TRA GLI AMERICANI
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TRA GLI AMERICANI
TRA GLI AMERICANI L’America si mangia Los Angeles (California) ― Non si fermano nemmeno davanti alle fauci di King Kong, alle sparatorie di Miami Vice e ai gemiti di E.T., che vuole sempre tornare a casa e, apparentemente, non c’è ancora riuscito. Anche negli Universal Studios di Hollywood, dove i turisti di tutto il mondo vengono spinti qua e là, gli americani si distinguono. Nessuno mangia come loro. Nessun altro popolo al mondo mostra la stessa ingordigia annoiata, metodica, implacabile. Nessuna nazione, salvo l’America, sa passeggiare e allo stesso tempo masticare, assaggiare, piluccare, affondare i denti in hot dogs formato gigante e patatine in confezione extralarge. Molte di queste persone sono in dieta, o almeno così è lecito supporre dal momento che bevono Diet Pepsi. Ma anche di Diet Pepsi ingurgitano bicchieri che sembrano secchielli, con gli occhi innocenti di bambini in vacanza. Quando si parla di americani e di cibo, in sostanza, l’avverbio-chiave non è tanto «come» ma «quanto». Il moto da aggiungere sulla bandiera, di fianco alle stelle e alle strisce, è composto di tre parole: large, extralarge e king size. Per capirlo basta passeggiare in un supermercato di Long Beach e vedere che i sacchetti di patatine sono alti come bambini di cinque anni, oppure entrare in uno dei cinema di Hollywood. Al pubblico, si ha l’impressione, non importa molto del film. Anche perché lo intravede soltanto, nascosto dietro impressionanti confezioni di popcorn. Nemmeno in questi tempi difficili la situazione è cambiata: l’America è pronta a fare a meno di tanti piccoli lussi, ma non intende ridurre le porzioni, non rinuncia ai dolci. Tutti ― dal governatore della California alle attrici filiformi ― sembrano ipnotizzati dall’argomento «cibo». Con una passione pari solo all’incompetenza, la nazione discute di cucina, guarda in tv ometti strani che parlano di cucina, acquista libri di cucina, descrivono piatti stranieri che pochi hanno visto e nessuno sa pronunciare e, in nome del flambé, da fuoco a qualsiasi cosa capiti a tiro. Se consumassero tutto il cibo di cui discutono, gli americani non sarebbero soltanto grassi, e qualche volta obesi: esploderebbero. Parlare, invece, non ingrassa. La California, che impone agli Stati Uniti le mode che gli Stati Uniti imporranno al mondo, è particolarmente appassionata in questo gioco. Tra le ultime manie c’è il ripudio della cucina francese, dopo un amore durato oltre cent’anni. Oggi negli Stati Uniti mangiare come a Parigi viene considerato disastroso per la linea, pericoloso per il cuore e insidioso per il portafoglio. Quest’umore antifrancese sta facendo le prime vittime: qui a Los Angeles hanno chiuso i ristoranti l’Ermitage e La Serre, mentre la reputazione dell’Orangerie si sta rapidamente deteriorando. La cucina in voga, oggi, è un misto di italiano, americano e giapponese: italiano perché è buono, americano perché è di casa e giapponese perché i giapponesi sono i proprietari dei locali. Tempo fa, Los Angeles Times aveva suggerito di inserire tra i propositi per il nuovo anno questo comandamento: «Pensa alla salute, pensa ai tuoi amici, guarda quello che mangi». Suggerimento inutile perché gli americani non fanno altro. Il problema è che, dopo aver guardato quello che mangiano, se lo cacciano in bocca. L’American Dietetic Association offre alle casalinghe consigli come questo: «Impeditevi di assaggiare: prima di entrare in cucina mettete sulla bocca una mascherina chirurgica». È servito a poco: tra Natale e l’Anno Nuovo, è stato calcolato, l’americano medio mette su tre chili. Il professor Robert Bellah dell’Università di Berkeley riporta l’affascinante risultato di un sondaggio d’opinione. Alla domanda «Qual è l’oggetto nella vostra vita di cui non potresti più fare a meno?», la maggioranza degli intervistati ha risposto: «Il mio forno a micro-onde». L’ossessione americana per il cibo è tale che un terzo dei prodotti alimentari posti in commercio porta ormai qualche promessa legata alla salute. Il governo federale ha dovuto ammettere che la situazione si andava facendo grottesca e ha deciso di intervenire. Così la Food and Drug Administration ha stabilito che espressioni come «con pochi grassi» o «leggero» in futuro vorranno dire una sola cosa, e tutti i prodotti porteranno un’etichetta, se saranno grandi abbastanza da potercela incollare. L’etichetta indicherà il totale delle calorie, le calorie derivate dai grassi e i grassi complessivi, i carboidrati complessivi, gli zuccheri, le fibre dietetiche, le proteine, il sodio, le vitamine, il calcio e il ferro. Queste indicazioni verranno date «per porzioni» e occorrerà stabilire quanto grandi dovranno essere le porzioni. Sarà un giorno importante, nella storia d’America. Qualcuno, infatti, dovrà rendersi conto che la Coca Cola può essere servita anche in bicchieri inferiori al mezzo litro e che la lingua inglese dispone di altri aggettivi oltre large, extralarge e king size. Niente nubi su Las Vegas Las Vegas (Nevada) ― Las Vegas appare dopo due ore di strada. Dai cartelloni pubblicitari, i grandi casinò promettono prezzi sempre più bassi e attrazioni sempre più sorprendenti: tigri bianche nel deserto, fontane in una città assetata, foreste tropicali nello Stato della siccità. Altre proposte arrivano dalla radio, 98.1 in modulazione di frequenza, che indirizza i turisti verso gli alberghi, ripetendo ogni ora le condizioni del tempo e del traffico e non si capisce perché, dal momento che non cambiano mai: cielo azzurro, niente nuvole, strada libera. In questi giorni Las Vegas ospita la fiera dei prodotti elettronici, e brulica di rappresentanti e venditori: settantaduemila, per l’esattezza. Espongono televisori sempre più grandi e videocamere sempre più piccole. Una ditta presenta Transition 2000, «il telefono che ti cambia la voce al punto che neanche tua madre la riconosce» (da maschio a femmina, da adulto a bambino e viceversa). Nei finti giardini tropicali dell’hotel Mirage, mi fermo a parlare con i rappresentanti della «SteroStone», che produce altoparlanti camuffati da pietre. Assicurano che sono impermeabili, possono essere trasformati in fontane e si vendono bene. Non mi mostro stupito. Di molte cose si può fare a meno, ma non di una roccia in giardino che canta con la voce di Frank Sinatra. Fiere e congressi, lo scorso anno, hanno portato a Las Vegas 2 milioni di visitatori. Altri 20 milioni sono arrivati per il gioco, le donne, i matrimoni e i divorzi, le quattro branche dell’industria locale, tutte concepite pensando alla natura umana. Il declino è arrivato per l’Aids (ha reso meno popolari le ragazze di una notte), per colpa di altri Stati, che ormai hanno leggi liberali in materia di divorzi. Sono lontani i tempi in cui i legislatori del Nevada, con un genio giuridico pari allo spirito imprenditoriale, stabilirono di accordare il divorzio per «crudeltà mentale» alla moglie il cui marito leggesse il giornale a tavola, o al marito la cui moglie entrasse nel letto con i piedi freddi. Il gioco d’azzardo, invece, non tramonta. Il cliente americano non è più quel personaggio che spende molto, rischia tutto e lascia dietro di sé debiti. Oggi le autorità locali hanno studiato il giocatore medio come fosse un insetto: 47 anni, bianco, maschio, sposato, con un reddito tra i 20mila e i 40mila dollari all’anno. È venuto a Las Vegas in passato, e ha programmato il viaggio con un mese di anticipo. Rimane due o tre notti. Trovare questo «americano medio» è facile, e spiarlo è delizioso. Per questo sono rimasto due giorni nel nuovo hotel-casinò Excalibur, il secondo più grande albergo del mondo, costruito a forma di castello medioevale, con torri e ponti levatoi. Ho pedinato rappresentanti di commercio del New Jersey che pagavano venti dollari per farsi fotografare vestiti di Re Artù, e coppie del Texas che compravano un elmo di plastica e lo mettevano in testa al figlio. Ho pranzato alla Tavola Rotonda. Sono rimasto per mezz’ora davanti al «lancio della strega»: picchiando violentemente con un martello su una leva, la strega schizza in alto, e deve ricadere in una pentola. Il rischio è vincere: enormi draghi turchesi di peluche sorridono, aspettando il campione di turno. Ho chiesto al responsabile delle pubbliche relazioni se l’insieme non era grotesco. Ha sorriso: «Vede, noi non cerchiamo l’accuratezza storica. Noi vogliamo soltanto che la gente si diverta. E poi, dia retta: nessuno in America sa com’è fatto un castello medioevale.» Forse è vero. I clienti non scoppiano a ridere davanti ai camerieri vestiti da giullari, e non si chiedono perché il Villaggio Medioevale, al primo piano, ospiti sia il Caffè della Foresta di Sherwood sia l’Oktoberfest Beer Garden. Prima di partire, provano con la massima serietà ad estrarre la spada dalla roccia. Due tentativi sono gratuiti; i premi vanno da un portachiavi di plastica a un’automobile giapponese. Parlo con alcuni di questi ospiti, fingendo di ignorare che hanno un pugnale di plastica nella cintura. Qui a Las Vegas si viene per non pensare. Bugsy Siegel, il gangster ebreo interpretato sullo schermo da Warren Beatty, l’aveva intuito, quando nel 1946 decise di costruire il primo casinò — il Flamingo — in mezzo al deserto del Nevada. C’è ancora, il Flamingo. Offrono aragosta e bistecca insieme, per tre dollari e ottanta. Agli americani, è noto, piace così. Quella bugiarda Parigi Paris (Texas) ― Arrivo in questa Parigi del Texas verso sera, su una macchina piena di mappe e di popcorn, con in testa una idea: scegliere una qualunque piccola città d’America, per capire cosa s’aspetta da un presidente che ha studiato a Oxford e suona il sassofono. Paris sembrava una buona scelta. Minuscula e lontana da quasi tutto, nota soltanto per il nome, che il regista tedesco Win Wenders ha scelto come titolo d’un film diventato celebre. Riparto dopo quarantott’ore forte di una convinzione: mai ricordare Paris, Texas a Paris Texas. Lo detestano. Soprattutto, mai nominare Win Wenders. Lo odiano. Non è questione d’ingratitudine. Poco importa che il film abbia vinto la Palma d’Ora al Festival di Cannes per voto unanime della giuria. Wenders ― dicono qui ― ha imbrogliato. L’ha rappresentata come un punto nel deserto, e qui deserto non ce n’è; in città ha girato soltanto una scena. Paris Texas è una cittadina di ventiquattromila abitanti ragomitolata nell’angolo nord-orientale dello Stato dove inizia la prateria. Fondata nel 1839 su un’altura presso il Red River, bruciata tre volte, non ha vissuto i mutamenti economici e sociali legati al petrolio, vero re del Texas. «Parigi non ha mai trovato il petrolio» dicono. Per cent’anni è vissuta sul cotone; poi, durante la Seconda Guerra Mondiale, ha ospitato una base militar; oggi prospera grazie ad alcune grandi industrie che, in seguito a pressioni politiche e incentivi, hanno scelto la contea per i propri stabilimenti. Sono arrivate la Kimberly-Clark (pannolini), la Philips (lampadine) e la Campbell Soup Company, che produce minestre in scatola e sughi pronti, tra cui la Prego Spaghetti Sauce. Nessuno sa di dove venga il nome «Paris». D’altro canto, non sono molto interessati a sfruttare i vantaggi del gemellaggio. Di sapore francese, c’è soltanto una corsa ciclista (la Tour de Paris) e un negozietto d’abbigliamento (Paris Vogue). C’era anche una piccola Torre Eiffel eretta nei giardini pubblici, ma un tornado se l’è portata via. A Paris — una delle sette città d’America con questo nome — la gente è interessata ad altre cose. Nella contea il 35% della popolazione è impiegato nell’industria, il 22% nei servizi, il 14% nell’amministrazione pubblica. Il resto sono farmers, agricoltori e allevatori, che la sera mangiano al ristorante «Fish Fry». Specialità pesce gatto. Le attrazioni turistiche sono poche: c’è la piazza con la fontana, la vecchia dimora della famiglia Gibbs, ricchi interratori; la tomba di Willet Babcock, con una statua di Gesù Cristo con gli stivali da cowboy. «Questa terra» spiega l’ex-direttore del college, «è terra di conservatori democratici, nella migliore tradizione del Sud. Siamo noi che abbiamo fatto eleggere Ronald Reagan, e ora ci siamo stancati di George Bush. Clinton? Cosa vuole che le dica. Diamogli tempo. Di sicuro, la sua giovane età non ci preoccupa. Anzi, a quarant’anni si hanno più energie e più entusiamo.» In ogni strada, in ogni incontro, ritrovo l’orgoglio egocentrico della provincia americana, convinta che dal mondo possano arrivare ottime decorazioni; mai nulla d’indispensabile. Sulle tracce di baby Clinton Hope (Arkansas) ― Era dal giorno del ritrovamento del cocomero campione del mondo (122 chili) che da queste parti non festeggiavano con tanto entusiasmo: per la seconda volta in questo secolo, grazie all’elezione del concittadino Bill Blythe Clinton, i 10.290 abitanti di Hope, hanno l’impressione di vivere al centro del mondo. Ci voleva un presidente: Hope è un luogo genuinamente scialbo, pervaso soltanto da quella speciale malinconia americana che ha ispirato scrittori e pittori, e convinto milioni di americani a passare le vacanze altrove. Eppure la sorte ha voluto che il 42º presidente degli Stati Uniti nascesse proprio qui. I turisti sono ancora pochi (669 presenze dal 3 novembre, giorno dell’elezione) ma il business è avviato. In città tutti sembrano aver conosciuto il presidente, vissuto qui fino all’età di 8 anni, e molti gli attribuiscono abitudini preoccupanti: Baby Clinton, secondo alcuni, all’età di 5 anni leggeva due quotidiani, portava jeans quattro misure più grandi e seduceva le bambine portandole dietro gli alberi della scuola materna. Arrivando a Hope ― non distante da una cittadina chiamata Washington, altro segno del destino ― è difficile non accorgersi che la popolazione è in preda all’euforia. Sulle strade d’accesso ci sono cartelloni con la scritta Hope, Arkansas. Home of the 42nd President. In città, ci sono frecce, bandiere e tabelloni sui quali appare il presidente. I forestieri sono riconoscibili: il locali non si sognerebbero mai di fotografare la casa d’infanzia del futuro presidente. Lo sfruttamento di Clinton, avviene su scala artigianale. In pratica, ciascuno fa quello che gli salta in mente. Un lotto di terreno, ad esempio, viene messo in vendita con questo cartello: «Splendida area fabbricabile. La più vicina alla prima casa di Bill Clinton». I responsabili della Camera di Commercio, dopo un’iniziale incertezza se puntare sui cocomeri o sul presidente, hanno deciso di unire le due ricchezze, e hanno messo fianco a fianco sugli scaffali quanto segue: articoli da 3 dollari (libro sul cocomero campione del mondo, fotografie di Clinton alle elementari, semi di cocomero); da 5 dollari (berretti alla Clinton, tazze da caffè con volto di Clinton o cocomero, T-Shirts presidenziali); da 10 dollari (libro di ricette Clinton, ombrellococomero). Davanti alle mie proteste per i prezzi, la direttrice lascia intendere che bisogna approfittarne: è improbabile che a Hope nasca un altro presidente. L’unico articolo che la Camera di Commercio distribuisce gratuitamente è un pighevole che porta la frase pronunciata da Clinton nella notte delle elezioni (I still believe in a place called Hope –Credo ancora in un posto chiamato Speranza–), e guida il visitatore attraverso i «cinque luoghi del Presidente»: 1. Casa della famiglia Blythe Clinton, dove il piccolo Bill abitò con i nonni e la madre vedova. 2. Casa d’infanzia, dove Bill si trasferì all’età di 4 anni. 3. Miss Mary Perkins’ School, l’asilo in cui Bill Clinton si ruppe una gamba cercando di stabilire un record di velocità nel salto della corda. 4. Julia Chester Hospital, dove il presidente è nato il 19 agosto 1946. 5. Tributo a Bill Clinton, vale a dire un bassorilievo colorato, ideale sfondo per le fotografie.