Razzismo - Associazione Hans Jonas

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Razzismo - Associazione Hans Jonas
1.Partiamo da una constatazione che ciascuno può fare nella sua
esperienza quotidiana ma che ora trova una autorevole conferma:
i segni antichi del razzismo, del pregiudizio e dell‟odio per i
“diversi da noi”, per la “gente di fuori” non sono scomparsi,
stanno riemergendo. Come osservano gli autori del “rapporto sul
razzismo” di Alfredo Alietti e Dario Padovan, questa è stata la
realtà che ha preso il posto di quella speranza di fine secolo
scorso in un futuro delle società umane aperto a un benessere
crescente e libero da conflitti e discriminazioni. L‟attacco alle
Twin Towers ha segnato la svolta . Ma se fosse solo questo
l‟esito della ricerca esposta dal rapporto potremmo dire che lo
sapevamo già. E‟da tempo che registriamo il riapparire di forme
di razzismo antiche come l‟antisemitismo
insieme a
manifestazioni violente di xenofobia come le aggressioni contro
i rom e i sinti o l‟esplosione di clamorose cacce all‟uomo contro i
“negri” , fino a quella ostilità culturale e religiosa nei confronti
degli islamici che si manifesta in mille episodi. Se ne è parlato e
discusso in molte sedi, con denunzie e tentativi di analisi. E‟
prevalso all‟inizio lo stupore, quasi l‟incredulita: che nonostante
Auschwitz, nonostante la Shoah, la forma più devastante e antica
di razzismo che conosciamo, l‟antisemitismo, non sia scomparsa e
mandi segnali di ripresa è motivo di preoccupazione per il
presente e per l‟avvenire del nostro paese. Ci torna davanti
minaccioso l‟avvertimento di Primo Levi: “è accaduto, può
accadere di nuovo”. E al posto della storia come processo di
mutamenti guidato dalla cultura si è affacciata l‟idea di una
permanenza del pregiudizio, del rifiuto dell‟”altro” come reazione
istintiva e incancellabile della nostra specie. Si tratta di capire se
siamo davanti a un‟ immobile, invincibile radice del pregiudizio o
se ci sono cause che possono essere eliminate. Il rapporto di cui
parliamo è utile a tal fine perchè non si limita a rilevare i dati sul
grado di ostilità verso ebrei e musulmani nella società italiana: ne
disaggrega e ne analizza le componenti e pone il problema di
comprendere la funzione di legame sociale degli “atteggiamenti
autoritari, etnocentrici e anomici” all‟interno di una società
definita come quella dell‟ “eccezione giuridica”. L‟ipotesi che
emerge è che il razzismo sia il collante di un intero sistema di
credenze sociali e si offra oggi come un modello dei legami
all‟interno della società. Ma intanto c‟è una constatazione
preliminare che se ne ricava: la chiusura del pregiudizio ha preso
il posto di quella speranza di fine secolo scorso in un futuro delle
società umane aperto a un benessere crescente e libero da
conflitti e discriminazioni – una speranza che finì con l‟attacco
alle Twin Towers e con la crisi finanziaria e sociale di cui stiamo
vivendo gli esiti. Questo fenomeno chiede di essere studiato e
interpretato andando dietro alla realtà effettuale. Anche perchè,
volere o no, quello del rifiuto dell‟altro, del razzismo è un legame
sociale: questo lo afferma fin dal titolo il rapporto sul razzismo di
cui stiamo parlando. Questo significa che l‟immagine dell‟altro
come diverso, da escludere, da catalogare come una minaccia alla
nostra convivenza, da evitare come vicino, è entrato a far parte di
un linguaggio condiviso, offre una base d‟intesa istintiva, un
rifugio rassicurante, una spiegazione dei mali del mondo e delle
difficoltà di ciascuno . E‟ questa la funzione che ha sempre svolto
lo stereotipo del diverso. Ma lo stereotipo si fissa nella
costituzione materiale di un paese quando si comopie la scelta
politica di introdurre una eccezione giuridica ai diritti dell‟uomo e
del cittadino. Mi rifaccio ancora al titolo del rapporto per
ricordare che nella nostra società le regole hanno dato un
fondamento stabile al razzismo creando l’eccezione giuridica e
avviando così la costruzione di uno stato di eccezione.
L’eccezione giuridica una volta fissata per legge solidifica quella
che era solo una immagine mentale di diversità: ammettere una
differenza nei diritti vuol dire creare una differenza di umanità.
Ecco quello che accade quando al posto dell‟essere umano
subentra il “clandestino” – una parola che da sola suggerisce
inquietudine, paura, ma anche possibilità di sfruttamento. E
sappiamo come questo accada normalmente. Dunque, il dato
primario è la funzione di collante sociale che il discorso razzista
ha assunto nella nostra società grazie a precise responsabilità
politiche di chi ha cavalcato e sfruttato una predisposizione
sociale, una mentalità diffusa. Che la lotta per il potere faccia uso
del materiale che trova non è una novità; quindi non si tratta di
cercare il responsabile o i responsabili esclusivi del fenomeno in
quelli che ne sono gli utilizzatori finali, se mi si consente
l‟espressione. Prendiamo un esempio storico lontano nel tempo
ma che ha qualche relazione col nostro discorso: quando re
Fernando d‟Aragona ordinò l‟espulsione dalla Spagna di ebrei e
musulmani (giudei e mori) nel 1492 sfruttò un sentimento di odio
nei confronti di quei gruppi che esisteva già, lo stimolò, lo portò
al grado massimo e su questo fondò un potere saldissimo,
compattando nella costruzione della barriera di esclusione la
coscienza dell‟appartenenza al regno cristiano e guerriero della
Spagna. L'episodio ci ricorda che sulla preesistente mentalità
razzistica, più in generale sulla convinzione di una differenza
incolmabile tra gruppi umani si possono costruire fortune
politiche consistenti. Oggi sul razzismo diffuso possono essere
approvate leggi, possono crescere carriere politiche , può
impiantarsi il messaggio seducente del populismo, quello che
conosciamo nella versione mediatica e plutocratica che ha avuto
tanto successo nei nuovi ceti emergenti della società italiana. Ma
il dato di partenza è , per dirla con Carlo Donolo (Italia sperduta,
Donzelli) il fatto che l‟Italia, la società italiana “si è spersa”, ha
perduto la scommessa quando si è aperto un mondo più vasto e
più rischioso. E allora ha preferito rifugiarsi nelle sue debolezze
croniche, facendo delle sue ricchezze di strati culturali diversi le
barriere di localismi aggressivamente xenofobi, chiudendosi nello
strapaese volgare e rissoso, sviluppando in senso anarcoide la
debolezza delle sue istituzioni e traducendo (e tradendo) la libertà
garantita dalla legge in libertà dalle leggi.
Ma intanto vale la pena di riassumere i risultati più interessanti
della parte analitica dell‟indagine. I dati raccolti da questo
rapporto riguardano due pregiudizi emergenti, l‟antisemitismo e
l‟anti-islamismo. Si tratta di dati effettivamente allarmanti: più
del 51% coltiva pregiudizi antiebraici. E in forte crescita è il
pregiudizio anti-islamico. E‟ un risultato che contraddice
pesantemente stime precedenti assai più tranquillizzanti. : qui si è
proceduto disaggregando gli ingredienti dell‟antisemitismo e
dell‟anti-islamismo e scovando per così dire la tendenza a creare
degli stereotipi anche quando è coperta da dichiarazioni come “io non sono razzista, ma...” – o quando si accompagna a
atteggiamenti apparentemente tolleranti e a riconoscimenti
apparentemente positivi, per esempio in materia di concessioni
agli islamici di luoghi di culto o in materia di apprezzamenti
della durezza dello Stato di Israele. Per quanto riguarda gli
ingredienti che emergono dal lavoro di scomposizione dei
pregiudizi, vi troviamo elementi antichi accanto a quelli nuovi.
Dell‟antisemitismo tradizionale sopravvive un elemento decisivo,
la teoria del complotto, unito all‟accusa di presenza dominante
nella finanza internazionale e ad altri rimproveri: la chiusura
verso altri gruppi e il vittimismo, cioè lo sfruttamento
dell‟Olocausto a proprio vantaggio. Dunque, osservano gli autori,
“a distanza di quasi un secolo /dall‟infame libello dei Protocolli/
la teoria cospirazionista costituisce ancora un elemento del
pregiudizio antisemita al quale aderisce una fetta non irrilevante
di opinione pubblica”. Possiamo parlare di un vero e proprio
razzismo nell‟opinione corrente sugli ebrei, anche se manca la
componente antica della razzializzazione bio-genetica.
Inquietante appare anche il processo di vittimizzazione che
proietta sull‟ebreo lo stereotipo della “vittima perfetta”: un passo
decisivo sulla via della deumanizzazione e della creazione del
capro espiatorio . E‟ vero che si tratta di un pregiudizio dai toni
morbidi, lontano dall‟antisemitismo razzista del passato. Vi si
mescolano apprezzamenti positivi . Ma soprattutto vi emergono
nuovi protagonisti rispetto all‟antisemitismo dei militanti
dell‟estrema destra: sono giovani di origine arabo-musulmana,
cioè di un mondo che ha avuto una storia diversa da quella
dell‟Europa cristiana e nella cui cultura era iscritto un tempo un
atteggiamento di profondo rispetto per il popolo ebraico e per
l‟ebraismo religioso. L‟altro dato nuovo rispetto allo stereotipo
antico è connesso col precedente: la visione dello stato di Israele
come un “ebreo collettivo”: e qui si incrociano e si differenziano
destra e sinistra, perché da un lato l‟idea di Israele come stato
forte che si impone con la durezza stimola sentimenti di simpatia
a destra e dall‟altro l‟immagine dello stesso stato come braccio
armato dell‟imperialismo americano risveglia mai cancellate
pulsioni antisemite di origine staliniano-comuniste condivise o
non abbastanza combattute dalla sinistra italiana.
Accanto all‟antisemitismo, c‟è la crescita di un pregiudizio antiislamico dotato di una speciale virulenza, tanto da apparire simile
all‟ostilità contro i “nomadi”, cioè il gruppo più ostracizzato,
quello che si colloca nella fascia estrema del razzismo odierno.
Gli autori non rifiutano il concetto di islamofobia, ma lo
ritengono fuorviante perchè rinvia a una ostilità di tipo religioso
di origine remota . Le risposte inaspettatamente favorevoli in
maggioranza all‟apertura di moschee e al permesso per atti di fede
in luoghi pubblici mostrano che lo stereotipo dell‟ostilità religiosa
è diventato meno importante di quello dell‟estraneità e della
chiusura culturale. La crescita del pregiudizio anti-islamico si
basa sull‟idea di un‟estraneità insuperabile di un mondo chiuso,
incapace di accettare le nostre regole di convivenza, immutabile
nel tempo e poco tollerante, col quale sarebbe impossibile
dialogare. Questo è il fenomeno che appare più preoccupante,
perchè largamente diffuso e in crescita: il rapporto sottolinea che
questa è la forma di razzismo più grave e diffusa, tale da prendere
il posto un tempo occupato dall‟antisemitismo. La caratteristica
essenziale del razzismo attuale è quella di essere diffusamente
presente in una percentuale molto alta della popolazione e di
essere orientato indifferentemente contro ebrei e islamici, al di là
della valutazione del contributo storico delle loro culture alla
civiltà occidentale, anche al di là delle loro opinioni religiose che
non suscitano più che tanto l‟avversione. Siamo davanti all‟
“affermarsi di un discorso pubblico razzista che vede
genericamente nello straniero o nel „diversamente‟ italiano od
europeo una minaccia al senso di posizione di gruppo”. E‟ un
fenomeno che, secondo gli autori, chiama in causa responsabilità
di destra e di sinistra e che deve essere chiaramente individuato
come un problema serio: quando un 60% della popolazione, pur
schermandosi dietro il mantra “Io non sono razzista ma...” ,
mostra di nutrire pregiudizi e sentimenti ostili contro i membri di
collettività come ebrei, islamici e zingari, l‟allarme tocca in
profondità le forme della convivenza e minaccia esiti
preoccupanti: e qui si pone la lettura storica come un‟appendice
necessaria, implicata dagli stessi autori della relazione quando
osservano (p.24) che siamo davanti a ondate storiche di
pregiudizio che cambiano i propri target utilizzando i modelli
storici dominanti: quello dell‟antisemitismo offre i suoi
ingredienti all‟antiziganismo e all‟antiislamismo. Da notare,
prima di passare a ragionare in termini storici, che c‟è questo
fantasma dell‟antiziganismo di cui qui si dice che “sta diventando
il razzismo prevalente” ma che non è stato immesso nella griglia
dell‟inchiesta.
2. Davanti al tema che ci è proposto siamo chiamati a dimostrare
coi fatti alla domanda “A che serve la storia” . E non possiamo
non ricordare che questa domanda apre un piccolo fondamentale
libro di Marc Bloch scritto mentre lui, di origine ebraica e
militante della resistenza francese, viveva in clandestinità. Quel
libro fu interrotto quando i nazisti lo presero e lo fucilarono. Se la
storia serve a qualcosa oggi dovrebbe dimostrarlo offrendo una
qualche risposta utile davanti alla questione del riemergere di
forme vecchie e nuove di razzismo. Del resto, sono questi i banchi
di prova dell‟utilità dei nostri strumenti codificati di conoscenza.
Nel momento più buio della storia del mondo, due intellettuali
euopei – l‟ebreo tedesco Walter Benjamin e lo storico francese
Marc Bloch, anch‟egli di tradizione ebraica – si rivolsero alla
storia chiedendosi a che cosa servisse e quali fossero i caratteri
del sapere storico. Per Benjamin, “articolare storicamente il
passato... significa impadronirsi di un ricordo come esso balena
nel momento del pericolo”. E aggiungeva: “Solo quello storico ha
il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è
penetrato dall‟idea che anche i morti non saranno al sicuro dal
nemico se egli vince. E questo nemico non ha smesso di
vincere”(tesi n.6). E aggiungeva che preliminare allo svolgimento
del lavoro dello storico è l‟abbandono dell‟idea di progresso: “La
tradizione degli oppressi ci insegna che lo „stato di emergenza‟ in
cui viviamo è la regola”(tesi n.8). Oggi, davanti al riemergere
sempre più evidente di forme diffuse di razzismo, tutti ci
dobbiamo interrogare su quello che i nostri strumenti di
conoscenza ci possono dire sulle cause di un fenomeno così
gravemente preoccupante.
Per lo studioso di storia, si tratta di guardare ai caratteri storici di
questi fenomeni per cercar di capire dalla lezione del passato il
perchè tra le forme di etnocentrismo, di razzismo, di chiusura
impaurita davanti all‟”altro”, quelle che ci troviamo davanti oggi
riguardano proprio i protagonisti di lunga durata dell‟odio e della
discriminazione razziale: ebrei, islamici, zingari. Ci sono dunque
forme di lunga durata del pregiudizio che si ripresentano oggi,
anche se in condizioni diverse dal passato. Accostare a questi
dati sociologici le conoscenze storiche non vuol dire proporre
semplicemente una sommaria delineazione delle manifestazioni
del pregiudizio razziale nel corso della storia ma ragionare sulle
diverse funzioni che tale pregiudizio ha svolto nelle società del
passato.
Invitando uno che fa il mio mestiere a commentare i dati di
un‟inchiesta sociologica sulla diffusione dei pregiudizi e del
razzismo non credo che si sia voluto provocare una narrazione
delle origini e della diffusione del razzismo dell‟antisemitismo
dell‟antiislamismo e altro ancora. Non ne avremmo il tempo:
sarebbe lo stesso che raccontare la storia universale. Piuttosto si è
fatto affidamento a un carattere di questi pregiudizi che può
sfuggire davanti alla diffusione generalizzata di certe sue
manifestazioni: il carattere storico, di realtà cioè che
appartengono alla specie umana come specie naturale che ha una
storia, cioè muta col tempo nei suoi rapporti con l‟ambiente e
soprattutto che ha una memoria non istintiva del suo passato. Se
avessimo nel dna certe reazioni, non ci resterebbe che prenderne
atto. Ma poichè la nostra memoria di specie è la storia, bisognerà
rivolgersi alla storia ogni volta che abbiamo incertezze e dubbi sul
percorso che stiamo battendo. Ora, il riproporsi del pregiudizio in
forma devastante è motivo di dubbio e di paura davanti al futuro
perchè sappiamo quanto abbia portato vicino la specie umana alla
sua autodistruzione. E dunque su questo bisognerà interrogarsi.
Perchè dopo la Shoah è ancora reattivo e vitale il virus
dell‟antisemitismo? E‟ lo stesso che chiederci come italiani
perchè dopo gli anni del terrorismo c‟è ancora chi attacca i
magistrati come terroristi. Le due cose sono diversissime ma
hanno un punto in comune: la politica, la lotta per il potere. Ed
ecco gli ingredienti elementari della formazione e della diffusione
del pregiudizio razziale che a mio avviso si possono indicare con
uno sforzo di semplificazione estrema:
1)alla base c‟è l‟istinto animale del rifiuto di condividere uno
spazio e delle risorse con altri. E‟ un dato che riguarda gli uomini
come i topi. E l‟analisi della nostra psicologia ci dice che a stento
l‟individuo tollera i limiti posti al suo desiderio di onnipotenza
dall‟esistenza di fratelli e sorelle, per non parlare di altri
competitori. Il che non vuol dire che l‟uomo non sia un essere
sociale, come ha scritto Aristotele: vuol dire che l‟istinto di
socievolezza deve vedersela costantemente col desiderio di
dominare la società. E qui si passa a un altro dato elementare:
2)Il potere politico: nell‟acquisizione e nel mantenimento del
quale si ricorre allo stimolo di istinti elementari della specie, in
primo luogo la paura e l‟avversione. Ma anche allo sfruttamento
di fattori culturali: specialmente le credenze diffuse. Cioè
3)la religione. Possiamo accogliere gli altri così come i nostri dèi
possono accogliere gli dèi alieni. Ma che cosa accade se il nostro
Dio è un essere unico e geloso della sua unicità e intollerante di
onori tributati ad altre divinità? Ecco che si pone qui un carattere
originale delle società mediterranee, da sempre in conflitto per gli
opposti monoteismi esclusivisti che vi sono accolti. Forse non è
vero quello che ha sostenuto Jan Assmann che i monoteismi sono
la causa dell‟intolleranza, perchè la ricerca di unificare tutte le
religioni intorno al culto di un solo dio è stata anche la forza di
tendenze ecumeniche e ireniche. Ma certo il potere politico e gli
istinti elementari possono entrare in contatto grazie alla religione.
Ed è qui che possiamo aprire l‟orizzonte storico di momenti
significativi e periodizzanti della storia dell‟intolleranza senza
cadere nelle fantasie di Borges sulla “storia naturale
dell‟intolleranza”.
Ricordiamo cose ben note osservando che la forza del pregiudizio
che gli permette di allignare senza sosta è quella irresistibile della
semplificazione : accanto alla semplicità della comprensione
razionale cresce la mala pianta della falsa semplificazione, quella
che si basa sulla sostituzione di stereotipi alla realtà concreta degli
esseri umani. E il tratto fondamentale del razzismo consiste
proprio nel sostituire all‟identità umana del singolo uno stereotipo
collettivo. E‟ così che si presenta il pregiudizio della differenza di
razza. Il passaggio dallo stereotipo alla sua fondazione
naturalistica non sempre è esplicito ma è sempre latente. Così
quando si dice che un delitto è stato commesso da un rumeno o
che un bambino è stato rapito da una zingara: esemplare il caso
realmente avvenuto di un autorevole quotidiano italiano che in un
caso in cui il rumeno accusato e confesso è risultato innocente con
la prova del DNA, ha spiegato che quel DNA provava tuttavia
che il colpevole da trovare era certamente un rumeno.
Prendiamo in esame il più antico e resistente degli stereotipi usati
nel discorso razzista, quello che ha per oggetto gli ebrei. Come ha
dimostrato Georges Mosse, l‟uso degli stereotipi è stato un
ingrediente fondamentale nei processi di nazionalizzazione delle
masse in età contemporanea, cioè nei progetti politici di
saldatura delle masse allo stato-nazione e alla creazione di identità
collettive. L‟antisemitismo razziale è nato allora come una
trasformazione del tradizionale antigiudaismo a base religiosa.
Per scandire i mutamenti storici attraversati dallo stereotipo
possiamo parlare di un mutamento di paradigma, sfruttando il
concetto che Thomas Kuhn ha creato per la storia della scienza.
Nelle permanenze e nei mutamenti del paradigma del pregiudizio
razziale in materia di antisemitismo e anti-islamismo, ritroviamo
gli elementi costitutivi del più antico e più radicato pregiudizio
della nostra storia. Lo si è sperimentato storicamente in almeno
tre forme diverse – tre paradigmi: a)quello religioso; b)quello
naturalistico e pseudoscientifico;c)quello post-Shoah e post-Stato
di Israele. Tutt‟e tre hanno avuto come obbiettivo la scomparsa
dell‟alterità – col battesimo, con l‟eliminazione fisica, con la
cancellazione dell‟identità culturale e politica e l‟assorbimento
nella cultura e nei valori delle società occidentali. Il modello con
la stessa successione di paradigmi si ritrova sia nel rapporto con
l‟ebraismo sia in quello con l‟Islam.
3.Nel mutamento di paradigma dobbiamo riconoscere il riuso di
pezzi del paradigma superato: il lavoro di costruzione del
pregiudizio è un lavoro di “bricolage”. Le basi elementari
delparadigma sono quelle poste dall‟antigiudaismo cristiano: il
popolo ebraico è l‟erede del delitto del deicidio, punito con la
dispersione (la diaspora) e con la incapacità di accettare la verità
del messia: la Sinagoga è cieca mentre la Chiesa ha gli occhi
aperti nell‟iconografia del medioevo cristiano. L‟ebreo, già
popolo eletto, vive la condizione di “figlio della serva”: odia i
cristiani e complotta contro di loro. I “perfidi giudei” debbono
restare fra i cristiani come testimoni della verità delle profezie
bibliche, ma debbono esserne separati e restare riconoscibili: il
ghetto, il segno sull‟abito sono gli strumenti elaborati dal
paradgma cristiano, così come l‟accusa del complotto e
l‟invenzione del delitto rituale . Tutti elementi che ricompariranno
nel paradigma dell‟antisemitismo naturalistico fondato sulla
differenza di sangue. La scomparsa dell‟ebreo come diverso per
religione si salda strettamente alla comparsa dell‟ebreo come
razza diversa per sangue, caratterizzata dalle stesse qualità
negative. Il passaggio dall‟uno all‟altro paradigma non attende
l‟800 positivista: si verifica una prima volta nella Spagna del
„400, quando l‟obbligo del battesimo porta all‟espulsione della
forte minoranza ebraica (i “sefarditi”)ma lascia nella penisola
iberica molti ebrei battezzati che vengono però discriminati e
perseguitati come diversi per sangue (“limpieza de sangre”). Lo
stesso accade quando nel „700 si ha l‟emancipazione degli ebrei e
la fine del regime di discriminazione religiosa: già alla fine del
secolo rinasce un antisemitismo violento che colpisce nell‟ebreo il
nemico della società, l‟individualismo, l‟attività finanziaria. Nella
società borghese l‟affermazione illuministica dei diritti
dell‟individuo e dei principi di libertà suscita una reazione che
alimenta il bisogno di chiusura comunitaria a protezione dei
gruppi sociali colpiti dalla rivoluzione borghese dissolutrice dei
vincoli. E ancora una volta il bisogno di un‟alterità da odiare
creò le condizioni per l‟affermarsi dell‟ereditarietà di sangue
dell‟identità ebraica. Questo mutamento di paradigma si diffonde
in Europa sfruttando il veicolo della cultura cristiana e della
reazione della Chiesa contro l‟Illuminismo e la rivoluzione.
Mutamento e permanenza insieme: perché resta dell‟antiebraismo
cristiano l‟odio per l‟ebreo come il diverso per eccellenza, il
nemico occulto che complotta per la rovina della civiltà cristiana,
mentre si perde l‟aspetto della differenza religiosa ed affiora
l‟altra caratteristica: quella dell‟ebreo come colui che esprime
l‟esito della dissoluzione dei vincoli della società d‟antico regime
e ne coglie l‟occasione per affermare la potenza irrefrenabile
dell‟individualismo economico e della prepotenza finanziaria. Il
riflusso di un mondo tradizionale colpito dagli effetti della
cancellazione dei vincoli economici e sociali antichi porta a
vedere nell‟ebreo il simbolo della violenza del nuovo sistema,
colui che può approfittare del liberismo economico e della forza
cieca della finanza internazionale per scardinare la società. Il
fiume sotterraneo della propaganda antirivoluzionaria della
Chiesa addita nell‟ebreo il vero occulto agente che ha scatenato
con un complotto segreto la Rivoluzione francese (e più avanti la
“civiltà cattolica” aggiungerà quella sovietica). Ma sul tronco
antico si innestano forze nuove e ideologie che avranno un effetto
devastante. La considerazione di quel che accade tra la fine del
„700 e l‟800 ha permesso di fare emergere la radice profonda
dell‟antisemitismo nella tradizione socialista (si rinvia per questo
a M.Battini, Il socialismo degli imbecilli, ed. Bollati Boringhieri e
a R.Finzi, Il pregiudizio, ed. Bompiani 2011). Come ha suggerito
Stefano Levi della Torre, contro l‟ebreo agiscono due immagini
radicalmente diverse dell‟ebraicità: quella di un popolo chiuso
nella conservazione immobile di caratteri propri e quella di una
potenza finanziaria gestita da individualità incontrollabili e libere
da ogni condizionamento che non sia quella del tornaconto. Da
qui le richieste di assimilazione come dissolvimento nella
società.
Nel nuovo paradigma si mantengono i dati della teoria del
complotto , dell‟ebreo come potenza segreta ostile alla civiltà
occidentale del mondo cristiano e determinato a procurarne la
rovina e si introduce quello della potenza di una finanza
internazionale libera da regole e proprio per questo dissolutrice di
ogni vincolo tradizionale, affamatrice dei poveri e capace di
procurare la rovina dell‟assetto ordinato del mondo del lavoro e
della produzione. L‟ebreo non è più individuato dalla differenza
di religione:ma così, com‟era accaduto nella Spagna della fine del
„400, il modo per individuarlo diventa il sangue. Nasce un
pregiudizio “di sinistra”, nasce l‟ebreo come capitalista. La Shoah
porterà alla fusione di tutto l‟armamentario vecchio e nuovo: i
segni di riconoscimento, la chiusura dei ghetti e la teoria del
complotto, ma creerà qualcosa di assolutamente nuovo – la
macchina della distruzione, il genocidio. Se fissiamo l‟attenzione
sul contributo del fascismo italiano, troviamo qui la declinazione
spiritualistica del pregiudizio, con gli ingredienti del clericofascismo e il sostegno di una parte significativa della cultura e
della predicazione della Chiesa.
4. Si aprirebbe a questo punto un problema che riguarda
specificamente la storia recente del nostro paese. E‟esistito un
antisemitismo diffuso nella società italiana? Le opinioni
divergono in materia. La proposta di Giorgio Fabre di un
razzismo profondamente radicato che Mussolini fa emergere solo
nel contesto degli anni ‟30 meriterebbe di essere approfondita
esplorando il consenso di una società dove il clerico-fascismo
aveva fatto breccia in ambienti assai numerosi. Ricorrendo alla
categoria della “zona grigia” di cui ha scritto Primo Levi – una
categoria abusata, va detto - le dimensioni della persecuzione
razziale in Italia sono state descritte finora prevalentemente come
quelle di un fenomeno fatto più di indifferenza che di attiva
partecipazione collettiva. Ricordiamo l‟osservazione di Arnaldo
Momigliano (in”Pagine ebraiche”): senza l‟indifferenza di larga
parte della popolazione europea non sarebbe stato possibile quel
lungo viaggio che portò i suoi genitori – insieme a molti altri – al
luogo dell‟annientamento. E aggiungiamo a questo l‟inadeguata,
colpevole reazione assunta dall‟Italia post-fascista, dai suoi partiti
e dai suoi governi nei confronti del problema, con un generale
movimento verso l‟autoassoluzione e con forme di grave
ingiustizia nei confronti delle vittime e della loro memoria.
Per quanto riguarda la Chiesa come potere strutturato e presente
capillarmente nella società, le discussioni e le ricerche si sono
polarizzate eccessivamente su papa Pio XII, che ha assunto quasi
una funzione di capro espiatorio, col rischio di lasciare in ombra
una diffusione dell‟antigiudaismo che ha avuto a lungo in Italia i
caratteri di un virus impalpabile pronto a scatenarsi in forma
epidemica. Col secondo‟900 è venuta meno in forma pubblica
ed esplicita la copertura della Chiesa : col Concilio Vaticano II si
è avuta una svolta importante che ha lasciato isolata la frangia
antisemita cattolica, conferendo al caso dei seguaci di mons.
Lefebvre l‟aspetto di un residuo isolato e alle loro opinioni
negazioniste il sapore dello scandalo.
Un aspetto emerso nell‟analisi dell‟opera recentissima di R.Finzi
è quello delle responsabilità dell‟opinione dell‟élite liberale
italiana: le pagine di Croce e di Merzagora (e di L.Einaudi)
analizzate da Finzi, così come la sua rilettura di un celere scritto
di Marx giovane mostrano con evidenza come il rifiuto della
“diversità” ebraica sia stato diffuso imparzialmente negli ambienti
più insospettabili, tanto da rendere attuale il modo di dire inglese
“With friends like this who needs enemies?”. E‟un fatto,
comunque, che l‟esplorazione dei precedenti storici e dei caratteri
di correnti profonde di razzismo sta procedendo e che ne emerge
una tradizione italiana tutt‟altro che esente dalle tare del
opregiudizio razziale.
5. Abbiano lasciato da parte il pregiudizio anti-islamico ma come
osserva il rapporto qui siamo in presenza di una derivazione
storica del paradigma antiebraico, oggi rivitalizzato dai problemi
sociali della presenza di una forte minoranza islamica in Italia.
Varrebbe la pena a questo riguardo ricordare che una nefasta
novità introdotta dalla politica europea del secolo scorso è stata
quella della trasmissione del virus dell‟antigiudaismo nelle
società islamiche del Medio Oriente, storicamente del tutto esenti
da questa peste: non sarà inutile ricordare che nei secoli
dell‟antigiudaismo religioso europeo gli ebrei costretti all‟esilio
trovarono un rifugio prezioso nella tolleranza dell‟Impero
Ottomano grazie al rispetto e alla considerazione che l‟Islam
nutriva per il “popolo del Libro”. Oggi abbiamo invece il
problema di un antisemitismo islamico per gli errori e le
responsabilità politiche europee e in particolare per quelle
dell‟Inghilterra nell‟esercizio del mandato in Palestina, com‟è
noto . E anche in questo caso sul pregiudizio si è innestato un uso
politico dell‟antico e consolidato capro espiatorio da parte dei
poteri politici locali interessati a impedire una modernizzazione
democratica di quelle società.
6.Un ultimo punto riguarda il segno di destra o di sinistra del
pregiudizio: intendiamo per destra la parte della società che cerca
la sicurezza nella chiusura della comunità e nei valori della
tradizione e per sinistra quella che tende all‟unificazione del
mondo sotto il segno di valori cosmopolitici e di idee razionali.
Anche in questo caso il modello dell‟antisemitismo e dell‟antiislamismo si presta a considerazioni interessanti. Popoli senza
stato, uniti dalla religione, hanno stimolato un‟ostilità che
possiamo classificare di destra perché portatori di un pericolo di
disgregazione religiosa e politica.Ma anche di sinistra, laddove il
pregiudizio colpisce gli ebrei perché chiusi, tradizionalisti,
orientati verso il proprio gruppo. Destra e sinistra si sono
incrociate e confuse nell‟antisemitismo nazionalsocialista o
nell‟anticapitalismo del “socialismo degli imbecilli” , contro la
minaccia della potenza finanziaria della massoneria ebraica. E si
ritrovano oggi eredi di stereotipi antichi ma con reazioni e giudizi
che si intrecciano e si scambiano gli ingredienti. Del tutto
depotenziati quelli religiosi, restano le antipatie verso ordinamenti
statali chiusi e poco tolleranti e verso individui ritenuti poco
integrabili nei nostri ordinamenti. La presenza degli stati modifica
marginalmente il quadro: all‟ebreo cosmopolita e senza patria si
sostituisce l‟ebreo di uno stato forte (ammirato da destra) e chiuso
davanti a chi non è ebreo. Ma il pregiudizio si è fatto generico, si
è unificato. Si è affermato un “discorso pubblico razzista che vede
genericamente nello straniero o nel diversamente italiano o
europeo una minaccia al senso di posizione del gruppo”. Ma il
rapporto pone un problema urgente alle forze politiche strutturate
e alle loro agenzie culturali quando afferma che “la destra
dovrebbe chiedersi come può annoverare tra i suoi „fedeli‟ vecchi
antisemiti e autoritari ed etnocentrici sostenitori dello Stato di
Israele, così come la sinistra dovrebbe chiedersi come può
accadere che la critica alla politica israeliana nei confronti dei
palestinesi possa facilmente slittare verso un imbarazzante
antisemitismo, e perchè ytta le sue file siano così numerosi gli
anti-islamici”.
Il risorgere del pregiudizio ma anche il sovrapporsi e il
confondersi delle antiche posizioni di destra e di sinistra rinvia da
un lato alla vittoria del rampante populismo di regime, dall‟altro
alla debolezza dei conti che il paese delle “leggi razziali” del 1938
ha fatto col suo passato.
In conclusione vorrei richiamare ancora il tema segnalato fin dal
titolo di questo rapporto della funzione del sistema di norme nel
combattere o nell‟alimentare il pregiudizio. Viviamo oggi in una
società caratterizzata dal ricorso sistematico all‟eccezione
giuridica per alimentare e consolidare la forza del pregiudizio
fingendo di difendere la “nostra” identità da quella degli “altri”.
Con la criminalizzazione del “clandestino” e perfino con
l‟insistito ricorso alla definizione di “extra-comunitario” che è
tutto fuorchè un termine neutro, nel seno della società italiana si
sono introdotti gli ingredienti capaci di dare corpo a un razzismo
delle istituzioni e a una macchina di creazione del “diverso”. Si
pensi alla creazione di quel nuovo tipo di carcere che è il “CIE”,
campo di identificazione e di espulsione: vale per questa
operazione la definizione di “esperimento” che Primo Levi usò
per raccontare Auschwitz e Franco Basaglia per definire
l‟ospedale psichiatrico.
Quando si introduce una differenza nei diritti si crea una
differenza di umanità. Dunque il problema culturale e politico
urgente è quello di battere il populismo alimentato dalla
propaganda e dall‟uso del potere per restaurare l‟uguaglianza dei
diritti e cancellare pregiudizi “alimentati ad hoc da discorsi e
ideologie rozze ma chiare, veicolate da media, imprenditori
politici ed opinionisti”, che si impiantano “su un fondo
sedimentato di autoritarismo et etnocentrismo, per non parlare poi
di forme estese di sfiducia sociale e interpresonale”, in un
orizzonte incupito dalla “profonda incertezza e paura del futuro e
degli altri”: la cosa riguarda specialmente il mondo giovanile e la
condizione femminile, naturalmente, anche se va notato che i
fermenti positivi di ribellione a questo clima e di presa di
coscienza emersi nelle manifestazioni dell‟ “onda” studentesca e
della manifestazione “se non ora, quando?” non hanno trovato
una risposta adeguata da parte dei partiti di opposizione. E su
questo sarebbe urgente una presa di coscienza adeguata da parte
di tutta l‟opinione pubblica, per cogliere quanto sia vasta la
riserva di solidarietà e di voglia di reagire che ancora esiste nel
profondo della società italiana. Varrebbe la pena di riflettere sulle
immagini che tutti di recente abbiamo visto di come la
popolazione di Lampedusa si è prodigata nella salvezza dei
profughi finiti in mare vicino alla riva: quando allo stereotipo si
sostituisce l‟essere umano la risposta spontanea è quella del
riconoscimento della comune appartenenza alla specie e del
legame di fraternità che ne discende. Se su questa base si
innestasse anche finalmente un risveglio della società italiana e un
ritorno alla forza liberatoria della partecipazione politica, allora
anche i fantasmi del razzismo cesserebbero di costituire il legame
sociale denunziato da questo rapporto.