Razzismo - Associazione Hans Jonas
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Razzismo - Associazione Hans Jonas
1.Partiamo da una constatazione che ciascuno può fare nella sua esperienza quotidiana ma che ora trova una autorevole conferma: i segni antichi del razzismo, del pregiudizio e dell‟odio per i “diversi da noi”, per la “gente di fuori” non sono scomparsi, stanno riemergendo. Come osservano gli autori del “rapporto sul razzismo” di Alfredo Alietti e Dario Padovan, questa è stata la realtà che ha preso il posto di quella speranza di fine secolo scorso in un futuro delle società umane aperto a un benessere crescente e libero da conflitti e discriminazioni. L‟attacco alle Twin Towers ha segnato la svolta . Ma se fosse solo questo l‟esito della ricerca esposta dal rapporto potremmo dire che lo sapevamo già. E‟da tempo che registriamo il riapparire di forme di razzismo antiche come l‟antisemitismo insieme a manifestazioni violente di xenofobia come le aggressioni contro i rom e i sinti o l‟esplosione di clamorose cacce all‟uomo contro i “negri” , fino a quella ostilità culturale e religiosa nei confronti degli islamici che si manifesta in mille episodi. Se ne è parlato e discusso in molte sedi, con denunzie e tentativi di analisi. E‟ prevalso all‟inizio lo stupore, quasi l‟incredulita: che nonostante Auschwitz, nonostante la Shoah, la forma più devastante e antica di razzismo che conosciamo, l‟antisemitismo, non sia scomparsa e mandi segnali di ripresa è motivo di preoccupazione per il presente e per l‟avvenire del nostro paese. Ci torna davanti minaccioso l‟avvertimento di Primo Levi: “è accaduto, può accadere di nuovo”. E al posto della storia come processo di mutamenti guidato dalla cultura si è affacciata l‟idea di una permanenza del pregiudizio, del rifiuto dell‟”altro” come reazione istintiva e incancellabile della nostra specie. Si tratta di capire se siamo davanti a un‟ immobile, invincibile radice del pregiudizio o se ci sono cause che possono essere eliminate. Il rapporto di cui parliamo è utile a tal fine perchè non si limita a rilevare i dati sul grado di ostilità verso ebrei e musulmani nella società italiana: ne disaggrega e ne analizza le componenti e pone il problema di comprendere la funzione di legame sociale degli “atteggiamenti autoritari, etnocentrici e anomici” all‟interno di una società definita come quella dell‟ “eccezione giuridica”. L‟ipotesi che emerge è che il razzismo sia il collante di un intero sistema di credenze sociali e si offra oggi come un modello dei legami all‟interno della società. Ma intanto c‟è una constatazione preliminare che se ne ricava: la chiusura del pregiudizio ha preso il posto di quella speranza di fine secolo scorso in un futuro delle società umane aperto a un benessere crescente e libero da conflitti e discriminazioni – una speranza che finì con l‟attacco alle Twin Towers e con la crisi finanziaria e sociale di cui stiamo vivendo gli esiti. Questo fenomeno chiede di essere studiato e interpretato andando dietro alla realtà effettuale. Anche perchè, volere o no, quello del rifiuto dell‟altro, del razzismo è un legame sociale: questo lo afferma fin dal titolo il rapporto sul razzismo di cui stiamo parlando. Questo significa che l‟immagine dell‟altro come diverso, da escludere, da catalogare come una minaccia alla nostra convivenza, da evitare come vicino, è entrato a far parte di un linguaggio condiviso, offre una base d‟intesa istintiva, un rifugio rassicurante, una spiegazione dei mali del mondo e delle difficoltà di ciascuno . E‟ questa la funzione che ha sempre svolto lo stereotipo del diverso. Ma lo stereotipo si fissa nella costituzione materiale di un paese quando si comopie la scelta politica di introdurre una eccezione giuridica ai diritti dell‟uomo e del cittadino. Mi rifaccio ancora al titolo del rapporto per ricordare che nella nostra società le regole hanno dato un fondamento stabile al razzismo creando l’eccezione giuridica e avviando così la costruzione di uno stato di eccezione. L’eccezione giuridica una volta fissata per legge solidifica quella che era solo una immagine mentale di diversità: ammettere una differenza nei diritti vuol dire creare una differenza di umanità. Ecco quello che accade quando al posto dell‟essere umano subentra il “clandestino” – una parola che da sola suggerisce inquietudine, paura, ma anche possibilità di sfruttamento. E sappiamo come questo accada normalmente. Dunque, il dato primario è la funzione di collante sociale che il discorso razzista ha assunto nella nostra società grazie a precise responsabilità politiche di chi ha cavalcato e sfruttato una predisposizione sociale, una mentalità diffusa. Che la lotta per il potere faccia uso del materiale che trova non è una novità; quindi non si tratta di cercare il responsabile o i responsabili esclusivi del fenomeno in quelli che ne sono gli utilizzatori finali, se mi si consente l‟espressione. Prendiamo un esempio storico lontano nel tempo ma che ha qualche relazione col nostro discorso: quando re Fernando d‟Aragona ordinò l‟espulsione dalla Spagna di ebrei e musulmani (giudei e mori) nel 1492 sfruttò un sentimento di odio nei confronti di quei gruppi che esisteva già, lo stimolò, lo portò al grado massimo e su questo fondò un potere saldissimo, compattando nella costruzione della barriera di esclusione la coscienza dell‟appartenenza al regno cristiano e guerriero della Spagna. L'episodio ci ricorda che sulla preesistente mentalità razzistica, più in generale sulla convinzione di una differenza incolmabile tra gruppi umani si possono costruire fortune politiche consistenti. Oggi sul razzismo diffuso possono essere approvate leggi, possono crescere carriere politiche , può impiantarsi il messaggio seducente del populismo, quello che conosciamo nella versione mediatica e plutocratica che ha avuto tanto successo nei nuovi ceti emergenti della società italiana. Ma il dato di partenza è , per dirla con Carlo Donolo (Italia sperduta, Donzelli) il fatto che l‟Italia, la società italiana “si è spersa”, ha perduto la scommessa quando si è aperto un mondo più vasto e più rischioso. E allora ha preferito rifugiarsi nelle sue debolezze croniche, facendo delle sue ricchezze di strati culturali diversi le barriere di localismi aggressivamente xenofobi, chiudendosi nello strapaese volgare e rissoso, sviluppando in senso anarcoide la debolezza delle sue istituzioni e traducendo (e tradendo) la libertà garantita dalla legge in libertà dalle leggi. Ma intanto vale la pena di riassumere i risultati più interessanti della parte analitica dell‟indagine. I dati raccolti da questo rapporto riguardano due pregiudizi emergenti, l‟antisemitismo e l‟anti-islamismo. Si tratta di dati effettivamente allarmanti: più del 51% coltiva pregiudizi antiebraici. E in forte crescita è il pregiudizio anti-islamico. E‟ un risultato che contraddice pesantemente stime precedenti assai più tranquillizzanti. : qui si è proceduto disaggregando gli ingredienti dell‟antisemitismo e dell‟anti-islamismo e scovando per così dire la tendenza a creare degli stereotipi anche quando è coperta da dichiarazioni come “io non sono razzista, ma...” – o quando si accompagna a atteggiamenti apparentemente tolleranti e a riconoscimenti apparentemente positivi, per esempio in materia di concessioni agli islamici di luoghi di culto o in materia di apprezzamenti della durezza dello Stato di Israele. Per quanto riguarda gli ingredienti che emergono dal lavoro di scomposizione dei pregiudizi, vi troviamo elementi antichi accanto a quelli nuovi. Dell‟antisemitismo tradizionale sopravvive un elemento decisivo, la teoria del complotto, unito all‟accusa di presenza dominante nella finanza internazionale e ad altri rimproveri: la chiusura verso altri gruppi e il vittimismo, cioè lo sfruttamento dell‟Olocausto a proprio vantaggio. Dunque, osservano gli autori, “a distanza di quasi un secolo /dall‟infame libello dei Protocolli/ la teoria cospirazionista costituisce ancora un elemento del pregiudizio antisemita al quale aderisce una fetta non irrilevante di opinione pubblica”. Possiamo parlare di un vero e proprio razzismo nell‟opinione corrente sugli ebrei, anche se manca la componente antica della razzializzazione bio-genetica. Inquietante appare anche il processo di vittimizzazione che proietta sull‟ebreo lo stereotipo della “vittima perfetta”: un passo decisivo sulla via della deumanizzazione e della creazione del capro espiatorio . E‟ vero che si tratta di un pregiudizio dai toni morbidi, lontano dall‟antisemitismo razzista del passato. Vi si mescolano apprezzamenti positivi . Ma soprattutto vi emergono nuovi protagonisti rispetto all‟antisemitismo dei militanti dell‟estrema destra: sono giovani di origine arabo-musulmana, cioè di un mondo che ha avuto una storia diversa da quella dell‟Europa cristiana e nella cui cultura era iscritto un tempo un atteggiamento di profondo rispetto per il popolo ebraico e per l‟ebraismo religioso. L‟altro dato nuovo rispetto allo stereotipo antico è connesso col precedente: la visione dello stato di Israele come un “ebreo collettivo”: e qui si incrociano e si differenziano destra e sinistra, perché da un lato l‟idea di Israele come stato forte che si impone con la durezza stimola sentimenti di simpatia a destra e dall‟altro l‟immagine dello stesso stato come braccio armato dell‟imperialismo americano risveglia mai cancellate pulsioni antisemite di origine staliniano-comuniste condivise o non abbastanza combattute dalla sinistra italiana. Accanto all‟antisemitismo, c‟è la crescita di un pregiudizio antiislamico dotato di una speciale virulenza, tanto da apparire simile all‟ostilità contro i “nomadi”, cioè il gruppo più ostracizzato, quello che si colloca nella fascia estrema del razzismo odierno. Gli autori non rifiutano il concetto di islamofobia, ma lo ritengono fuorviante perchè rinvia a una ostilità di tipo religioso di origine remota . Le risposte inaspettatamente favorevoli in maggioranza all‟apertura di moschee e al permesso per atti di fede in luoghi pubblici mostrano che lo stereotipo dell‟ostilità religiosa è diventato meno importante di quello dell‟estraneità e della chiusura culturale. La crescita del pregiudizio anti-islamico si basa sull‟idea di un‟estraneità insuperabile di un mondo chiuso, incapace di accettare le nostre regole di convivenza, immutabile nel tempo e poco tollerante, col quale sarebbe impossibile dialogare. Questo è il fenomeno che appare più preoccupante, perchè largamente diffuso e in crescita: il rapporto sottolinea che questa è la forma di razzismo più grave e diffusa, tale da prendere il posto un tempo occupato dall‟antisemitismo. La caratteristica essenziale del razzismo attuale è quella di essere diffusamente presente in una percentuale molto alta della popolazione e di essere orientato indifferentemente contro ebrei e islamici, al di là della valutazione del contributo storico delle loro culture alla civiltà occidentale, anche al di là delle loro opinioni religiose che non suscitano più che tanto l‟avversione. Siamo davanti all‟ “affermarsi di un discorso pubblico razzista che vede genericamente nello straniero o nel „diversamente‟ italiano od europeo una minaccia al senso di posizione di gruppo”. E‟ un fenomeno che, secondo gli autori, chiama in causa responsabilità di destra e di sinistra e che deve essere chiaramente individuato come un problema serio: quando un 60% della popolazione, pur schermandosi dietro il mantra “Io non sono razzista ma...” , mostra di nutrire pregiudizi e sentimenti ostili contro i membri di collettività come ebrei, islamici e zingari, l‟allarme tocca in profondità le forme della convivenza e minaccia esiti preoccupanti: e qui si pone la lettura storica come un‟appendice necessaria, implicata dagli stessi autori della relazione quando osservano (p.24) che siamo davanti a ondate storiche di pregiudizio che cambiano i propri target utilizzando i modelli storici dominanti: quello dell‟antisemitismo offre i suoi ingredienti all‟antiziganismo e all‟antiislamismo. Da notare, prima di passare a ragionare in termini storici, che c‟è questo fantasma dell‟antiziganismo di cui qui si dice che “sta diventando il razzismo prevalente” ma che non è stato immesso nella griglia dell‟inchiesta. 2. Davanti al tema che ci è proposto siamo chiamati a dimostrare coi fatti alla domanda “A che serve la storia” . E non possiamo non ricordare che questa domanda apre un piccolo fondamentale libro di Marc Bloch scritto mentre lui, di origine ebraica e militante della resistenza francese, viveva in clandestinità. Quel libro fu interrotto quando i nazisti lo presero e lo fucilarono. Se la storia serve a qualcosa oggi dovrebbe dimostrarlo offrendo una qualche risposta utile davanti alla questione del riemergere di forme vecchie e nuove di razzismo. Del resto, sono questi i banchi di prova dell‟utilità dei nostri strumenti codificati di conoscenza. Nel momento più buio della storia del mondo, due intellettuali euopei – l‟ebreo tedesco Walter Benjamin e lo storico francese Marc Bloch, anch‟egli di tradizione ebraica – si rivolsero alla storia chiedendosi a che cosa servisse e quali fossero i caratteri del sapere storico. Per Benjamin, “articolare storicamente il passato... significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nel momento del pericolo”. E aggiungeva: “Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall‟idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”(tesi n.6). E aggiungeva che preliminare allo svolgimento del lavoro dello storico è l‟abbandono dell‟idea di progresso: “La tradizione degli oppressi ci insegna che lo „stato di emergenza‟ in cui viviamo è la regola”(tesi n.8). Oggi, davanti al riemergere sempre più evidente di forme diffuse di razzismo, tutti ci dobbiamo interrogare su quello che i nostri strumenti di conoscenza ci possono dire sulle cause di un fenomeno così gravemente preoccupante. Per lo studioso di storia, si tratta di guardare ai caratteri storici di questi fenomeni per cercar di capire dalla lezione del passato il perchè tra le forme di etnocentrismo, di razzismo, di chiusura impaurita davanti all‟”altro”, quelle che ci troviamo davanti oggi riguardano proprio i protagonisti di lunga durata dell‟odio e della discriminazione razziale: ebrei, islamici, zingari. Ci sono dunque forme di lunga durata del pregiudizio che si ripresentano oggi, anche se in condizioni diverse dal passato. Accostare a questi dati sociologici le conoscenze storiche non vuol dire proporre semplicemente una sommaria delineazione delle manifestazioni del pregiudizio razziale nel corso della storia ma ragionare sulle diverse funzioni che tale pregiudizio ha svolto nelle società del passato. Invitando uno che fa il mio mestiere a commentare i dati di un‟inchiesta sociologica sulla diffusione dei pregiudizi e del razzismo non credo che si sia voluto provocare una narrazione delle origini e della diffusione del razzismo dell‟antisemitismo dell‟antiislamismo e altro ancora. Non ne avremmo il tempo: sarebbe lo stesso che raccontare la storia universale. Piuttosto si è fatto affidamento a un carattere di questi pregiudizi che può sfuggire davanti alla diffusione generalizzata di certe sue manifestazioni: il carattere storico, di realtà cioè che appartengono alla specie umana come specie naturale che ha una storia, cioè muta col tempo nei suoi rapporti con l‟ambiente e soprattutto che ha una memoria non istintiva del suo passato. Se avessimo nel dna certe reazioni, non ci resterebbe che prenderne atto. Ma poichè la nostra memoria di specie è la storia, bisognerà rivolgersi alla storia ogni volta che abbiamo incertezze e dubbi sul percorso che stiamo battendo. Ora, il riproporsi del pregiudizio in forma devastante è motivo di dubbio e di paura davanti al futuro perchè sappiamo quanto abbia portato vicino la specie umana alla sua autodistruzione. E dunque su questo bisognerà interrogarsi. Perchè dopo la Shoah è ancora reattivo e vitale il virus dell‟antisemitismo? E‟ lo stesso che chiederci come italiani perchè dopo gli anni del terrorismo c‟è ancora chi attacca i magistrati come terroristi. Le due cose sono diversissime ma hanno un punto in comune: la politica, la lotta per il potere. Ed ecco gli ingredienti elementari della formazione e della diffusione del pregiudizio razziale che a mio avviso si possono indicare con uno sforzo di semplificazione estrema: 1)alla base c‟è l‟istinto animale del rifiuto di condividere uno spazio e delle risorse con altri. E‟ un dato che riguarda gli uomini come i topi. E l‟analisi della nostra psicologia ci dice che a stento l‟individuo tollera i limiti posti al suo desiderio di onnipotenza dall‟esistenza di fratelli e sorelle, per non parlare di altri competitori. Il che non vuol dire che l‟uomo non sia un essere sociale, come ha scritto Aristotele: vuol dire che l‟istinto di socievolezza deve vedersela costantemente col desiderio di dominare la società. E qui si passa a un altro dato elementare: 2)Il potere politico: nell‟acquisizione e nel mantenimento del quale si ricorre allo stimolo di istinti elementari della specie, in primo luogo la paura e l‟avversione. Ma anche allo sfruttamento di fattori culturali: specialmente le credenze diffuse. Cioè 3)la religione. Possiamo accogliere gli altri così come i nostri dèi possono accogliere gli dèi alieni. Ma che cosa accade se il nostro Dio è un essere unico e geloso della sua unicità e intollerante di onori tributati ad altre divinità? Ecco che si pone qui un carattere originale delle società mediterranee, da sempre in conflitto per gli opposti monoteismi esclusivisti che vi sono accolti. Forse non è vero quello che ha sostenuto Jan Assmann che i monoteismi sono la causa dell‟intolleranza, perchè la ricerca di unificare tutte le religioni intorno al culto di un solo dio è stata anche la forza di tendenze ecumeniche e ireniche. Ma certo il potere politico e gli istinti elementari possono entrare in contatto grazie alla religione. Ed è qui che possiamo aprire l‟orizzonte storico di momenti significativi e periodizzanti della storia dell‟intolleranza senza cadere nelle fantasie di Borges sulla “storia naturale dell‟intolleranza”. Ricordiamo cose ben note osservando che la forza del pregiudizio che gli permette di allignare senza sosta è quella irresistibile della semplificazione : accanto alla semplicità della comprensione razionale cresce la mala pianta della falsa semplificazione, quella che si basa sulla sostituzione di stereotipi alla realtà concreta degli esseri umani. E il tratto fondamentale del razzismo consiste proprio nel sostituire all‟identità umana del singolo uno stereotipo collettivo. E‟ così che si presenta il pregiudizio della differenza di razza. Il passaggio dallo stereotipo alla sua fondazione naturalistica non sempre è esplicito ma è sempre latente. Così quando si dice che un delitto è stato commesso da un rumeno o che un bambino è stato rapito da una zingara: esemplare il caso realmente avvenuto di un autorevole quotidiano italiano che in un caso in cui il rumeno accusato e confesso è risultato innocente con la prova del DNA, ha spiegato che quel DNA provava tuttavia che il colpevole da trovare era certamente un rumeno. Prendiamo in esame il più antico e resistente degli stereotipi usati nel discorso razzista, quello che ha per oggetto gli ebrei. Come ha dimostrato Georges Mosse, l‟uso degli stereotipi è stato un ingrediente fondamentale nei processi di nazionalizzazione delle masse in età contemporanea, cioè nei progetti politici di saldatura delle masse allo stato-nazione e alla creazione di identità collettive. L‟antisemitismo razziale è nato allora come una trasformazione del tradizionale antigiudaismo a base religiosa. Per scandire i mutamenti storici attraversati dallo stereotipo possiamo parlare di un mutamento di paradigma, sfruttando il concetto che Thomas Kuhn ha creato per la storia della scienza. Nelle permanenze e nei mutamenti del paradigma del pregiudizio razziale in materia di antisemitismo e anti-islamismo, ritroviamo gli elementi costitutivi del più antico e più radicato pregiudizio della nostra storia. Lo si è sperimentato storicamente in almeno tre forme diverse – tre paradigmi: a)quello religioso; b)quello naturalistico e pseudoscientifico;c)quello post-Shoah e post-Stato di Israele. Tutt‟e tre hanno avuto come obbiettivo la scomparsa dell‟alterità – col battesimo, con l‟eliminazione fisica, con la cancellazione dell‟identità culturale e politica e l‟assorbimento nella cultura e nei valori delle società occidentali. Il modello con la stessa successione di paradigmi si ritrova sia nel rapporto con l‟ebraismo sia in quello con l‟Islam. 3.Nel mutamento di paradigma dobbiamo riconoscere il riuso di pezzi del paradigma superato: il lavoro di costruzione del pregiudizio è un lavoro di “bricolage”. Le basi elementari delparadigma sono quelle poste dall‟antigiudaismo cristiano: il popolo ebraico è l‟erede del delitto del deicidio, punito con la dispersione (la diaspora) e con la incapacità di accettare la verità del messia: la Sinagoga è cieca mentre la Chiesa ha gli occhi aperti nell‟iconografia del medioevo cristiano. L‟ebreo, già popolo eletto, vive la condizione di “figlio della serva”: odia i cristiani e complotta contro di loro. I “perfidi giudei” debbono restare fra i cristiani come testimoni della verità delle profezie bibliche, ma debbono esserne separati e restare riconoscibili: il ghetto, il segno sull‟abito sono gli strumenti elaborati dal paradgma cristiano, così come l‟accusa del complotto e l‟invenzione del delitto rituale . Tutti elementi che ricompariranno nel paradigma dell‟antisemitismo naturalistico fondato sulla differenza di sangue. La scomparsa dell‟ebreo come diverso per religione si salda strettamente alla comparsa dell‟ebreo come razza diversa per sangue, caratterizzata dalle stesse qualità negative. Il passaggio dall‟uno all‟altro paradigma non attende l‟800 positivista: si verifica una prima volta nella Spagna del „400, quando l‟obbligo del battesimo porta all‟espulsione della forte minoranza ebraica (i “sefarditi”)ma lascia nella penisola iberica molti ebrei battezzati che vengono però discriminati e perseguitati come diversi per sangue (“limpieza de sangre”). Lo stesso accade quando nel „700 si ha l‟emancipazione degli ebrei e la fine del regime di discriminazione religiosa: già alla fine del secolo rinasce un antisemitismo violento che colpisce nell‟ebreo il nemico della società, l‟individualismo, l‟attività finanziaria. Nella società borghese l‟affermazione illuministica dei diritti dell‟individuo e dei principi di libertà suscita una reazione che alimenta il bisogno di chiusura comunitaria a protezione dei gruppi sociali colpiti dalla rivoluzione borghese dissolutrice dei vincoli. E ancora una volta il bisogno di un‟alterità da odiare creò le condizioni per l‟affermarsi dell‟ereditarietà di sangue dell‟identità ebraica. Questo mutamento di paradigma si diffonde in Europa sfruttando il veicolo della cultura cristiana e della reazione della Chiesa contro l‟Illuminismo e la rivoluzione. Mutamento e permanenza insieme: perché resta dell‟antiebraismo cristiano l‟odio per l‟ebreo come il diverso per eccellenza, il nemico occulto che complotta per la rovina della civiltà cristiana, mentre si perde l‟aspetto della differenza religiosa ed affiora l‟altra caratteristica: quella dell‟ebreo come colui che esprime l‟esito della dissoluzione dei vincoli della società d‟antico regime e ne coglie l‟occasione per affermare la potenza irrefrenabile dell‟individualismo economico e della prepotenza finanziaria. Il riflusso di un mondo tradizionale colpito dagli effetti della cancellazione dei vincoli economici e sociali antichi porta a vedere nell‟ebreo il simbolo della violenza del nuovo sistema, colui che può approfittare del liberismo economico e della forza cieca della finanza internazionale per scardinare la società. Il fiume sotterraneo della propaganda antirivoluzionaria della Chiesa addita nell‟ebreo il vero occulto agente che ha scatenato con un complotto segreto la Rivoluzione francese (e più avanti la “civiltà cattolica” aggiungerà quella sovietica). Ma sul tronco antico si innestano forze nuove e ideologie che avranno un effetto devastante. La considerazione di quel che accade tra la fine del „700 e l‟800 ha permesso di fare emergere la radice profonda dell‟antisemitismo nella tradizione socialista (si rinvia per questo a M.Battini, Il socialismo degli imbecilli, ed. Bollati Boringhieri e a R.Finzi, Il pregiudizio, ed. Bompiani 2011). Come ha suggerito Stefano Levi della Torre, contro l‟ebreo agiscono due immagini radicalmente diverse dell‟ebraicità: quella di un popolo chiuso nella conservazione immobile di caratteri propri e quella di una potenza finanziaria gestita da individualità incontrollabili e libere da ogni condizionamento che non sia quella del tornaconto. Da qui le richieste di assimilazione come dissolvimento nella società. Nel nuovo paradigma si mantengono i dati della teoria del complotto , dell‟ebreo come potenza segreta ostile alla civiltà occidentale del mondo cristiano e determinato a procurarne la rovina e si introduce quello della potenza di una finanza internazionale libera da regole e proprio per questo dissolutrice di ogni vincolo tradizionale, affamatrice dei poveri e capace di procurare la rovina dell‟assetto ordinato del mondo del lavoro e della produzione. L‟ebreo non è più individuato dalla differenza di religione:ma così, com‟era accaduto nella Spagna della fine del „400, il modo per individuarlo diventa il sangue. Nasce un pregiudizio “di sinistra”, nasce l‟ebreo come capitalista. La Shoah porterà alla fusione di tutto l‟armamentario vecchio e nuovo: i segni di riconoscimento, la chiusura dei ghetti e la teoria del complotto, ma creerà qualcosa di assolutamente nuovo – la macchina della distruzione, il genocidio. Se fissiamo l‟attenzione sul contributo del fascismo italiano, troviamo qui la declinazione spiritualistica del pregiudizio, con gli ingredienti del clericofascismo e il sostegno di una parte significativa della cultura e della predicazione della Chiesa. 4. Si aprirebbe a questo punto un problema che riguarda specificamente la storia recente del nostro paese. E‟esistito un antisemitismo diffuso nella società italiana? Le opinioni divergono in materia. La proposta di Giorgio Fabre di un razzismo profondamente radicato che Mussolini fa emergere solo nel contesto degli anni ‟30 meriterebbe di essere approfondita esplorando il consenso di una società dove il clerico-fascismo aveva fatto breccia in ambienti assai numerosi. Ricorrendo alla categoria della “zona grigia” di cui ha scritto Primo Levi – una categoria abusata, va detto - le dimensioni della persecuzione razziale in Italia sono state descritte finora prevalentemente come quelle di un fenomeno fatto più di indifferenza che di attiva partecipazione collettiva. Ricordiamo l‟osservazione di Arnaldo Momigliano (in”Pagine ebraiche”): senza l‟indifferenza di larga parte della popolazione europea non sarebbe stato possibile quel lungo viaggio che portò i suoi genitori – insieme a molti altri – al luogo dell‟annientamento. E aggiungiamo a questo l‟inadeguata, colpevole reazione assunta dall‟Italia post-fascista, dai suoi partiti e dai suoi governi nei confronti del problema, con un generale movimento verso l‟autoassoluzione e con forme di grave ingiustizia nei confronti delle vittime e della loro memoria. Per quanto riguarda la Chiesa come potere strutturato e presente capillarmente nella società, le discussioni e le ricerche si sono polarizzate eccessivamente su papa Pio XII, che ha assunto quasi una funzione di capro espiatorio, col rischio di lasciare in ombra una diffusione dell‟antigiudaismo che ha avuto a lungo in Italia i caratteri di un virus impalpabile pronto a scatenarsi in forma epidemica. Col secondo‟900 è venuta meno in forma pubblica ed esplicita la copertura della Chiesa : col Concilio Vaticano II si è avuta una svolta importante che ha lasciato isolata la frangia antisemita cattolica, conferendo al caso dei seguaci di mons. Lefebvre l‟aspetto di un residuo isolato e alle loro opinioni negazioniste il sapore dello scandalo. Un aspetto emerso nell‟analisi dell‟opera recentissima di R.Finzi è quello delle responsabilità dell‟opinione dell‟élite liberale italiana: le pagine di Croce e di Merzagora (e di L.Einaudi) analizzate da Finzi, così come la sua rilettura di un celere scritto di Marx giovane mostrano con evidenza come il rifiuto della “diversità” ebraica sia stato diffuso imparzialmente negli ambienti più insospettabili, tanto da rendere attuale il modo di dire inglese “With friends like this who needs enemies?”. E‟un fatto, comunque, che l‟esplorazione dei precedenti storici e dei caratteri di correnti profonde di razzismo sta procedendo e che ne emerge una tradizione italiana tutt‟altro che esente dalle tare del opregiudizio razziale. 5. Abbiano lasciato da parte il pregiudizio anti-islamico ma come osserva il rapporto qui siamo in presenza di una derivazione storica del paradigma antiebraico, oggi rivitalizzato dai problemi sociali della presenza di una forte minoranza islamica in Italia. Varrebbe la pena a questo riguardo ricordare che una nefasta novità introdotta dalla politica europea del secolo scorso è stata quella della trasmissione del virus dell‟antigiudaismo nelle società islamiche del Medio Oriente, storicamente del tutto esenti da questa peste: non sarà inutile ricordare che nei secoli dell‟antigiudaismo religioso europeo gli ebrei costretti all‟esilio trovarono un rifugio prezioso nella tolleranza dell‟Impero Ottomano grazie al rispetto e alla considerazione che l‟Islam nutriva per il “popolo del Libro”. Oggi abbiamo invece il problema di un antisemitismo islamico per gli errori e le responsabilità politiche europee e in particolare per quelle dell‟Inghilterra nell‟esercizio del mandato in Palestina, com‟è noto . E anche in questo caso sul pregiudizio si è innestato un uso politico dell‟antico e consolidato capro espiatorio da parte dei poteri politici locali interessati a impedire una modernizzazione democratica di quelle società. 6.Un ultimo punto riguarda il segno di destra o di sinistra del pregiudizio: intendiamo per destra la parte della società che cerca la sicurezza nella chiusura della comunità e nei valori della tradizione e per sinistra quella che tende all‟unificazione del mondo sotto il segno di valori cosmopolitici e di idee razionali. Anche in questo caso il modello dell‟antisemitismo e dell‟antiislamismo si presta a considerazioni interessanti. Popoli senza stato, uniti dalla religione, hanno stimolato un‟ostilità che possiamo classificare di destra perché portatori di un pericolo di disgregazione religiosa e politica.Ma anche di sinistra, laddove il pregiudizio colpisce gli ebrei perché chiusi, tradizionalisti, orientati verso il proprio gruppo. Destra e sinistra si sono incrociate e confuse nell‟antisemitismo nazionalsocialista o nell‟anticapitalismo del “socialismo degli imbecilli” , contro la minaccia della potenza finanziaria della massoneria ebraica. E si ritrovano oggi eredi di stereotipi antichi ma con reazioni e giudizi che si intrecciano e si scambiano gli ingredienti. Del tutto depotenziati quelli religiosi, restano le antipatie verso ordinamenti statali chiusi e poco tolleranti e verso individui ritenuti poco integrabili nei nostri ordinamenti. La presenza degli stati modifica marginalmente il quadro: all‟ebreo cosmopolita e senza patria si sostituisce l‟ebreo di uno stato forte (ammirato da destra) e chiuso davanti a chi non è ebreo. Ma il pregiudizio si è fatto generico, si è unificato. Si è affermato un “discorso pubblico razzista che vede genericamente nello straniero o nel diversamente italiano o europeo una minaccia al senso di posizione del gruppo”. Ma il rapporto pone un problema urgente alle forze politiche strutturate e alle loro agenzie culturali quando afferma che “la destra dovrebbe chiedersi come può annoverare tra i suoi „fedeli‟ vecchi antisemiti e autoritari ed etnocentrici sostenitori dello Stato di Israele, così come la sinistra dovrebbe chiedersi come può accadere che la critica alla politica israeliana nei confronti dei palestinesi possa facilmente slittare verso un imbarazzante antisemitismo, e perchè ytta le sue file siano così numerosi gli anti-islamici”. Il risorgere del pregiudizio ma anche il sovrapporsi e il confondersi delle antiche posizioni di destra e di sinistra rinvia da un lato alla vittoria del rampante populismo di regime, dall‟altro alla debolezza dei conti che il paese delle “leggi razziali” del 1938 ha fatto col suo passato. In conclusione vorrei richiamare ancora il tema segnalato fin dal titolo di questo rapporto della funzione del sistema di norme nel combattere o nell‟alimentare il pregiudizio. Viviamo oggi in una società caratterizzata dal ricorso sistematico all‟eccezione giuridica per alimentare e consolidare la forza del pregiudizio fingendo di difendere la “nostra” identità da quella degli “altri”. Con la criminalizzazione del “clandestino” e perfino con l‟insistito ricorso alla definizione di “extra-comunitario” che è tutto fuorchè un termine neutro, nel seno della società italiana si sono introdotti gli ingredienti capaci di dare corpo a un razzismo delle istituzioni e a una macchina di creazione del “diverso”. Si pensi alla creazione di quel nuovo tipo di carcere che è il “CIE”, campo di identificazione e di espulsione: vale per questa operazione la definizione di “esperimento” che Primo Levi usò per raccontare Auschwitz e Franco Basaglia per definire l‟ospedale psichiatrico. Quando si introduce una differenza nei diritti si crea una differenza di umanità. Dunque il problema culturale e politico urgente è quello di battere il populismo alimentato dalla propaganda e dall‟uso del potere per restaurare l‟uguaglianza dei diritti e cancellare pregiudizi “alimentati ad hoc da discorsi e ideologie rozze ma chiare, veicolate da media, imprenditori politici ed opinionisti”, che si impiantano “su un fondo sedimentato di autoritarismo et etnocentrismo, per non parlare poi di forme estese di sfiducia sociale e interpresonale”, in un orizzonte incupito dalla “profonda incertezza e paura del futuro e degli altri”: la cosa riguarda specialmente il mondo giovanile e la condizione femminile, naturalmente, anche se va notato che i fermenti positivi di ribellione a questo clima e di presa di coscienza emersi nelle manifestazioni dell‟ “onda” studentesca e della manifestazione “se non ora, quando?” non hanno trovato una risposta adeguata da parte dei partiti di opposizione. E su questo sarebbe urgente una presa di coscienza adeguata da parte di tutta l‟opinione pubblica, per cogliere quanto sia vasta la riserva di solidarietà e di voglia di reagire che ancora esiste nel profondo della società italiana. Varrebbe la pena di riflettere sulle immagini che tutti di recente abbiamo visto di come la popolazione di Lampedusa si è prodigata nella salvezza dei profughi finiti in mare vicino alla riva: quando allo stereotipo si sostituisce l‟essere umano la risposta spontanea è quella del riconoscimento della comune appartenenza alla specie e del legame di fraternità che ne discende. Se su questa base si innestasse anche finalmente un risveglio della società italiana e un ritorno alla forza liberatoria della partecipazione politica, allora anche i fantasmi del razzismo cesserebbero di costituire il legame sociale denunziato da questo rapporto.