Secondo la definizione di Lippmann, il concetto di stereotipo si

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Secondo la definizione di Lippmann, il concetto di stereotipo si
Monica Santoro, Università degli Studi di Milano
Pregiudizi e stereotipi: donne: dalla crisi economica al cambiamento
CGIL CISL e UIL Milano, 8 marzo 2012
STEREOTIPI ED EDUCAZIONE FAMILIARE
Monica Santoro
Università degli Studi di Milano
Secondo la definizione di Lippmann, il concetto di stereotipo si riferisce a
credenze, conoscenze e aspettative proprie del gruppo sociale di riferimento. Lo
stereotipo quindi può essere considerato come una rappresentazione mentale di
un gruppo sociale in contrasto con la rappresentazione esterna reale. Lo
stereotipo di genere in particolare riguarda precise aspettative culturali rispetto
alle donne e agli uomini in termini di personalità, apparenza, occupazione,
competenze, abilità, interessi. Potremmo dire che, una volta interiorizzato, lo
stereotipo è una lente deformante attraverso la quale la realtà sui generi viene
interpretata e quindi distorta .
Fatta questa premessa mi concentrerò sul ruolo della famiglia nel processo
di socializzazione agli stereotipi di genere.
Fin da piccolissimi apprendiamo le differenze tra come si devono
comportare le bambine e i bambini. La differenza di genere viene evidenziata a
livello simbolico fin dalla nascita con i diversi colori nell’abbigliamento del
neonato e della neonata, nell’arredamento della cameretta e così via.
Diversi studi in ambito sociologico e psicologico evidenziano come già a 2
anni e mezzo i bambini e le bambine mostrino una conoscenza anche
rudimentale delle attività e degli oggetti legati all’appartenenza di genere.
La famiglia svolge in questo processo di apprendimento degli stereotipi un
ruolo fondamentale per vari motivi. Innanzi tutto, è la prima istituzione o, in
termini sociologici, la prima agenzia di socializzazione con cui un individuo
viene a contatto. Questo fa sì che per un periodo, seppure limitato ai primissimi
anni di vita, il bambino o la bambina considerino il mondo familiare come
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l’unico mondo possibile, escludendo dal loro orizzonte cognitivo realtà
differenti. Il mondo familiare poi è un ambito affettivo, carico di una dimensione
emotiva difficilmente riproducile nelle esperienze relazionali future. Infine, nella
famiglia “il riconoscimento che l’umanità ha due sessi diviene principio
organizzativo sociale complessivo e struttura simbolica che ordina i rapporti
sociali e i destini individuali. Luogo in cui i due sessi si incontrano e convivono,
la famiglia è infatti anche lo spazio storico e simbolico nel quale, e a partire dal
quale, si dispiega la divisione del lavoro, degli spazi, delle competenze, dei
valori, dei destini personali di uomini e donne […]. È innanzitutto a livello della
famiglia che l’appartenenza sessuale diviene un destino sociale, implicitamente o
esplicitamente normato, e che viene collocata entro una gerarchia di valori,
potere, responsabilità” (Saraceno C., Sociologia della famiglia, 1996).
Come avviene il processo di socializzazione agli stereotipi di genere? Come
si è affermato in precedenza, la teoria sociologica considera la famiglia come il
più importante agente di trasmissione di valori e norme legate al genere, a cui
corrispondono specifici atteggiamenti e aspettative comportamentali. La famiglia
perciò promuove particolari modelli che il bambino e la bambina interiorizzano
anche grazie all’adozione da parte dei genitori di un sistema premi-punizioni,
che, nel caso della socializzazione ai ruoli di genere, si esplicita attraverso la
comunicazione verbale. Si elogiano perciò determinati atteggiamenti e
comportamenti adottati dai figli o dalle figlie a seconda che siano conformi alle
aspettative di genere. All’opposto, si condannano comportamenti non conformi a
questi modelli. Un esempio tipico è intimare ad una bambina di non “fare il
maschiaccio” quando adotta comportamenti aggressivi. Questo tipo di
appellativo nasconde in realtà l’adesione allo stereotipo legato alla tradizionale
dicotomia qualità maschili/qualità femminili. Seguendo tale stereotipo ci sono
differenze “naturali” tra uomini e donne, in base alle quali gli uomini sono per
natura aggressivi, indipendenti, capaci di imporsi; le donne, all’opposto,
emotive, sensibili, empatiche e docili. Come conseguenza, la maggiore attitudine
degli uomini all’autonomia e al comando li renderebbe portati a svolgere
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professioni direttive, mentre la maggiore sensibilità delle donne consentirebbe
loro di essere particolarmente adatte a svolgere lavori di cura. Tratti di
personalità culturalmente e socialmente trasmessi acquisiscono perciò “carattere
naturale”, venendo percepiti come qualità date in natura e non acquisite fin dalla
nascita attraverso i processi di socializzazione familiare. In seguito, queste
caratteristiche, ormai cristallizzate in diversa misura a livello individuale,
verranno ulteriormente rafforzate e confermate negli ambiti istituzionali con cui
verrà a contatto il soggetto nell’arco della propria esistenza, come la scuola e
l’ambito lavorativo.
Non esistono tuttavia prove scientifiche certe rispetto a predisposizioni
particolari dei due generi. Ad esempio, gli studi che hanno testato la presenza di
diverse attitudini tra i generi a livello scolastico hanno smentito la maggiore
predisposizione dei ragazzi verso le materie scientifiche e delle ragazze verso
quelle umanistiche.
Oltre al ruolo svolto dalla comunicazione verbale, il modello adottato dai
genitori nella gestione dei compiti familiari costituisce un importante fattore di
trasmissione degli stereotipi di genere. Vivere in una famiglia dove la divisione
dei ruoli familiari tra i partner è tradizionale rappresenta un modello che i figli e
le figlie tenderanno a riprodurre nella loro famiglia di elezione.
Va precisato tuttavia che la famiglia non è l’unica agenzia di socializzazione
che influisce sulla costruzione degli stereotipi di genere. Lo sono anche i mass
media, con i quali i/le bambini/e oggi vengono a contatto in età precocissima, e
la scuola. Queste due agenzie rafforzano le rappresentazioni stereotipate di
genere.
Il processo di socializzazione al genere è poi un processo dinamico che
varia da cultura a cultura, che subisce variazioni nel corso del tempo a seconda
delle trasformazioni sociali e culturali in atto. Non va trascurato infine l’aspetto
relazionale. Qualsiasi processo di socializzazione avviene in un ambito
relazionale in cui persiste una dimensione negoziale. I bambini e le bambine non
sono soggetti passivi, bensì persone attive che possono rifiutare, apportare delle
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modifiche ai modelli appresi, superando così in parte la rigidità delle strutture di
genere.
Per concludere vorrei richiamare l’attenzione su qualche dato. Tutte le
ricerche sulla ripartizione dei compiti domestici tra partner in Italia evidenziano
come il carico di lavoro familiare gravi soprattutto sulle donne. Le donne italiane
hanno un carico di lavoro familiare maggiore rispetto a quello delle altre donne
europee. Questa divisione asimmetrica dei compiti si riproduce anche
nell’educazione dei figli e delle figlie. Sebbene si sia registrato un lieve
miglioramento nell’arco di un decennio (dal 1998) a favore di un maggiore
coinvolgimento dei ragazzi in alcune attività domestiche, le ragazze tra i 6 ed i
17 anni risultano sempre più coinvolte nelle attività familiari, specie nella cura
dei familiari più piccoli, nel rifarsi il letto, riordinare, aiutare a cucinare e fare le
pulizie, lavare i piatti. Ai maschi invece viene affidato prevalentemente il
compito di buttare la spazzatura, svolgere lavoretti di riparazione e fare qualche
commissione, tutte attività tipicamente “maschili” (tab.1).
Tab. 1 Bambini e ragazzi di 6-17 anni per attività svolte abitualmente in famiglia e genere
– Anni 1998, 2005, 2008 , 2011 (per 100 bambini e ragazzi di 6-17 anni dello stesso
sesso)
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Questo quadro evidenzia chiaramente come ruoli e compiti di genere
vengono appresi e perpetuati proprio all’interno della sfera familiare. Ciò si
manifesta anche nell’educazione alla gestione del denaro. Ad esempio,
indipendentemente dalla condizione socio-economica dei genitori, i ragazzi
ricevono paghette più sostanziose e con scadenza regolare rispetto alle ragazze
che, invece, ricevono meno denaro e su richiesta. Coerentemente con queste
differenze, i ragazzi vengono spronati a guadagnare, mentre le ragazze a
risparmiare. I modelli educativi riproducono così la tradizionale divisione dei
compiti familiari tra i generi: l’uomo capofamiglia procacciatore di reddito e la
moglie dedita alla gestione (oculata) del bilancio familiare.
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