approfondimento - SOMSI Cividale
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approfondimento - SOMSI Cividale
PIEGHEVOLE INVITI della rassegna completa GIORNATA INTERNAZIONALE DELLA DONNA_SOMSI sabato 8 marzo 2014, ore 18.00 OMAGGIO A … MARISA MADIERI donna, scrittrice a cura di EVA MONAI Molto conosciamo della scrittrice Marisa Madieri, nata a Fiume (1938 – 1996) e trasferitasi a Trieste dopo l’esodo istriano. Le sue opere più famose, “Verde acqua” e “La radura”, continuano a emozionare lettori di tutto il mondo, incontrando una crescente fortuna. Meno conosciuto, invece, è l’impegno della Madieri nella sfera sociale, come presenza fondante del CAV (Centro di Aiuto alla Vita) di Trieste, che porta oggi il suo nome. Superando la contraddizione tra la liberazione femminile e una cultura che costringe la donna a sacrificare se stessa o una vita nascente, Marisa Madieri non si rassegna alla soluzione istituzionale del problema e avanza l’idea di una rivalutazione della figura maschile come compagno e come padre, e di una cultura dell’accoglienza basata essenzialmente sull’amore. Interventi di Magda Gruarin e Cristina Novelli ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. Nota della curatrice_ TRASCRIZIONE DEGLI INTERVENTI REGISTRATI Trattandosi di una trascrizione di interventi registrati, contenenti espressioni e modi tipici del parlato, non sempre corretti da un punto di vista morfosintattico, si è resa necessaria una revisione “ex post” del testo da parte delle persone direttamente intervenute e della sottoscritta curatrice, con l’inserimento di alcune note essenziali riferite agli approfondimenti trattati. Compatibilmente con questa esigenza, si è cercato di restituire, il più fedelmente possibile, lo spirito che ha animato la serata dedicata a Marisa Madieri, e a tutte le donne. ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………. CRISTINA Introduzione Venendo qui oggi, pensavo a come sarebbe bello poter spazzare via la montagna di “pensieri e parole retoriche” che ogni anno si addensano su questa giornata (che la storia ha voluto graziosamente regalare alla memoria ‘della donna’) e a come, invece, sarebbe bello che alle donne fosse semplicemente riconosciuto tutti i giorni il merito/o il demerito di ciò che fanno o non fanno. Ed invece, ancor oggi, con una recrudescenza che lascia attoniti (proprio perché, spesso, fatta in maniera subdola e occulta e per questo ancor più pericolosa) alle donne sono ancora negati o misconosciuti diritti fondamentali, quei diritti che Norberto Bobbio avrebbe detto di prima generazione: “LA PARI DIGNITA’ IN TUTTE LE PIEGHE DEL VIVERE SOCIALE” (e non mi riferisco ai paesi “ sottosviluppati”). Basti pensare al ben più elevato tasso di disoccupazione delle donne rispetto agli uomini, alle disuguaglianze di reddito e di opportunità a cui sono soggette in tutti i campi anche in Italia: insomma al diritto di far parte, al pari dell’uomo, alla storia grande e piccola e dei suoi significati. Ma per riprendere il percorso della salvaguardia e della promozione di diritti, non basta proclamarli. Dobbiamo esserci, facendoci forza delle tante testimonianze, dei pensieri, della consapevolezza della moltitudine delle tantissime donne che ci hanno preceduto e che quotidianamente ci accompagnano: donne alle quali dobbiamo la vita, che ci hanno sfiorato lasciandoci il loro profumo; con le quali abbiamo incrociato gli sguardi ma non sappiamo più ricostruirne i lineamenti; che ci stupiscono pur non avendo mai condiviso con loro intimità (di pensieri, parole, sguardi); che ci redarguiscono e ci spronano con le riflessioni che ci hanno lasciato. Ecco, questo è il significato dell’incontro di stasera per noi della SOMSI: riscoprire, attraverso alcune donne, identità diverse, spesso dimenticate, che hanno contribuito e contribuiscono a farci essere e a farci pensare di essere “donne-persone” nel senso profondo e originale dell’essere umano. Certo alcune (specialmente chi ha un uomo che le ripropone e le ricorda) ce la fanno; ma quante ancora debbono essere veramente riscoperte. VORREMMO CONTRIBUIRE A NON DISPERDERE LE LORO STORIE LE LORO, SPESSO SOFFERTE, ESPERIENZE DI VITA E DI PENSIERO. Ecco il significato della nostra iniziativa, che vuol partire da Marisa Madieri: una donna emblematica non solo per la sua scrittura, ma per la ricchezza e profondità di pensiero e riflessioni, di forte attualità, che la lettura dei suoi libri ha regalato ad alcune di noi. Accostiamoci allora a questa figura femminile con estrema semplicità e naturalezza, senza la presunzione di essere esaustive, senza altro scopo che quello di condividere con lei alcuni pensieri, come fossimo, in una bella giornata di sole, sotto un grande tiglio [1], seduti a chiacchierare, per il solo piacere di stare insieme e di partecipare, con i nostri pensieri e le nostre parole, alla scoperta di esserci e di sentirci bene per questo. EVA Grazie Cristina. Ieri abbiamo inaugurato la sezione “INDAGINI DONNA” allo scopo di costruire nel tempo un bagaglio archivistico storico e di memoria delle donne, riferito in particolare alla realtà culturale e sociale del nostro territorio. Il mio contributo in tale direzione sarà di approfondire alcuni temi dell’opera di Marisa Madieri, sotto la lente di questa nuova rassegna SOMSI, dedicata alla Giornata Internazionale della Donna. Approfondimenti: TEMA 1, 2, … TEMA 1 L’ATOPIA, IL NON-LUOGO DELLA DONNA NELLA STORIA nella prospettiva epica della riappropriazione del suo essere femminile Sebbene questo non sia il tema principale, esso comunque rientra nel libro più conosciuto di Marisa Madieri, Verde acqua, scritto in forma di diario nel 1987. Il libro parla in realtà di una donna ormai adulta che riesce così a ritrovare il proprio tempo perduto e comincia a ripensare al suo passato. Ricordiamo che Marisa Madieri è nata a Fiume nel ’38 e dovrà lasciare la sua città natale a undici anni, trasferendosi poi a Trieste, dove vivrà per alcuni anni in quello che era stato definito “il più grande complesso condominiale della città di Trieste”, il Silos, a contatto con tanti altri profughi come lei. Però, come dico, l’assenza della donna nella storia in Verde acqua emerge quasi in forma di concavità, per esprimermi con parole di Magris[2] come fosse l’altra faccia non vista della luna, per raccontare invece l’esperienza di un’universale precarietà del destino e di un esodo più grande che è quello della condizione proprio del vivere. Anzi per essere più specifici, Magris parla di un esilio femminile, di una a-topia, di un non luogo della donna nella storia. Quindi “Verde acqua è anche - senza alcuna ideologia - una riappropriazione non ostentata della femminilità, un viaggio verso la Storia attraverso l’a-storicità dell’oppressa condizione femminile, che implica una prospettiva inaudita del proprio io”, in forma quasi epica. “Sono comunque le donne – per concludere il concetto di Magris – le portatrici del valore forse più alto, la memoria […]” [3]. Per cui c’è questa compensazione tra l’assenza della donna nella storia e il suo grandissimo bagaglio di memoria per il fatto semplicemente di “essere”, come vivo e perenne presente. TEMA 2 DONNE E MATRIARCATO: PATRIMONIO CULTURALE E DI TRADIZIONE Questo interessante tema viene ripreso e sviluppato anche da Ernestina Pellegrini che è una critica letteraria, docente d’italianistica dell’Università di Firenze, ed è anche fondatrice dell’Associazione Archivio per la Memoria e la Scrittura delle Donne, sempre a Firenze, a cui noi “donne SOMSI” dovremmo riferirci come esempio da seguire per il nostro archivio. Diciamo che la Pellegrini amplifica e completa questo tema della memoria parlando proprio di donne e matriarcato, definendo Verde acqua “una straordinaria storia di matriarcato […] di un pietoso ma a volte feroce matriarcato, come è comprensibile per ogni racconto autobiografico che è anche una discesa in fondo al pozzo mitico delle madri” [4]. Nel romanzo emerge dunque questo patrimonio culturale di tradizione che viene portato avanti praticamente dalle donne. Le figure femminili descritte nel romanzo sono veramente forti, decise, che non si piegano alle intemperie: sono donne che hanno soprattutto saputo inculcare nelle generazioni future un concetto di identità, inteso come pluralità culturale – linguistica. Non dimentichiamo che il romanzo è ambientato in un territorio culturale particolarmente ricco, crogiolo di popoli e lingue che era quello della Mitteleuropa e Fiume e Trieste ne sono immerse. Ci sono personaggi femminili interessantissimi che io mi auguro potremo approfondire dopo, speriamo con l’aiuto di Claudio Magris, per la descrizione di questi variegati personaggi femminili. Addirittura tre nonne, tra cui la nonna paterna Madieri, la nonna materna Quarantotto e nonna Anka, che è stata l’ultima compagna del padre di Luigi Madieri quando è rimasto vedovo. Dunque, in questa storia di matriarcato e nell’intrecciarsi tra passato e presente, Ernestina Pellegrini “intravvede l’esigenza dell’autrice di valorizzare la saggezza e la pazienza femminili, il criterio nel trasmettere gesti, parole e pensieri che si sedimentano diventando patrimonio culturale e di tradizione” [5]. TEMA 3 L’INTERESSE PER LA VITA MINORE, PER LE “PICCOLE COSE” NELL’OPERA DI MARISA MADIERI Come abbiamo scritto negli inviti del programma, il termine ‘opera’ è qui inteso in senso lato, perché si riferisce sia agli scritti della Madieri ma anche al suo impegno sociale e come vedremo, i due aspetti sono praticamente inscindibili. In occasione della presentazione del libro Osvaldo Ramous e Marisa Madieri: la ricomposizione della fiumanità, Fiume, novembre 2013, Claudio Magris ha voluto ricordare un commento di Rossana Rossanda di alcuni anni prima, a Roma, su Verde acqua e sull’esodo: “C’è chi vive storicamente e chi no queste vicende, in entrambi i casi si guadagna e si perde qualcosa. L’esodo in Marisa aveva lasciato un certo senso della vita molto ambivalente, l’interesse per le realtà minori, che non hanno voce” [6]. Questo per dire che se la Madieri aveva sicuramente perso una Patria, diciamo così, un’identità, però nello stesso momento aveva acquistato l’interesse per le realtà minori che non hanno voce e questa è stata una grandissima ricchezza. Leggendo proprio alcune testimonianze dirette della Madieri, il 13 ottobre 1993 a Pola, ha detto a proposito de La radura – il suo secondo importante romanzo, uscito nel ’92 per Einaudi, in forma di favola - : “Credo di averlo indirizzato inconsciamente agli ex bambini. Ho voluto dare importanza alle piccole cose. In me è scattato il desiderio di confrontarmi con la vita minore, ma brulicante e aperta a un cielo infinito” [7]. E ancora, da uno scritto inedito per la presentazione del libro: “Mi interessa la vita minore, ciò che resta appunto al margine della storia e della ideologia, la vita che non può parlare, far sentire la propria voce; questo profondo interesse per tutto ciò che è minimo, ai margini, alla periferia della vita, in qualche modo escluso dalla Storia […] è una componente essenziale della mia visione del mondo” [8]. Per spiegare brevemente, La radura è un libro che Marisa Madieri amava definire ”storia di un’educazione sentimentale”. Molti l’hanno anche chiamata una favola nera o una favola per adulti, ma sostanzialmente La radura è una metafora dell’adolescenza segnata precocemente dal dolore e dalla morte. La storia è molto semplice: parla di una margherita di nome Dafne che va a scuola dalla maestra Venanzia, anche lei una margherita, e impara un po’ alla volta a conoscere il mondo, le stelle, tutti gli elementi naturali, gli altri animali della radura, ma anche la letteratura. Dopo un temporale che spazzerà via nei rivoli fangosi piccoli esseri della radura, farà un’amara scoperta, cioè dell’essere in meno, della morte. Tornando all’interesse della Madieri per le piccole cose, Ernestina Pellegrini - che abbiamo incontrato prima -, ha parlato a questo proposito di “racconti raso terra” e dice che “c’è forse l’interesse puntiglioso e minuto nei dettagli di un mondo visto spesso dal basso, a livello del suolo. I giardini di Marisa Madieri sono radure, spazi senza alberi o erbe e sono specchio della nostra condizione umana, terrena. La margherita della radura è rappresentata come specie letteraria umile” [9]. Dettagli, angoli bassi, interesse per tutte le forme marginali di vita, anche quelle inanimate dei minerali sono al centro dell’interesse della scrittrice. A questo proposito, vorrei fare un omaggio a Claudio Magris leggendo, in maniera molto succinta perché non abbiamo tempo, uno dei suo passi preferiti de La radura che è il capitolo XXIV°, una sorta di favola nella favola dal titolo “Cuore di pietra”, che per combinazione è anche la favola preferita di Dafne, dove si parla del trepido e impossibile amore tra una pietra e uno scoiattolo. Mi piace pensare che Claudio Magris e Dafne abbiano gli stessi gusti da un punto di vista letterario. Lettura da Verde acqua, cit., pp. 210-212_riduzione: “C’era una volta una bella pietra bianca, antica e splendente come gli astri del cielo. […] Un giorno uno scoiattolo venne a cercare una pigna rotolata a poca distanza da lei e, soddisfatto del bottino, le si accomodò sul dorso per una breve sosta.[…] La pietra […] per la prima volta veniva direttamente a contato con la morbidezza del suo pelo, sentiva il tepore del suo corpo e la carezza della sua folta coda. […] Sentì qualcosa incrinarsi al centro del suo essere compatto. Provò nostalgia per il tepore di quel corpo. Lei era fredda, solo dal sole riceveva un po’ di calore, che se ne andava inesorabilmente al tramonto. […] Com’era felice la pietra ogniqualvolta le dita sottili del suo amico […] la sfioravano, graffiandola gentilmente con gli unghioni ricurvi […]. Ma un brutto giorno lo scoiattolo non si fece più vedere. La pietra cominciò ad aspettare il suo ritorno dapprima pazientemente poi, col passare del tempo, col cuore sempre più in tumulto. Non poteva rassegnarsi a perderlo e si faceva mille domande. Si era stancato di lei, aveva trovato un nascondiglio migliore, gli era successo qualcosa? Tutto era possibile e tutto irreparabile, lo capì bene, purtroppo, assai presto. Ma l’irreparabile era successo soprattutto a lei, che si era lasciata prendere di tenero e incauto amore per un essere vivente […]. Dapprima vide che le ghiande e i semi raccolti dallo scoiattolo e riposti sotto di lei stavano marcendo ed ebbe orrore della corruzione, poi scoprì che la pioggia e il vento le screpolavano e le scavavano la superficie e cercò di opporre resistenza, infine lasciò, con disarmante abbandono, che anche il sole le sgretolasse le parti più esposte col suo implacabile calore. In fondo non era così terribile condividere il destino dei viventi. Si accorse che, se da un lato molto stava perdendo, dall’altro aveva acquistato una cosa assolutamente preziosa, ignota alla vita minerale, la memoria. Le rimaneva nel cuore il ricordo intatto di dolci ore lontane.” Per completare l’argomento, volevo dire che il genere letterario della favola è, come ha fatto notare Magris, estremamente congeniale alla Madieri per vari motivi: “dall’essenzialità alla fusione di epicità e moralità – calata senza spiegazioni nel racconto – e all’assoluta oggettività, al realismo con cui vengono narrati imperturbabilmente i fatti anche più incredibili” [10]. Se prendiamo ad esempio Esopo, ritroviamo tutti questi elementi insieme ma l’aspetto più interessante della favola è che può anche non finire a lieto fine. Ed è questa la cifra della scrittura della Madieri, che racconta le cose come stanno. Ed è anche la funzione della letteratura, attraverso le parole di Dafne, cioè della protagonista de La radura. Dafne va a scuola dalla maestra Venanzia, scopre le letture, la poesia e scopre la passione per la letteratura. Si accorge che questa è il regno della libertà perché uno può scrivere veramente ciò che vuole; ma si accorge che la letteratura è anche il mondo della bellezza, perché ci sono delle licenze poetiche, come ad esempio l’espressione “un mazzolin di rose e viole”, perché – fa notare la maestra Venanzia - rose e viole non fioriscono contemporaneamente. E questo piace molto a Dafne, al punto che pensa di diventare anche lei da grande una scrittrice. Sente così l’esigenza di raccontare le cose che ha vissuto direttamente, quindi la sua esperienza, e conclude dicendo che la letteratura è soprattutto il regno della verità [11]. Una verità dove il senso e il non senso della vita spesso coabitano. TEMA 4 LA MATERNITA’ NEGATA Adesso affronterei un tema scottante: la maternità negata, che svilupperanno poi Magda e Cristina e faremo, diciamo così… un po’ di “teatro” [12]. Accenno solo al fatto che Marisa Madieri era molto sensibile ai problemi della vita nascente, infatti si impegnerà in prima persona nella vicenda referendaria contro l’aborto [13]. Magda e Cristina leggeranno e commenteranno un articolo in forma di dialogo tra Marisa Madieri e Franca Ongaro Basaglia sul tema “aborto sì, aborto no”, e vedremo come cambia lo stile espressivo della Madieri, nel senso che assume una durezza non rintracciabile nel contesto letterario. Spero che Claudio Magris ci spiegherà poi meglio questo diverso registro nel passare dalla letteratura agli scritti più politici e ideologici. Prima di lasciare la parola, vorrei mostrarvi questo libro - Maria- che è stato l’ultimo della Madieri, uscito postumo e incompiuto, e che vi invito a leggere perché oltre a essere molto poetico, parla appunto del tema che stiamo affrontando, della maternità negata. Pubblicato da Archinto, è stato curato in maniera magistrale dalla scrittrice Maria Carminati. Questo libro ha preso il Premio Speciale Napoli 2007. Intervento Magda e Cristina leggono, in forma di dialogo, passi scelti da: Due voci sulla liberazione della donna. Aborto sì o no, in “NUOVA SOCIETA’”, anno X, n. 221 – 11 settembre 1982, pp. 59 – 63_riduzione CRISTINA Tanto per contestualizzare, siamo nel 1982, c’è uno scambio epistolare tra la Madieri e Franca Ongaro Basaglia, che muore nel 2005, cinque anni dopo Marisa. Ecco in quell’anno, nell’’82, veniva pubblicato il libro della Ongaro, che tutti conoscete perché di solito si conoscono le donne in quanto era moglie di Franco Basaglia con cui aveva condiviso le lunghe lotte per la soppressione dei manicomi. Il libro s’intitola Una voce, riflessioni sulla donna (Il Saggiatore, Milano, 1982) e, sempre per contestualizzare il periodo, sono passati solo alcuni anni da che è stata approvata la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza [14] . Sono due donne che, seppur su due versanti diversi, e con diverse argomentazioni, hanno moltissimi punti in comune. Le due donne si interrogano sull’ancora oggi difficile e sofferto tema dell’interruzione della maternità. Una conquista senza ombra di dubbio per l’una, la Ongaro, ma occasione di ulteriori e maggiori approfondimenti e riflessioni per la Madieri. Di fatto ciò di cui loro parlano e discutono e argomentano è la secolare situazione di sottomissione della donna e, come scrive la Madieri, è il difficile itinerario che ancor oggi le donne più o meno consapevolmente, devono percorrere per essere riconosciute. Ciò che Marisa e Franca hanno in comune non è certo il fatto di avere due grandi e importanti compagni di vita, di cui tra l’altro non si sono mai fatte fregio o ornamento, bensì la concretezza e l’orgogliosa determinazione di assumersi la responsabilità di quello che dicono, cioè di mettere in pratica il loro pensiero. Alle parole, insomma devono seguire i fatti, sono persone da questo punto di vista molto pragmatiche, molto coerenti. Inoltre non si sottraggono, non hanno mai paura del confronto e scrive Marisa “è sempre occasione di meditazione e di chiarificazione” e soprattutto parlano di un tema che per noi è ancora molto forte, molto attuale e sul quale è giusto riflettere. Non parlano come intellettuali, ma come donne che conoscono le donne e con loro vogliono condividere i pensieri. Ecco allora noi abbiamo ridotto questo carteggio fra le due donne e io (Cristina) faccio Marisa, e lei (Magda) fa la Ongaro. MARISA MADIERI “Cara Franca, ti scrivo sull’onda dell’emozione che ho provato a leggere “Una voce”. […] Ma se mi sono trovata costantemente d’accordo con le diagnosi dei mali passati, non ho trovato sempre smascherate sufficientemente le più sottili e insidiose forme di oppressione moderna, che perpetuano l’antica cultura maschile travestita da progressismo. Nel tuo libro appare a più riprese il concetto di «cultura» contrabbandato per «natura» nel caso della donna. La diversità biologica dell’uomo e della donna, che è in funzione della riproduzione (in biologia 1+1=2 ma talvolta 1+1=3), è, come tu giustamente dici, biunivoca; ma questo dato di natura è stato nel passato inquinato dal pregiudizio univoco […] che faceva ricadere sulla madre, rendendola subalterna, tutto il peso della prole. La partecipazione dell’uomo nella riproduzione, pur fondamentale ma ridotta a un tempo assai breve, gli ha sempre creato l’alibi per un allontanamento dai doveri parentali.[…] Oggi però la donna sa che la solitudine di fronte alla maternità deve essere solo una dolorosa eccezione e sa che la maternità non voluta può essere evitata. E a questo proposito vorrei manifestarti alcune mie perplessità. 1+1=2 […] Per la cultura antica la fecondità era problema femminile, ai giorni nostri le cose non sono molto diverse. Una contraccezione efficace è oggi ancora affidata praticamente solo alla donna. … La contraccezione quindi continua a farsi in corpore vili, grazie anche alla complicità e all’arrendevolezza femminile.[…] E’ curioso che il femminismo non richieda una più equa distribuzione dei sacrifici, che non si renda conto che la fecondità può e deve essere problema di coppia e che sia contento invece che l’uomo continui ad essere uno spettatore deresponsabilizzato […]. 1+1=3 Un impegno di coppia nella procreazione responsabile potrebbe inoltre rendere irrisoria la percentuale di «errori». […] Il dato di natura ci dice che i tre componenti di questa strana equazione sono biologicamente tre esseri umani a pari titolo. Ma per millenni la cultura ha ignorato questo dato elementare e ha assegnato loro, e ancor oggi assegna, valori diversi. […] Nell’equazione che ci interessa la gerarchia dei valori ha sempre avuto un vertice preciso, l’uomo. Oggi la donna sta faticosamente conquistando la pariteticità, mentre il bambino appena concepito ha ovunque perduto terreno, in quanto il suo non diritto alla vita, se prima era un fatto di costume, ora è norma di legge. […] L’introduzione dell’aborto ospedalizzato somiglia molto alla vittoria che uno schiavo potrebbe conseguire se il padrone gli concedesse la mutua per curarsi le ferite delle frustate che lui stesso gli infligge. Vera liberazione sarebbe ottenere la fine delle torture, la fine di questo scempio di madri e di figlio.[…] Naturalmente l’uomo concede volentieri la mutua, tanto per lui le cose non cambiano, anzi migliorano. […] La legge italiana n. 194, per esempio, lo mette al riparo da tutto: l’aborto ospedalizzato, eliminandone gli aspetti più pericolosi, diventa un fatto accettabile; la donna può e deve decidere da sola. Al benefattore progressista solo diritti e nessun dovere. […] Finché il femminismo continuerà a ruotare autisticamente avocando a sé la responsabilità della procreazione […] invece che chiedere la condivisione con altri quali «il figlio è nostro…», finché non reclamerà un maggior rispetto del corpo femminile e dell’eventuale frutto del concepimento attraverso una rivalutazione della figura maschile come compagno e come padre, continuerà a segnare pesanti autoreti. […] Il cerchio per la donna è ancora chiuso. L’equazione culturale 1+1=1 è sempre attuale. Come vedi, cara Franca […] ti devo molto. Con affetto”. FRANCA ONGARO “Cara Marisa, […] sono d’accordo con te che «l’equazione culturale 1+1=1 è più che mai attuale». […] Forse il senso di questa mia raccolta di scritti è proprio la profonda consapevolezza della strada da fare e della necessità di una continua vigilanza sui passi seguiti. Ho l’impressione che si deva sempre ricominciare tutto da capo (e non solo per quanto riguarda i problemi della donna), e ricominciare da capo comporta trovare sempre nuovi significati in quelle che consideriamo le nostre «conquiste». Miserabili conquiste, come dici tu, ma pur sempre tali rispetto a una realtà che si lascia difficilmente scalfire. Anche se concordo con la tua affermazione della conquista del «diritto alla tragedia» o della «condanna come diritto», credo che si tratti di un passo inevitabile nell’evoluzione di ogni lotta di liberazione. E’ solo attraverso la conquista di un diritto (e in questo caso si tratta del diritto di esistere come persona) che si può giungere all’assunzione di responsabilità del proprio essere individuale e sociale. […] Per arrivare a dire «il figlio è nostro», occorre che il polo del rapporto in precedenza inesistente, abbia la consapevolezza di sé, del proprio corpo, del proprio ruolo, delle proprie aspirazioni e che come tale sia riconosciuto. Sono perfettamente d’accordo che la finalità è quel «nostro» (e non solo per quanto riguarda il figlio), ma non è automatico passare dal nulla al tutto. […] La consapevolezza che non ci sarà liberazione della donna se non all’interno di una società che si libera globalmente dalla prigionia di un sistema economico per il quale non esistono né uomo, né donna, né bambino come soggetti di vita e di esigenze umane, è ciò che ci costringe ad accettare quello che tu giustamente chiami «la mutua». […] Le tue perplessità sono anche nostre, di tutte le donne. […] Per rompere la vecchia cultura non puoi proporre la stessa soluzione contro cui combatti: le conseguenze sgradevoli l’uomo le ha sempre rifiutate, quando la donna era impotente davanti a questo problema e ho il sospetto che nemmeno ora sarebbe molto toccato dal fatto che la donna porti con sé la conseguenza di un atto che è anche suo e di cui dovrebbe sentirsi responsabile. […] Sono convinta che ogni conquista possa continuare a «ritorcersi verso la donna stessa mantenendo inalterata, seppur in forma diversa, l’antica oppressione». Ma questo vale per ogni passo di liberazione che non sia liberazione globale, ed è un rischio da correre, perché ogni passo comporta anche una conseguenza maggiore dei problemi e una maggiore chiarezza nella lotta. Insomma, per me per poter dire il «figlio è nostro», occorre poter dire «la vita è nostra». […] Con molto affetto.” MAGDA Prima Eva ha detto che noi svilupperemo il tema, ma non riusciremo a farlo. Dico solo una piccola cosa e riprendo proprio da quell’”occorre poter dire che «la vita è nostra»”, quella frase dove Franca Ongaro dice “la consapevolezza che non ci sarà liberazione della donna se non all’interno di una società che si libera globalmente dalla prigionia di un sistema economico per il quale non esistono né uomo, né donna, né bambino”. Bene, io credo che queste considerazioni che si intreccino in modo formidabile con le riflessioni della Madieri e raggiungano un pensiero che credo vada ad annunciare quello che da allora ad oggi noi tutti abbiamo vissuto e continuiamo a vivere, e quindi direi la decadenza di questa società in cui ogni cosa, ogni essere umano viene mercificato, a partire dalle donne e le persone e le relazioni non contano più niente. Non contano più niente perché c’è una spinta verso l’individualismo che è diventato e continuerà ad essere per un po’ - speriamo di no -, il motore che muove il mondo. Oggi abbiamo donne presenti, sulla scena politica, ben otto donne abbiamo in questo nuovo Governo. Parlavamo prima con Cristina, lei condivide la mia tristezza, non siamo proprio felicissime: si ha l’impressione che le donne continuino ad essere ospiti ma non solo, che tendano, purtroppo spesso, ad adeguarsi ad una storia che continua ad essere scritta dagli uomini, gli stessi uomini che stentano, faticano a mettere in discussione se stessi e soprattutto un modello di società che ha causato tanti danni all’umanità e al pianeta. Le donne da sempre creano spazi di lettura, punti di vista differenti e in tutte le aree del sapere umano, politico, sociale, spirituale però purtroppo il loro punto di vista è tenuto in poca considerazione anche questa pratica sapienziale femminile non è mai stata tenuta in conto neanche e soprattutto negli ambienti politici. E’ difficile trovare un progetto politico che tragga un briciolo di ispirazione dal sapere delle donne e credo che questo invece sia particolarmente urgente perché oggi il sistema sociale, laddove proprio si tratta di fare dei progetti sulle persone, sulle relazioni, il sistema di protezione sociale è a rischio. Ormai lo sentiamo, lo leggiamo, non ci possiamo più permettere un welfare, e questa cosa sta avanzando in modo abbastanza preoccupante e qui si parla proprio di relazioni, si parla di persone, per cui una società senza relazioni e senza persone è una società dove questo individualismo continuerà a decretarne lo sgretolamento e anche le forme di violenza che continuiamo a vedere. E quindi mi sentirei di porre la questione di un possibile modello progettuale dove il femminile non sia una quota, non sia un valore aritmetico, non sia un colore bensì una traccia vera e propria per disegnare un futuro differente dove magari le equazioni tornino: cosa dite… Speriamo! EVA TEMA 5 L’IMPEGNO DI MARISA MADIERI… “SUL CONFINE TRA LA VITA E LA MORTE” Andiamo veramente a concludere. Questo è l’ultimo tema di approfondimento che ho intitolato L’impegno di Marisa Madieri… ove “sul confine tra la vita e la morte” è messo tra virgolette perché citato da una nota diaristica di Verde acqua[15]. Facendo un passo indietro, abbiamo visto come il 1978 sia un anno importante, diciamo pure cruciale, non solo per quanto riguarda le conquiste sociali e di emancipazione dei diritti femminili ma anche per le vicende personali, biografiche della scrittrice stessa. Se a maggio esce la legge 194, a dicembre dello stesso anno la Madieri si trova come elemento fondante del CAV, cioè del Centro di Aiuto alla Vita di Trieste - “una specie di pronto intervento per maternità difficili”, come lei ha definito – che porta oggi il suo nome. Però il ‘78, getta un’ombra nella vita e sul futuro della Madieri. Leggo brevemente dal diario, in data 8 dicembre 1982, che si riferisce a una sua personale esperienza: “Quest’anno non ho più pensato, con una trafittura al cuore, al 6 dicembre di quattro anni fa, trascorso a Milano passeggiando, in un’umida sera, tra le bancarelle illuminate di piazza del Duomo. Guardavo la gente e le luci, e pensavo ad altro. Stavo ultimando il ciclo di applicazioni al cobalto dopo l’operazione al seno. La grande paura era lontana, ma rimaneva l’amaro svuotamento lasciato da una prova superata con coraggio, l’inquietudine per il futuro” [16]. E ancora, da una nota diaristica del 19 novembre ’84: “Una parte del mio tempo è da alcuni anni dedicata ai bambini rimasti al mondo, tra tante difficoltà, grazie anche alla solidarietà e all’amicizia degli altri. La mia famiglia si allarga a poco a poco, portandomi molta ricchezza e molte nuove incombenze. Eppure, quando le persone che mi hanno conosciuta prima ch’io lasciassi l’insegnamento, che pure amavo, mi chiedono «cosa faccio adesso tutto il giorno», mi riesce difficile spiegare in poche parole, senza cadere nella retorica, che il fronte del mio impegno attuale è sul confine tra la vita e la morte” [17]. Quest’ombra è la cifra della sua vita e la si ritrova, come dice Ermanno Paccagnini - critico letterario che ha curato la magnifica introduzione a Verde acqua – sempre compresente alla sua piena e aperta disponibilità alla vita che è l’unica vera grande eredità che ci lascia Marisa Madieri. Ed è con questa immagine che vogliamo ricordare la scrittrice. Naturalmente la sua propensione all’accoglienza nella sfera sociale darà modo alla Madieri di fare qualcosa di molto ambizioso all’interno del CAV, in quanto lei era forse anche una grande idealista, e cioè di fare cultura: sperava in una rivoluzione culturale basata fondamentalmente sul valore della persona e della vita. E così, tornando al confronto con Franca Ongaro di cui parlavamo prima, c’era in lei, cattolica convinta, una base comune con il pensiero laico: “la difesa della vita umana, nell’arco di tutto il suo sviluppo, dev’essere un valore unificante, in cui tutti possano riconoscersi” [18]. Dunque se non si fonda il valore della vita con al centro la persona, non si può neanche cambiare la società. E per quanto riguarda la società stessa, volevo finire con parole della Madieri che dice: “ noi lavoriamo per l’uomo il più piccolo, debole ed indifeso tra tutti” contro “una visione efficientista della vita che nega valore a chi non sia giovane, sano, intelligente produttivo” [19]. Ed è una cosa assolutamente condivisibile. Invece, per quanto riguarda la donna, e così chiudiamo il cerchio da cui siamo partiti in questo percorso di approfondimento, la sua idea era che la donna dovesse avere la funzione di accoglienza alla vita nascente come valore etico. E anche qui leggo sue parole: “La donna non può dimenticare se non rinnegandolo a caro prezzo il suo specifico femminile che è la sua disponibilità ad accogliere la vita iscritta nel suo ethos da principio” [20]. Mi permetto così di concludere analizzando il termine ”ethos”, etimologicamente parlando, che può essere inteso come soglia primigenia, come l’autentica dimora, l’abitare presso di sé, raggiunto attraverso un percorso di formazione. Inviterei ora se possibile Claudio Magris a completare alcuni approfondimenti. Sicuramente quello che si lega in maniera più diretta, riguarda una sua testimonianza che ho letto in un libro molto interessante scritto da Cristina Benussi e Graziella Semacchi Gliubich che s’intitola Marisa Madieri, la vita, l’impegno, le opere scritto un anno e mezzo fa, quindi un testo molto recente. In questa testimonianza dove Magris diceva che se avessero messo sotto controllo il telefono di casa, in un certo periodo della loro vita, quando Marisa Madieri era impegnata al CAV di Trieste, ci sarebbero state cose terribili da ascoltare. Vuole sedersi assieme a noi? Intervento CLAUDIO MAGRIS Anzitutto permettetemi di ringraziare le amiche che hanno parlato con tanta passione e insieme con tanta precisione, andando al dunque e all’essenziale dei problemi. Non occorre che vi spieghi cosa significhi questa serata per me, per i miei figli, per la sorella di Marisa e la sua famiglia e per altri, che fanno parte o sono entrati a far parte della famiglia, per gli amici e le amiche, che hanno conosciuto Marisa, che hanno condiviso in qualche modo la sua esistenza, il suo cammino. Amici e amiche che non sono meno importanti dei familiari; l’amicizia è uno degli elementi fondanti, uno dei legami più liberi e creativi e intensi della vita e Marisa lo sentiva fortemente. Quanto a me, i libri che ha scritto Marisa contengono la mia vita più di quelli che ho cercato di scrivere io. Ma soprattutto sono profondamente colpito da questa atmosfera, da questa realtà che stasera incontro per la prima volta. Realtà che, come questa Società Operaia, come questo vostro – e ora mi permetto di dire nostro – circolo, costituiscono probabilmente la vera - meno appariscente ma più solida, portante – struttura e spina dorsale, culturale, morale e quindi, in senso diretto e indiretto, politica dell’Italia. Mi sembra di sentire qui un pezzo di quella “Italia civile” che, come diceva Marin, è forse solo una nostra esigenza ma, appunto per questo, ha una sua radicale importanza. Credo che serate come queste – anche a prescindere dall’ovvio coinvolgimento sentimentale ed emotivo mio e di altri con me questa sera – siano molto più significative, perché molto più sostanziali ossia concrete e reali, dei cosiddetti grandi eventi, che devono essere eclatanti ma che - a differenza di un lavoro sereno, pacato, mai sopra le righe, come mi sembra di capire, come quello delle realtà come la vostra - svaniscono senza incidere concretamente sul reale. E perciò, realtà come la SOMSI o serate come queste, hanno un aspetto certamente minoritario rispetto alle grandi forze che ci dominano, ma non sono affatto per questo necessariamente perdenti, perché sono il concreto, direi robusto passo di un cammino che non segue rotte obbligate. Vorrei anche ringraziare una persona che non può essere con noi stasera, Maria Carminati, che ha avuto un grande ruolo – a molti anni di distanza dalla morte di Marisa, che lei personalmente non ha conosciuto – nell’attirare l’attenzione sugli aspetti liberatori, progressivi, delle posizioni di Marisa nei vari campi di cui si è occupata (la condizione della donna, le maternità difficili e così via), che una facile retorica pseudoprogressista avrebbe potuto accusare di tradizionalismo, cosa che era ed è lontanissima dalle posizioni di Marisa. Poco fa, si è parlato del presente e del passato e io mi sono ricordato di una frase di Franco Fortini, il quale diceva che ognuno di noi è responsabile per l’umanità intera: per quella di ieri, per quella di oggi e per quella di domani. Non possiamo non pensare al futuro, a chi verrà dopo di noi; non possiamo divorare oggi tutte le risorse della terra infischiandoci della penuria e miseria che ne conseguirebbero per i nostri nipoti. Quanto al presente, è fin troppo ovvia la necessità dell’impegno. Ma siamo responsabili in certo modo pure del passato, dei milioni di persone che hanno vissuto in condizioni innominabili, che sono state colpite da oppressioni spaventose, che sono perite a causa di violenze indicibili. Se non portassimo in noi e con noi il loro ricordo – non il comprensibile ma in fondo sterile ricordo sentimentale, bensì la consapevolezza della responsabilità storica e morale che coinvolge sempre ognuno nel destino di tutti – queste vittime di ieri sarebbero vittime di un oblio che diventerebbe una vera omertà, una ulteriore violenza. Marisa sentiva profondamente tutto questo, anche se non lo affrontava – sapeva di non esserne in grado – storicamente. Una volta, a Roma, alcuni anni dopo la sua morte, Rossana Rossanda, che non l’aveva mai incontrata ma era rimasta molto colpita dai suoi libri e in particolare da Verde acqua, osservò, commentando il modo in cui Marisa faceva rivivere l’esodo e tutto ciò che l’esodo significa anche al di là di quello specifico vissuto da Marisa stessa, ha detto, con una certa malinconia: “C’è chi vive le proprie esperienze storicamente e chi le vive per così dire sotto la Storia; in entrambi i casi si guadagna qualcosa e si perde qualcosa”. Marisa ha narrato la Storia ma ponendosi dal punto di vista di chi, nel momento in cui la viveva, la viveva subendola, per così dire quasi sotto la Storia, in una zona d’ombra, in un non luogo che, come è stato detto, è spesso la condizione delle vittime ed è stato anche spesso il ruolo della donna, la atopia, il non luogo in cui è stata relegata nei secoli la presenza femminile, la parte d’ombra inflitta alla donna o assunta dalla donna stessa su di sé quasi per lasciare che l’uomo vivesse nella luce. Da questo punto di vista, “la prospettiva dal basso” che contraddistingue tutta la scrittura di Marisa e il suo modo di vedere le cose, permette di scoprire tante cose della vita minore, della vita che altrimenti passa inosservata, obliata, ignorata, nemmeno presa in considerazione, quando non calpestata. L’esperienza dell’esodo, come lei diceva spesso, le aveva lasciato questa forte impronta di un interesse per ogni forma della vita minore: non solo, come nel suo caso, quella degli esuli o dei rifugiati, ma ad esempio quella in generale delle donne oppure le varie fasi più deboli e indifese della vita, da quelle iniziali o prenatali sino a quelle della vecchiaia. La vita minore la interessava anche nelle altre creature viventi, ad esempio gli animali, che non possono parlare; la interessava in tutte le forme della realtà della vita, tanto è vero che ha scritto un racconto, una fiaba, La radura, in cui i personaggi sono tutti appartenenti a quello che nei vecchi manuali di scuola si chiamava il regno vegetale oppure, ma in pochi casi, a quello animale. Perfino le cose mute, i minerali, attiravano la sua tenerezza, come dice una pagina che è tra le più belle che lei abbia scritto, quella dedicata alla pietra che si innamora dello scoiattolo, e che, innamorandosi, precipita nell’abisso della vita, delle contraddizioni, anche del dolore. Io le dicevo scherzando che aveva scritto un testo di pornografia cosmica… Forse questa fiaba, La radura, è letterariamente il suo capolavoro (ad esempio, nella straordinaria, terribile descrizione della morte della protagonista, una margherita). Ma certamente il libro che le dà il suo posto nella letteratura e in generale nella nostra consapevolezza è Verde acqua, non a caso tradotto in molte lingue nei più diversi paesi del mondo e accolto con grande favore, in certi casi – come in Spagna – con incredibile entusiasmo. Quel libro è un piccolo classico, perché realizza quella che è l’essenza di ogni testo classico: ossia l’intreccio indissolubile di una irripetibile e inconfondibile vicenda individuale con una grande vicenda collettiva. Parlavo di prospettiva dal basso, che esclude ogni superbia ideologica, ogni posizione autoritariamente deduttiva che parte dall’alto per imporre una gerarchia alle cose. In questo senso, ha insegnato molto anche a me, liberandomi da una sorta di tendenza prepotentemente deduttiva, tendenza ad imporre la propria visione alle cose, insegnandomi invece ad ascoltarle, a mettermi, nei limiti del possibile, alla loro altezza. Quando stava scrivendo La radura, e quando andavamo a fare le nostre passeggiate sul Carso, lei ogni tanto si metteva a quattro gambe oppure distesa perché voleva vedere come si vede il mondo dall’altezza di una margherita. Racconti raso terra, ha scritto parlando di lei Ernestina Pellegrini. Anche in questo c’è la sua caratteristica di scrittore, del vero scrittore che è attento alle cose, a toccarle, a sentirle, fiutarle; lo scrittore cui non basta soltanto l’idea, ma occorre anche l’esperienza concreta, sensibile, sensuale. La prospettiva dal basso è anche una prospettiva umile, perché rinuncia a ogni superiorità gerarchica; umile anche e soprattutto nel senso, più volte ribadito da un notevolissimo scrittore che è stato anche nostro grande amico, Stefano Jacomuzzi, di vicinanza alla terra, humus, quella terra con cui i bambini giocano, si impiastricciano, si sporcano, in una confidenza con il liquido primordiale dell’esistenza. Questa umiltà non ha nulla di untuosamente sottomesso; Marisa, che pur amava molto Manzoni, era totalmente d’accordo, lo ripeteva spesso, con il rimprovero che Gramsci muove a Manzoni, rimproverandolo di aver scritto, a proposito di categorie sociali, “umili”, anziché, come avrebbe dovuto scrivere, “umiliati”. Anche l’esodo fa parte di questa esperienza e l’esodo - che aveva insegnato a Marisa la precarietà di tutte le cose, l’incertezza della vita che può crollare da un momento all’altro, in cui si viene strappati, sradicati da tutto ciò che credevamo essere tranquillamente e serenamente nostro – acquista un suo significato particolare proprio nella formazione dell’individuo. L’esodo, come insegna la Bibbia, è dolore ma è anche cammino verso la salvezza, verso la Terra Promessa. Non c’è fondazione di Roma senza la caduta di Troia, anche se naturalmente ciò rende non meno tragica quella caduta, per chi è morto tra le fiamme di Troia incendiata. Ma Marisa sentiva profondamente l’esodo che ognuno di noi vive continuamente in se stesso; è un esodo anche l’uscita del bambino dall’infanzia per entrare nell’adolescenza o dall’adolescenza per entrare nella giovinezza, acquistando e sviluppando tante cose della propria personalità ma anche perdendo qualcosa di se stesso, qualcosa di irripetibile, un’infanzia che contiene dei valori e delle verità che non avremo più (ovviamente senza alcuna nostalgica regressione puerile). Tutto ciò è vero anche negli esodi successivi, che costituiscono una vera odissea, un cammino verso se stessi lasciandosi tuttavia sempre un po’ anche dolorosamente – una parte di noi alle spalle. C’è poi il problema, che è stato posto molto giustamente, dei due stili, delle due scritture. Un problema che conosco bene anch’io e di cui ho anche scritto. Non si tratta certo di una scelta deliberata, ma di una necessità, di una corrispondenza dello stile alla “cosa”. E’ questo che contraddistingue un vero scrittore, a prescindere dalla grandezza o meno dei suoi risultati. Come ha detto una volta Gide, uno scrittore, uno che ha del genio – intendendo con questa parola non tanto una dimensione particolare dell’intelligenza, quanto una organicità della propria persona, del pensare, sentire ed esprimersi – non sceglie, ma fa esattamente ciò che può. E’ chiaro che l’invenzione fantastica ha una componente di libertà che può giungere sino alla sfrenatezza; una componente di invenzione che ovviamente il discorso morale e politico non può avere. E quando parliamo di stile parliamo soprattutto di sintassi, ossia del ritmo, dell’ordine con cui si percepisce e si rappresenta e racconta il mondo. E’ evidente che nella ricerca e nel discorso etico-morale lo stile si fa preciso, incalzante, essenzialmente paratattico; si affida spesso all’incalzare di frasi principali, cerca di distinguere in uno stesso fenomeno l’essenziale dal contingente. Quando ci si batte per un determinato valore morale o sociale, quando si protesta contro l’ingiustizia, il discorso si fa preciso, si affida all’ordine, alla logica anche inesorabile (di cui Marisa era maestra) a una sorta di geometria morale, se così posso dire. Fra l’altro, il suo stile era straordinario in genere nella precisione – precisione nel ragionamento, nella descrizione, nell’azione. Se discutiamo, ad esempio, delle pensioni, il nostro discorso deve essere preciso, deve affermare o contestare con chiarezza, proporre con chiarezza, senza ambiguità; tenendo presente tutte le difficoltà e le contraddizioni, ma cercando di risolverle. Se invece raccontiamo la vita di una persona, di un uomo o di una donna, coinvolti – per continuare nell’esempio – nel taglio delle pensioni e nei conseguenti problemi, non solo materiali ma anche esistenziali che ciò comporta, ecco che ci troviamo dinanzi a una realtà molto più complessa, contraddittoria. Non soltanto dinanzi alla realtà sociale di quel provvedimento, ma dinanzi alla irripetibile vita individuale di chi in qualche modo è coinvolto in quel provvedimento. E allora anche lo stile si fa diverso; ogni pur necessaria frase principale è spesso circondata, sfumata, accentuata, modificata, accostata a tante altre realtà diverse e lo stile si fa ipotattico; sfuma, accresce, completa, corregge o mette in dubbio le affermazioni principali con i condizionali, con le concessive, con tutte le espressioni necessarie per alludere e raccontare e rappresentare l’ambivalenza della situazione umana. A parte questo, Marisa era straordinaria nell’essenzialità. E’ stato scritto un bellissimo saggio su di lei in Spagna, in cui si sottolinea la sua grande arte di levare, di potare, di sfrondare il testo, di eliminare ogni oncia di grasso superfluo. Grazie a Dio ha sfrondato anche tante cose mie, forse voi direte non abbastanza ma vi assicuro che lo ha fatto e che questo ha aiutato molto anche la mia scrittura. La precisione sintattica aveva per lei - e del resto ha oggettivamente - anche un significato morale, perché se non sappiamo mettere il soggetto al nominativo e il complemento oggetto all’accusativo non sappiamo chi ha rubato e chi è stato derubato e finiamo per mettere in galera il derubato e non il ladro. Tutto ciò non è affatto in contrasto con la necessaria libertà fantastica del racconto, dell’inventare, del sovvertire la realtà stessa (e le sue gerarchie tradizionali) nel racconto. La letteratura – come scopre nella Radura la stessa protagonista, la margherita Dafne – è il regno della libertà e non ha problemi di corrispondenza precisa con la realtà, come invece li ha ad esempio un articolo di cronaca giornalistica. Sì, Marisa era maestra nell’arte di levare. Ricordo ad esempio che una volta, a proposito di un passo di Verde acqua fortemente erotico, Marisa lo ha prima “potato” – non certo per pruderie, perché ne era completamente libera e non aveva in questo senso alcun timore, alcun “rispetto umano”, direbbe il cattolicesimo a lei caro – ma per un senso di rispetto e, soprattutto, di essenzialità, nella convinzione che tante volte l’essenziale sta nel non-detto, nella forza di ciò che viene comunicato senza essere detto esplicitamente. In questo senso, come è stato scritto, si riconosceva nella poetica dell’iceberg di Hemingway, secondo il quale un narratore deve mostrare un ottavo di ciò che racconta, come un iceberg mostra emergendo dal mare un ottavo della sua dimensione, ma quell’ottavo deve far sentire, tanto più fortemente, il resto. Quanto a quel passo, lei lo ha ristretto, sino a ridurlo a una citazione eroticamente molto intensa del Cantico dei Cantici, testo che in fatto di erotismo non scherza, e poi, ancora una volta non certo per ragioni di pruderie ma per rendere ancora più forte quel richiamo, lei ha ridotto quel passo alla mera indicazione dei numeri del Canto, 7, 12. Ed effettivamente quel passo, così, è ancora più forte. Naturalmente in quel contesto; in un altro, sarebbe stato necessario, proprio per ragioni espressive (quelle ragioni che invece in quel caso avevano imposto la rarefazione), una vera e propria descrizione. E’ stato magistrale, da parte vostra, concentrare l’interesse di questa serata sul carteggio con Franca Ongaro Basaglia – donna cui l’Italia deve molto e alla cui battaglia politica, in particolare per quel che riguarda la rivoluzione psichiatrica e la legge 180, Marisa è stata molto vicina, come le era vicina personalmente. Anche i passi scelti, compresi i tagli, sono una scelta straordinaria. Anch’io ho conosciuto bene Franca e la ricordo con molto affetto, con una gratitudine oggettiva per quello che l’intero Paese deve alla sua battaglia e personale. E’ molto importante aver ricordato quel procedimento matematico, inesorabile del discorso di Marisa. Comune a entrambe le posizioni è la rivendicazione della libertà e della pari responsabilità della donna, contro tutta la tradizione che la addossa soltanto a lei. Da questo punto di vista si spiega l’analisi - molto efficace, molto forte - di alcune rivendicazioni che Marisa non contesta, ma che le sembrano appunto una mutua per le frustate ricevute anziché una battaglia per eliminare le frustate. E’ chiaro che la prima ingiustizia, per quel che riguarda il tema dell’aborto, è il fatto che esso è sempre stato un peso gettato sulle spalle della donna, unica a dover sopportare le conseguenze di un incontro sessuale, unica a doversi occupare della contraccezione che invece dovrebbe essere un problema di entrambi i partecipanti a pieno e pari titolo, unica a pagare – grazie a Dio soprattutto in passato, ma talora ancora oggi – il prezzo sociale, materiale ed economico di una maternità sia accettata sia rifiutata. Fra l’altro, quel dialogo è stato un momento determinante per il rapporto fra Marisa e Franca, che dopo quella discussione così schietta, asciutta, così scevra di quel ridondante pathos sentimentale o sentimentaloide – che ahimè caratterizza, contro ogni pregiudizio che afferma il contrario, molto più spesso gli uomini che le donne – si è fatto più intenso. Fra l’altro, quel diario che è stato pubblicato in una bellissima rivista di quegli anni, “Nuova società”, una rivista del Partito Comunista molto autonoma che si faceva a Torino, che prese una posizione molto coraggiosa contro il terrorismo negli anni duri e contro ogni civetteria nei suoi confronti e che in tutti i campi (ricordo una splendida inchiesta sul postmoderno) è stata un esempio di onestà e di intelligenza culturale; una rivista che è stata espressione di un’Italia come la vorremmo. Non è un caso che questo dialogo sia stato pubblicato su “Nuova società”, rivista che si caratterizzava fra l’altro anche per la chiarezza, nella consapevolezza che solo una precisa e non ambigua professione di certi valori, in discussione o talora in contrasto con altri, senza alcuna chiusura e senza alcun falso ecumenismo, può portare un reale contributo. Da questo punto di vista Marisa era assolutamente laica; laico infatti non significa, come stoltamente si crede, l’opposto di credente. Laico non indica un contenuto di fede o di pensiero, ma una modalità nell’articolazione e nella consapevolezza di una fede o di un pensiero. Laico è chi sa distinguere tra ciò che è di competenza ad esempio della fede, ossia tra le cose in cui si può soltanto credere, e ciò che è di competenza della ragione, ossia di cose che si possono dimostrare; chi sa distinguere tra ciò che compete allo Stato e ciò che compete alla Chiesa; chi sa distinguere fede e ragione a prescindere dal fatto di professare o meno quella fede. Ad esempio, una delle persone, come ripeto sempre, più laiche che io ho conosciuto è stato Arturo Carlo Jemolo, molto religioso e praticante ma fermissimo nel respingere ogni indebita ingerenza della Chiesa nella sfera dello Stato, nemico della scuola privata finanziata con mezzi pubblici e così via. Ci sono laici e non laici sia fra i credenti sia fra i non credenti; il clericalismo, ad esempio, è un incivile opposto del laicismo, come lo è talora una irreligiosità intollerante. Il lavoro che Marisa insieme ad altre persone svolgeva presso il Centro di Aiuto alla Vita era assolutamente laico. Non era una propaganda che andava a dire alle persone come dovevano comportarsi; era una accoglienza a chi si sentiva in difficoltà, nella maggior parte dei casi a donne sole che desideravano portare a termine la loro gravidanza ma erano profondamente ostacolate da varie pressioni di ogni genere, nubili o sposate che fossero. E ovviamente il lavoro non si limitava a una vicinanza durante la gravidanza, perché è troppo facile e sarebbe ipocrita dire una buona parola e poi lasciare l’interessata in balia delle proprie difficoltà. L’aiuto continuava anche dopo l’arrivo al mondo dei nuovi compagni di strada; continuava nella ricerca di una sistemazione, almeno provvisoria, per le madri e i loro bambini appena nati; continuava nel tentativo di trovar loro un lavoro e, soprattutto in questo caso, di permettere loro di accettarlo occupandosi nel frattempo dei bambini. Alcuni - per essere esatti, alcune, perché per combinazione si è trattato di bambine - hanno vissuto ad esempio per un certo tempo a casa nostra, diventando talora parte della nostra famiglia, di una famiglia allargata che in fondo è sempre o quasi sempre meglio di quella stretta… In caso di emergenza e nelle situazioni più difficili, dopo e prima del parto, si cercava una sistemazione presso la Casa dell’accoglienza, gestita da una suora, suor Luciana, morta anche lei poi di cancro, e che era una donna straordinaria, estremamente spregiudicata. Spesso sentivo, involontariamente, le telefonate tra Marisa e Suor Luciana, in cui parlavano delle diverse situazioni – situazioni talora estremamente pesanti, brutali, di violenza anche turpe e dicevo loro che mi sembrava di ascoltare una trasmissione a luci rosse. Marisa era molto sensibile alla libertà e soprattutto alla dignità della donna e, senza badare a vincoli tradizionali o meno, aiutava talora e cercava almeno di aiutare donne che vivevano in condizioni di incredibile inaccettabile umiliazione, a rompere il loro vincolo, di qualsiasi natura fosse, cosa che spesso desideravano ma non osavano fare, vincolate in qualche modo anche a una ideologia di sottomissione, di infrangibilità dei legami e così via. Ricordo che una volta, a una di queste donne che veniva picchiata dal marito o compagno che fosse, anche nel tentativo di farla abortire in tal modo, Marisa disse che doveva assolutamente separarsi, vincendo ogni falsa riluttanza, religiosa o no – “perché il primo dovere è verso se stessi, la prima cosa è la propria dignità, legata a quella degli altri”. Ricordo che quest’uomo violento telefonò a Marisa – io ero lontano da Trieste – chiedendole un appuntamento per discutere della faccenda e proponendo il piazzale di San Giusto alle nove di sera. Marisa andò in macchina, accompagnata da nostro figlio Paolo, che indubbiamente in tale situazione è una buona guardia del corpo. Marisa raccontava, ridendo, come Paolo le avesse galantemente aperto la porta dell’automobile, restando a un paio di metri di distanza in modo da non poter sentire ciò che lei e il gentile signore si dicevano, ma guardandolo con un’aria in cui era chiaro il messaggio: “Alla prima mossa che fai, sei perduto…”. Oltre a tutto Marisa aiutava – e naturalmente anche in questo, come nel resto, non era certo un’eccezione, era una del gruppo, in cui anche le altre si comportavano in tal modo – le donne uscite da gravi traumi, per maternità portata a termine o interrotta, aiutandole a liberarsi da ogni falso “complesso di colpa”, da quei grovigli in cui l’ossessione morale e la debolezza nevrotica si uniscono in un modo equivoco che lei detestava profondamente. Ricordo un altro episodio comico che mostra anche la difficoltà in cui si muoveva, specie in quegli anni, molto più di adesso per fortuna, l’attività di Marisa in questa direzione. Una volta, insieme ad altre colleghe, si recò da un assessore regionale – presentandosi come sempre col suo nome da nubile, com’era suo costume – per chiedere la possibilità che anche il CAV potesse fruire dell’assegnazione provvisoria di piccoli appartamenti di proprietà pubblica, al cui modesto affitto avrebbe contribuito il CAV stesso, e in cui avrebbero potuto essere sistemate, ovviamente per il breve periodo iniziale, neomadri con i figli piccoli. Furono ricevute, sia in quanto donne sia in quanto portatrici di una richiesta evidentemente considerata retorica o bigotta, con una certa sufficienza, fra l’altro senza nemmeno che venisse offerta loro una sedia su cui sedersi. Quando Marisa espose questa richiesta, dicendo che questa richiesta si muoveva nel senso preciso della Legge 194, legge che consente l’interruzione della gravidanza ma afferma implicitamente di considerarla un male che occorre cercare, ove possibile, di eliminare. Al che l’assessore rispose cinicamente: “Diciamocelo francamente, quelle parole sono ipocrisie”. Questa sincerità sarebbe stata lodevole se non fosse nata dalla convinzione di parlare dinanzi a un gruppo di poveracce insignificanti che mai avrebbero potuto diffondere questa sua dichiarazione, certamente imbarazzante per lui, per il partito che rappresentava e il ruolo che esercitava. Il giorno dopo, saputo questo, io gli ho telefonato; sentendo il mio nome si è profuso in complimenti e ha mandato anche gentili omaggi alla cara signora. Al che io gli ho risposto che anche lei lo salutava molto, che anzi ero io a ringraziarlo per averla ricevuta gentilmente, anche se, stanca com’era, avrebbe magari gradito potersi sedere per quella mezz’ora su una sedia del suo ufficio. Poi gli dissi che mi erano state riferite quelle sue parole così interessanti a proposito di ipocrisia e che gli chiedevo di confermarmele, perché stavo preparando una serie di articoli sul “Corriere”, al che lui si spaventò, disse che mi avrebbe incontrato molto volentieri, che in quel momento era occupato e mi pregò di rinviare questo incontro di un paio di settimane. Dopo un paio di settimane io gli telefonai, la sua segretaria sentito il mio nome disse che l’assessore non vedeva l’ora di incontrarmi ma che purtroppo in quel momento era occupato o in viaggio e la cosa si ripeté per settimane e per mesi, io sempre più incalzante, come quegli spadaccini nei duelli nei film dei corsari, e lui sempre più incalzato e fuggitivo. Devo essere diventato per lui una specie di incubo. Quando, durante i miei vagabondaggi danubiani, giunsi a alle foci del grande fiume, a Sulina, gli mandai una cartolina dicendogli: “Dalle foci di questo grande fiume, attendendo con gioia il nostro incontro, La penso”. Anche lui è stato travolto nel crollo della Prima Repubblica. CRISTINA Naturalmente ringraziamo Claudio Magris, ma lo ringraziamo anche per la delicatezza che ha avuto, non tanto adesso nel raccontarci questi aspetti , quanto per la sua presenza. Avete visto che sulle locandine non c’era scritto il suo nome perché lui si è tanto raccomandato di non comparire perché non voleva offuscare l’immagine della persona di cui abbiamo parlato questa sera, di questa donna che spero abbiate cominciato a conoscere, per chi magari non ne ha ancora avuto modo. Ecco, questo punto di vista è molto importante perché è lo spirito con cui vorremmo fare le cose. Approfittiamo della sua presenza, quindi se c’è qualcuno che ha qualche domanda da porre a Magris, io direi di intervenire. DONNA TRA IL PUBBLICO Mi aveva colpito tanto il suo discorso sull’individualità, ma io vorrei dire una cosa: quanto sia difficile per noi donne in particolare, quanto sia difficile vivere la nostra vita liberamente. Siamo talmente vittime di tanti condizionamenti e purtroppo la nostra vita diventa molto più piccola rispetto a quella dell’uomo. Che poi sì è vero, è giusto l’individualismo, l’individualità dovrebbe tornare a riemergere, però come si fa, con quali mezzi. CLAUDIO MAGRIS Se sapessi rispondere veramente a questa domanda sarei un genio. Lasciamo stare il complesso discorso filosofico su cosa sia l’individuo, se sia un’unità o una molteplicità e una pluralità, se abbia una sua unità e una sua continuità nel tempo e così via. Ho scritto anche dei saggi su questo tema, che è estremamente complesso. Ma prendiamo invece concretamente l’individuo, Lei, io, ogni individuo nel contesto sociale. Credo che noi abbiamo il dovere di protestare contro le carenze e le ingiustizie di oggi, ma di progressi grazie a Dio, ne sono stati fatti molti. Io non sono ottimista, il nostro compito è quello di criticare le cose di adesso che non funzionano, ma senza idealizzare il passato, che spesso è stato orribilmente ingiusto ed opprimente. Perfino rispetto a trenta o quaranta o cinquanta anni fa, per fare solo un esempio, la condizione delle donne e di altre categorie è indubbiamente migliorata. Il che non significa che non debba essere ulteriormente migliorata, che non ci siano sacche di ingiustizia e discriminazione, orribili sofferenze e sfruttamenti nel mondo, ma non è la stessa cosa, ad esempio essere una ragazza madre oggi o esserlo cinquanta anni fa. Che poi sul piano economico ci siano, come ora, momenti di grave, preoccupante regresso per tutti e specialmente per alcune categorie è vero ed è angoscioso. Io però sono contento di vivere in questi tempi in cui almeno si è costretti a prendere in considerazione sempre più ampie categorie umane, sempre più persone cui un tempo non si riconoscevano dignità, parità di diritti, fraternità di umano destino. Forse oggi questo senso più aperto dell’umano è solo ipocrisia, che naturalmente detesto, ma che è già qualcosa, perché, come è stato detto, l’ipocrisia è l’omaggio del vizio alla virtù; indica almeno la consapevolezza che si dovrebbe pensare in quel modo. C’è una cosa che pesa su noi tutti. Un grande cabarettista tedesco che è stato in certo modo maestro di Brecht, ha detto, molti anni fa: “una volta il futuro era migliore”. Non il presente, che era orrendo, ma il futuro, la speranza è il progetto del futuro. Oggi è questo che manca, la tensione a creare un mondo almeno un po’ migliore, la capacità di immaginare un futuro diverso. La tensione concreta a un futuro diverso, la consapevolezza che il mondo non va soltanto amministrato bensì anche cambiato e migliorato, è qualcosa che non si deve perdere nonostante tutte le sconfitte che si subiscono in questo cammino e che non possono privarci di questo futuro. Marisa aveva questo senso del futuro. Vi ringrazio e vi abbraccio tutti, spero mi accetterete già stasera come socio. CRISTINA Va bene. Allora io direi di fare un ultimo applauso e ringraziare Claudio Magris. Abbiamo anche la presenza di Giorgio Pressburger che speriamo di poter invitare prossimamente qui da noi, e che peraltro ha dato molto alla nostra città. Per chiudere come facciamo sempre con gioia e spensieratezza, sopra c’è il solito bicchiere di vino con due tramezzini così stiamo ancora un momento insieme e festeggiamo la donna. NOTE 1. Appena terminata l’Università, per alcuni anni sono stata ospite di una mia cara amica, in viale Miramare: una casa magica, adagiata su un ampio e verde promontorio affacciato sul golfo di Trieste dove i tramonti mozzafiato che ti rapivano trasportandoti altrove, sembravano un tutt’uno con l’orizzonte del mare. In quegli anni la casa, a seguito di una eredità, era stata divisa in due unità abitative. Viviana, la cugina di Magris, era venuta a vivere con sua figlia Veronica e con l’allora marito, proprio a nostro fianco. Un enorme tiglio, di fronte al suo ingresso, era il luogo dove, nella bella stagione, Viviana spesso accoglieva i suoi amici. Pomeriggi pieni di sole, di luce e di caldo, mitigato da quell’enorme e protettivo tiglio che sembrava riuscire a raccogliere, proteggendolo, quel piccolo mondo di persone vocianti che si riuniva sotto i suoi rami. Lì ho conosciuto Marisa Madieri. Ero troppo timorosa di quelle persone che inframmezzavano fatti della loro vita quotidiana con riflessioni di storia e di letteratura: personaggi a me allora lontani, per entrare con loro in confidenza. Ma a distanza di tantissimi anni, l’immagine di Marisa rimane impressa in quelle istantanee e in quel modo di parlare e di muoversi dolce ma determinato che anche leggendo i suoi scritti ho riscoperto. 2. Claudio Magris, Postfazione in Marisa Madieri, Verde acqua. La radura e altri racconti, Einaudi, Torino, 2006, p. 286 3. Ivi, p. 288 4. Ernestina Pellegrini, Le radici della nostra debolezza. La radura di Marisa Madieri, ne Le città interiori in scrittori triestini di eri e di oggi, Moretti & Vitali, Bergamo, 1995, p. 133 5. ibid. 6. Archivio web > AdnAgenzia > 103400 > CULTURA: A ROMA INCONTRO SU MARISA MADIERI Roma, 21 nov. 1998: “dopodomani, alle ore 18, a Roma, presso l'Associazione Civita - Piazza Venezia 11- (V° piano) si terrà un incontro di lettura e conversazione sull'opera di Marisa Madieri. Intervengono Rossana Rossanda, Paolo Mauri e Claudio Magris. Coordina Anna Maria Mori. Ivana Monti leggerà pagine scelte dei libri di Marisa Madieri”. 7. Testimonianza di Elsa Fonda, attrice che ha prestato la voce a Marisa Madieri per testi teatrali e radiofonici, in Cristina Benussi – Graziella Semacchi Gliubich (a cura di), Marisa Madieri. La vita, l’impegno, le opere, Ibiskos Editrice Risolo, Empoli, 2011, p. 60 8. Marisa Madieri, Appunti per la presentazione de La radura (scritto inedito), in Maria Carminati, Postfazione a Marisa Madieri, Maria, Archinto, Milano, 2007, p. 75 9. Ernestina Pellegrini, Le trasparenze di Marisa Madieri. Relazione tenuta al Convegno internazionale Women’s Autobiography, Siviglia (Spagna), 26-28 ottobre 2001, Atti stampati a cura di Mercedes Arriaga Florez, p. 13 10. Claudio Magris, Postfazione, op. cit., p.295 11. Marisa Madieri, Verde acqua, op. cit., p. 204 12. Si allude al fatto che mentre Cristina e Magda leggono il carteggio Madieri–Ongaro, Eva scrive su un grande cartello bianco la sintesi del dibattito, tradotto in formule e dati. E’ un espediente per rendere la lettura meno statica. 13. “Marisa Madieri ha affrontato direttamente il tema dell’aborto in tre interventi, il più noto dei quali è senz’altro la lettera aperta all’amica Franca Basaglia Ongaro. E’ un testo di analisi e di riflessione che la fa sentire vicina - pur nella critica a certe impostazioni - alla intensità della passione civile e all’impegno sociale di una dona che è stata protagonista (insieme al marito Franco Basaglia) di una grande rivoluzione culturale. In questo scritto Madieri, pur riconoscendo che l’autrice di “Una Voce” faceva emergere con forza la «… tormentosa presa di coscienza da parte delle donne della loro secolare condizione di sottomissione», sottolineava però i rischi delle «… più sottili e insidiose forme d’oppressione moderna, che perpetuano l’antica cultura maschile travestita da progressismo». Il tema della responsabilità tutta al femminile emerge come un altro punto forte nella lettera di Madieri, che al suo interno affronta le tematiche della procreazione, della contraccezione e del diritto della donna all’aborto: un diritto che diviene un «non diritto alla vita» per il concepito, e che permette all’uomo «di non prendersi alcuna responsabilità». Mentre la legge consente alla donna di decidere autonomamente, «il dato di natura ci dice che i tre componenti … sono biologicamente tre esseri umani a pari titolo. Ma per millenni la cultura ha ignorato questo dato elementare e ha assegnato loro, e ancor oggi assegna, valori diversi». La figura maschile, il ruolo del padre vanno rivalutati in una nuova chiave e la gestione della fecondità e della riproduzione deve trasformarsi in «problema di coppia», poiché «la visione del concepito come parte del corpo della donna, di cui ella ha diritto di disporre, è un errore oggettivo». La battaglia contro l’aborto per difendere il diritto all’esistenza del bambino è un’istanza lucida, argomentata da riflessioni razionali, di impronta assolutamente laica e condotta al di fuori di qualsiasi ambiguità emotiva […]”. Tratto da Maria Carminati, Postfazione, op. cit., pp. 72-74 14. Legge 22 maggio 1978, n. 194: “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. 15. Marisa Madieri, Verde acqua, op. cit., p. 143 16. Ivi, p. 53 17. Cfr. nota 15. 18. Marisa Madieri, Introduzione a Ambito A – Gruppo di studio 4 - Accoglienza della vita nascente e iniziative per una efficace cultura della vita: associazionismo, volontariato e chiesa locale, in “A servizio della vita umana”, CEI (a cura della), AVE, 1990, p. 210 19. ibid. 20. Ivi, p. 211