Mi piacerebbe... Mi piacerebbe chiamarmi Pepe de

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Mi piacerebbe... Mi piacerebbe chiamarmi Pepe de
Mi piacerebbe...
Mi piacerebbe chiamarmi Pepe de Dosendos. Così,
per una strana voglia d’essere diverso da come sono, anche se non è necessario che ci sia sempre una ragione
per ogni cosa.
Pepe, perché secondo Roberto Bolaño è un diminutivo “affettuoso, affabile, cordiale, che non sminuisce
né ingigantisce”, e per quanto mi riguarda perché Pepe
odora di sbarazzino e un poco ribaldo, proprio come piacerebbe essere a me. Poi, e per finirla, Pepe è il nome
di Schiaffino, la più grande mezza ala di tutti i tempi.
Almeno a mio vedere.
Il cognome, de Dosendos, significa in lingua spagnola “a due a due” o meglio “due alla volta”, esattamente
come il mio vero cognome che, di derivazione latina,
indicava, ma non lo giurerei, quei servi della gleba cui
spettava il privilegio di essere venduti in coppia, per
mantenere l’unità della famiglia. Più precisamente, nella lingua spagnola due alla volta si dice “de dos en dos”,
da me riarticolato in “Dosendos” con il vezzo di tenere
separato un “de” minuscolo per darmi un sapore di nobiltà.
Devo anche dire che il mio cognome, data la sua brevità, può essere utilizzato come richiamo blando, “ehi
bini”, oppure imperioso, “bini!”. E la cosa mi disturba.
Diverso se mi chiamassi De Tolomeis o Imposimato, che
già di per sé i cognomi lunghi incutono rispetto. Invece
i cognomi brevi ti fanno mancare di rispetto, soprattutto
se di origine toscana. Sanno di contadino, di poveraccio,
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di servo della gleba, appunto. Questo non avviene per i
colori, come chiamarsi verdi, rossi o bianchi.
Sono nato a Roseto, nella Valle dei Lumi, in anni che
ormai fan parte del “c’era una volta”. Attorno all’anno
di vita i miei mi portarono a Trieste e affermo di avere
ricordi precisi di quei tempi. Quando li raccontavo, mia
madre diceva che non poteva essere vero, che ero troppo
piccolo, che erano cose che avevo sentito rammentare
dopo, in casa. Ma io so che sono ricordi veri, tanto che
lei, sotto sotto, ne rimaneva sorpresa. Non le ho mai detto che ricordo anche il momento in cui sono nato, come
una illuminazione, la netta, precisa percezione del passaggio da una condizione a un’altra. Non l’ho mai detto per non preoccuparla. Avrebbe pensato che anch’io
propendessi alla pazzia, visto che vengo da famiglie
dove lo stordimento e la leggerezza mentale non sono
fatti inusuali. Poi, leggendo di psicoanalisi, ho trovato
la conferma che esistono persino ricordi pre-natali. Ma
non ho voluto insistere.
Ricordo Pippo, l’aereo di ricognizione che passava di
notte a vedere se tutte le luci erano spente, altrimenti, dicevano, faceva bombardare. Però bombardavano anche
di giorno, con le luci spente. Non ho mai capito appieno
la storia di Pippo; ma in casa, con tutti gli scuri chiusi,
era persino bello quel brivido lungo la schiena quando
mio padre, all’improvviso, orecchio teso, diceva “ssst,
sta passando Pippo”, come se ci potesse anche sentire.
E ancora, ricordo certe fughe notturne, in braccio a
mio padre, nel piccolo rifugio posto tra le mura e la scalinata del castello Carpena. Dentro restavano le donne
mentre gli uomini uscivano sull’imboccatura a guardare: virili e sordi al richiamo delle mogli terrorizzate dalle schegge che non facevano distinzioni. Mia madre mi
stringeva forte e avrei voluto che quella protezione non
finisse mai. Quella stretta a volte la risento ancora.
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Roseto in Val dei Lumi
Voglio subito precisare una cosa: io, nella vita, sono
sempre stato una mezzasega, come altri. A differenza di
altri, però, l’ ho sempre saputo e mi sono comportato
di conseguenza. Obbediente, senza schiamazzi o voglie
di rivincita. “Il destino è il carattere” (o viceversa, non
ricordo bene) scrive una delle mie eroine preferite.
Roseto! Lontano, negli anni di lavoro in altre città, di
notte ho sognato spesso Roseto. Il lavatoio dei “carobbi”, promiscuo di donne e bambini, panni e sapone, le
vasche profonde dove immergevano, sedere all’aria e
seni sporti, le lenzuola per il risciacquo tirandole poi su
con un ampio giro del braccio, un gesto sapiente per farle pesare di meno allo sforzo.
Il vecchio mercato ortofrutticolo, laggiù in Sobborgo
Spina, che per me era già fuori città. Mi ci attirava il profumo amaro del carciofo e quello pungente del cipollino
e d’estate l’odore dolce, insinuante, delle pesche della
Valle dei Lumi, pesche irripetibili, succose al morso e
di piacere intenso, che non ci sono più. E i pomodori
appena colti sui cui restava ancora il sentore acuto del
gambo staccato, quasi ricordo di cordone ombelicale.
Quando torno mi aggiro cercando questi odori perduti
per sempre e come un novello Augusto, estraneo a un
paese non più mio, mormoro, non urlo, “Roseto ridammi i miei odori”. Ma anche Roseto “ridammi la mia tettoia”, ampia e ombrosa, brulicante di persone e di suoni.
Ridammi i misteri delle tue penombre estive, i ricordi della infanzia, la serena onnipotenza della prima
adolescenza quando mi sembrava di tenere in mano tutti
i confini del mio universo fatto di angoli di strade, case,
chiese, profondi cortili e persone conosciute, almeno
alla vista. Quella città mezzo contadina e mezzo operaia, di scherzi grevi e affabulazioni boccaccesche, di
gonne sotto le ginocchia, leggermente strette a tubo, che
lasciavano immaginare l’avanzare alternato delle cosce
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e godere il ritmo ondulatorio – l’un, due, tre, quattro –
delle natiche sospese sui tacchi a spillo. Se mi capitasse
di scambiare ricordi e fantasie con altri dei miei tempi
sosterrei che il primato spetti alla “Svincoli”, non a caso
chiamata così. Ce ne sarebbero delle altre, certo, che poi
ciascuno ha i suoi gusti, ma le ricordo più loffie, senza
quella secchezza imperiosa e altera della Svincoli, insomma per me la Schiaffino di questo argomento.
Eravamo un mucchietto di bimbi a passare il pomeriggio nella parte più alta del vicolo Bonicelli diviso
con gli avventori del Cantinone, che pisciavano contro
i muri nella parte che dà verso la piazza della chiesa. A
guardia del confine c’erano le mamme che dalla finestra urlavano “a quegli sporcaccioni” di pisciare più giù,
non dove giocavano i “menin”. Una nidiata nata qualche
mese prima della entrata in guerra, ultimo spasmo della vocazione nazionale alla fecondità, tutti con gambe
magre e secche e il bozzo delle ginocchia come vistosa
protuberanza.
Giocavano agli “scatucin” e alla “bala”. Con lo scatucin, il tappo di metallo colorato della birra o delle bibite, si faceva il Giro d’Italia. Pescio, l’artista fra noi,
disegnava con il carbone le tappe sul selciato: di pianura, di salita e a cronometro. Lo scatucin schiacciato era
giusto per la salita, quello bombato per la cronometro.
Per la pianura ciascuno aveva le sue preferenze. C’era
chi tirava con il dito medio, chi con il pollice, però – a fil
di tecnica – il pollice dava maggior sicurezza nelle salite
piene di curve e il medio maggior impulso per i percorsi
più lineari. Se uscivi fuori del tracciato il tiro era nullo e
restavi indietro. Al termine della tappa il ritardo dal vincitore veniva misurato dal numero di tiri necessari per
raggiungere il traguardo. E così sino alla fine dell’intero
giro. Nelle corse a tappe, si sa, in alcune perdi e in altre
recuperi e quello che conta è il risultato finale.
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