nordica.
Discorso analogo vale per il soggetto del Libespaar affrescato nel “revolto soto la loza”. Senso del grottesco, mescolanza di caricatura popolaresca e linguaggio classico vengono impiegati negli ambienti secondari per una pittura di
genere su scala monumentale che non conosce eguali nella pittura italiana di tutto il Cinquecento. Ecco allora il valore aggiunto di una
mostra monografica su Romanino che ruota
attorno al ganglio centrale della sua vicenda artistica, il Buonconsiglio.
Inevitabile è il confronto con l’allestimento di
Brescia curato da Gaetano Panazza nel 1965.
Allora, cosa oggi impossibile, erano confluite negli spazi della rotonda quasi tutte le ope-
G. Romanino,
Il buon Samaritano,
coll. privata,
1544-45,
olio su tela.
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Loggia di Romanino, Castello del Buonconsiglio.
to: 61 dipinti, 37 disegni, 7 volumi, per un controvalore assicurativo di 87 milioni di euro; 55 gli enti prestatori, di cui 36 italiani, 14
europei, 5 americani (figurano tra
i principali il Louvre, la Galleria degli Uffizi, la Pinacoteca di Brera, il
Metropolitan di New York, la galleria Doria Pamphilj di Roma e il
Museo di Belle Arti di Budapest).
Catalogo edito da Silvana Editoriale (444 pp., 30 euro).
La mostra ha toccato la ragguardevole cifra di settantottomila visitatori con una media di poco
inferiore ai mille visitatori al giorno. Intanto, al Castello del Buonconsiglio, già si lavora alla grande mostra del 2007: sarà dedicata agli ori dei cavalieri delle steppe, in collaborazione con i musei
di Ucraina e Austria.
Allegoria dell’Invidia, part..
www.buonconsiglio.it
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G. Romanino, Giuditta che decapita Oloferne,
part., Castello del Buonconsiglio.
re del pittore. Anche a Trento, tuttavia, Romanino è rappresentato da alcuni dipinti di
spettacolare impatto dimensionale. La sala
Grande ospita le Cene di Rodengo Saiano,
affrescate nel refettorio del monastero olivetano di San Nicolò, e soprattutto la strepitosa sequenza delle ante d’organo giunte da
Asola (Mn), da Brescia e da Verona: veri capolavori, benché finora non adeguatamente
considerati, che testimoniano di un tipo di
committenza congeniale all’estro e alla tecnica compendiaria del pittore.
Rileggere Romanino a distanza di quarant’anni dall’unica mostra monografica finora dedicatagli presenta alcuni indubbi
vantaggi. Il primo e più evidente è dato dalla maggiore ricchezza di informazioni disponibile, e non solo di fonte archivistica. Mol-
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L. Gambara, Ritratto di G. Romanino,
Museum of Fine Art, Budapest.
LA VITA
Tre polizze d’estimo indicano date varie, tra
il 1484 e il 1487, per la nascita a Brescia
di Girolamo di Romano, detto il Romanino,
erede di una famiglia originaria di Romano
di Lombardia. I primi vent’anni della sua vita
sono avvolti dal mistero. Formatosi tra Brescia e Venezia, recepì suggestioni lombarde, da Bramantino, evidenti nei giovanili affreschi di Ghedi, ma soprattutto a contatto
con Giorgione e Tiziano giovane, dando una
versione estrosa e fortemente espressiva del
tonalismo lagunare, affine a quella di Altobello Melone e non priva di richiami alla cultura nordica e alla produzione bergamasca
di Lorenzo Lotto. Tali esperienze si concludono nella decorazione a fresco del Duomo
di Cremona (1519-1920), ricche di un senso
narrativo fantasioso e violento, al limite dell’espressionismo.
Articolata è anche la produzione su tela, come il ciclo nella Cappella del Sacramento
in San Giovanni Evangelista a Brescia, realizzato tra il 1521 e il 1524. Il confronto è
con un altro pittore bresciano, il Moretto, ma
la pittura audace di Romanino si distingue
per l’acuto realismo e per il vigore luministico che contano tra i “precedenti” di Caravaggio. Dal 1531 Romanino è a Trento, dove realizza per Bernardo Cles uno dei più
straordinari cicli affrescati di soggetto profano della prima metà del Cinquecento in Italia. Di grande suggestione sono anche gli affreschi eseguiti negli anni seguenti in alcune
chiese della Val Camonica (la Crocifissione
e le Storie di Cristo in Santa Maria della Neve a Pisogne sono state definite dal critico
Giovanni Testori la “Cappella Sistina dei poveri”). La produzione più direttamente devozionale, per privati o per la provincia, è condotta con una stesura più sommaria e rapida, spesso con esiti di drammaticità violenta
e quasi grottesca. Ultima grande opera è la
Chiamata di Pietro e Andrea in San Pietro a
Modena, del 1558, spettacolare interpretazione notturna dell’episodio evangelico. Romanino muore nel 1560.
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Concerto per voci e strumenti,
Loggia di Romanino, Castello del Buonconsiglio.
G. Romanino, Madonna con Bambino, Parigi, Louvre,
1506-1507, olio su tavola riportato su tela.
ti restauri condotti proprio negli ultimi anni
o appena conclusi, per lo più su opere mobili, alcuni proprio in funzione della mostra del Buonconsiglio, ci consentono un approfondimento più aggiornato e criticamente corretto dell’intera parabola dell’artista. A
Trento poi, dovendo contare su un numero
relativamente modesto di numeri di catalogo vince, nell’ipotetico confronto con il precedente, la più serrata lucidità del percorso
espositivo, svolto in senso diacronico. Inedita e straordinaria, per completezza, la sezione
dedicata all’opera grafica del pittore bresciano, tra cui spicca il Concerto di dame e cavalieri con un cagnolino, unico foglio riconducibile al cantiere clesiano e in particolare al “revolto soto la loza”. Sorprende, tra i disegni,
la grande varietà di tecniche e di soggetti: si
passa dalle matite nere con rialzi di biacca alle sanguigne, alla nervosità dei tratti a penna,
sempre più frequenti nella produzione tarda.
“Bonissimo pratico e disegnatore”, secondo
Vasari, Romanino intuì nell’espediente di ritrarre i personaggi di spalle la forza dell’enigma di una figura senza volto. È insomma
protagonista, ancora una volta, la faccia anticonvenzionale della realtà.
Pittore umorale, capace di intensi affondi
nella psicologia umana, di Romanino è spiegata l’intera carriera, durata circa mezzo secolo, attraverso le sei sezioni divise tra Castelvecchio e Magno Palazzo. Le prime opere note, il Narciso alla fonte di Francoforte
e la Madonna col Bambino del Louvre (entrambe del 1506-1507 circa), ci svelano una
formazione a contatto con la grande scuola
pittorica veneziana che è tanto più evidente
nel paesaggio fumeggiato della tela di Parigi, di chiara ispirazione giorgionesca. A Venezia Romanino ammirò Tiziano, ma studiò
anche Dürer, non dimenticando tuttavia di
misurarsi con la cultura figurativa milanese.
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Proprio il Vecellio costituì negli anni un continuo termine di confronto, anzi il termometro su cui misurare quella svolta anticlassica
che prese l’avvio già a partire dalla fine del
secondo decennio del Cinquecento, sotto il
“demone del colore smosso”. Lo dimostrano
le due Madonne col Bambino e la Venere con
Cupido esposte nell’ex Cappella Vecchia assieme al Ritratto di gentiluomo di Budapest.
In quest’ultimo caso il modello sembra ancora Giorgione, da cui discenderebbe l’attitudine meditativa e malinconica. Del tutto autonoma è invece la descrizione del volto del
protagonista, colto senza indulgenza, nelle
ruvide asperità della sua fisionomia che contrasta con la virtuosistica resa dell’abbigliamento. Nella Resurrezione di Capriolo (circa 1523-25) la distanza dal polittico Averoldi di Tiziano non potrebbe essere più dichiarata: da una parte il campione del classicismo
dipinge un Cristo statuario e trionfante nelle sue stesse apollinee fattezze. Dall’altra Romanino rende al Salvatore membra “sbilenche”, “minate”, condivise con i quattro armigeri storditi al suolo. È come se l’artista fosse
alla ricerca di un Vangelo attualizzato, di una
spiritualità diretta, libera dai riti della Chiesa istituzionalizzata. La futura debordante irruenza delle opere della maturità è stata letta
in modo impareggiabile da Giovanni Testori come il corrispettivo visuale proprio di un
dialetto. Non a caso, nel quarto decennio del
Cinquecento, saranno in particolare i piccoli centri pedemontani della Valcamonica a
ospitare l’alterità rabbiosa e ostinata, la verve
eccentrica del maestro bresciano.
Spettacolare, nella sala degli specchi, è
l’omaggio di Romanino ai “manti argentati” di Giovan Girolamo Savoldo. Le campiture cromatiche si amplificano, lo studio degli effetti luministici approda alle celebri vibrazioni metalliche – appunto argentee, ma
anche bronzee e ramate – messe ulteriormente in risalto dai toni bassi nel resto della figurazione.
L’ultimo Romanino, un periodo ancora
oscuro sul fronte della cronologia delle opere, è per certi versi ancora più ardito e drammatico. Lo seguiamo lungo il tema del Compianto sul Cristo morto, più volte commissionatogli dalle numerose confraternite del Santissimo Sacramento, che erano sorte proprio
nel secolo in territorio bresciano. Il dramma
è accentuato dalla straordinaria temperatura
morale delle espressioni e delle pose, quasi
raggelate in una compostezza dignitosa. L’artista non scivola mai nel compiacimento per
quella crudeltà figurativa che troviamo invece nella pittura d’Oltralpe, in Cranach,in
Altdorfer, in Grünevald. L’ammirazione per
quell’“Umanesimo indipendente” dell’Europa centrale, ancora non sublimato dal filtro selettivo del classicismo, si ferma prima.
L’esecuzione è sempre più spesso spoglia e
disadorna, ancora una volta provocatoria rispetto all’eleganza rinascimentale. L’esigenza
di verità, anche in senso evangelico, è giocata
spogliando le figure di ogni decoro. Il Vangelo deve poter essere raccontato sinceramente,
nella sua sperimentabile concretezza, seguendo anche le sgrammaticature della carne.
Savoldo, la Maddalena.

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