La scienza prima di Darwin, intervista allo storico Corsi
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La scienza prima di Darwin, intervista allo storico Corsi
Culture e società venerdì 12 febbraio 2016 17 Intervista a Pietro Corsi, professore di storia della scienza all’Università di Oxford Prima di Darwin Ad accogliere l’‘Origine delle specie’ non vi fu, come molti pensano, una pletora di bigotti creazionisti: in occasione del Darwin Day, uno sguardo al contesto culturale dell’epoca di Ivo Silvestro Oggi, 12 febbraio, si celebra il Darwin Day, ma gli eventi per onorare la ricerca scientifica e, più in generale, il razionalismo e la laicità si tengono non solo il giorno del compleanno del naturalista britannico, ma in tutto il mese di febbraio. A Varese, ad esempio, si terrà un caffè scientifico il 17, mentre il Museo di storia naturale di Milano proporrà una serie di incontri da giovedì 18 a domenica 21 febbraio, con anche attività per bambini (info: pikaia.eu/darwin-day-2016-in-tutta-italia). È l’eredità contemporanea di Charles Darwin, ma proviamo, invece, a tornare alla sua epoca con lo storico della scienza Pietro Corsi, esperto del dibattito sull’evoluzione «non solo darwiniana, ma diciamo anche di quelle teorie e dottrine sulla vita, i suoi inizi e le sue trasformazioni discusse tra il 1770 e il 1860, interessandomi dei rapporti tra l’evoluzionismo in senso lato e gli ambienti culturali, in particolare religiosi». Come venne accolto Darwin? La tesi che ho sostenuto, e che nella nostra piccola cerchia di studiosi mi pare sempre più accettata, è che di fatto Darwin venne adottato dalle élite colte: l’idea di una pletora di bigotti creazionisti acerrimi nemici di Darwin consola molto storici e scienziati, ma non ha fondamento. Soprattutto in Inghilterra, dove a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento si diffuse una serie di modelli per spiegare la varietà degli esseri viventi. TEOLOGIA Senza evoluzione la creazione divina è imperfetta Prima, quindi, della pubblicazione dell’‘Origine delle specie’, avvenuta nel 1859? Certo. Non a caso quel saggio ebbe un grande successo, il giorno della pubblicazione tutte le 1’250 copie vennero vendute ai librai e alle biblioteche circolanti. C’era molta attesa per questo libro: tutti sapevano da tempo che il signor Darwin avrebbe detto la sua, ed era molto rispettato come naturalista – aveva già pubblicato il suo ‘Viaggio di un naturalista intorno al mondo’ – e anche come membro di una famiglia famosa (suo nonno Erasmus era considerato un grande poeta). Darwin venne dunque accettato. C’è stata una forte adesione. Però poi lo stesso Darwin si è messo le mani nei capelli: “Qui mi fanno dire cose che io non ho mai detto!”. Quali cose? Come, in altri contesti, è capitato ad esempio a Marx, Darwin è diventato un nome autorevole. Un nome che aveva dimostrato come dei processi naturali possano spiegare i mutamenti delle forme di vita, e lo aveva dimostrato con la selezione naturale, ma per molti contemporanei quella era solo la sua soluzione, e preferivano forme di lamarckismo, con l’ambiente che guida le mutazioni, oppure di pensiero metafisico, con una forza vitale che spinge gli esseri viventi verso forme sempre più complesse… Charles Darwin sul foglio satirico ‘La Petite Lune’. Nel riquadro, Pietro Corsi SELEZIONE NATURALE L’originalità del naturalista inglese L’opera di Darwin si inserisce quindi in un ampio e vivace dibattito su come spiegare la variabilità degli esseri viventi. Ma questo, precisa Pietro Corsi, non deve far pensare che la teoria sviluppata dal naturalista inglese sia banale o scontata, che si sia limitato a raccogliere idee che circolavano: «Darwin è sicuramente un pensatore originale, ma non perché crede nell’evoluzione, bensì perché crede in un tipo preciso di evoluzione». Le varie dottrine sull’evoluzione diffuse all’epoca sono riassumibili in due filoni: «Da una parte quelli che, per capirci, potremmo definire lamarckiani (dal naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck, ndr), i quali sostengono che se cambia qualcosa nell’ambiente, il vivente è in grado di alterare, in modo lento e graduale, la propria struttura, fa degli sforzi, non necessariamente consci, per adattarsi all’ambiente». La seconda corrente «è la teoria dello sviluppo: una volta che si forma la vita, si mette in moto un processo necessario che, di generazione in generazione, porta a livelli di complessità sempre cre- scenti». La natura, in questa visione, «possiede una finalità: la vita necessariamente tende a un punto finale, che è ovviamente l’uomo». La teoria sviluppata da Darwin si allontana da entrambe: non c’è uno sforzo verso l’adattamento, ma solo mutazioni casuali selezionate dall’ambiente senza un fine. «Comunque a preoccuparlo – prosegue Corsi – non è tanto il lamarckismo, perché già nei primi anni Trenta dell’Ottocento, un grande geologo di nome Charles Lyell aveva criticato la teoria di Lamarck. Per Lyell, tutti gli ani- mali sono in equilibrio precario con l’ambiente, e se l’ambiente cambia, non c’è il tempo per cambiare e adattarsi, perché l’animale scomparirà immediatamente, sostituito da altre specie maggiormente adatte a quell’ambiente». Insomma, contro il lamarckismo Darwin si ritrova la strada già spianata; diverso il caso «per i sostenitori di una tendenza naturale che porta non solo all’uomo, ma all’uomo bianco superiore al nero e, in una sorta di “viva l’impero”, all’Inghilterra superiore alle altre nazioni, una visione all’epoca molto di moda». Tra i sostenitori di Darwin, prosegue Pietro Corsi, troviamo in Inghilterra «molti teologi, i quali accettano subito l’evoluzione». Subito o anche precedentemente, visto che «c’è chi, come Baden Powell, padre del fondatore dei Boy Scouts, vent’anni prima dell’‘Origine delle specie’ aveva iniziato a martellare con l’idea che ci vuole una teoria dell’evoluzione». Una necessità, prima che scientifica, teologica: senza una teoria delle trasformazioni degli esseri viventi, «dobbiamo ammettere un Dio che interviene in continuazione per riparare una macchina naturale piena di difetti». Che alcune specie si estinguano e altre prendano il loro posto era un fatto ben conosciuto all’epoca, «e non si può certo pensare che Dio crei ognuna delle decine di migliaia di varietà di insetti che si sapeva esistere in Brasile». Più in generale, c’è la difficoltà delle élite sociali ad accettare il concetto di un Diopadre che si occupa in continuazione dei propri figli. Un’idea che può portare a pensare a un Dio cattivo che fa del male alle sue creature: «Una specie si estingue perché Dio è cattivo, ma anche “sono povero perché Dio è cattivo”… in realtà, secondo queste élite, Dio non è cattivo, semplicemente ci sono delle leggi divine, che valgono per la natura e anche per la società, che occorre rispettare». In quegli stessi ambienti, prosegue Pietro Corsi, si diffonde la contestazione dei miracoli, «perché l’idea che Dio sospenda o alteri le leggi della natura è umana, non adatta alla mente superiore del creatore». Questo per la Chiesa anglicana; nel mondo cattolico com’è la situazione? «C’è più chiusura, certamente, ma anche qui la situazione è in realtà complessa. Abbiamo un basso clero che chiede la condanna di Darwin e un Vaticano, invece, riluttante, per quanto pare che Pio IX scrisse in una lettera che l’opera di Darwin è il “dito del demonio”». Da una parte, in quel periodo la Chiesa aveva «ben altre gatte da pelare» – la breccia di Porta Pia è del 1870 –, dall’altra per la filosofia neotomista, che all’epoca era la grande arma intellettuale della Chiesa cattolica, Darwin «era poco più di un veterinario, le sue teorie sono teologicamente e metafisicamente poco importanti, da non nobilitare con una condanna esplicita». 50 anni fa moriva Vittorini Star Wars a processo L’autore de ‘Il garofano rosso’ ALLA BERLINALE Hail, Caesar! I Coen illuminano Berlino di Ugo Brusaporco La Berlinale numero 66 si è aperta con l’attesissimo “Hail, Caesar!” film scritto, diretto e montato dai celebrati fratelli Joel & Ethan Coen e impreziosito dalla fotografia di Roger Deakins, dai bei costumi di Mary Zophres e dalle scene di Jess Gonchor. Un film che celebra l’ultimo splendido periodo degli studi hollywoodiani, ricordando insieme al colore Morì cinquant’anni fa, il 12 febbraio 1966: Elio Vittorini, scrittore, lasciò ai lettori diversi romanzi importanti, tra cui: Conversazioni in Sicilia (Bompiani, 1941), Uomini e no (Bompiani, 1945), Il garofano rosso (Mondadori, 1948), Erica e i suoi fratelli e La garibaldina (Bompiani, 1956) e Le città del mondo, uscito postumo da Einaudi nel 1969. Vittorini nacque a Siracusa nel 1908 da padre di origine bolognese e madre siciliana. Insieme al fratello Giacomo negli anni dell’infanzia seguì il padre ferroviere nei suoi spostamenti di lavoro per la Sicilia. Nel 1931 a causa di una intossicazione da piombo, fu costretto ad abbandonare il lavoro come correttore di bozze e da quel momento visse solamente del ricavato delle sue traduzioni dall’inglese (note quelle di Faulkner, Poe, Lawrence) e dell’attività di consulente editoriale. Fondò le riviste ‘Il Politecnico’ e ‘Il Menabò’. Le sue posizioni politiche non gli resero la vita facile: dapprima fascista di sinistra, dal 1942 divenne clandestinamente comunista e partecipò alla Resistenza, e infine ruppe con il Pci di Togliatti. Le autorità britanniche hanno citato in giudizio la produzione di ‘Star Wars: The Force Awakens’, ultimo film della saga di Guerre Stellari, per le violazioni delle norme di sicurezza in vigore nel Regno Unito che sarebbero all’origine dell’incidente capitato a Harrison Ford durante le riprese: quando l’attore americano si fratturò una gamba finendo intrappolato in una porta idraulica. Lo riferisce la Bbc. L’episodio risale al giugno 2014, mentre Ford girava presso i Pinewood Studios di Londra scene in cui il suo personaggio, Han Solo, era a bordo della nave spaziale Millennium Falcon. L’attore venne trasportato d’urgenza in ospedale in elicottero per essere operato e le riprese si fermarono per due settimane. Ora le autorità britanniche dell’Health and Safety Executive hanno annunciato di aver formalizzato un’inchiesta contro la casa di produzione Foodles Production (Uk) Ltd, sussidiaria della Walt Disney Usa, accusata di aver violato quattro norme della legislazione sulla salute e la sicurezza sul lavoro. La prima udienza in tribunale è fissata per maggio. ATS dei film d’epoca, la figura di Joseph Edgar Allen John “Eddie” Mannix (1891 – 1963) il più grande “fixer” della storia del cinema americano. Il “fixer” era colui che proteggeva da scandali la vita delle grandi star hollywoodiane, per garantire una produzione senza intoppi e fuori dai titoli dei giornali scandalistici; i Coen nel film adombrano alcune storie che il vero Mannix si trovò a gestire, come quella di Loretta Young che aveva voluto adottare in segreto il proprio figlio nato fuori dal matrimonio. Qui nel film è quello che succede alla diva Deeanna Moran (ben interpretata da una Scarlett Johansson, un po’ sottoutilizzata). Lei nel film adombra un’altra diva ancora indossando una lucida coda verde di sirena, in un bel numero di nuoto sincronizzato, come la Esther Williams di “Million Dollar Mermaid” (1952). Ma non è l’unica citazione di un film, forse troppo frammentato e troppo compiaciuto delle gag che inventa. C’è ancora più abbagliante il numero musicale (“No Dames”) che rende omaggio a “On the Town” (Un giorno a New York) e a “South Pacific”, con un marinaio interpretato da Channing Tatum che fa il verso giocosamente a Gene Kelly, il tutto filmato da Roger Deakins con gran maestria. Naturalmente la storia che dà il titolo al film è basata sul “Ben Hur” diretto da William Wyler, questo continuo ri- mando al cinema d’epoca fa da riempitivo a una piccola storia di rapimento, quella del divo Baird Whitlock (George Clooney), stella degli studi Capitol che Mannix controlla. I Coen mettono tanta carne al fuoco: c’è anche una discussione tra rappresentanti di quattro religioni sul senso di Dio e, oltre un sommergibile sovietico che si affaccia sulle coste californiane, pure un attore che non sa recitare perché ha una brutta voce, e qui pensiamo a John Gilbert. La storia del cinema, in un film colmo di idee, non tutte ben espresse. Applausi meritati per lo sforzo di dire che il cinema esiste nonostante la fine dello studio-system. Ma è finito davvero? George Clooney