commentarii de bello poetico (2008)
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commentarii de bello poetico (2008)
OFFICINA DI GIOVANI SCRITTORI COMMENTARII DE BELLO POETICO (2008) ANTOLOGIA IDEATA E CURATA PER CONTO DEL LICEO CLASSICO STATALE ‘GIULIO CESARE’ DI ROMA DA GIUSEPPE ELIO LIGOTTI I GIOVANI SCRITTORI (in ordine di apparizione) Michele PICOZZI Francesca ROSCINI Livia VICENTINI Grazia Maria MARZO Luisa IERVOLINO Benedetta GIULIANI Flavia CRISCIOTTI Sara BELLI Ileana CAMERATA Carlotta DE GAETANO Annamaria LAUDINI Stefania D’AMICO Margherita GALLO Francesco LOSAPIO Martina BORZI Michele PICOZZI (1992) terzine dantesche Piango ancora per te. Per te. Da solo. Non vedo aiuto alcuno giù dal cielo; nessuno qui mi dice ‘Io ti consolo’: mi copre gli occhi un opaco velo. Mi è rimasta compagna solitudine: attorno al cuore e all’anima: sfacelo. Negli altri la consueta mansuetudine: poco interesse, poco li riguarda questo mio stato aperto d’inquietudine. Passando al guardo mio v’è una maliarda, (passando) in un quartiere malfamato. La osservo e lei stupita, lei mi guarda. Ma certo non sarà che a lei abbracciato (e qualcosa di più forse) andrà via ‘sta presenza che mi fa amareggiato. Il fatto, Amore, è che io non ti ho più mia. IRIS Ti ricordo Iris, occhi di cerbiatto: lo sguardo grande vivo di tristezza, gambe da fenicottero. Ma ti vedevo come una gazzella o forse appunto proprio come un cervo che non può stare in gabbia perché sempre orizzonti nuovi brama tinti di tramonti e amarezze viola. D’averti vista in lacrime mai credo: che piangessi era certo, lo sapevo, ma di persona mai posai i miei occhi su quel tuo sguardo più vero di donna. Adesso mi dico “meglio così”. Sì, perché avrei visto piangere il mondo. SAN VALENTINO Ma c’è un pensiero che mi fa tremare e che mi scuote in questi vespri infami: è che quel giorno inutile certo non sarai sola: ma qualcuno ti porterà al cine e mentre mangerai un gelato, sì lui mangerà te e sarà buffo tanto da portarsi nel cuore un tuo sorriso. Per questo non lo odio ché è stata forse solo colpa mia. BEATITUDINE Balli su quella sedia bella come una statua greca di mano e tempo. Forse non hai interesse d’altri ma ti fai turbar da una diversa luce. NATA RIMA (acrostico mascherato) Allora dimmi cosa mendace dovrei forse raccontarmi al solo scopo di ridere senza più altri turbamenti. Per me i soli tuoi tremendi no temo: sono urla assassine che forano la mente. 23/XI Il perderti m’è ormai cosa assai usata: guardarti senza proferir parola, ‘sservarti da lontano indifferente. Perché non è ragione e meno ancor coraggio che mi ti imprime sulla pelle a fuoco come uno strano dolce tatuaggio Quasi spiro sconvolto e non mi resta che tentare un canto del quale non conosco melodia… SCONVOLTO L’ho sognato… le labbra sulle tue. Non so chi sia né quale faccia abbia, ma infine è vero: esiste. Lo so da pochi giorni, e appari tu. Ma non mi guardi, cerchi un accendino. Hai solo voglia di una sigaretta. NELLA TUA MENTE (Io, lei, e gli amici) Lei) Io non lo so se ‘vero potrei amarti e non capisco ‘meno le intenzioni che avevi o che hai. Non vedo avvicinarti. Non riesci a controllare le passioni come uom farebbe solito né sai come porti e le varie alternazioni incerta fan danzar la voce che hai e fanno ben capir che nel parlarmi solo di poco mi avvicinerai Io) Oh donna non hai torto. Non guardarmi se con quegli occhi puoi svelare il mondo. Impacciato di più ora non farmi se nel pensiero tuo mi vuoi giocondo e quel poco che basta a un sorriso che tutto fa veder perfetto e tondo. Ti cerco anche perché qui sul mio viso sarei ben più pulito dentro e fuori, e mi colori i dì col tuo bel riso Lei) La posso immaginar da tutti i pori tuoi uscir felicità assai rinnovata, e se ti rendo i giorni ben migliori mi giunge assai imprevista ma è arrivata dolce l’affermazione e il complimento. Mi fai sentire sì felicitata ma di reazioni tue non mi memento e resto qui stupita in certo senso: non vorrei già ferir tuo il sentimento Io) Non posso dir menzogna a quell’immenso, ‘ché so mi carpiresti ben sicura; ma di così piacerti giammai penso e profonda si radica paura ‘ché sicuro non son se sai capire e rapida si fa ogni cosa dura. Idea non ho sul pormi, men sul dire: rimango appeso aspettando il dimane fermo sui piani, senza niuno agire Amici) Sappiamo, Michele, come rimane di lei la fame che svuota e riempie. Di fuggevoli guardi hai fatto il pane e quel dolce disio che ora si adempie quando la senti dalle punte al cuore; e pare il sangue ti scoppi le tempie pur nel pensare a quant’è bello un fiore. ‘Ché letteral la senti batteria e dea l’adoreresti per delle ore Io) Sì, miei amici, ma so che non è mia. La vedo augello, libera: e là vola, ma si allontana mai di lei pazzia. La guardo e temo poco sarà sola: se non avrò il coraggio di far niente tutto si annullerà il tempo che amola Lei) Ragazzo, non ho immagine tua in mente. Un’emozione leggo: in te persiste ma pari sì incostante e impaziente. Ho detto mai qualcosa che voi audiste…? E perdona se ‘l feci. Dispiaciuta. Di te avrei amato quel sorriso triste… Più utile sarebbe stato in primis se avessi sussurrato “ti amo Iris”… Sonetto Le orecchie certo m’han tagliato allora; gli amici d’ascoltar mi rifiutavo 'contar che dargli retta una mezz’ora sarebbe gran menzogna dir "tentavo". Tu strega e fata hai preso qui dimora: mi sei arrivata e io non ti aspettavo. Migliore mi rinnovi certo ancora e uomo sono nuovo, non ignavo. Perchè vivendo un nuovo stato mero platonico, sì, certo, ma felice avrei dovuto abbandonar quel ch’ero? Adesso non ti passa mi si dice e placido rispondo veritiero "Di qui mi tira fuori neanche Nietzsche". VENTOTENE Senso d’umido e sabbia tra le dita e un vento di maestrale che scompiglia i capelli. I miagolii di un gatto e il pianto di un gabbiano e un tramonto al sole e la tua assenza e il frangersi delle onde. Solo un goccio di mare. NEL RICORDO DI EMOZIONI FUTURE Scrivo perché un pulcino che dal nido cade credo potrà un giorno volare e ne ho avuto la prova Scrivo perché anche una carezza può somigliare a uno schiaffo e forse fa più male soprattutto se a darlo è la Fortuna Scrivo anche per chi amore nutre vero ma anche per quelli che piacevolmente ne restano ingannati Ho scritto perché a mio modo ho vissuto e ti ho desiderata e ho sognato la tua mano passarmi fintantoché vivevo tra i capelli nel ricordo di emozioni future SIGARETTA Sei forse per me l’unica compagna. Mi vai al cervello e rapida ogni pensiero scacci lasciando solo fitta e nera nebbia. ‘Contrario puoi donare anche incubi terribili: se sia vera salvezza non lo so ma assieme a te mi sento Mitridate per questo tuo veleno a rate. Francesca ROSCINI (1991) VITE Cadevano le foglie lentamente quand’ecco un soffio di vento le scosse. Sorpresa osservo con tutta la mente quelle lacrime chiare scure rosse, sì tante che a me paiono infinite. Giacciono a terra prive di onore e qui impietrite, ma del sole il respiro le tien vive e quella loro linfa ancora spera che presto torni, verde, primavera. PIOGGIA La pioggia calpestata ora dal vento d’orgoglio romba con nuvole nere e suona e stride ma senza un lamento di nuovo colore tinge le sere. STELLE O carro di stelle (antiche sorelle) che da sempre viaggia come mare e spiaggia. Io guardo curiosa di cometa ansiosa da un ruvido tetto col cuore a me stretto e occhi lucenti di infiniti intenti. Respiro la luce che luna produce là su fra le stelle antiche sorelle. Sempre accese sono le luci ma quando le vane speranze svaniscono come le danze arduo è dirsi ‘ora ricuci’. Fin tanto che i muscoli sono freschi nei loro movimenti e ancor di più nei loro intenti ci si illude di un grande dono: infame e straordinario che a suo modo del calendario fa a meno, ma poi ci si accorge che ogni dì il sole piano sorge e ci si ricorda che ha fine tutto tranne il cuore e le mine. Ma quando torna fresca luce come splende forte il cuore e vola e libero produce melodie senza alcun timore. ABBECEDARIO Ancora Bagnati Ci stringiamo, Dune E venti in una Fredda e umida Giornata di pioggia Hanno il sopravvento. Il mare mormora La luna appare Ma noi Non temiamo Ostacoli: Passeranno Quando il buio però Riempie l'aria e la Sabbia: Tremo. Un lampo Veloce incide una Zeta, ed è notte. Sembra oramai tremare torbido il cielo e mosso : colora in questo mare che di corrente è rosso. Piccole gocce di acqua tintinnano veloci cadono acqua su acqua e paion tante voci. Cantano per il Vento che è loro direttore e smuove l’aria lento accanto lì al dolore della nascosta luna. Lei osserva la tempesta lì verso quella duna piange pallida e mesta. IL MARE DI SERA Un mare crespo e denso di tenue schiuma intero tinto a fondo di incenso lontano è ancor più nero. Nel mare ondoso sembro scivolare tra onde di acqua e vento e il fondo ansioso non accontentare voglio, ma lamento nei piedi e nel fiato normale stanchezza. Mi stendo leggera, ho sul viso una brezza, laggiù sdraiato il mare lui di sera. UN PETTIROSSO Vedo nascosto su quell’alta cima un pettirosso che con le ali mima un albatro, e poi cade per troppo ardire di quel grande volo: con quelle piume così vive e rade atterra e lì si gira tutto solo. FERMAGLI Uno strano intreccio di dettagli caratterizza quei buffi fermagli che strettamente posano i loro arti fra i capelli in così tante parti sparsi e lunghi come tanti rami o tovaglie dai fini ricami. Trattengono senza alcun timore quei fili scomposti in più dimore e nascosti da quello spessore di una chioma che sembra di more, non temono certo oscurità né sono affetti da vanità. GIOCO Attorciglia contento quel buffo fil di rame con uno sguardo attento come fosse un esame. Che cosa costruisce se non quella figura che per prima intuisce? Con manina sicura una bella spirale tiene lui soddisfatto e forse ciò che ha fatto vi sembrerà banale, ma quella attività almeno in quella prova il suo percorso trova nella normalità e un attimo di pace nel mondo che a lui tace. SOLO UN DOPPIO ARCOBALENO Prima parte 1 Avanzava a passi lenti sotto la pioggia di quel venerdì. E la grigia Parigi partecipava allo stato d’animo del suo cuore: Jerome aveva tradito la sua fiducia. Continuava a passi sempre più lenti, quando infine si fermò davanti a una vetrina. Si guardò le scarpe: erano completamente e inesorabilmente bagnate. Si specchiò tra le gocce d’acqua che scivolavano sulla parete liscissima e iniziò a ridere. Una risata che si ostinava a non voler scegliere tra l’ironia e l’isteria; ma in certi casi non è certo l’affidabile mente a decidere. I lunghi capelli rossi si affacciavano sulle spalle coperte appena da un maglioncino nero, che traforato lasciava intravedere la maglietta argentata. Gli occhi di un azzurro vivo come il mare della sua Bretagna erano ora grigi, tanto che quella maglietta sempre di un colore così spento appariva, in quella circostanza, brillante. Improvvisamente smise di piovere. Istintivamente volse lo sguardo al cielo. Com’era grande! Quell’infinità la fece sorridere, ma per una strana legge, che lei si divertiva a chiamare “la legge dell’autobus che frena in corsa”, le lacrime continuavano a scendere dai suoi occhi, loro così simili al vetro lì accanto. Come quel vetro lei avrebbe presto smesso di piangere, avrebbe presto cambiato aspetto, avrebbe presto ricominciato da capo. S’incamminò lungo rue des Favorites e, arrivata alla cassetta gialla della posta, aprì la borsetta per prendere la lettera. La stava ancora cercando nella confusione di quella che sua sorella Sophie chiamava “la borsetta di Mary Poppins”, quando il cellulare squillò. The last resort degli Eagles cominciò con le sue prime note. Anne prese il cellulare e, dopo aver controllato il numero, lo gettò altrettanto velocemente nella borsa. Chiuse la cerniera a lampo come per scongiurare un attacco da quel malefico samsung. Immobile, con il cuore che correva, cercava di capire il motivo di quella chiamata. Le vennero addosso due bambini che si stavano rincorrendo. Per poco non perse l’equilibrio (anche se in un certo senso fu proprio così). Accettato quel “pardon” gridato in coro dai due, guardò il cielo: un doppio arcobaleno la fissava. […] 2 Un brutto sogno l’aveva svegliata nel cuore della notte. Si ributtò sotto le coperte e richiuse gli occhi, ma non riusciva a dormire. Nel vano tentativo di riaddormentarsi iniziò a pensare alla disposizione dei mobili nella casa. C’era un modo per rendere il tutto più razionale? Bastava rifletterci un poco. Ma ogni stanza, ogni oggetto, ogni insignificante metro quadro di quella casa la faceva soffrire. Si girò più volte nel letto prima di riaddormentarsi. La sveglia le suonò poche ore dopo, ma se qualcuno le avesse chiesto la durata del suo “secondo” sonno lei di certo avrebbe risposto che erano passati solo pochi minuti. QUARTINE 1) Rumore di pioggia che va veloce portando una nuova al cuore che piange e già sa di fango e lì l’anima trova. Lei intrisa di brutti pensieri si scrolla la terra dal dorso non sogna più i grandi velieri ma piange per triste rimorso. 2) Mi chiedo come mai sarà bella, brutta,o così così, la vita mia a un’altra età, se dirò mi, ti oppure ci. FIORI DI PESCO Fiori di pesco nella stagione sì che preferisco mi ricordano che col tempo cresco VIAGGIO AL MONTE ELICONA 1° parte Curiosa si rivolge all’orizzonte che ancora acerbo persuasivo invita i passi suoi a quell’agognato monte e sente sé di sasso ormai smarrita. Da doppia notte sono ricoperti gli occhi che caldi nel buio di gelo aspirano a restare solo aperti e combattono sì contro quel velo. Delle orecchie il tintinnante rumore che produce tormento non recede conduce i passi del debole cuore. Un brivido la scuote quando è là e la lingua si spezza perché vede luogo di pace e di serenità. 2° parte Tersicore coi piedi segna il tempo del suono sinuoso da Euterpe infuso nel mondo che è purtroppo ormai rinchiuso nell’idea d’Arte come passatempo. Sorride lieta Talia tra le note mentre vivace Clio giammai riposa. Calliope poi quelle vicende note narra a Melpomene e lei pensierosa osserva le stelle che Urania studia. Ed Erato compone tra i sospiri nuovi versi suggeriti dal cuore e dalla mente in cui Logos tripudia. Polimnia infine fa che le si ammiri dell’arte silenziosa sua l’ardore. 3° parte Sulla pietra poggia l’acqua e tace; la capretta si staglia qui e sorride dormiente sulla pietra che la uccide… L’insetto d’oro e d’ebano lì giace con quelle dolci, belle, piccole ali che ricercano ancora fresche arie. E le offre alle Eliconie che immortali proteggono i cuori dalle barbarie umane e le sofferenze addolciscono nel cammino già aspro di viandanti. Si inchina lei solenne alle divine che di comporre suoni mai finiscono e si allontana dai loro bei canti lentamente percorrendo stradine. Livia VICENTINI (1992) 194 La stanza è gialla. Ma non è un bel giallo zabaione, o crema. È un bel giallo vomito. Anche le scomode sedie su cui lei è seduta sono gialle. Di un bel giallo limone. Attende il momento del giudizio giocherellando con il cellulare e stropicciando l’orlo della maglietta bianca. Come una qualsiasi bambina della sua età. Una bambina di diciotto anni e tre mesi. L’infermiera entra nella piccola sala d’attesa, gialla, e le sorride incoraggiante. “Il dottore ha detto che tra poco toccherà a lei.” Lei ricambia il sorriso con uno timido e spaurito. “Tranquilla,” dice l’infermiera, “non hai nulla da temere.” Annuisce e torna al suo cellulare lasciando che i capelli spettinati le ricadano davanti al volto come una barriera. Il rumore dei tacchi dell’infermiera che esce dalla saletta spezza il silenzio. E rimangono solo lei e il silenzio nella stanza giallo vomito. Quando sente di nuovo i tacchi sul pavimento, si alza gettando il cellulare nella borsa. L’infermiera entra seguita dal dottore che non sorride. L’ultima volta sorrideva. Perché non sorride? C’è forse qualche complicazione? L’uomo apre la bocca e lei attende. Quattro mesi sono passati. Ne restano cinque. Leoni “Devi diventare un leone,” gli avevano detto semplicemente. Il suo “Ma…” si era perso nel silenzio assordante di quella pianura – fintamente – vuota e dall’erba bruciata. L’aria aveva lo stesso odore dei falò che facevano d’estate al suo villaggio. Uno spintone lo fece cadere al suolo – com’era rossa la terra –. Mentre si rialzava l’urlo del “Vecchio” spezzò il – religioso? – silenzio che era calato, quasi fastidioso, da quando erano arrivati. Il Vecchio e i suoi collaboratori passarono tra i giovani, che ammiravano quel desolato paesaggio, dando in mano a ognuno un oggetto che gli ricordava spaventosamente le pistole ad acqua con cui giocavano d’estate. Era solo più pesante e più nero. Spaventoso, appunto. A casa sua c’era sicuramente il sole che faceva splendere l’acqua del mare. Lì invece; in quella terra dimenticata da Dio e dagli uomini, la polvere sospesa nell’aria copriva il sole come le nuvole. Che non promettevano pioggia, solo altri ordini dall’odore ferroso. Il loro compito lì, però, era semplice. Come in un qualsiasi gioco dovevano solo colpire il numero più alto di avversari. Pecore. Erano pecore. Senza venir colpiti. “Voi siete i leoni!” E’ strana. Non è normale. Dicevano. La accusavano di essere diversa. Ma lei non dava loro retta, persa com’era, in altri mondi. Illusion of Normality “Dov’è ora quella?” domandavano tutti. Voci che si sovrapponevano creando una cacofonia di suoni inutile e insopportabile. La piazza del piccolo paesino era gremita di gente che cercava e accusava. Chi, probabilmente non lo sapeva nessuno. L’importante era semplicemente cercare, adeguarsi al resto della popolazione. Se qualcuno avesse visto la scena dall’alto, probabilmente avrebbe scambiato quegli orgogliosi e rudi uomini di campagna per uno sciame di formiche impazzite. Ma nessuno poteva volare. Non in quel mondo almeno. La Bambina sapeva che in altri mondi qualcuno in grado di volare c’era sicuramente. Lei una notte l’aveva anche visto. Aveva cercato di catturarlo, ma le era sfuggito dalle mani. Il fallimento però non aveva importanza. Un giorno le avrebbe insegnato a volare e lei sarebbe scivolata via, sulle ali del vento. La Bambina era sdraiata sul prato, la testa posata sulla mantella rossa, lo sguardo vacuo che guardava oltre. Il gatto dei vicini, acciambellato a scaldarle il cuore. Sull’erba, accanto a lei, un vecchio blocco consunto e una matita spuntata. Un rumore di passi destò il gatto dal suo fragile sonno. Ma non disturbò lei. Un sassolino colpì la testa del gatto che si alzò e si allontanò sdegnato e infastidito. “Ehi, Stramba, cosa fai? Al villaggio ti cercano tutti. Questa è la volta buona che te la fanno pagare. Già. Sei nei guai, Stramba.” La Bambina, come di consueto, alzò appena lo sguardo vuoto sui ragazzi del villaggio e tornò al suo mondo. Si portò distrattamente una mano dove prima c’era stato il gatto e dove forse avrebbe dovuto sentire battere qualcosa. Ma nelle orecchie aveva solo il fischio di treni in partenza, l’abbaiare di mille cani, il rifrangersi delle onde di un oceano lontano e della pioggia che batteva tormentando una piccola città di periferia. Voltandosi sulla pancia la Bambina raggiunse il blocco e la matita senza doversi alzare e, con l’erba fresca che le solleticava la pancia, appuntò qualcosa su un foglio pieno di scarabocchi e annotazioni varie. Quand’era nata l’avevano chiamata Fiamma. Fiamma per via dei capelli color del fuoco che spuntavano sulla testolina rosea. Dopo tanti anni – trascorsi in altri mondi – i capelli erano rimasti dello stesso colore, erano solo diventati più stopposi e incorniciavano un volto dal colorito pallido. Perfino in quel momento l’unica nota di colore erano i capelli che si mischiavano alle fiamme che la circondavano. Violente. E fameliche. Il suo volto era privo di qualunque espressione, anche se le fiamme le lambivano il corpo. Gli occhi guardavano le stelle senza vederle veramente, persi in un altro azzurro. Intorno alle fiamme la folla urlante aizzava sé stessa contro la Bambina. Strega, dicevano. Strega, gridavano. Strega, urlavano. Non c’erano lacrime per lei che era colpevole – solo – di vedere altri mondi e di amarli. Più di quello in cui era nata. Un sussulto lo scosse e un fremito attraversò anche la folla, in attesa di un urlo di dolore che avrebbe squassato persino la terra. D’altronde lei era strana. Era la figlia di un Demonio. No? Ma non accadde nulla di tutto ciò. Fiamma aprì appena la bocca, come per parlare. Ma non lo fece. Non lo faceva mai. Forse non ne era in grado. Poteva solo vedere, lei. E vedeva in quel momento. Vedeva più nitidamente di quanto avesse mai fatto. Vedeva quel ragazzo volare, davanti a lei e sbeffeggiarla dall’alto con le sue belle ali piumate. Pareva un Angelo. Istintivamente gli tese la mano. La folla vide soltanto le fiamme avvolgerla, divorandola. Premessa dell’Inferno a cui l’avevano destinata. E gridavano, e ridevano, loro all’Inferno. Fiamma, Fiamma. Brucia per noi Fiamma. Brucia e Splendi. Illuminaci la strada. Brucia per noi Fiamma. Brucia e Splendi. Ardi ancora per noi. Brucia per noi Fiamma. Brucia e Splendi. Muori per farci luce. Brucia per noi Fiamma. Brucia e Splendi. Muori e diventa una stella. Brucia per noi Fiamma. Brucia e Splendi. Ardi nel nostro cielo Fiamma. Grazia Maria MARZO (1990) OMAGGIO A DANTE Oh, professore, che grande emozione! Domandarmi potrà tutto l’Inferno prossimamente… L’interrogazione! Valore ha la commedia certo eterno: nell’animo solleva sentimenti ch’io però difficilmente esterno emozioni profonde travolgenti, non so come definirle potrei… lame affilate sembrano, taglienti. Il mio stupore partire farei dall’attualità di quelle parole. Col proprio ingegno può l’uomo direi raggiungere ciò che ottenere vuole. Chi ricerca le vaste epifanie del bello qui nelle realtà si suole un artista per le sue fantasie definire… Del creato risplende in Dante la bellezza e melodie angeliche risuonano: s’accende nell’animo del penitente onesto la volontà, non più infatti si arrende al peccato, ma sperando che presto degno di ricongiungersi a Dio sia della purgazione prosegue lesto il cammino, vivendo un’agonia dolce. Avvolto in un silenzio dorato invoca con fervore di Maria il santo nome e verso l’alto alzato il capo di vedere il Paradiso, d’uno splendore candido irradiato, brama. Qui sembra ovunque che inciso sia l’amore, qui raffigurazione di Dio su nell’alto dei cieli assiso è la luce sì massima espressione. CREPUSCOLO Un timido chiarore tra gli abissi di tenebre s’accende e poi scompare. Tra nubi e soffi di color magenta greve discende la notte. La luna imperla di rugiada argento le forme. LO SCIENZIATO Resta seduto lì per ore e ore e pensa e calcola sperando di svelare profondità e segreti. È il desiderio di penetrare nel mistero. Collezionista di conoscenza sperimenta quanto sia difficile dare un’occhiata alle carte di Dio. Luisa IERVOLINO (1991) Finché Inverno Non Ci Separi. C’era una volta un Giardino bellissimo, che sorgeva vicino al mare. Lì stavano moltissime e diversissime floreali creature, ognuna con il suo incantevole aroma, che si mischiava in una piacevole danza con quello del sale marino. In questo Giardino c’erano tanti Arbusti da frutto, tanti Cespugli a macchie gialle, rosa, viola e blu; tutti in gruppo, ognuno col suo simile, come sull’arca di Noè. Ma in quella biblica scena solo una verde creatura era rimasta senza compagno. Un’unica pianta di Giglio, sola. Non bella, non brutta, ma solida e resistente al vento. Stava in disparte nel Giardino, così che sembrava che anche i cespugli la guardassero con disprezzo. La pianta generò un solo Bocciolo con tutte le sue forze, a fatica, come a voler dimostrare alle altre piante crudeli di saper mettere al mondo un Giglio bellissimo, dal candido colore. La neomadre voleva ora sentire le dolci parole del Padrone di casa, che lì l’aveva piantata; voleva essere orgogliosa del suo pargolo. Eccolo! Arriva! Sembrano gridare i Cespugli quando il vecchio Padrone di casa si trascina fino al Giardino. Lento il passo, stretto tra le sue dita stava un gambo ignoto. Sul capo del verde corpo, un piccolo vermiglio Bocciolo, ancora acerbo. Ai piedi della pianta di Giglio, il Padrone apre una buca e vi poggia le caviglie mozze di quella nuova pianta. Una accanto all’altro, sotto lo stesso Cielo, una Rosa rossa piantata accanto alla solitaria, linfatica, stanca creatura di Giglio vestita. “Piccolo figlio mio, destati! Ammira questo essere che il Destino ci ha posto vicino!” Alle parole della dolce Madre, il bianco fiore si dischiude, stropicciandosi i petali con le foglioline addormentate. Impossibile distoglierle gli occhi di dosso. Calamitanti sfumature la vestono. Splendido il suo profumo, più dolce del miele che portano le Api nell’aria. Amore a prima vista. Lui guardava lei, lei non lo guardava affatto. E i Cespugli attorno ridevano. “Che ridano pure!” dicevano al Giglio le Api rumorose, e lui rispondeva guardando solo la sua bella Rosa, come se fosse stato colpito in pieno dal classico fulmine a ciel sereno. La sera, alla luce della Luna, il Giglio cantava per Lei con la voce del Vento. Era consapevole dell’impossibilità di quell’Amore. “Madre, Lei è così bella ed elegante. Come potrebbe mai amarmi se neanche sa che esisto? Mi si gela la linfa al solo pensiero di rivolgerle la parola. Vorrei, ma ho il labbro muto, e non so parlare.” Piangeva il Giglio sulle foglie della genitrice. “Non posso che amarla da lontano, sperando che almeno gradisca il mio canto.” E passavano i soli e le lune sulle loro chiome. Un bel giorno di Primavera, quando le Cavolaie si inseguono in una passionale coreografia, il Padrone scese in Giardino. Teneva in mano un oggetto che le piante avevano visto molte volte. Il Padrone le chiama Forbici e le usa per accorciare i rami degli Alberi da frutto del Giardino. Ma stavolta no. “Si sposa sua figlia!” gridò un Cipresso, che aveva sentito uscire, dalla sua altezza, le parole della finestra della camera della giovane. “Vorrà un bouquet!” Le Piante restano mute, trattengono il fiato, sperando di non essere proprio loro a dover ornare la Sposa. Poi, dal nulla, un urlo vegetale. Alla pianta di Giglio viene portato via suo Figlio, recise le sue caviglie con le Forbici, letale strumento. Minuti, lunghissimi minuti dopo, il bianco fiore si ritrovò in un vaso trasparente, con l’acqua che gli solleticava i piedi feriti e accanto ad altri fiori recisi come lui. Mai aveva provato il contatto con altri che non fossero sua Madre. Nella moltitudine di odori e colori la vide. La sua amata Rosa gli era capitata accanto nel caos del vaso. Il giovane Giglio ci mise circa tre ore per convincersi a parlare. E con voce emozionata riuscì solo a dirle “Ti amo”. Lei, imbarazzata (non curante di essere rossa già dalla nascita), emise un sospiro di sollievo, rilassando i petali vermigli della sua chioma. “Meno male…” disse a bassa voce, “non volevo essere io a dirlo per prima.” Nel dì delle nozze della Figlia del Padrone di casa, stretti nel bouquet c’erano un bellissimo Giglio e una splendida Rosa rossa, i più belli tra i Fiori del mazzo. Quel giorno i due giovani esseri vegetali si sposarono. E vissero felici e contenti, lo spazio di un mattino. L’idea Non la notai, non mi notò. Non saprei dire chi fu di noi due a scegliere l’altro. Benedetta GIULIANI (1991) L’urlo del gabbiano Volava molto placido un gabbiano che all’ondeggiar del mar si rallegrava e a ogni pescatore non negava i suoi curiosi sguardi da lontano. Ricambia le sue occhiate una fanciulla che tiene il bel poeta per la mano, rapita ora lo elogia, anche se invano… Il poeta non vuol saperne nulla, anzi un fucile imbraccia per l’invidia. Colpire quel pennuto è l’intenzione, lo punta al cielo… E il sogno suo corona. Così oramai il volatile falcidia; memoria rimarrà dell’uccisione: in cielo ancora l’urlo suo risuona. Stornello (a Baudelaire) Fior di giardino, ebbro di male e di verde veleno il flâneur giace. Nel calice il vino. Flavia CRISCIOTTI (1990) Penna Pallida e pensierosa e lei mi guarda, a me si accosta con le mani fredde, algida mi tocca e l’inchiostro gela… Se mi afferra, una Musa può donarle smaglianti idee azzurre e cristalline con salati pensieri di corallo. Teme fondali che di antico odorino: non mi impugna, ma resta pensierosa. Signora apparenza Sulla soglia sta una vecchia sciapa e candida nel capo, poi lunatica si eclissa. Sulla soglia sta una bionda, di oro spumeggiante adorna e solare ti sorride. Metamorfosi conforme alle leggi già mondane che la dea Venere impone a chi fugge d’età l’eco. Sara BELLI (1991) La verità nella landa La landa soffre di solitudine; aridità dell’anima talmente vivida da segmentare in piccoli mattoncini sconnessi la sua pelle. All’orizzonte, improvviso, un colore giù dalle montagne, ancora un’ombra di quel che poi si vedrà, più sincera di quando poi si rivelerà; un puntino quasi, di una cromatura fredda, sarà un verde o un azzurro, sembra scalpitare come se avesse patito una lunga attesa. Un’altra sagoma si profila dalla distesa delle steppe lontane: questa è di un calore caldo, tra l’arancione e il rosso, una piccola immagine ancora leggera. Fiamme nella nebbia, avanzano uno da una parte, l’altro dall’opposta. È ormai deciso che si incontrino. Si cercano: si pretendono. Miscela di due corpi che non intendono se stessi, ma è un letale fondersi di un uomo e di una donna, fusione suggellata dal vento che invano cerca di separare i due corpi. Un raggio illumina la landa, ormai eclissata davanti a quella verità, che, con semplicità, insegna l’amore. Ileana CAMERATA (1989) Io sono l’inquietudine che fa penare gli uomini. Di fronte a me rovinano gli imperi. Sono la coppa del piacere che profuma di rosa e di mughetto. Figlia della Purezza e del Peccato che ha per dimora uno splendido letto. Essenza sono, spirito. Nient’altro che calda proiezione di una dolce notte d’Oriente. Ho un solo fine: la Follia di un istante senza futuro. Vi chiedete chi io sia? Sono l’ardore, e fame e febbre, sete e smania. Ancora non avete capito? Il nome mio è Desiderio. Carlotta DE GAETANO (1989) STORIA DI UNA SCONOSCIUTA 6.40 di un giorno X Primo pensiero: “Di nuovo…” Ormai erano due settimane che si svegliava così tardi, con il grandissimo rischio di perdere il lavoro se avesse continuato a non arrivare in orario in ufficio. Sempre tutto di corsa: lavarsi, vestirsi, addentare un cornetto e uscire di casa con la giacca sopra solo una spalla e il cornetto che spunta dalla bocca, come la coda di un topo che sbuca dalla bocca del gatto. Tap, tap, tap… Il rumore dei tacchi che calpestano il marciapiede di quella strada deserta alle sette del mattino; una luce fioca viene sprigionata dalla saracinesca mezza chiusa del fornaio. Cammina, sente un forte odore di pane, non vede, ma sa che cosa sta succedendo, ne è sicura, lo immagina: il panettiere sta sfornando il pane caldo dal forno e lo sta facendo scivolare, dalla pala di legno, sul tavolo, pronto per essere messo in vendita. Dall’altra parte della strada il giornalaio sta sistemando le riviste e i quotidiani. Tap, tap, tap… cammina, cammina, è tardi… Arriva alla fermata dell’autobus, guarda l’orologio. “Wow… sto diventando sempre più brava solo sei minuti per arrivare alla fermata del bus, venendo da casa. Complimenti vivissimi a me stessa, anche se credevo di averci messo dei secoli.” Arriva l’autobus che la porterà a destinazione; sale i tre scalini, c’è un posto, si siede. Si guarda intorno. C’è un bambino seduto di fronte a lei, accanto la presunta madre. Che buffo che è!... E’ stupendo guardare i bambini. Sono ingenui. Non si accorgono che li stai fissando, o forse se ne accorgono ma non gli interessa. A un tratto le sembra che tutte le poche persone sul bus stiano guardando il piccolo, ma è solo un flash. I bimbi sono così squisitamente dolci quando tentano di capire le cose. Eccolo, eccolo; ha un pacchetto di caramelle in mano. Lo osserva. Lo scruta. Lo gira. È vuoto. L’ultima caramella la sta masticando lui, svogliatamente. Avvicina il pacchetto al volto, restringe il campo visivo socchiudendo gli occhi e muove le labbra. Sta provando a leggere. Interpella la mamma tirandole la manica della maglietta, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca per mostrare un gran sorriso senza denti. Tutto eccitato indica il pacchetto e dice qualcosa… La mamma sorride, ma è triste o, per meglio dire, è stanca, risponde qualcosa, ma io non sento, c’è troppo rumore. Scende dall’autobus, fa dieci metri ed entra nella metro. Fa freddo. La velocità dei treni provoca uno spostamento troppo forte. And so it is / The shorter story/ No love no glory/ No hero in her skies / I can't take my eyes off of you/ La musica le rimbomba nelle orecchie. Cammina spedita, volto serio, non guarda in faccia a nessuno, non si sposta per nessuno, nessun sorriso, soltanto la musica triste e malinconica che suona e smuove i suoi timpani. Nel cervello un insieme di turbini e vortici colorati danzano felici, come le foglie che cadendo dagli alberi piroettano allegre finché non muoiono, giacendo sul terreno. Sbrigati sei in ritardo. Che strano, mi sono sempre chiesta perché, se ci sono due scale per scendere al piano inferiore, la gente tenda a prendere la scala di sinistra. Quella di destra è sempre vuota. Prenderò quella di destra, in fondo siamo sole tutte e due. Eccoci qui; io e te. Avanti, portami verso l’Ade. In effetti la scala mobile della metro è talmente alta e irta che può sembrare un modo innovativo per arrivare all’inferno. Se Dante fosse vissuto in questo secolo, probabilmente avrebbe narrato di essere giunto nell’inferno con una scala mobile e di essere arrivato in paradiso con un ascensore. Rumori in lontananza, la gente comincia a correre, sono i fischi di un treno che sta dicendo di allontanarsi dalla linea gialla. Non ce la farò mai a prendere questo treno! pensa a voce alta. A un tratto, una mano, dolce e gentile, le afferra il polso delicatamente. Lei è perplessa. La persona che le ha afferrato il polso si gira, la guarda. “Andiamo, straniera!” e con un sorriso la invita a correre verso le porte della metro. Un minuto lungo un’eternità, uno strano sorriso le si dipinge sul volto, la voglia incredibile di prendere quel treno. Le porte, sempre più vicine, sempre più vicine. Sono dentro. Lei si mette a ridere, poi alza lo sguardo e vede il volto perplesso di lui. Lei si fa seria. Lui comincia a ridere. Ridono. “Devi vivere la vita con più serenità e ottimismo, altrimenti non arriverai mai da nessuna parte. Come oggi, se non avessi preso la metro, non saresti arrivata da nessuna parte giusto?” “Giusto…” Lo guarda sbalordita e perplessa. Chi è questo sconosciuto, che vuole da lei? Eppure è stato tanto carino, ma perché? Sembra un angelo. È bello, ha dei lunghi capelli bruni, i lineamenti del volto morbidi, occhi grandi e chiari. Questo ragazzo mi riempie di gioia. Sono con lui da poco minuti e sono piena di armonia. Chi è? “Piacere! Mi chiamo Gabriel. Purtroppo a breve ti porterò via da qui,” dice. Il cuore di lei, che fino a poco prima batteva all’impazzata, sta lentamente cominciando a rallentare. Una strana sensazione, non è inquietudine, come quella, sana, che si può provare quando ci si sente a disagio, è paura bella e buona mista a un senso di… armonia. “Ma adesso dimmi, tu chi sei?” chiede lui. O mio Dio, dopo anni e anni di solitudine e malinconia, mi sento così felice e in più ho conosciuto un uomo bello e pazzo che finalmente mi afferra nel mio tunnel buio e mi tira fuori, per farmi vedere di nuovo la luce, la vita, per farmi provare più emozioni. Non sarò più una sconosciuta! Ho atteso questo momento per troppo tempo, pensa. “Il mio nome è…” Ma un uomo, seduto in fondo alla carrozza, si alza: “In Dio sta la mia difesa: egli salva chi ha il cuore sincero. Dio è un giudice giusto, ogni giorno castiga i colpevoli. Se non si convertono affila la spada, tende l’arco e prende la mira, prepara strumenti di morte e lancia frecce di fuoco. I malvagi fanno una buca, la scavano profonda, ma sono loro a cadere nella fossa. E voi siete tutti peccatori!” L’uomo apre il cappotto per mostrare le cariche di tritolo legate alla vita. In tutta la carrozza c’è silenzio. L’uomo si guarda intorno, prende un telecomando con un solo bottone, sul suo volto compare un ghigno… Boom! Questa è la storia di una sconosciuta. Di lei non sappiamo nulla, non è nemmeno citata nell’elenco di coloro che sono morti nella catastrofe della metro del 1996. Sembra che un pazzo abbia deciso di “punire i peccatori” scegliendo il posto più affollato della città nell’ora di punta. Nella mente mi risuona ancora la canzone che stavo ascoltando in quell’ultimo istante prima della fine. Faceva più o meno così: You are no more alive / And tomorrow you'll be forgotten. Non mi lamento, saluto e vado a dormire. Annamaria LAUDINI (1992) Il furto più bello Particolari i giochi della mente perchè vede solo quando non sente? Decifrare non sa gli scarabocchi che leggo invece scritti nei tuoi occhi. Segni, forme, colori, brevi tratti tutto un insieme di veloci scatti che rapisco ogni giorno dal tuo sguardo lungo, profondo, mai messo da parte: di certo non sarò un critico d’arte ma piuttosto un appassionato ladro intento a rubarti, splendido quadro. Stefania D’AMICO (1990) Il roseto dei mali Italia, figlia e madre della storia Tu, la culla di antiche tradizioni, cammini desolata tra le spine che strappano il mantello tricolore. Le rose sparse dalla Corruzione sono diverse e ognuna ha il proprio nome: la più grande è la Crisi Economica, la meno profumata è l’Emergenza a Napoli, la più nera è l’Indulto, la più rossa è la Malasanità. Ma ora guarda là, all’orizzonte: non più rose pungenti ma felici garofani bianchi attendono te, Italia, suddita e regina di vittoria. Margherita GALLO (1992) ABBECEDARIO Ansia Bruciante Come Dardo Folle di Godimento Hai Invaso i Lontani Meandri Nascosti dell’anima. Ora Perversa Quando Rovistinel cuore Senza Tranquillità, Ubriaca Viaggi Zuppa di sofferenza Francesco LOSAPIO (1987) Io Il crepuscolo faceva vergognare i palazzi, incapaci di darsi un tono; le nuvole stracciate si disponevano sventagliando sulle terrazze, attraversate da stormi chiassosi. In tutta l’Inghilterra, tazze d’acqua calda prendevano lo stesso colore dei palazzi, fumigando con gentilezza. La calma era così assoluta che il cucchiaino tuonava contro la porcellana decorata, disturbando le riflessioni di un gatto assopito. Il sole avrebbe lasciato allo zucchero appena il tempo di sciogliersi, e poi sarebbe sparito. Questo lo sapevo, e lo sapeva anche il gatto, ma non potevamo farci niente. Niente, potevo solo guardare fisso il tè, il gatto, la finestra, le foto sul tavolino. E ancora guardare fisso le mie medaglie, la mia laurea sul muro, il muro, lo strappo nella carta da parati e infine di nuovo il tè. Sperai di vedere il gatto muoversi, o qualsiasi cosa succedere intorno a me. Non si sentiva scorrere il tempo. Devo comprare una pendola, nei film non mancano mai. Quando c’è da riempire un silenzio compare dal nulla una pendola. O le cicale. Devo piantare un albero, potrebbe popolarsi di cicale in estate. Intanto lo zucchero si era sciolto, e la luce era colata via dai tetti come caramello. Inventavo migliaia di queste similitudini, potevo passare ore a immaginare la realtà che osservavo, a darle un volto nuovo. Immaginavo le foglie cadere in autunno, e di notte arrampicarsi non viste sugli alberi, per nascondersi fino alla primavera successiva e poi spuntare di nuovo. Immaginavo che in casa mia si svolgessero convegni di spiriti muti, che inventavano ogni sorta di gesto per prendersi gioco di me, sempre dietro alle mie spalle. Immaginavo il sole riempire il cielo di vino bianco, ambrato; lo vedevo svuotarsi lentamente, e ubriacare il crepuscolo fino a farlo crollare in un delirio impressionista. Immaginavo tutto, ma potevo solo immaginarlo. Succede,quando sei paralitico. Puoi immaginare migliaia di mondi, ma ti tocca vivere nel tuo. EMET Un chilo e sette, Zero negativo, ispidi capelli neri:Gabriele era un neonato speciale. In un certo senso,sarebbe sempre rimasto legato a quel momento della nostra vita in cui il mondo intorno ci sembra essere gigantesco, composto solo da ostacoli e distanze impercorribili. Sua madre forse non comprese appieno cosa l’avrebbe aspettata,e accettò di partorirlo così com’era:un nano. Gabriele visse la sua prima adolescenza colpito dalla luce che entrava dalle finestre di casa sua, che lo feriva dritto negli occhi. Crebbe con la convinzione che la luce fosse fatta apposta per nascondergli qualcosa,forse proprio quella cosa di cui parlava sempre la mamma. La mamma diceva che il Signore aveva deciso così, e lei non poteva fare altro che accettare, e sopportare, e pregare, e piangere la notte quando nessuno guardava. Ma Gabriele non capiva. Chi era questo Signore? Perché lo aveva voluto alto un metro e venticinque? Era forse suo padre, quello sparito pochi giorni prima del parto, ad aver deciso tutto? Gabriele smise di crescere, ma il suo nome si gonfiava. Chiunque lo conoscesse o lo avesse anche solo visto di sfuggita lo chiamava in modo diverso, con quel bisbiglio non troppo nascosto. Tra tutti gli insulti, gli storpiamenti e i soprannomi, ce n’era uno che Gabriele preferiva, sicuramente per il brillante sarcasmo che denotava. Gli piaceva essere chiamato Golia. All’inizio non aveva idea di chi fosse questo Golia, ma poi lo aveva chiesto alla mamma. La mamma leggeva sempre un grosso librone, e diceva che lì si trovano tutte le risposte a tutte le domande. Il librone non lo deluse,svelandogli l’antica storia del gigante Golia e di re Davide. Golia era un bel nome, anche se poi la storia finiva male. La mamma preferiva dire che la storia finiva come voleva il Signore. A Golia non piaceva questo Signore, ma scoprì di avere qualcosa in comune con lui: i soprannomi. Ma quelli del Signore erano antipatici: lui era Onnipotente, Re dei popoli, Eterno ma soprattutto era Altissimo. Golia odiava quelli alti, tranne la mamma, che comunque lo superava solo di una quarantina di centimetri. Ormai nella vita di Golia l’unica cosa che aumentava erano le candeline sulla torta, il resto rimaneva corto e deforme. Golia doveva trovare il Signore e dirgli che così non andava bene, e che la mamma piangeva sempre quando pensava che nessuno la sentisse. Nessuno fa piangere la mamma, nemmeno l’Altissimo. La mamma pianse anche quando Golia compì ventisette anni, ma quella volta lo fece davanti a tutti. Poi quella sera stessa prese Golia da una parte, lo sollevò e lo mise sopra al tavolo per poterlo guardare in faccia. Gli raccontò tutto, di come lei avrebbe voluto abortire, di quanto era stato codardo suo padre, ma soprattutto gli parlò del Don. Il Don aveva spinto tanto perché Golia venisse partorito, e ogni volta che sentiva parlare di aborto si faceva il segno della croce e urlava. Era stato lui a convincere la mamma a partorire, ma non fu di grande aiuto quando lei rimase sola in sala parto. La mamma credeva molto nel Signore, e il Don era un ministro diretto dell’Altissimo. Golia si illuminò. In precedenza la mamma gli aveva detto di trovare Dio dentro il suo cuore, ma Golia aveva smesso di cercarlo quando avevano dovuto operarlo proprio lì. La cassa toracica era troppo piccola per contenere sia il cuore che Dio, eppure il cuore continuava a crescere. Così Golia si tenne il cuore, e decise di scacciare Dio da uno spazio già troppo stretto. Dalla mamma seppe il nome del Don, che si era trasferito e che era diventato un ministro di grado più alto. Di nuovo una persona alta. Golia doveva vederlo,b doveva fargli capire che se lui era diventato alto era perché qualcun altro era rimasto basso. Golia andò diverse volte in quel posto, in cui il Don abitava e diceva messa. Lo osservò. Anche il Don aveva paura di quelli più alti di lui, infatti aveva fatto mettere le sbarre alle finestre e blindare le porte. Il bagno aveva una finestra,ma era piccola, troppo piccola. Per questo il Don non ci aveva messo le sbarre, a che sarebbe servito? Golia capì che il Signore gli aveva dato un segno. Lui aveva bussato, e il Signore gli aveva aperto. La mamma aveva pianto anche quella notte, e anche quella notte si era addormentata esausta. Golia iniziò a scendere le scale, aggrappandosi disperato agli irraggiungibili corrimano. Uscito dal portone iniziò a correre, con l’andatura grottesca a cui lo obbligavano le sue gambe. La parrocchia era lontana, ma aveva calcolato i tempi, sarebbe tornato a casa prima dell’alba. Aveva deciso di andare di notte, perché se avesse tentato di avvicinare il Don durante il giorno sicuramente sarebbe stato ignorato. Per tutta la vita era stato messo da parte, aveva avuto paura di chiunque avesse un cane grande abbastanza da sovrastarlo, si era sentito fuori posto nei cinema. Ne era certo, anche il Don lo avrebbe trascurato e vilipeso, come tutti gli altri. Per questo doveva coglierlo nel sonno, non si sarebbe potuto tirare indietro. Per la prima volta Golia sentì che avrebbe potuto fare paura a qualcuno, lui che aveva sempre temuto. Gli avrebbe solo parlato,ma con asprezza. La finestra del bagno era aperta: Dio era con lui! Golia aveva calcolato tutto:fece il giro della parrocchia e trovò la scala esattamente dove era nei giorni precedenti. Fu molto accorto nel farla scivolare pian piano verso terra, e poi iniziò a trascinarla. Aveva pensato anche al rumore, e aveva notato che all’interno della chiesa non si sentiva niente di quello che succedeva fuori. Passi… Golia si fermò, e non avrebbe potuto fare altro che rimanere immobile. L’uomo portava una scala, ma la sua altezza gli permetteva di tenerla sollevata da terra. Quando i due incrociarono lo sguardo, l’uomo alto emise uno sghignazzo sommesso, poi a bassa voce disse a Golia che era furbo, e che aveva un bel coraggio a fare quel mestiere nelle sue condizioni. Golia chiese al ladro il suo nome: Emanuele. I due si misero d’accordo tra parole e gesti, ed Emanuele spiegò che sarebbe entrato dal terrazzo. Certo, lui la scala poteva allungarla fino a lì sopra, osservò Golia. Emanuele sarebbe andato per primo, poi avrebbe aperto la porta a Golia ed avrebbero diviso il ricavato. Golia sapeva che non sarebbe andata così, che invece Emanuele lo avrebbe messo a tacere con una sberla e gli avrebbe sottratto la sua parte di bottino. Ma per fortuna a Golia non interessavano né il calice dorato né la costosa pisside: lui voleva il Don. Emanuele piazzò la scala,e quando piegò la gamba per salire il suo bomber nero lasciò scoperta la schiena, e il calcio di una pistola. Era infilata nei jeans,e baluginava colpevole sotto la luce gialla dei lampioni. Quel bagliore permise a Golia di scacciare anche l’ultimo pezzetto di Altissimo rimasto nel suo cuore, e decise che avrebbe punito una volta per tutte quell’affittuario moroso. La scala vacilla sotto la spinta di due corte braccia. Emanuele grida qualcosa di cattivo alla mamma di Golia, ma poi cade dall’alto del terrazzo con un tonfo mortale. Le luci si accendono tutte, ma quelle manine infervorate stringono già la pistola. Il portone si apre, la luce inonda la strada e proietta l’ombra della grata sulla sagoma deforme di Golia. Aggrappato alla grata c’è un signore alto, coi capelli bianchi, magro e tremante come un cane infreddolito. Golia stringe i denti, si volta: - Padre Davide? - Sono io…” La pallottola si infisse nella testa del Don, che cadde con la faccia a terra. haiku la vela gonfia brama il giro di boa schiocca uno strappo dondola l’onda scherza tra sassi e scogli spuma brillante casse stracolme indietreggiando fugge la grande ola Martina BORZI (1992) Sigaretta (versi ropalici) un dolce respiro doloroso rapidamente diventato soffice fumo blu Nota del docente curatore Spicca in questa antologia un dato di fondo. La varietà delle tematiche, spesso legate alla contemporaneità, insieme alla fusione di più aspetti: ludico, elegiaco, civile. Un’operazione di creatività, di composizione creativa, sagacemente vincolata da una ineccepibile strumentazione formale. I versi risaltano per valentia e valenza sul piano metrico-ritmico, fonetico e retorico; le prose si caratterizzano per dosaggio di espedienti narrativi. Tutto nel segno, e nel solco, di ariosi referenti letterari: dall’epigramma al monologo, dalla terza rima al sonetto, fino al simbolismo e al surrealismo. Un’operazione ‘robusta’, e per sviluppo tematico e per variazioni di stile. E, in più, originale: ché gli echi del mondo classico e di quello contemporaneo, tutti i materiali proposti e argomentati in sede scolastica, sono stati filtrati, metabolizzati, riproposti in versione appunto nuova, senza traccia di calco pedissequo. L’auspicio per chi scrive è che l’Officina di scrittura trovi ancora modo di esprimere la voce di giovani scrittori. Giuseppe Ligotti