Modificabilità cognitiva e plasticità cerebrale nell`adulto

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Modificabilità cognitiva e plasticità cerebrale nell`adulto
IMPULSIVITÀ E AUTOCONTROLLO
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Modificabilità cognitiva e plasticità
cerebrale nell’adulto
Francesca ha 50 anni, 2 figlie all’università, un marito che è molto coinvolto nel suo lavoro di dirigente di una ditta di ristorazione. Passa molto
tempo da sola a casa e si sente frustrata perché non ha mai realizzato il
suo sogno di laurearsi in matematica. Nessuno si aspetta più niente da lei.
Il padre di Francesca che aveva delle grandi aspettative su di lei, le ha viste
via via sfumare quando Francesca si è sposata decidendo di dedicare la sua
vita al marito e alla sua carriera politica e lavorativa. Successivamente l’ha
vista dedicare la sua vita alle figlie e ancora al marito. Neanche Francesca
si aspetta più niente da se stessa.
In un dibattito televisivo in cui delle persone parlano della decisione di
cambiare la loro vita e di iscriversi all’università in età adulta sente parlare
del concetto di modificabilità. Secondo gli esperti del dibattito, la modificabilità negli esseri umani sarebbe possibile anche in età adulta, persino
nella vecchiaia e non esisterebbe un limite alla possibilità di cambiare. In
Francesca si accende una piccola lampadina: se il marito si sta focalizzando
sempre più sui suoi interessi, se le figlie stanno sempre più seguendo la
loro strada, anche lei può riaprire il vecchio sogno e liberarlo. Almeno per
provare, vorrebbe liberarlo almeno un po’...
Francesca, con grande stupore dei familiari, si iscrive a matematica.
Acquista i primi libri di Analisi 1 e inizia lo studio con entusiasmo. Il primo
giorno si siede e per tre ore studia. Legge e rilegge il primo capitolo, le
sembra di non capire niente, le sfugge l’insieme. Sa che sono le basi e che
senza queste non può procedere, ma le lettere del foglio continuano a dire
frasi senza connessione. Decide di concentrarsi su una sola frase. Dopo
sulla seconda. Dopo una settimana in cui si applica 4 ore al giorno non ha
ancora finito il primo capitolo. Francesca è tentata di abbandonare. Non lo
fa. Con la stessa dedizione con cui si occupava di un marito distratto, si
occupa ora di equazioni e disequazioni. La seconda settimana Francesca
ha compreso bene le prime pagine. Si prepara ad affrontare le successive
pensando di dover impiegare la stessa fatica. Si accorge che qualche cosa
si sta modificando. Le lettere del foglio stanno cominciando ad assumere
sempre più significato. Nella terza settimana migliora ancora. Mano a
mano Francesca si rende conto che studiare sta diventando meno faticoso.
Adesso riesce a memorizzare con maggiore facilità; lo studio, anche se più
complesso, sta diventando efficace. Francesca è più felice.
La storia di Francesca è un esempio in cui è possibile osservare la dinamica
della «modiÞcabilità cognitiva». Francesca ha iniziato un allenamento con molta
fatica. Via via che è andata avanti, la fatica è diminuita e lo studio ha iniziato
a dare sempre più frutti. Questo stesso processo accade nella vita di persone
che si occupano di sport, di studio, di cucina, ecc. Che cos’è la modiÞcabilità?
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Quali sono le basi teoriche su cui poggia? Esiste un fondamento biologico alla
modiÞcabilità? In questo capitolo si cercherà di dare un contributo rispondendo
a questi quesiti.
Il concetto di modificabilità cognitiva
Il concetto di modiÞcabilità cognitiva affonda le radici nella letteratura che
indaga il potenziale delle persone o l’intelligenza potenziale. Esso si basa su due
principi distinti. Il primo stabilisce che i processi cognitivi e le strategie, che sono
presenti nel repertorio cognitivo di una persona, non sempre vengono utilizzati:
evidenziare il potenziale, in questo senso, signiÞca scoprire la «capacità interna»,
fornendo al soggetto delle mediazioni tra risorse interne ed esterne (Fabio, 1999;
2003; 2008; Fabio e Pellegatta, 2005a; Fabio e Peraboni, 1992; Haywood e Tzuriel, 1992). Il secondo principio riguarda lo sviluppo di capacità precedentemente
inesistenti o carenti nel repertorio comportamentale del soggetto attraverso l’interazione con gli eventi ambientali e le condizioni esterne.
La modiÞcabilità cognitiva è il presupposto stesso del potenziamento. Con
il termine «potenziamento» ci si riferisce a un range semantico ancora più ampio:
Pazzaglia e colleghi (2002) ritengono ad esempio che potenziamento signiÞchi
acquisire un senso «personale» di potere, allo scopo di sentirsi responsabili del
proprio apprendimento. Concretamente, questo può voler dire: 1) sapersi automotivare anche dopo l’insuccesso; 2) sviluppare la conoscenza, l’automonitoraggio e
l’uso autoregolato di strategie di comprensione e studio; 3) possedere convinzioni
e percezioni di sé adeguate che sostengono l’intero processo di «risollevarsi» dopo
il fallimento. Il termine ha inoltre via via assunto il signiÞcato di allenamento
cognitivo, potenziamento del cervello, dinamismo delle mente, modiÞcabilità
cerebrale.
In questa accezione più ampia, l’allenamento cognitivo è un modello di allenamento che rafforza ed enfatizza i processi cognitivi. Costa e Garmston (1999)
lo deÞniscono come un insieme di strategie, un modo di pensare e lavorare che
modella il pensiero e le capacità di soluzione dei problemi. In altre parole l’allenamento cognitivo aiuta le persone a modiÞcare la propria capacità di modiÞcare
se stessi.
Un programma di potenziamento aiuta quindi non solo a sviluppare nuove
abilità, ma anche a utilizzare in modo migliore quelle che già si possiedono, ad
ampliare il patrimonio della mente e a spingerlo verso il cambiamento. Si parte
appunto da ciò che già si possiede e si iniziano nuovi modelli di azione, così che
il processo di potenziamento continui.
Modello teorico e operativo della modiÞcabilità
La realizzazione della modiÞcabilità avviene grazie al passaggio dai processi
della logica di base ai processi più complessi. In questo passaggio si realizza un
processo di interiorizzazione progressiva che consente di «liberare» risorse per
accedere ai livelli più complessi.
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La Þgura che segue (Fabio, 2003; Fabio e Pellegatta, 2005b) ci mostra come,
attraverso l’allenamento che porta all’automatizzazione, sia possibile modiÞcare
i livelli di partenza.
∞
…
LIVELLO C
(ancora più complesso)
Investimento totale di risorse
LIVELLO B
(più complesso)
Investimento totale di risorse
Automatizzazione e
svincolo di risorse
Automatizzazione e
svincolo di risorse
Automatizzazione e
svincolo di risorse
LIVELLO A
Investimento totale di risorse
Fig. 1.1 Passaggio dai processi della logica di base ai processi più complessi (tratto da Fabio,
2003).
Un esempio chiarirà questi passaggi. Supponiamo, collocandoci al livello A della
piramide, che Anna a 45 anni voglia imparare a giocare a scacchi. Inizialmente avrà
bisogno di comprendere i movimenti di ciascun pezzo della scacchiera. Fino a quando
dovrà impegnare risorse attentive su questa abilità di base tutta la sua capacità sarà
investita su di essa, e per Anna sarà molto difÞcile pensare in termini strategici se
deve ricordarsi che il cavallo si muove a L con due caselle più una o con una più due;
quando poi avrà automatizzato il livello di base e non avrà più bisogno di impegnare
risorse su questo livello più semplice, potrà spostare la sua attenzione e investire
le sue risorse su un livello più complesso di logica, ad esempio, imparare le prime
strategie di apertura (livello B) grazie al fatto che ha automatizzato i movimenti dei
pezzi; e ancora: per lei inizialmente sarà difÞcile pensare a una strategia globale di
attacco e difesa se le sue energie attentive sono focalizzate su una buona apertura;
mano a mano che avrà automatizzato anche il secondo livello, potrà sviluppare livelli
ancora più alti e così via. Tornando al modello espresso prima, attraverso l’allenamento che porta all’automatizzazione, è possibile modiÞcare i punti di partenza,
arrivare a livelli di logica più complessa ed espandere i propri domini di conoscenza. Questo presupposto è valido sia per quanto riguarda i fattori comportamentali
(nel campo motorio ad esempio pensiamo come l’allenamento del corpo potenzi
e favorisca la prestazione Þsica), sia per quanto riguarda quelli emotivi (pensiamo
come l’allenamento a usare le parole delle emozioni aiuti a stare meglio), sia inÞne
per quanto riguarda i fattori cognitivi (pensiamo ad esempio come l’allenamento
a prestare attenzione selettiva agli stimoli esterni consenta di automatizzare delle
strategie e di accedere a livelli sempre più alti di attenzione).
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Nella parte alta della piramide c’è il simbolo dell’inÞnito: indica che questo processo non ha mai Þne, che è sempre possibile cambiare e attuare ulteriori
processi di crescita.
Oltre alla dinamica del trasferimento di informazioni che è coinvolto nell’accesso alla logica più complessa, è importante automatizzare bene la base, in modo
che nelle abilità di ordine più complesso non si risenta del «peso» della mancata
automatizzazione di quelle di base.
Questa evoluzione avviene con una dinamica simile nelle emozioni, nei comportamenti e nelle cognizioni. La Rational Emotive Therapy (RET) ha ampiamente
sottolineato le interconnessioni esistenti tra questi tre sistemi (Di Pietro, 1998; De
Silvestri e Di Pietro, 1998; Baldini, 1998): secondo questi autori, l’essere umano
è molto complesso e i suoi processi psicologici funzionano in modo interattivo
e si inßuenzano a vicenda. La Þgura che segue (Fabio, 2003) esempliÞca bene
questa interazione.
Cognizioni
Sé
Emozioni
Comportamenti
R
E
L
A
Z
I
O
N
E
Fig 1.2 Il Sé come interconnessione tra cognizioni, emozioni, comportamenti e relazione tra
Sé diversi.
Cognizioni, emozioni e comportamenti, pertanto, non vengono mai vissuti
dagli esseri umani come fenomeni isolati, anzi, spesso si sovrappongono in modo
considerevole: basta modiÞcare uno solo di questi aspetti per ottenere modiÞche
negli altri due.
In questa ottica, il modello qui proposto prende in considerazione, a livello
intrapsichico, il sé nella sua complessità con i tre livelli espressi nella Þgura, ma
non trascura, a livello interpsichico, il ruolo svolto dall’interazione sociale e dalla
relazione: qualunque processo di cambiamento infatti acquista senso e signiÞcato
solo se fondato su una buona relazione.
I presupposti biologici e la plasticità cerebrale
Per quanto riguarda i fondamenti biologici della modiÞcabilità, il termine che
rappresenta il corrispondente a livello neurologico della modiÞcabilità cognitiva,
emotiva e comportamentale è la neuroplasticità.
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La neuroplasticità indica la capacità del nostro cervello di modiÞcarsi grazie
alle interazioni con l’ambiente esterno.
Per molto tempo si è pensato che il nostro cervello fosse immutabile, rigido,
interamente determinato geneticamente; il dogma della Þssità del sistema nervoso
eliminava qualsiasi speranza di modiÞcabilità, di cambiamento. Si pensava che
l’ambiente non potesse avere alcuna inßuenza sul funzionamento delle sinapsi e
sulla struttura dei neuroni, i quali erano destinati a deteriorarsi con il tempo. Da
questo dogma derivava quindi l’impossibilità per le persone nate con problematiche
di tipo neurologico o mentale, o che avevano subito danni cerebrali, di migliorare
le proprie condizioni di vita conseguenti alla loro menomazione o invalidità, ma
anche l’improbabilità, per persone con un livello medio di intelligenza, di riuscire
a raggiungere livelli di prestazione più alti.
Queste convinzioni si basavano sull’impossibilità di osservare a livello
microscopico il sistema nervoso e la sua attività per poterne scoprire le caratteristiche strutturali e funzionali, sull’idea che le persone che avevano subito danni
cerebrali raramente guarivano completamente e sulla visione del cervello come una
«macchina» che, pur facendo cose straordinarie, non poteva cambiare o crescere
(Doidge, 2007).
Attorno agli anni Sessanta, soprattutto grazie a nuove tecniche non invasive
per lo studio del sistema nervoso e dell’attività cerebrale in tempo reale (risonanza
magnetica, tomograÞa, ecc.), si è scoperto che in realtà il cervello è un organo
dinamico, modiÞcabile, plastico, sia dal punto di vista strutturale che funzionale;
si è cominciato a parlare di plasticità nervosa, plasticità neuronale, plasticità delle
sinapsi. Il termine plasticità etimologicamente ha due signiÞcati: deriva dal greco
plassein («modellare») e indica la capacità di ricevere una forma e di dare una
forma. Come sottolinea Malabou (2007), tuttavia, la plasticità non riguarda solo
questi due tipi di capacità, ma ne implica una terza: la «capacità del sistema nervoso di modiÞcare una forma che è essa stessa suscettibile di ricevere o creare».
Con questa affermazione Malabou vuole evidenziare l’alto livello di modiÞcabilità
del sistema nervoso, che perfeziona i propri circuiti per adattarli a svolgere più
efÞcacemente le varie funzioni o si riorganizza per sostituire delle componenti che
hanno subito un danno. Non bisogna tuttavia confondere il concetto di plasticità
con altri termini che, seppur simili, non hanno gli stessi signiÞcati. Alcuni di questi
sono: ßessibilità, maturazione ed elasticità (Will
et al., 2008).
La ßessibilità indica la capacità di ricevere
una forma, mentre il cervello è plastico poiché
ha la capacità intrinseca non solo di ricevere, ma
anche di darsi una forma, di modiÞcarsi. Paillard
inoltre sottolinea che per parlare di plasticità il
cambiamento deve essere sia di natura strutturale
che funzionale; se i cambiamenti strutturali e funzionali sono solo e semplicemente associati alle
fasi della normale maturazione di un sistema non
si può parlare di plasticità, poiché essa va ben oltre
Fig 1.3 «Cervello inscatolato», non può subire modiÞche.
gli aspetti maturativi del cervello; elasticità è il
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termine che più si avvicina al concetto di plasticità, tuttavia anch’esso è limitante,
poiché indica la proprietà di un corpo deformato di tornare alla forma e al volume
originari quando la forza esercitata su di esso cessa, e la plasticità non riguarda
solo questa proprietà del cervello.
Anche Ansermet e Magistretti (2008) speciÞcano il termine plasticità, contrapponendolo e sostituendolo a quello di «interazione»: nel modello interattivo
l’espressione del genotipo è modulata dall’ambiente, mentre nel modello della
plasticità il genoma e l’ambiente si trovano sullo stesso livello e interagiscono,
grazie alla plasticità, per produrre un fenotipo unico.
Ma la plasticità cerebrale è presente solo durante lo sviluppo di un soggetto
e in conseguenza di una lesione cerebrale o è anche una caratteristica del cervello
dei soggetti in età adulta?
Per diversi anni si è pensato che, dopo l’infanzia, le cellule cerebrali deteriorate, morte o sviluppate in modo inappropriato non potessero essere sostituite. In
seguito, alcuni esperimenti hanno dimostrato il contrario, cioè che la plasticità è
presente, seppur in maniera ridotta, anche in un cervello adulto e che la neurogenesi
non si arresta inesorabilmente durante lo sviluppo; anche in età avanzata, infatti,
il cervello ha la capacità di creare nuovi neuroni, di riprogrammare le proprie reti
neurali e di superare danni derivanti da traumi, lesioni o malattie (Begley, 2007;
Bartels, 2008). Inoltre, come afferma Stiles (2000), non bisogna pensare alla
plasticità solo come una «risposta» del cervello a una lesione o a una condizione
patologica — situazioni in cui la plasticità è certamente più evidente —, ma occorre considerarla come una proprietà fondamentale del normale funzionamento
neuronale e cognitivo. L’attività cerebrale, i cambiamenti, i nostri comportamenti
dipendono infatti da una costante interazione tra fattori genetici, ambientali e sociali
(Craik e Bialystok, 2006): un esercizio Þsico, sostanze come per esempio i farmaci,
interventi riabilitativi, esperienze, stili di vita, stimolazioni ambientali e situazioni
di apprendimento sono tutti fattori che modellano le connessioni sinaptiche del
nostro sistema nervoso (Blundo, 2007; Malabou, 2007).
Fattori genetici
Fattori ambientali
Fattori sociali
Fig 1.4 Cervello in interazione.
Da questa panoramica sulla plasticità, possiamo dunque affermare che essa
rappresenta la capacità dei circuiti nervosi di sfuggire alle restrizioni imposte dal
corredo genetico e di variare la loro struttura e funzione in risposta agli stimoli
esterni, alle modiÞcazioni ambientali, all’esperienza e anche ai fattori intrinseci
del soggetto (Blundo, 2007; Ansermet e Magistretti, 2008).
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Per dimostrare che il cervello è inßuenzato dall’ambiente esterno, il quale
determina modiÞche nervose e comportamentali, Mark Rosenzweig, intorno alla
metà degli anni Sessanta, mise a punto un esperimento con i ratti. Creò due gruppi
e li allevò in due ambienti opposti dal punto di vista degli stimoli offerti: uno ricco
e uno povero. I risultati mostrarono chiaramente che i ratti allevati nell’ambiente
ricco di stimoli avevano un cervello più pesante rispetto agli altri, con una corteccia
più spessa, con un maggior numero di cellule gliali e con neuroni con un maggior
numero di spine dendritiche (Rosenzweig e Renner, 1986).
La neuroplasticità in età adulta
Malabou (2007) distingue tre «ambiti di azione» della plasticità, indicandoli
come plasticità di sviluppo, legata alla genesi e conformazione della rete neurale
nell’embrione e nel bambino, plasticità di riparazione, che indica il tentativo di
compensazione di una lacuna — provocata da una lesione, da una situazione patologica, da un trauma, ecc. — e il rinnovamento neuronale (o neurogenesi secondaria),
e plasticità di modulazione dell’effetto sinaptico, legata alla modiÞcabilità delle
connessioni neuronali nel corso di tutta la vita.
Per quanto riguarda la plasticità di modulazione, i livelli sui quali essa opera
(Stiles, 2000) sono la plasticità dei sistemi neurochimici, la plasticità delle connessioni neuronali e la plasticità del comportamento.
La plasticità dei sistemi neurochimici riguarda la modulazione della forza
delle sinapsi determinata dalle ammine e dai neuropeptidi che agiscono sulle terminazioni presinaptiche, modiÞcando la quantità di neurotrasmettitori rilasciati a
ogni scarica di potenziale.
Questa modulazione può risultare di breve o lungo termine, a seconda della
sua frequenza, e può essere inßuenzata anche dalla modiÞca duratura della concentrazione di calcio, che permette la fusione delle vescicole con la membrana
presinaptica e quindi determina la quantità delle molecole di neurotrasmettitori
rilasciata nella fessura sinaptica (Destexhe e Marder, 2004; Ansermet e Magistretti,
2008). A livello postsinaptico la plasticità riguarda invece l’inßuenza dell’azione
dei neurotrasmettitori sull’eccitabilità
neurale e la presenza di canali di tipo
metabotropico, che si differenziano
da quelli di tipo ionotropico poiché
non creano alcun canale, bensì attivano degli enzimi che formano i
«messaggeri secondari», molecole
che modulano l’attività dei neuroni
postsinaptici. Questi messaggeri possono modiÞcare l’attività dei recettori
ionotropici aumentando il numero
di ioni che attraversano il canale —
prolungando l’apertura di quest’ultimo — rafforzando così l’effetto dei Fig 1.5 Sinapsi.
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neurotrasmettitori. Oppure possono inserire dei recettori ionotropici «di riserva»
all’interno della membrana del neurone postsinaptico, che risponderà in maniera
più efÞcace al neurotrasmettitore rilasciato (Ansermet e Magistretti, 2008).
Questi meccanismi di modulazione e regolazione dei sistemi neurochimici a
livello dei neuroni e delle sinapsi rappresentano i meccanismi grazie ai quali gli
avvenimenti esterni, le esperienze vissute, le sostanze assunte dal nostro organismo
lasciano una «traccia» che viene registrata in modo persistente nei circuiti neurali.
Questa traccia è dinamica poiché può essere trascritta più volte in modo differente
e modiÞca ogni volta lo stato precedente, facilita il trasferimento di informazioni
e quindi l’efÞcacia delle connessioni neuronali e la loro struttura: ogni stimolo
esterno, che può in realtà essere anche interno — relativo alla vita psichica, generato a partire da uno stimolo esterno — viene percepito e registrato nei circuiti
nervosi, formando così una realtà interna, che verrà richiamata alla coscienza nel
momento opportuno. La traccia registrata verrà però conservata nel tempo solo se
la trasmissione sinaptica è stata potenziata con una stimolazione ad alta frequenza
(Long Term Potentiation, LTP), che aumenta l’eccitabilità del neurone postsinaptico. Esistono infatti anche dei meccanismi inversi di plasticità, che diminuiscono
l’efÞcacia sinaptica e che vengono chiamati Long Term Depression (LTD); si tratta
di stimolazioni a bassa frequenza che depolarizzano più debolmente il neurone
postsinaptico. I meccanismi di facilitazione sinaptica sono limitati a una o poche
sinapsi a livello di ciascun neurone.
Weinberger (2004) ha effettuato un esperimento con dei topi da laboratorio
per dimostrare come le connessioni sinaptiche possono essere modiÞcate, a lungo
termine o permanentemente, dall’apprendimento (in questo caso di un comportamento).
Si tratta di un apprendimento di tipo associativo poiché al topo viene presentato un suono di una data frequenza, subito prima della somministrazione di una
scarica elettrica, di debole intensità ma sgradevole. Il topo, dopo alcune sedute,
associa i due eventi e mette in atto una strategia di evitamento non appena gli viene
presentato il suono (se è della stessa frequenza) e mostra lo stesso comportamento
anche in assenza di scarica elettrica; questo signiÞca che il topo ha appreso che il
suono preannuncia una sensazione non piacevole e cerca di evitarla.
Weinberger ha studiato l’attività neurale del topo durante le sedute di apprendimento e in particolare ha registrato l’attività delle regioni del cervello coinvolte
nell’elaborazione e nella memorizzazione delle informazioni sensoriali (soprattutto
l’ippocampo). Ha scoperto che, in seguito all’apprendimento della strategia di
evitamento, a ogni presentazione del suono, anche in assenza di scarica elettrica,
l’attività del cervello risultava sostenuta; questo perché l’apprendimento aveva
lasciato una traccia sulle sinapsi dei neuroni dell’ippocampo, che nelle sedute
di condizionamento non rispondevano al suono presentato. Inoltre ha scoperto
che questa traccia si è conservata nel tempo, poiché l’attività neurale in seguito
alla presentazione del suono è continuata anche molto tempo dopo le sedute di
apprendimento.
Un altro fenomeno di modiÞcazione strutturale che contribuisce all’aumento
dell’efÞcacia sinaptica è la duplicazione delle spine dendritiche, che ingrandiscono
notevolmente la zona di ricezione del neurone postsinaptico.
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La plasticità tuttavia non riguarda soltanto i neuroni,
bensì anche le cellule gliali e i processi di neurogenesi
dell’età adulta. Le cellule gliali sono anch’esse presenti
nel cervello, ma hanno delle funzioni secondarie rispetto
ai neuroni: esse svolgono principalmente la funzione di
sostegno e danno forma e consistenza al tessuto nervoso. A
essere coinvolti nei processi di plasticità sono gli astrociti,
un particolare tipo di cellule gliali, i quali «potenziano» i
neuroni e le connessioni sinaptiche al bisogno, attraverso
il glucosio dei vasi che irrorano il cervello (Ansermet e
Magistretti, 2008). Per quanto riguarda la neurogenesi,
invece, si tratta di un processo che permette la generaFig 1.6 Passaggio dal bottone sinaptico al neurone zione di nuovi neuroni in età adulta, grazie all’effetto di
postsinaptico.
alcuni fattori come l’esperienza passata, l’apprendimento,
l’esercizio mentale e Þsico; questo processo dimostra che anche il cervello di una
persona adulta è modiÞcabile.
Le persone adulte, soprattutto quelle più anziane, hanno una grande abilità
nel trovare soluzioni per risolvere problemi in cui è fondamentale il bagaglio di
conoscenze, di apprendimenti e di esperienze passate. Hanno infatti un tipo di
intelligenza che viene deÞnita «cristallizzata», che si distingue da un’intelligenza
«ßuida», tipica dei più giovani, i quali hanno più capacità nel risolvere problemi
legati a situazioni nuove e astratte (Robertson, 1999).
L’esperienza ha dunque un ruolo importante anche in età adulta poiché non
solo può creare nuovi neuroni, ma può anche plasmare le connessioni sinaptiche
già esistenti e modiÞcare le mappe cerebrali, ampliando le funzionalità dei neuroni
e attivando zone del cervello meno sviluppate.
Un esempio di esperienza che modiÞca la struttura e la funzione cerebrale è
quello dei tassisti con maggiore anzianità di servizio, i quali hanno memorizzato
con il tempo maggiori informazioni visive e spaziali, generando così l’aumento
del volume dell’ippocampo destro, struttura del cervello deputata a queste funzioni
(Blundo, 2007).
L’esercizio Þsico favorisce lo sviluppo dei neuroni e permette un funzionamento più veloce del cervello, favorendo l’abbassamento dei tempi di reazione e
determinando una notevole agilità mentale. In generale l’esercizio Þsico riguarda
il mantenimento della forma Þsica, del tono muscolare, dell’articolarità, ecc., ma
si riferisce anche all’allenamento di singole parti del corpo. Questo è quello che
avviene, ad esempio, quando una persona si esercita al pianoforte: all’inizio utilizza diversi muscoli per suonare una singola nota, poi piano piano solo i muscoli
del dito che deve suonare la nota; perfezionando l’abilità, anche i neuroni che
utilizzerà saranno minori e usati in maniera più efÞciente (Doidge, 2007). Anche
l’esercizio mentale e l’apprendimento generano nuovi stimoli, che determinano
la nascita di connessioni sinaptiche e mantengono il cervello «in allenamento»;
ciò permette di migliorare le prestazioni di un soggetto e di rallentare gli effetti
biologici dell’invecchiamento di una persona anziana.
Jenkins et al. (1990) hanno effettuato un esperimento su una scimmia per
dimostrare come l’apprendimento inßuisca sui neuroni e sulle mappe cerebrali:
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innanzitutto hanno mappato la sua corteccia sensoriale, poi le hanno insegnato a
toccare un disco ruotante con la forza di un dito, dandole un pezzetto di banana se
essa esercitava una certa pressione per dieci secondi; in questo modo la scimmia
doveva imparare a toccare il disco con delicatezza e valutare accuratamente il
tempo. La «rimappatura» del cervello della scimmia, in seguito a migliaia di prove, ha mostrato che l’area della punta del dito si era ampliata; non solo, i singoli
neuroni funzionavano meglio, erano diventati più efÞcienti ed era necessario un
numero sempre minore di tentativi per svolgere lo stesso compito.
Per quanto riguarda il cervello umano, sono state le tecniche di brain imaging
e neuroimaging — che misurano il metabolismo cerebrale, ritenuto proporzionale
all’attività elettrica dei neuroni e in particolare delle connessioni sinaptiche — a
permettere di dimostrare che la modularità delle aree corticali, ossia la loro specializzazione in determinate funzioni, non è Þssa e immutabile.
A tal proposito Pascual-Leone e i suoi collaboratori (1995) hanno effettuato
un esperimento per dimostrare come la neuroplasticità cambia la struttura e la
funzione delle aree cerebrali. Si tratta di un esperimento che fa da «ponte» tra la
scoperta dell’inßuenza degli stimoli esterni sui neuroni e le nuove ricerche, che
dimostrano come anche gli stimoli endogeni riescano a modiÞcare la struttura del
cervello.
Pascual-Leone chiese a un gruppo di volontari di eseguire con una mano un
semplice esercizio al pianoforte, per due ore al giorno, per cinque giorni consecutivi; essi dovevano svolgere la sequenza di movimento delle dita in maniera
ßuida, senza pause e facendo particolare attenzione a rispettare le sessanta battute
al minuto del metronomo. Ogni giorno, alla pratica di due ore, seguiva un test,
che consisteva nell’esecuzione di 20 ripetizioni di esercizi; con il passare dei
giorni diminuiva il numero di sequenze di errori (controllate da un computer)
e la durata, l’accuratezza e la variabilità degli intervalli tra le pressioni dei tasti
miglioravano signiÞcativamente. Visionando le aree cerebrali dei soggetti, prima
e dopo l’esercizio, Pascual-Leone registrò dei cambiamenti signiÞcativi: 20 minuti dopo l’esecuzione, l’area cerebrale deputata al movimento delle dita della
mano esercitata andava colonizzando le aree contigue; la corteccia cerebrale che
controllava il movimento, quindi, si espandeva e questo ampliamento aumentava
con il passare dei giorni.
Successivamente Pascual-Leone chiese a un altro gruppo di volontari di eseguire lo stesso esercizio solo mentalmente, immaginando come avrebbero mosso le
cinque dita per produrre le note dello spartito; il risultato fu lo stesso: l’esecuzione
mentale attivava i medesimi circuiti motori di quella reale e l’area della corteccia
deputata al controllo dei movimenti delle dita aumentava.
Ciò dimostrò che la modulazione plastica dei circuiti neuronali può cambiare,
non solo in conseguenza delle esperienze esterne e degli apprendimenti concreti,
ma anche in seguito a un allenamento semplicemente mentale (Pascual-Leone et
al., 2005).
Abbiamo parlato di plasticità derivante dalla modiÞcazione delle sinapsi esistenti e dalla nascita di nuove sinapsi e di plasticità che modiÞca la struttura delle
aree corticali e ne riorganizza le funzioni; esiste però un altro tipo di plasticità, che
deriva dall’eliminazione di quelle sinapsi che risultano «depresse», poco utilizzate
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