commentarii de bello poetico (2008)

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commentarii de bello poetico (2008)
OFFICINA DI GIOVANI SCRITTORI
COMMENTARII DE BELLO POETICO
(2008)
ANTOLOGIA
IDEATA E CURATA PER CONTO
DEL LICEO CLASSICO STATALE
‘GIULIO CESARE’ DI ROMA
DA
GIUSEPPE ELIO LIGOTTI
I GIOVANI SCRITTORI
(in ordine di apparizione)
Michele PICOZZI
Francesca ROSCINI
Livia VICENTINI
Grazia Maria MARZO
Luisa IERVOLINO
Benedetta GIULIANI
Flavia CRISCIOTTI
Sara BELLI
Ileana CAMERATA
Carlotta DE GAETANO
Annamaria LAUDINI
Stefania D’AMICO
Margherita GALLO
Francesco LOSAPIO
Martina BORZI
Michele PICOZZI (1992)
terzine dantesche
Piango ancora per te. Per te. Da solo.
Non vedo aiuto alcuno giù dal cielo;
nessuno qui mi dice ‘Io ti consolo’:
mi copre gli occhi un opaco velo.
Mi è rimasta compagna solitudine:
attorno al cuore e all’anima: sfacelo.
Negli altri la consueta mansuetudine:
poco interesse, poco li riguarda
questo mio stato aperto d’inquietudine.
Passando al guardo mio v’è una maliarda,
(passando) in un quartiere malfamato.
La osservo e lei stupita, lei mi guarda.
Ma certo non sarà che a lei abbracciato
(e qualcosa di più forse) andrà via
‘sta presenza che mi fa amareggiato.
Il fatto, Amore, è che io non ti ho più mia.
IRIS
Ti ricordo Iris, occhi di cerbiatto:
lo sguardo grande vivo di tristezza,
gambe da fenicottero.
Ma ti vedevo come una gazzella
o forse appunto proprio come un cervo
che non può stare in gabbia
perché sempre orizzonti nuovi brama
tinti di tramonti e amarezze viola.
D’averti vista in lacrime mai credo:
che piangessi era certo, lo sapevo,
ma di persona mai posai i miei occhi
su quel tuo sguardo più vero di donna.
Adesso mi dico “meglio così”.
Sì, perché avrei visto piangere il mondo.
SAN VALENTINO
Ma c’è un pensiero che mi fa tremare
e che mi scuote in questi vespri infami:
è che quel giorno inutile
certo non sarai sola: ma qualcuno
ti porterà al cine
e mentre mangerai
un gelato, sì lui mangerà te
e sarà buffo tanto
da portarsi nel cuore un tuo sorriso.
Per questo non lo odio
ché è stata forse solo colpa mia.
BEATITUDINE
Balli su quella sedia
bella come una statua
greca di mano e tempo.
Forse non hai interesse d’altri ma
ti fai turbar da una diversa luce.
NATA RIMA
(acrostico mascherato)
Allora dimmi cosa
mendace dovrei forse raccontarmi
al solo scopo di
ridere senza più altri
turbamenti. Per me
i soli tuoi tremendi
no temo: sono urla
assassine che forano la mente.
23/XI
Il perderti m’è ormai cosa assai usata:
guardarti senza proferir parola,
‘sservarti da lontano indifferente.
Perché non è ragione
e meno ancor coraggio
che mi ti imprime sulla pelle a fuoco
come uno strano dolce tatuaggio
Quasi spiro sconvolto
e non mi resta che tentare un canto
del quale non conosco melodia…
SCONVOLTO
L’ho sognato… le labbra sulle tue.
Non so chi sia né quale faccia abbia,
ma infine è vero: esiste.
Lo so da pochi giorni, e appari tu.
Ma non mi guardi, cerchi un accendino.
Hai solo voglia di una sigaretta.
NELLA TUA MENTE (Io, lei, e gli amici)
Lei)
Io non lo so se ‘vero potrei amarti
e non capisco ‘meno le intenzioni
che avevi o che hai. Non vedo avvicinarti.
Non riesci a controllare le passioni
come uom farebbe solito né sai
come porti e le varie alternazioni
incerta fan danzar la voce che hai
e fanno ben capir che nel parlarmi
solo di poco mi avvicinerai
Io)
Oh donna non hai torto. Non guardarmi
se con quegli occhi puoi svelare il mondo.
Impacciato di più ora non farmi
se nel pensiero tuo mi vuoi giocondo
e quel poco che basta a un sorriso
che tutto fa veder perfetto e tondo.
Ti cerco anche perché qui sul mio viso
sarei ben più pulito dentro e fuori,
e mi colori i dì col tuo bel riso
Lei)
La posso immaginar da tutti i pori
tuoi uscir felicità assai rinnovata,
e se ti rendo i giorni ben migliori
mi giunge assai imprevista ma è arrivata
dolce l’affermazione e il complimento.
Mi fai sentire sì felicitata
ma di reazioni tue non mi memento
e resto qui stupita in certo senso:
non vorrei già ferir tuo il sentimento
Io)
Non posso dir menzogna a quell’immenso,
‘ché so mi carpiresti ben sicura;
ma di così piacerti giammai penso
e profonda si radica paura
‘ché sicuro non son se sai capire
e rapida si fa ogni cosa dura.
Idea non ho sul pormi, men sul dire:
rimango appeso aspettando il dimane
fermo sui piani, senza niuno agire
Amici)
Sappiamo, Michele, come rimane
di lei la fame che svuota e riempie.
Di fuggevoli guardi hai fatto il pane
e quel dolce disio che ora si adempie
quando la senti dalle punte al cuore;
e pare il sangue ti scoppi le tempie
pur nel pensare a quant’è bello un fiore.
‘Ché letteral la senti batteria
e dea l’adoreresti per delle ore
Io)
Sì, miei amici, ma so che non è mia.
La vedo augello, libera: e là vola,
ma si allontana mai di lei pazzia.
La guardo e temo poco sarà sola:
se non avrò il coraggio di far niente
tutto si annullerà il tempo che amola
Lei)
Ragazzo, non ho immagine tua in mente.
Un’emozione leggo: in te persiste
ma pari sì incostante e impaziente.
Ho detto mai qualcosa che voi audiste…?
E perdona se ‘l feci. Dispiaciuta.
Di te avrei amato quel sorriso triste…
Più utile sarebbe stato in primis
se avessi sussurrato “ti amo Iris”…
Sonetto
Le orecchie certo m’han tagliato allora;
gli amici d’ascoltar mi rifiutavo
'contar che dargli retta una mezz’ora
sarebbe gran menzogna dir "tentavo".
Tu strega e fata hai preso qui dimora:
mi sei arrivata e io non ti aspettavo.
Migliore mi rinnovi certo ancora
e uomo sono nuovo, non ignavo.
Perchè vivendo un nuovo stato mero
platonico, sì, certo, ma felice
avrei dovuto abbandonar quel ch’ero?
Adesso non ti passa mi si dice
e placido rispondo veritiero
"Di qui mi tira fuori neanche Nietzsche".
VENTOTENE
Senso d’umido e sabbia tra le dita
e un vento di maestrale
che scompiglia i capelli.
I miagolii di un gatto
e il pianto di un gabbiano
e un tramonto al sole
e la tua assenza
e il frangersi delle onde.
Solo un goccio di mare.
NEL RICORDO DI EMOZIONI FUTURE
Scrivo perché un pulcino che dal nido
cade credo potrà un giorno volare
e ne ho avuto la prova
Scrivo perché anche una carezza può
somigliare a uno schiaffo
e forse fa più male
soprattutto se a darlo è la Fortuna
Scrivo anche per chi amore nutre vero
ma anche per quelli che piacevolmente
ne restano ingannati
Ho scritto perché a mio modo ho vissuto
e ti ho desiderata
e ho sognato la tua mano passarmi
fintantoché vivevo tra i capelli
nel ricordo di emozioni future
SIGARETTA
Sei forse per me l’unica compagna.
Mi vai al cervello e rapida
ogni pensiero scacci
lasciando solo fitta e nera nebbia.
‘Contrario puoi donare
anche incubi terribili:
se sia vera salvezza non lo so
ma assieme a te mi sento Mitridate
per questo tuo veleno a rate.
Francesca ROSCINI (1991)
VITE
Cadevano le foglie lentamente
quand’ecco un soffio di vento le scosse.
Sorpresa osservo con tutta la mente
quelle lacrime chiare scure rosse,
sì tante che a me paiono infinite.
Giacciono a terra prive
di onore e qui impietrite,
ma del sole il respiro le tien vive
e quella loro linfa ancora spera
che presto torni, verde, primavera.
PIOGGIA
La pioggia calpestata ora dal vento
d’orgoglio romba con nuvole nere
e suona e stride ma senza un lamento
di nuovo colore tinge le sere.
STELLE
O carro di stelle
(antiche sorelle)
che da sempre viaggia
come mare e spiaggia.
Io guardo curiosa
di cometa ansiosa
da un ruvido tetto
col cuore a me stretto
e occhi lucenti
di infiniti intenti.
Respiro la luce
che luna produce
là su fra le stelle
antiche sorelle.
Sempre accese sono le luci
ma quando le vane speranze
svaniscono come le danze
arduo è dirsi ‘ora ricuci’.
Fin tanto che i muscoli sono
freschi nei loro movimenti
e ancor di più nei loro intenti
ci si illude di un grande dono:
infame e straordinario
che a suo modo del calendario
fa a meno, ma poi ci si accorge
che ogni dì il sole piano sorge
e ci si ricorda che ha fine
tutto tranne il cuore e le mine.
Ma quando torna fresca luce
come splende forte il cuore
e vola e libero produce
melodie senza alcun timore.
ABBECEDARIO
Ancora
Bagnati
Ci stringiamo,
Dune
E venti in una
Fredda e umida
Giornata di pioggia
Hanno il sopravvento.
Il mare mormora
La luna appare
Ma noi
Non temiamo
Ostacoli:
Passeranno
Quando il buio però
Riempie l'aria e la
Sabbia:
Tremo.
Un lampo
Veloce incide una
Zeta, ed è notte.
Sembra oramai tremare
torbido il cielo e mosso :
colora in questo mare
che di corrente è rosso.
Piccole gocce di acqua
tintinnano veloci
cadono acqua su acqua
e paion tante voci.
Cantano per il Vento
che è loro direttore
e smuove l’aria lento
accanto lì al dolore
della nascosta luna.
Lei osserva la tempesta
lì verso quella duna
piange pallida e mesta.
IL MARE DI SERA
Un mare crespo e denso
di tenue schiuma intero
tinto a fondo di incenso
lontano è ancor più nero.
Nel mare ondoso sembro scivolare
tra onde di acqua e vento
e il fondo ansioso
non accontentare
voglio, ma lamento
nei piedi e nel fiato
normale stanchezza.
Mi stendo leggera,
ho sul viso una brezza,
laggiù sdraiato il mare
lui di sera.
UN PETTIROSSO
Vedo nascosto su quell’alta cima
un pettirosso che con le ali mima
un albatro, e poi cade
per troppo ardire di quel grande volo:
con quelle piume così vive e rade
atterra e lì si gira
tutto solo.
FERMAGLI
Uno strano intreccio di dettagli
caratterizza quei buffi fermagli
che strettamente posano i loro arti
fra i capelli in così tante parti
sparsi e lunghi come tanti rami
o tovaglie dai fini ricami.
Trattengono senza alcun timore
quei fili scomposti in più dimore
e nascosti da quello spessore
di una chioma che sembra di more,
non temono certo oscurità
né sono affetti da vanità.
GIOCO
Attorciglia contento
quel buffo fil di rame
con uno sguardo attento
come fosse un esame.
Che cosa costruisce
se non quella figura
che per prima intuisce?
Con manina sicura
una bella spirale
tiene lui soddisfatto
e forse ciò che ha fatto
vi sembrerà banale,
ma quella attività
almeno in quella prova
il suo percorso trova
nella normalità
e un attimo di pace
nel mondo che a lui tace.
SOLO UN DOPPIO ARCOBALENO
Prima parte
1
Avanzava a passi lenti sotto la pioggia di quel venerdì. E la grigia Parigi partecipava allo
stato d’animo del suo cuore: Jerome aveva tradito la sua fiducia. Continuava a passi
sempre più lenti, quando infine si fermò davanti a una vetrina. Si guardò le scarpe: erano
completamente e inesorabilmente bagnate. Si specchiò tra le gocce d’acqua che
scivolavano sulla parete liscissima e iniziò a ridere. Una risata che si ostinava a non voler
scegliere tra l’ironia e l’isteria; ma in certi casi non è certo l’affidabile mente a decidere. I
lunghi capelli rossi si affacciavano sulle spalle coperte appena da un maglioncino nero, che
traforato lasciava intravedere la maglietta argentata.
Gli occhi di un azzurro vivo come il mare della sua Bretagna erano ora grigi, tanto che
quella maglietta sempre di un colore così spento appariva, in quella circostanza, brillante.
Improvvisamente smise di piovere. Istintivamente volse lo sguardo al cielo. Com’era
grande! Quell’infinità la fece sorridere, ma per una strana legge, che lei si divertiva a
chiamare “la legge dell’autobus che frena in corsa”, le lacrime continuavano a scendere dai
suoi occhi, loro così simili al vetro lì accanto. Come quel vetro lei avrebbe presto smesso di
piangere, avrebbe presto cambiato aspetto, avrebbe presto ricominciato da capo.
S’incamminò lungo rue des Favorites e, arrivata alla cassetta gialla della posta, aprì la
borsetta per prendere la lettera. La stava ancora cercando nella confusione di quella che
sua sorella Sophie chiamava “la borsetta di Mary Poppins”, quando il cellulare squillò. The
last resort degli Eagles cominciò con le sue prime note. Anne prese il cellulare e, dopo aver
controllato il numero, lo gettò altrettanto velocemente nella borsa. Chiuse la cerniera a
lampo come per scongiurare un attacco da quel malefico samsung.
Immobile, con il cuore che correva, cercava di capire il motivo di quella chiamata.
Le vennero addosso due bambini che si stavano rincorrendo. Per poco non perse
l’equilibrio (anche se in un certo senso fu proprio così). Accettato quel “pardon” gridato in
coro dai due, guardò il cielo: un doppio arcobaleno la fissava.
[…]
2
Un brutto sogno l’aveva svegliata nel cuore della notte. Si ributtò sotto le coperte e
richiuse gli occhi, ma non riusciva a dormire. Nel vano tentativo di riaddormentarsi iniziò
a pensare alla disposizione dei mobili nella casa. C’era un modo per rendere il tutto più
razionale? Bastava rifletterci un poco. Ma ogni stanza, ogni oggetto, ogni insignificante
metro quadro di quella casa la faceva soffrire. Si girò più volte nel letto prima di
riaddormentarsi. La sveglia le suonò poche ore dopo, ma se qualcuno le avesse chiesto la
durata del suo “secondo” sonno lei di certo avrebbe risposto che erano passati solo pochi
minuti.
QUARTINE
1)
Rumore di pioggia che va
veloce portando una nuova
al cuore che piange e già sa
di fango e lì l’anima trova.
Lei intrisa di brutti pensieri
si scrolla la terra dal dorso
non sogna più i grandi velieri
ma piange per triste rimorso.
2)
Mi chiedo come mai sarà
bella, brutta,o così così,
la vita mia a un’altra età,
se dirò mi, ti oppure ci.
FIORI DI PESCO
Fiori di pesco
nella stagione sì che preferisco
mi ricordano che col tempo cresco
VIAGGIO AL MONTE ELICONA
1° parte
Curiosa si rivolge all’orizzonte
che ancora acerbo persuasivo invita
i passi suoi a quell’agognato monte
e sente sé di sasso ormai smarrita.
Da doppia notte sono ricoperti
gli occhi che caldi nel buio di gelo
aspirano a restare solo aperti
e combattono sì contro quel velo.
Delle orecchie il tintinnante rumore
che produce tormento non recede
conduce i passi del debole cuore.
Un brivido la scuote quando è là
e la lingua si spezza perché vede
luogo di pace e di serenità.
2° parte
Tersicore coi piedi segna il tempo
del suono sinuoso da Euterpe infuso
nel mondo che è purtroppo ormai rinchiuso
nell’idea d’Arte come passatempo.
Sorride lieta Talia tra le note
mentre vivace Clio giammai riposa.
Calliope poi quelle vicende note
narra a Melpomene e lei pensierosa
osserva le stelle che Urania studia.
Ed Erato compone tra i sospiri
nuovi versi suggeriti dal cuore
e dalla mente in cui Logos tripudia.
Polimnia infine fa che le si ammiri
dell’arte silenziosa sua l’ardore.
3° parte
Sulla pietra poggia l’acqua e tace;
la capretta si staglia qui e sorride
dormiente sulla pietra che la uccide…
L’insetto d’oro e d’ebano lì giace
con quelle dolci, belle, piccole ali
che ricercano ancora fresche arie.
E le offre alle Eliconie che immortali
proteggono i cuori dalle barbarie
umane e le sofferenze addolciscono
nel cammino già aspro di viandanti.
Si inchina lei solenne alle divine
che di comporre suoni mai finiscono
e si allontana dai loro bei canti
lentamente percorrendo stradine.
Livia VICENTINI (1992)
194
La stanza è gialla. Ma non è un bel giallo zabaione, o crema.
È un bel giallo vomito.
Anche le scomode sedie su cui lei è seduta sono gialle. Di un bel giallo limone.
Attende il momento del giudizio giocherellando con il cellulare e stropicciando l’orlo
della maglietta bianca. Come una qualsiasi bambina della sua età.
Una bambina di diciotto anni e tre mesi.
L’infermiera entra nella piccola sala d’attesa, gialla, e le sorride incoraggiante.
“Il dottore ha detto che tra poco toccherà a lei.”
Lei ricambia il sorriso con uno timido e spaurito.
“Tranquilla,” dice l’infermiera, “non hai nulla da temere.”
Annuisce e torna al suo cellulare lasciando che i capelli spettinati le ricadano davanti
al volto come una barriera.
Il rumore dei tacchi dell’infermiera che esce dalla saletta spezza il silenzio.
E rimangono solo lei e il silenzio nella stanza giallo vomito.
Quando sente di nuovo i tacchi sul pavimento, si alza gettando il cellulare nella
borsa.
L’infermiera entra seguita dal dottore che non sorride.
L’ultima volta sorrideva.
Perché non sorride?
C’è forse qualche complicazione?
L’uomo apre la bocca e lei attende.
Quattro mesi sono passati. Ne restano cinque.
Leoni
“Devi diventare un leone,” gli avevano detto semplicemente.
Il suo “Ma…” si era perso nel silenzio assordante di quella pianura – fintamente –
vuota e dall’erba bruciata.
L’aria aveva lo stesso odore dei falò che facevano d’estate al suo villaggio.
Uno spintone lo fece cadere al suolo – com’era rossa la terra –.
Mentre si rialzava l’urlo del “Vecchio” spezzò il – religioso? – silenzio che era calato,
quasi fastidioso, da quando erano arrivati.
Il Vecchio e i suoi collaboratori passarono tra i giovani, che ammiravano quel
desolato paesaggio, dando in mano a ognuno un oggetto che gli ricordava
spaventosamente le pistole ad acqua con cui giocavano d’estate.
Era solo più pesante e più nero.
Spaventoso, appunto.
A casa sua c’era sicuramente il sole che faceva splendere l’acqua del mare.
Lì invece; in quella terra dimenticata da Dio e dagli uomini, la polvere sospesa
nell’aria copriva il sole come le nuvole. Che non promettevano pioggia, solo altri ordini
dall’odore ferroso.
Il loro compito lì, però, era semplice. Come in un qualsiasi gioco dovevano solo
colpire il numero più alto di avversari.
Pecore. Erano pecore.
Senza venir colpiti.
“Voi siete i leoni!”
E’ strana.
Non è normale. Dicevano.
La accusavano di essere diversa.
Ma lei non dava loro retta, persa com’era, in altri mondi.
Illusion of Normality
“Dov’è ora quella?” domandavano tutti.
Voci che si sovrapponevano creando una cacofonia di suoni inutile e insopportabile. La
piazza del piccolo paesino era gremita di gente che cercava e accusava.
Chi, probabilmente non lo sapeva nessuno.
L’importante era semplicemente cercare, adeguarsi al resto della popolazione.
Se qualcuno avesse visto la scena dall’alto, probabilmente avrebbe scambiato quegli
orgogliosi e rudi uomini di campagna per uno sciame di formiche impazzite.
Ma nessuno poteva volare.
Non in quel mondo almeno.
La Bambina sapeva che in altri mondi qualcuno in grado di volare c’era sicuramente. Lei
una notte l’aveva anche visto.
Aveva cercato di catturarlo, ma le era sfuggito dalle mani.
Il fallimento però non aveva importanza. Un giorno le avrebbe insegnato a volare e lei
sarebbe scivolata via, sulle ali del vento.
La Bambina era sdraiata sul prato, la testa posata sulla mantella rossa, lo sguardo vacuo
che guardava oltre.
Il gatto dei vicini, acciambellato a scaldarle il cuore.
Sull’erba, accanto a lei, un vecchio blocco consunto e una matita spuntata.
Un rumore di passi destò il gatto dal suo fragile sonno.
Ma non disturbò lei.
Un sassolino colpì la testa del gatto che si alzò e si allontanò sdegnato e infastidito.
“Ehi, Stramba, cosa fai? Al villaggio ti cercano tutti. Questa è la volta buona che te la fanno
pagare. Già. Sei nei guai, Stramba.”
La Bambina, come di consueto, alzò appena lo sguardo vuoto sui ragazzi del villaggio e
tornò al suo mondo.
Si portò distrattamente una mano dove prima c’era stato il gatto e dove forse avrebbe
dovuto sentire battere qualcosa.
Ma nelle orecchie aveva solo il fischio di treni in partenza, l’abbaiare di mille cani, il
rifrangersi delle onde di un oceano lontano e della pioggia che batteva tormentando una
piccola città di periferia.
Voltandosi sulla pancia la Bambina raggiunse il blocco e la matita senza doversi alzare e,
con l’erba fresca che le solleticava la pancia, appuntò qualcosa su un foglio pieno di
scarabocchi e annotazioni varie.
Quand’era nata l’avevano chiamata Fiamma.
Fiamma per via dei capelli color del fuoco che spuntavano sulla testolina rosea.
Dopo tanti anni – trascorsi in altri mondi – i capelli erano rimasti dello stesso colore, erano
solo diventati più stopposi e incorniciavano un volto dal colorito pallido.
Perfino in quel momento l’unica nota di colore erano i capelli che si mischiavano alle
fiamme che la circondavano.
Violente. E fameliche.
Il suo volto era privo di qualunque espressione, anche se le fiamme le lambivano il corpo.
Gli occhi guardavano le stelle senza vederle veramente, persi in un altro azzurro.
Intorno alle fiamme la folla urlante aizzava sé stessa contro la Bambina.
Strega, dicevano. Strega, gridavano. Strega, urlavano.
Non c’erano lacrime per lei che era colpevole – solo – di vedere altri mondi e di amarli.
Più di quello in cui era nata.
Un sussulto lo scosse e un fremito attraversò anche la folla, in attesa di un urlo di dolore
che avrebbe squassato persino la terra.
D’altronde lei era strana.
Era la figlia di un Demonio.
No?
Ma non accadde nulla di tutto ciò.
Fiamma aprì appena la bocca, come per parlare. Ma non lo fece.
Non lo faceva mai.
Forse non ne era in grado.
Poteva solo vedere, lei.
E vedeva in quel momento.
Vedeva più nitidamente di quanto avesse mai fatto.
Vedeva quel ragazzo volare, davanti a lei e sbeffeggiarla dall’alto con le sue belle ali
piumate.
Pareva un Angelo.
Istintivamente gli tese la mano.
La folla vide soltanto le fiamme avvolgerla, divorandola.
Premessa dell’Inferno a cui l’avevano destinata.
E gridavano, e ridevano, loro all’Inferno.
Fiamma, Fiamma.
Brucia per noi Fiamma.
Brucia e Splendi.
Illuminaci la strada.
Brucia per noi Fiamma.
Brucia e Splendi.
Ardi ancora per noi.
Brucia per noi Fiamma.
Brucia e Splendi.
Muori per farci luce.
Brucia per noi Fiamma.
Brucia e Splendi.
Muori e diventa una stella.
Brucia per noi Fiamma.
Brucia e Splendi.
Ardi nel nostro cielo Fiamma.
Grazia Maria MARZO (1990)
OMAGGIO A DANTE
Oh, professore, che grande emozione!
Domandarmi potrà tutto l’Inferno
prossimamente… L’interrogazione!
Valore ha la commedia certo eterno:
nell’animo solleva sentimenti
ch’io però difficilmente esterno
emozioni profonde travolgenti,
non so come definirle potrei…
lame affilate sembrano, taglienti.
Il mio stupore partire farei
dall’attualità di quelle parole.
Col proprio ingegno può l’uomo direi
raggiungere ciò che ottenere vuole.
Chi ricerca le vaste epifanie
del bello qui nelle realtà si suole
un artista per le sue fantasie
definire… Del creato risplende
in Dante la bellezza e melodie
angeliche risuonano: s’accende
nell’animo del penitente onesto
la volontà, non più infatti si arrende
al peccato, ma sperando che presto
degno di ricongiungersi a Dio sia
della purgazione prosegue lesto
il cammino, vivendo un’agonia
dolce. Avvolto in un silenzio dorato
invoca con fervore di Maria
il santo nome e verso l’alto alzato
il capo di vedere il Paradiso,
d’uno splendore candido irradiato,
brama. Qui sembra ovunque che inciso
sia l’amore, qui raffigurazione
di Dio su nell’alto dei cieli assiso
è la luce sì massima espressione.
CREPUSCOLO
Un timido chiarore tra gli abissi
di tenebre s’accende e poi scompare.
Tra nubi e soffi di color magenta
greve discende
la notte.
La luna imperla di rugiada argento
le forme.
LO SCIENZIATO
Resta seduto lì
per ore e ore e pensa
e calcola sperando di svelare
profondità e segreti.
È il desiderio
di penetrare nel mistero.
Collezionista
di conoscenza sperimenta quanto
sia difficile
dare un’occhiata alle carte di Dio.
Luisa IERVOLINO (1991)
Finché Inverno Non Ci Separi.
C’era una volta un Giardino bellissimo, che sorgeva vicino al mare. Lì stavano
moltissime e diversissime floreali creature, ognuna con il suo incantevole aroma, che si
mischiava in una piacevole danza con quello del sale marino. In questo Giardino c’erano
tanti Arbusti da frutto, tanti Cespugli a macchie gialle, rosa, viola e blu; tutti in gruppo,
ognuno col suo simile, come sull’arca di Noè.
Ma in quella biblica scena solo una verde creatura era rimasta senza compagno.
Un’unica pianta di Giglio, sola. Non bella, non brutta, ma solida e resistente al vento.
Stava in disparte nel Giardino, così che sembrava che anche i cespugli la guardassero con
disprezzo. La pianta generò un solo Bocciolo con tutte le sue forze, a fatica, come a voler
dimostrare alle altre piante crudeli di saper mettere al mondo un Giglio bellissimo, dal
candido colore. La neomadre voleva ora sentire le dolci parole del Padrone di casa, che lì
l’aveva piantata; voleva essere orgogliosa del suo pargolo.
Eccolo! Arriva! Sembrano gridare i Cespugli quando il vecchio Padrone di casa si
trascina fino al Giardino. Lento il passo, stretto tra le sue dita stava un gambo ignoto. Sul
capo del verde corpo, un piccolo vermiglio Bocciolo, ancora acerbo. Ai piedi della pianta
di Giglio, il Padrone apre una buca e vi poggia le caviglie mozze di quella nuova pianta.
Una accanto all’altro, sotto lo stesso Cielo, una Rosa rossa piantata accanto alla solitaria,
linfatica, stanca creatura di Giglio vestita.
“Piccolo figlio mio, destati! Ammira questo essere che il Destino ci ha posto vicino!”
Alle parole della dolce Madre, il bianco fiore si dischiude, stropicciandosi i petali con
le foglioline addormentate. Impossibile distoglierle gli occhi di dosso. Calamitanti
sfumature la vestono. Splendido il suo profumo, più dolce del miele che portano le Api
nell’aria.
Amore a prima vista. Lui guardava lei, lei non lo guardava affatto. E i Cespugli
attorno ridevano. “Che ridano pure!” dicevano al Giglio le Api rumorose, e lui rispondeva
guardando solo la sua bella Rosa, come se fosse stato colpito in pieno dal classico fulmine
a ciel sereno. La sera, alla luce della Luna, il Giglio cantava per Lei con la voce del Vento.
Era consapevole dell’impossibilità di quell’Amore. “Madre, Lei è così bella ed elegante.
Come potrebbe mai amarmi se neanche sa che esisto? Mi si gela la linfa al solo pensiero di
rivolgerle la parola. Vorrei, ma ho il labbro muto, e non so parlare.” Piangeva il Giglio
sulle foglie della genitrice. “Non posso che amarla da lontano, sperando che almeno
gradisca il mio canto.” E passavano i soli e le lune sulle loro chiome. Un bel giorno di
Primavera, quando le Cavolaie si inseguono in una passionale coreografia, il Padrone
scese in Giardino. Teneva in mano un oggetto che le piante avevano visto molte volte. Il
Padrone le chiama Forbici e le usa per accorciare i rami degli Alberi da frutto del Giardino.
Ma stavolta no. “Si sposa sua figlia!” gridò un Cipresso, che aveva sentito uscire, dalla sua
altezza, le parole della finestra della camera della giovane. “Vorrà un bouquet!” Le Piante
restano mute, trattengono il fiato, sperando di non essere proprio loro a dover ornare la
Sposa. Poi, dal nulla, un urlo vegetale. Alla pianta di Giglio viene portato via suo Figlio,
recise le sue caviglie con le Forbici, letale strumento.
Minuti, lunghissimi minuti dopo, il bianco fiore si ritrovò in un vaso trasparente, con
l’acqua che gli solleticava i piedi feriti e accanto ad altri fiori recisi come lui. Mai aveva
provato il contatto con altri che non fossero sua Madre. Nella moltitudine di odori e colori
la vide. La sua amata Rosa gli era capitata accanto nel caos del vaso. Il giovane Giglio ci
mise circa tre ore per convincersi a parlare. E con voce emozionata riuscì solo a dirle “Ti
amo”. Lei, imbarazzata (non curante di essere rossa già dalla nascita), emise un sospiro di
sollievo, rilassando i petali vermigli della sua chioma. “Meno male…” disse a bassa voce,
“non volevo essere io a dirlo per prima.”
Nel dì delle nozze della Figlia del Padrone di casa, stretti nel bouquet c’erano un
bellissimo Giglio e una splendida Rosa rossa, i più belli tra i Fiori del mazzo.
Quel giorno i due giovani esseri vegetali si sposarono. E vissero felici e contenti, lo
spazio di un mattino.
L’idea
Non la notai, non mi notò.
Non saprei dire chi fu di noi due
a scegliere l’altro.
Benedetta GIULIANI (1991)
L’urlo del gabbiano
Volava molto placido un gabbiano
che all’ondeggiar del mar si rallegrava
e a ogni pescatore non negava
i suoi curiosi sguardi da lontano.
Ricambia le sue occhiate una fanciulla
che tiene il bel poeta per la mano,
rapita ora lo elogia, anche se invano…
Il poeta non vuol saperne nulla,
anzi un fucile imbraccia per l’invidia.
Colpire quel pennuto è l’intenzione,
lo punta al cielo… E il sogno suo corona.
Così oramai il volatile falcidia;
memoria rimarrà dell’uccisione:
in cielo ancora l’urlo suo risuona.
Stornello (a Baudelaire)
Fior di giardino,
ebbro di male e di verde veleno
il flâneur giace. Nel calice il vino.
Flavia CRISCIOTTI (1990)
Penna
Pallida e pensierosa e lei mi guarda,
a me si accosta con le mani fredde,
algida mi tocca e l’inchiostro gela…
Se mi afferra, una Musa può donarle
smaglianti idee azzurre e cristalline
con salati pensieri di corallo.
Teme fondali che di antico odorino:
non mi impugna, ma resta pensierosa.
Signora apparenza
Sulla soglia sta una vecchia
sciapa e candida nel capo,
poi lunatica si eclissa.
Sulla soglia sta una bionda,
di oro spumeggiante adorna
e solare ti sorride.
Metamorfosi conforme
alle leggi già mondane
che la dea Venere impone
a chi fugge d’età l’eco.
Sara BELLI (1991)
La verità nella landa
La landa soffre di solitudine; aridità dell’anima talmente vivida da segmentare in
piccoli mattoncini sconnessi la sua pelle.
All’orizzonte, improvviso, un colore giù dalle montagne, ancora un’ombra di quel
che poi si vedrà, più sincera di quando poi si rivelerà; un puntino quasi, di una cromatura
fredda, sarà un verde o un azzurro, sembra scalpitare come se avesse patito una lunga
attesa.
Un’altra sagoma si profila dalla distesa delle steppe lontane: questa è di un calore
caldo, tra l’arancione e il rosso, una piccola immagine ancora leggera.
Fiamme nella nebbia, avanzano uno da una parte, l’altro dall’opposta.
È ormai deciso che si incontrino. Si cercano: si pretendono. Miscela di due corpi che
non intendono se stessi, ma è un letale fondersi di un uomo e di una donna, fusione
suggellata dal vento che invano cerca di separare i due corpi.
Un raggio illumina la landa, ormai eclissata davanti a quella verità, che, con
semplicità, insegna l’amore.
Ileana CAMERATA (1989)
Io sono l’inquietudine
che fa penare gli uomini.
Di fronte a me rovinano gli imperi.
Sono la coppa del piacere
che profuma di rosa e di mughetto.
Figlia della Purezza e del Peccato
che ha per dimora uno splendido letto.
Essenza sono, spirito. Nient’altro
che calda proiezione di una dolce
notte d’Oriente.
Ho un solo fine: la Follia
di un istante senza futuro.
Vi chiedete chi io sia? Sono l’ardore,
e fame e febbre, sete e smania. Ancora
non avete capito? Il nome mio
è Desiderio.
Carlotta DE GAETANO (1989)
STORIA DI UNA SCONOSCIUTA
6.40 di un giorno X
Primo pensiero: “Di nuovo…”
Ormai erano due settimane che si svegliava così tardi, con il grandissimo rischio di
perdere il lavoro se avesse continuato a non arrivare in orario in ufficio.
Sempre tutto di corsa: lavarsi, vestirsi, addentare un cornetto e uscire di casa con la
giacca sopra solo una spalla e il cornetto che spunta dalla bocca, come la coda di un topo
che sbuca dalla bocca del gatto.
Tap, tap, tap… Il rumore dei tacchi che calpestano il marciapiede di quella strada
deserta alle sette del mattino; una luce fioca viene sprigionata dalla saracinesca mezza
chiusa del fornaio. Cammina, sente un forte odore di pane, non vede, ma sa che cosa sta
succedendo, ne è sicura, lo immagina: il panettiere sta sfornando il pane caldo dal forno e
lo sta facendo scivolare, dalla pala di legno, sul tavolo, pronto per essere messo in vendita.
Dall’altra parte della strada il giornalaio sta sistemando le riviste e i quotidiani.
Tap, tap, tap… cammina, cammina, è tardi… Arriva alla fermata dell’autobus,
guarda l’orologio.
“Wow… sto diventando sempre più brava solo sei minuti per arrivare alla fermata
del bus, venendo da casa. Complimenti vivissimi a me stessa, anche se credevo di averci
messo dei secoli.”
Arriva l’autobus che la porterà a destinazione; sale i tre scalini, c’è un posto, si siede.
Si guarda intorno. C’è un bambino seduto di fronte a lei, accanto la presunta madre.
Che buffo che è!... E’ stupendo guardare i bambini. Sono ingenui. Non si accorgono
che li stai fissando, o forse se ne accorgono ma non gli interessa. A un tratto le sembra che
tutte le poche persone sul bus stiano guardando il piccolo, ma è solo un flash.
I bimbi sono così squisitamente dolci quando tentano di capire le cose. Eccolo, eccolo;
ha un pacchetto di caramelle in mano. Lo osserva. Lo scruta. Lo gira. È vuoto. L’ultima
caramella la sta masticando lui, svogliatamente. Avvicina il pacchetto al volto, restringe il
campo visivo socchiudendo gli occhi e muove le labbra. Sta provando a leggere. Interpella
la mamma tirandole la manica della maglietta, sbarrando gli occhi e spalancando la bocca
per mostrare un gran sorriso senza denti. Tutto eccitato indica il pacchetto e dice
qualcosa… La mamma sorride, ma è triste o, per meglio dire, è stanca, risponde qualcosa,
ma io non sento, c’è troppo rumore.
Scende dall’autobus, fa dieci metri ed entra nella metro. Fa freddo. La velocità dei
treni provoca uno spostamento troppo forte.
And so it is / The shorter story/ No love no glory/ No hero in her skies / I can't take my eyes
off of you/
La musica le rimbomba nelle orecchie.
Cammina spedita, volto serio, non guarda in faccia a nessuno, non si sposta per
nessuno, nessun sorriso, soltanto la musica triste e malinconica che suona e smuove i suoi
timpani. Nel cervello un insieme di turbini e vortici colorati danzano felici, come le foglie
che cadendo dagli alberi piroettano allegre finché non muoiono, giacendo sul terreno.
Sbrigati sei in ritardo. Che strano, mi sono sempre chiesta perché, se ci sono due scale
per scendere al piano inferiore, la gente tenda a prendere la scala di sinistra. Quella di
destra è sempre vuota. Prenderò quella di destra, in fondo siamo sole tutte e due. Eccoci
qui; io e te. Avanti, portami verso l’Ade.
In effetti la scala mobile della metro è talmente alta e irta che può sembrare un modo
innovativo per arrivare all’inferno. Se Dante fosse vissuto in questo secolo, probabilmente
avrebbe narrato di essere giunto nell’inferno con una scala mobile e di essere arrivato in
paradiso con un ascensore.
Rumori in lontananza, la gente comincia a correre, sono i fischi di un treno che sta
dicendo di allontanarsi dalla linea gialla. Non ce la farò mai a prendere questo treno!
pensa a voce alta.
A un tratto, una mano, dolce e gentile, le afferra il polso delicatamente. Lei è
perplessa.
La persona che le ha afferrato il polso si gira, la guarda. “Andiamo, straniera!” e con
un sorriso la invita a correre verso le porte della metro. Un minuto lungo un’eternità, uno
strano sorriso le si dipinge sul volto, la voglia incredibile di prendere quel treno. Le porte,
sempre più vicine, sempre più vicine. Sono dentro.
Lei si mette a ridere, poi alza lo sguardo e vede il volto perplesso di lui. Lei si fa seria.
Lui comincia a ridere. Ridono.
“Devi vivere la vita con più serenità e ottimismo, altrimenti non arriverai mai da
nessuna parte. Come oggi, se non avessi preso la metro, non saresti arrivata da nessuna
parte giusto?”
“Giusto…” Lo guarda sbalordita e perplessa. Chi è questo sconosciuto, che vuole da
lei? Eppure è stato tanto carino, ma perché? Sembra un angelo. È bello, ha dei lunghi
capelli bruni, i lineamenti del volto morbidi, occhi grandi e chiari. Questo ragazzo mi
riempie di gioia. Sono con lui da poco minuti e sono piena di armonia. Chi è?
“Piacere! Mi chiamo Gabriel. Purtroppo a breve ti porterò via da qui,” dice.
Il cuore di lei, che fino a poco prima batteva all’impazzata, sta lentamente
cominciando a rallentare. Una strana sensazione, non è inquietudine, come quella, sana,
che si può provare quando ci si sente a disagio, è paura bella e buona mista a un senso
di… armonia.
“Ma adesso dimmi, tu chi sei?” chiede lui.
O mio Dio, dopo anni e anni di solitudine e malinconia, mi sento così felice e in più
ho conosciuto un uomo bello e pazzo che finalmente mi afferra nel mio tunnel buio e mi
tira fuori, per farmi vedere di nuovo la luce, la vita, per farmi provare più emozioni. Non
sarò più una sconosciuta! Ho atteso questo momento per troppo tempo, pensa.
“Il mio nome è…”
Ma un uomo, seduto in fondo alla carrozza, si alza: “In Dio sta la mia difesa: egli
salva chi ha il cuore sincero. Dio è un giudice giusto, ogni giorno castiga i colpevoli. Se
non si convertono affila la spada, tende l’arco e prende la mira, prepara strumenti di morte
e lancia frecce di fuoco. I malvagi fanno una buca, la scavano profonda, ma sono loro a
cadere nella fossa. E voi siete tutti peccatori!”
L’uomo apre il cappotto per mostrare le cariche di tritolo legate alla vita. In tutta la
carrozza c’è silenzio. L’uomo si guarda intorno, prende un telecomando con un solo
bottone, sul suo volto compare un ghigno…
Boom!
Questa è la storia di una sconosciuta. Di lei non sappiamo nulla, non è nemmeno
citata nell’elenco di coloro che sono morti nella catastrofe della metro del 1996. Sembra che
un pazzo abbia deciso di “punire i peccatori” scegliendo il posto più affollato della città
nell’ora di punta.
Nella mente mi risuona ancora la canzone che stavo ascoltando in quell’ultimo
istante prima della fine. Faceva più o meno così: You are no more alive / And tomorrow you'll
be forgotten.
Non mi lamento, saluto e vado a dormire.
Annamaria LAUDINI (1992)
Il furto più bello
Particolari i giochi della mente
perchè vede solo quando non sente?
Decifrare non sa gli scarabocchi
che leggo invece scritti nei tuoi occhi.
Segni, forme, colori, brevi tratti
tutto un insieme di veloci scatti
che rapisco ogni giorno dal tuo sguardo
lungo, profondo, mai messo da parte:
di certo non sarò un critico d’arte
ma piuttosto un appassionato ladro
intento a rubarti, splendido quadro.
Stefania D’AMICO (1990)
Il roseto dei mali
Italia, figlia e madre della storia
Tu, la culla di antiche tradizioni,
cammini desolata tra le spine
che strappano il mantello tricolore.
Le rose sparse dalla Corruzione
sono diverse e ognuna ha il proprio nome:
la più grande è la Crisi Economica,
la meno profumata è l’Emergenza
a Napoli, la più nera è l’Indulto,
la più rossa è la Malasanità.
Ma ora guarda là, all’orizzonte:
non più rose pungenti ma felici
garofani bianchi attendono te,
Italia, suddita e regina di vittoria.
Margherita GALLO (1992)
ABBECEDARIO
Ansia
Bruciante
Come
Dardo
Folle di
Godimento
Hai
Invaso i
Lontani
Meandri
Nascosti dell’anima.
Ora
Perversa
Quando
Rovistinel cuore
Senza
Tranquillità,
Ubriaca
Viaggi
Zuppa di sofferenza
Francesco LOSAPIO (1987)
Io
Il crepuscolo faceva vergognare i palazzi, incapaci di darsi un tono; le nuvole
stracciate si disponevano sventagliando sulle terrazze, attraversate da stormi chiassosi.
In tutta l’Inghilterra, tazze d’acqua calda prendevano lo stesso colore dei palazzi,
fumigando con gentilezza.
La calma era così assoluta che il cucchiaino tuonava contro la porcellana decorata,
disturbando le riflessioni di un gatto assopito.
Il sole avrebbe lasciato allo zucchero appena il tempo di sciogliersi, e poi sarebbe
sparito.
Questo lo sapevo, e lo sapeva anche il gatto, ma non potevamo farci niente.
Niente, potevo solo guardare fisso il tè, il gatto, la finestra, le foto sul tavolino.
E ancora guardare fisso le mie medaglie, la mia laurea sul muro, il muro, lo strappo
nella carta da parati e infine di nuovo il tè. Sperai di vedere il gatto muoversi, o qualsiasi
cosa succedere intorno a me.
Non si sentiva scorrere il tempo.
Devo comprare una pendola, nei film non mancano mai. Quando c’è da riempire un
silenzio compare dal nulla una pendola.
O le cicale.
Devo piantare un albero, potrebbe popolarsi di cicale in estate.
Intanto lo zucchero si era sciolto, e la luce era colata via dai tetti come caramello.
Inventavo migliaia di queste similitudini, potevo passare ore a immaginare la realtà
che osservavo, a darle un volto nuovo.
Immaginavo le foglie cadere in autunno, e di notte arrampicarsi non viste sugli
alberi, per nascondersi fino alla primavera successiva e poi spuntare di nuovo.
Immaginavo che in casa mia si svolgessero convegni di spiriti muti, che inventavano
ogni sorta di gesto per prendersi gioco di me, sempre dietro alle mie spalle.
Immaginavo il sole riempire il cielo di vino bianco, ambrato; lo vedevo svuotarsi
lentamente, e ubriacare il crepuscolo fino a farlo crollare in un delirio impressionista.
Immaginavo tutto, ma potevo solo immaginarlo.
Succede,quando sei paralitico.
Puoi immaginare migliaia di mondi, ma ti tocca vivere nel tuo.
EMET
Un chilo e sette, Zero negativo, ispidi capelli neri:Gabriele era un neonato speciale.
In un certo senso,sarebbe sempre rimasto legato a quel momento della nostra vita in
cui il mondo intorno ci sembra essere gigantesco, composto solo da ostacoli e distanze
impercorribili. Sua madre forse non comprese appieno cosa l’avrebbe aspettata,e accettò di
partorirlo così com’era:un nano.
Gabriele visse la sua prima adolescenza colpito dalla luce che entrava dalle finestre di
casa sua, che lo feriva dritto negli occhi. Crebbe con la convinzione che la luce fosse fatta
apposta per nascondergli qualcosa,forse proprio quella cosa di cui parlava sempre la
mamma.
La mamma diceva che il Signore aveva deciso così, e lei non poteva fare altro che
accettare, e sopportare, e pregare, e piangere la notte quando nessuno guardava. Ma
Gabriele non capiva.
Chi era questo Signore? Perché lo aveva voluto alto un metro e venticinque? Era forse
suo padre, quello sparito pochi giorni prima del parto, ad aver deciso tutto?
Gabriele smise di crescere, ma il suo nome si gonfiava. Chiunque lo conoscesse o lo
avesse anche solo visto di sfuggita lo chiamava in modo diverso, con quel bisbiglio non
troppo nascosto. Tra tutti gli insulti, gli storpiamenti e i soprannomi, ce n’era uno che
Gabriele preferiva, sicuramente per il brillante sarcasmo che denotava. Gli piaceva essere
chiamato Golia.
All’inizio non aveva idea di chi fosse questo Golia, ma poi lo aveva chiesto alla
mamma. La mamma leggeva sempre un grosso librone, e diceva che lì si trovano tutte le
risposte a tutte le domande. Il librone non lo deluse,svelandogli l’antica storia del gigante
Golia e di re Davide. Golia era un bel nome, anche se poi la storia finiva male. La mamma
preferiva dire che la storia finiva come voleva il Signore.
A Golia non piaceva questo Signore, ma scoprì di avere qualcosa in comune con lui: i
soprannomi.
Ma quelli del Signore erano antipatici: lui era Onnipotente, Re dei popoli, Eterno ma
soprattutto era Altissimo.
Golia odiava quelli alti, tranne la mamma, che comunque lo superava solo di una
quarantina di centimetri.
Ormai nella vita di Golia l’unica cosa che aumentava erano le candeline sulla torta, il
resto rimaneva corto e deforme.
Golia doveva trovare il Signore e dirgli che così non andava bene, e che la mamma
piangeva sempre quando pensava che nessuno la sentisse. Nessuno fa piangere la mamma,
nemmeno l’Altissimo.
La mamma pianse anche quando Golia compì ventisette anni, ma quella volta lo fece
davanti a tutti. Poi quella sera stessa prese Golia da una parte, lo sollevò e lo mise sopra al
tavolo per poterlo guardare in faccia. Gli raccontò tutto, di come lei avrebbe voluto abortire,
di quanto era stato codardo suo padre, ma soprattutto gli parlò del Don.
Il Don aveva spinto tanto perché Golia venisse partorito, e ogni volta che sentiva
parlare di aborto si faceva il segno della croce e urlava. Era stato lui a convincere la mamma
a partorire, ma non fu di grande aiuto quando lei rimase sola in sala parto. La mamma
credeva molto nel Signore, e il Don era un ministro diretto dell’Altissimo. Golia si illuminò.
In precedenza la mamma gli aveva detto di trovare Dio dentro il suo cuore, ma Golia
aveva smesso di cercarlo quando avevano dovuto operarlo proprio lì. La cassa toracica era
troppo piccola per contenere sia il cuore che Dio, eppure il cuore continuava a crescere.
Così Golia si tenne il cuore, e decise di scacciare Dio da uno spazio già troppo stretto.
Dalla mamma seppe il nome del Don, che si era trasferito e che era diventato un
ministro di grado più alto.
Di nuovo una persona alta. Golia doveva vederlo,b doveva fargli capire che se lui era
diventato alto era perché qualcun altro era rimasto basso. Golia andò diverse volte in quel
posto, in cui il Don abitava e diceva messa. Lo osservò. Anche il Don aveva paura di quelli
più alti di lui, infatti aveva fatto mettere le sbarre alle finestre e blindare le porte. Il bagno
aveva una finestra,ma era piccola, troppo piccola. Per questo il Don non ci aveva messo le
sbarre, a che sarebbe servito? Golia capì che il Signore gli aveva dato un segno.
Lui aveva bussato, e il Signore gli aveva aperto.
La mamma aveva pianto anche quella notte, e anche quella notte si era addormentata
esausta. Golia iniziò a scendere le scale, aggrappandosi disperato agli irraggiungibili
corrimano. Uscito dal portone iniziò a correre, con l’andatura grottesca a cui lo obbligavano
le sue gambe. La parrocchia era lontana, ma aveva calcolato i tempi, sarebbe tornato a casa
prima dell’alba.
Aveva deciso di andare di notte, perché se avesse tentato di avvicinare il Don durante
il giorno sicuramente sarebbe stato ignorato. Per tutta la vita era stato messo da parte, aveva
avuto paura di chiunque avesse un cane grande abbastanza da sovrastarlo, si era sentito
fuori posto nei cinema. Ne era certo, anche il Don lo avrebbe trascurato e vilipeso, come tutti
gli altri. Per questo doveva coglierlo nel sonno, non si sarebbe potuto tirare indietro. Per la
prima volta Golia sentì che avrebbe potuto fare paura a qualcuno, lui che aveva sempre
temuto. Gli avrebbe solo parlato,ma con asprezza.
La finestra del bagno era aperta: Dio era con lui!
Golia aveva calcolato tutto:fece il giro della parrocchia e trovò la scala esattamente
dove era nei giorni precedenti. Fu molto accorto nel farla scivolare pian piano verso terra, e
poi iniziò a trascinarla. Aveva pensato anche al rumore, e aveva notato che all’interno della
chiesa non si sentiva niente di quello che succedeva fuori.
Passi…
Golia si fermò, e non avrebbe potuto fare altro che rimanere immobile.
L’uomo portava una scala, ma la sua altezza gli permetteva di tenerla sollevata da
terra.
Quando i due incrociarono lo sguardo, l’uomo alto emise uno sghignazzo sommesso,
poi a bassa voce disse a Golia che era furbo, e che aveva un bel coraggio a fare quel mestiere
nelle sue condizioni.
Golia chiese al ladro il suo nome: Emanuele.
I due si misero d’accordo tra parole e gesti, ed Emanuele spiegò che sarebbe entrato dal
terrazzo.
Certo, lui la scala poteva allungarla fino a lì sopra, osservò Golia.
Emanuele sarebbe andato per primo, poi avrebbe aperto la porta a Golia ed avrebbero
diviso il ricavato.
Golia sapeva che non sarebbe andata così, che invece Emanuele lo avrebbe messo a
tacere con una sberla e gli avrebbe sottratto la sua parte di bottino.
Ma per fortuna a Golia non interessavano né il calice dorato né la costosa pisside: lui
voleva il Don.
Emanuele piazzò la scala,e quando piegò la gamba per salire il suo bomber nero lasciò
scoperta la schiena, e il calcio di una pistola. Era infilata nei jeans,e baluginava colpevole
sotto la luce gialla dei lampioni.
Quel bagliore permise a Golia di scacciare anche l’ultimo pezzetto di Altissimo rimasto
nel suo cuore, e decise che avrebbe punito una volta per tutte quell’affittuario moroso.
La scala vacilla sotto la spinta di due corte braccia.
Emanuele grida qualcosa di cattivo alla mamma di Golia, ma poi cade dall’alto del
terrazzo con un tonfo mortale.
Le luci si accendono tutte, ma quelle manine infervorate stringono già la pistola.
Il portone si apre, la luce inonda la strada e proietta l’ombra della grata sulla sagoma
deforme di Golia.
Aggrappato alla grata c’è un signore alto, coi capelli bianchi, magro e tremante come
un cane infreddolito.
Golia stringe i denti, si volta:
- Padre Davide?
- Sono io…”
La pallottola si infisse nella testa del Don, che cadde con la faccia a terra.
haiku
la vela gonfia
brama il giro di boa
schiocca uno strappo
dondola l’onda
scherza tra sassi e scogli
spuma brillante
casse stracolme
indietreggiando fugge
la grande ola
Martina BORZI (1992)
Sigaretta (versi ropalici)
un
dolce
respiro
doloroso
rapidamente
diventato
soffice
fumo
blu
Nota del docente curatore
Spicca in questa antologia un dato di fondo. La varietà delle tematiche, spesso legate
alla contemporaneità, insieme alla fusione di più aspetti: ludico, elegiaco, civile.
Un’operazione di creatività, di composizione creativa, sagacemente vincolata da una
ineccepibile strumentazione formale. I versi risaltano per valentia e valenza sul piano
metrico-ritmico, fonetico e retorico; le prose si caratterizzano per dosaggio di espedienti
narrativi. Tutto nel segno, e nel solco, di ariosi referenti letterari: dall’epigramma al
monologo, dalla terza rima al sonetto, fino al simbolismo e al surrealismo. Un’operazione
‘robusta’, e per sviluppo tematico e per variazioni di stile. E, in più, originale: ché gli echi
del mondo classico e di quello contemporaneo, tutti i materiali proposti e argomentati in
sede scolastica, sono stati filtrati, metabolizzati, riproposti in versione appunto nuova,
senza traccia di calco pedissequo.
L’auspicio per chi scrive è che l’Officina di scrittura trovi ancora modo di esprimere
la voce di giovani scrittori.
Giuseppe Ligotti