Introduzione tentativo
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Introduzione tentativo
i Travel to Encounter: viaggi e alterità nella letteratura italiana sull’Africa tra diciannovesimo e ventesimo secolo. Cristiana Furlan, Department of Italian Studies McGill University, Montr»al May 2009 A thesis submitted to McGill University in partial fulfillment of the requirements of the degree of Ph.D Copyright © 2009 of Cristiana Furlan ii Abstract Travel as a primary human activity has long been examined in all its different facets and functions: exploration, discovery, conquest, quest for the unknown. It has been considered a means of self-discovery and selfdetermination. The scholarly literature on this topic has revealed that far from corresponding simply to a physical displacement, traveling represents above all a cognitive moment. Building on travel as a privileged moment to acquire knowledge, this dissertation focuses on how physical displacement to non-familiar places and the encounter with a different civilization can change the mental structures and cultural categories of the traveler. Particular attention is devoted to the relationship between the traveler and the Other, in this specific case the populations of Africa. My discussion takes into consideration the writings of three Italian authors who traveled to Africa at three very different but equally important moments in African history. Gaetano Casati was an explorer and witnessed the first phases of European colonization in North Africa. Alberto Moravia visited Africa after the sixties and witnessed the decolonization process. Finally, Gianni Celati traveled to the continent at the end of the 20th century and experienced the profound contradictions besetting contemporary post-colonial and neo-colonial Africa. Although the historical context is necessary to understand the relational dynamics into play, the main argument of this thesis, i.e., the encounter with the Other, is explored within the post-colonial and cultural studies framework. This approach sheds new light on the texts, making new and different critical interpretations possible. Within this distinctive perspective, travel becomes the moment in which the encounter with the Other takes place. This framework, along with the phenomenological approach developed by Emmanuel Lévinas, has allowed me to emphasize the dialectical relationship between the Self and the Other. A very contradictory reality has emerged, which continues to be problematic in recent years in spite of the fact that today people can travel more often and faster. In the final analysis, the nature of the traveler‟s relationship with the Other emerges ever more clearly as the result of a fundamental ethical choice. iii Résumé Le voyage est, depuis toujours, une des plus importantes activités auxquelles l‟humain s‟adonne: qu‟il s‟agisse d‟exploration, de découverte, de conquête, d‟une recherche de l‟inconnu ou d‟une quête d‟identité, les fonctions symboliques et métaphoriques du voyage ont fait déjà l‟objet de nombreuses études. Ces dernières se sont d‟ailleurs toutes attardées à un aspect primordial: le voyage ne signifie pas seulement un déplacement physique, il est avant tout un moment cognitif. La présente thèse se penche précisément sur cet aspect pour en mieux faire ressortir les différents enjeux. Partant de la prémisse que le voyage constitue un moment propice à l‟acquisition de nouvelles connaissances, nous démontrons comment le déplacement physique vers et à l‟intérieur de lieux étrangers ainsi que la rencontre avec l‟Autre – dans le cas qui nous préoccupe ici, les différentes populations de l‟Afrique – influencent et modifient les structures culturelles du voyageur. Le corpus analysé est formé des récits de voyage de trois auteurs qui ont visité l‟Afrique à trois moments historiques différents mais tous aussi significatifs: l‟exploration et la colonisation, la décolonisation, et enfin l‟Afrique contemporaine aux prises avec la néo-colonisation et la pauvreté. Bien qu‟une mise en contexte historique s‟avère importante pour comprendre les récits de Gaetano Casati, Alberto Moravia et Gianni Celati, l‟axe principal autour duquel tourne la présente thèse – la relation à l‟Autre – sera abordé à partir d‟un cadre théorique inspiré de la critique post-coloniale et des études culturelles. Ces approches combinées nous permettent de lire ces textes d‟un point de vue différent et, par conséquent, d‟en livrer une nouvelle interprétation. Ce cadre critique, uni à l‟approche phénoménologique d‟Emmanuel Lévinas, nous permet ainsi de considérer la rencontre avec l‟Autre qui émerge de l‟expérience du voyage comme un moment charnière de la relation entre le soi et l‟autre, une relation dont la réalité vécue s‟avère hautement complexe et contradictoire, dans toutes les époques prises en considérations, et donc aussi dans la contemporanéité. En effet, bien que les voyages soient beaucoup plus fréquents aujourd‟hui, et bien que les possibilités de rencontre avec l‟Autre s‟en trouvent multipliées, cette relation reste encore difficile à définir. Les termes à partir desquels la relation à l‟Autre se développe demeurent, ultimement, le choix éthique du voyageur. iv Abstract italiano Il viaggio come fondamentale attività umana è da sempre oggetto di studio. Lo si è esaminato in tutte le sue diverse funzioni: esplorazione, scoperta, conquista, definizione geografica del globo terrestre, ricerca dell‟ignoto, strumento di crescita e di definizione dell‟identità. Nel passato ne è stato spesso sottolineato il valore simbolico e metaforico. Dagli studi effettuati sulla letteratura odeporica emerge un elemento ricorrente e che rimanda ad una funzione quasi primordiale: il viaggio oltre ad essere uno spostamento fisico è anche un momento cognitivo. Questa tesi sviluppa il proprio argomento muovendo da questo assunto. Considerando il viaggio come un momento grazie al quale si acquisisce conoscenza, si dimostrerà come lo spostamento fisico in luoghi non familiari, e l‟incontro/scontro con il diverso da sé, agiscano sulle strutture culturali del viaggiatore. In questa sede, una specifica attenzione è dedicata al rapporto con l‟Altro, in questo caso le diverse popolazioni africane incontrate, e a come questo rapporto si è sviluppato nei diversi scrittori analizzati. Vengono presi in considerazione gli scritti di viaggio di tre scrittori italiani che hanno visitato l‟Africa in tre momenti differenti, ma ugualmente significativi, della storia del continente: la fase di esplorazione e colonizzazione, il periodo di decolonizzazione ed infine l‟epoca contemporanea in cui l‟Africa è divisa fra neocolonialismo e povertà. La contestualizzazione storica è necessaria per la comprensione degli scritti di Gaetano Casati, Alberto Moravia e Gianni Celati; tuttavia il motivo principale di questo studio, l‟incontro/scontro con l‟alterità, viene sviluppato attraverso l‟apporto teorico dei cultural studies e della critica post-colonial. Questa cornice critica, di sviluppo relativamente recente, permette di affrontare i testi da una diversa prospettiva, fornendo, quindi, nuove possibilità interpretative. Essa, affiancata all‟approccio fenomenologico suggerito da Emmanuel Lévinas, mi ha permesso di considerare il viaggio come il momento in cui avviene l‟incontro con il diverso da sé, e di analizzare i termini della dialettica relazionale fra il sé e l‟altro. Ne è emersa una realtà estremamente complessa ed anche contraddittoria, che continua a contraddistinguere l‟esperienza del viaggio anche nella contemporaneità, nonostante la facilità e la frequenza con cui oggi l‟incontro con l‟altro può avvenire. In ultima analisi, i termini in cui il rapporto con l‟altro può svilupparsi emergono sempre più chiaramente come collegati ad una scelta etica del viaggiatore. v Acknowledgments Anche scrivere una tesi è un viaggio. Nel mio caso è stato un vero e proprio percorso di vita che mi ha portato a vivere in un altro continente. Fra tutte le persone che mi hanno accompagnata in questo viaggio voglio in primo luogo ringraziare il mio supervisor Eugenio Bolongaro, senza dubbio l‟uomo più intelligente che io abbia conosciuto. Le lunghe chiacchierate nel suo ufficio erano sempre dei viaggi in nuove direzioni della conoscenza. La sua capacità di dare ad ogni argomento una luce nuova, di rendere unico ogni concetto e di organizzare in modo assurdamente lucido anche le astrazioni più ineffabili, rimarranno per me il modello intellettuale da seguire. Lo ringrazio per avermi guidata dalla prima pagina all‟ultimo modulo da compilare, per i suoi preziosissimi suggerimenti, la sua concretezza e la pazienza nell‟effettuare le correzioni. Voglio inoltre ringraziare tutti i professori del Dipartimento di Italiano a McGill, in particolare Lucienne Kroha e Maria Predelli. Grazie anche allo staff, soprattutto a Lynda Bastien, la gradute coordinator che tutti dovrebbero avere. È inoltre doveroso ricordare e ringraziare la generosità della McGill Graduate Studies Faculty e di Mr. Ray Sutterthwaite, donatore della McGill Major Fellowship. Grazie a tutti quelli che erano con me quando questo viaggio è iniziato, e a tutti coloro che sono ancora con me ora che è giunto a termine. Daisy, Nancy, Marco, Monica, Antonella, Eduardo, Elena, Lucia, Tania, Serena e Genevieve. Fra tutti coloro che hanno condiviso i miei anni canadesi un grazie tutto speciale va certamente a Yvonne e alla mia famiglia canadese, i Bissonnette, che mi hanno fatto conoscere ed amare il Quebec. Nel corso di questi anni Robert Bissonnette ha avuto un ruolo mutevole ma sempre determinante: grazie per avermi sostenuto nei momenti più difficili e per avermi sempre ascoltata. Infine, un enorme grazie alla mia famiglia: mia sorella Eleonora, che è felice che io abbia finalmente finito di scrivere i “pensierini”, mia madre, mio padre e Davide. a mia madre. vi Table of Contents INTRODUZIONE .......................................................................................................................... 1 1. IL VIAGGIO......................................................................................................................................... 5 2. L’INCONTRO/SCONTRO .................................................................................................................. 9 3. IL LUOGO ........................................................................................................................................ 15 4. I CAPITOLI ...................................................................................................................................... 17 PRIMO CAPITOLO ................................................................................................................... 24 1. UN PARADIGMA INTERPRETATIVO ............................................................................................ 25 1.1 Marco Polo: il viaggio attraverso la terra incognita .............................................. 26 1.2 Cristoforo Colombo: l’archetipo colonialista.............................................................. 30 1.3 Letteratura di viaggio: specchio (in)fedele delle realtà possibili ..................... 34 2. GAETANO CASATI: UNA BREVE BIOGRAFIA .............................................................................. 36 3. DIECI ANNI IN EQUATORIA E RITORNO CON EMIN PASCIÀ: UN ORIENTALISMO ITALIANO? 38 3.1 Il viaggio e l’incontro............................................................................................................. 43 3.2 Una difficile sistemazione.................................................................................................... 53 3.3 La cultura mussulmana ....................................................................................................... 59 4. MAL D’AFRICA: L’INVENZIONE DI UN EROE ITALIANO ............................................................ 60 CONCLUSIONI ........................................................................................................................... 70 SECONDO CAPITOLO.............................................................................................................. 73 1 ALBERTO MORAVIA: PRECISAZIONI RELATIVE ALLA SCELTA ................................................. 74 2. MORAVIA IN RELAZIONE A CASATI E BACCHELLI: CONTINUITÀ MA ANCHE UN PROBLEMA CRITICO.................................................................................................................................................... 78 3. VIAGGIARE, SPOSTARSI, ABBANDONO E SCOPERTA: LE MODALITÀ DELL’APPROCCIO ALL’ALTRO E ALL’AFRICA ..................................................................................................................... 83 4. MORAVIA E L’ALTERITÀ IN AFRICA ........................................................................................... 87 5. QUALE FRA LE “AFRICA” POSSIBILI? ......................................................................................... 99 6. L’AFRICA ED IL PRIMITIVO: L’ESPERIENZA DELL’INDICIBILE ............................................. 103 7. ALBERTO MORAVIA E LA SUA NARRATIVA AFRICANA ......................................................... 111 CONCLUSIONI .........................................................................................................................116 TERZO CAPITOLO .................................................................................................................118 1. GIANNI CELATI........................................................................................................................... 121 2. UN’IMPORTANTE DISTINZIONE ............................................................................................... 126 3. GIANNI CELATI E L’AFRICA CONTEMPORANEA: L’ESPERIENZA DELLA COMPLESSITÀ ... 130 4. IL TURISTA GIANNI CELATI ED IL SUO RAPPORTO CON L’ALTERITÀ ................................. 136 5. PERCORSI DI AVVICINAMENTO ................................................................................................ 144 6. LA CULTURA MUSSULMANA ..................................................................................................... 153 7. MA QUALE ALTRO? .................................................................................................................... 155 7. AFRICA INCONOSCIBILE O TROPPO CONOSCIUTA? ............................................................... 161 CONCLUSIONI ...................................................................................................................................... 168 CONCLUSIONI .........................................................................................................................170 1. SCELTE DI METODO ................................................................................................................... 170 2. L’INCONTRO/SCONTRO CON L’ALTERITÀ .............................................................................. 173 3. LA RELAZIONE CON L’ALTERITÀ.............................................................................................. 178 vii 4. 5. IL VIAGGIO: CRISI DI UN ARCHETIPO ....................................................................................... 181 ALCUNE DOMANDE ANCORA APERTE ..................................................................................... 184 BIBLIOGRAFIA .......................................................................................................................186 A. CORPUS ....................................................................................................................................... 186 B. ALTRI TESTI LETTERARI E NARRATIVI ATTINENTI .............................................................. 186 C. TESTI SUL VIAGGIO E LA LETTERATURA ODEPORICA ........................................................... 187 D. TESTI DI STORIA E CRITICA LETTERARIA .............................................................................. 190 E. TESTI TEORICI ............................................................................................................................ 192 1 Introduzione Quando ho iniziato a lavorare a Travel to encounter: viaggi e alterità nella letteratura italiana sull’Africa tra diciannovesimo e ventesimo secolo, pensavo che mi sarei occupata esclusivamente di un ambito letterario, quello della letteratura di viaggio, e delle problematiche teoriche ad esso connesse. Le letture e le ricerche sull‟argomento, però mi hanno a poco a poco rivelato che il mio lavoro non riguarda solo una categoria della letteratura, ma prende in considerazione una delle esperienze fondamentali dell‟essere umano. Lo spostamento è da sempre associato alla conoscenza, sia che si tratti di un viaggio mitologico-allegorico, come per Ulisse, Gilgamesh o Dante, sia nel caso di un viaggio realmente avvenuto, quale quello di Marco Polo, dei pellegrini medioevali o, più tardi, quelli di Cristoforo Colombo e degli esploratori. Il viaggio è il momento in cui l‟allontanamento da ciò che è familiare provoca nel soggetto una significativa destabilizzazione di quelle che Eric J. Leed, in The Mind of the Traveler: From Gilgamesh to Global Tourism definisce “established patterns of meaning” (20). Il ruolo del viaggio è singolare e per molti versi insostituibile, perché è il momento in cui l‟essere umano è costretto a stabilire una relazione fra noto ed ignoto; e l‟esperienza è tanto più fondamentale se dal confronto nasce una nuova percezione di sé e della realtà circostante, ivi inclusa anche la propria civiltà e cultura. Ne consegue, nella migliore delle ipotesi, un nuovo modo di guardare al mondo e di concepirsi come parte di esso. Soffermandosi proprio sulla sua paradigmatica funzione di trasformazione, Leed prosegue affermando che “Travel transforms collective as well as individual identities” (271). Sul valore destabilizzante e sulle possibilità cognitive che ne possono derivare, poggia quindi la funzione archetipica da sempre attribuita al viaggio; proprio attorno a questa specifica qualità si sviluppa la mia tesi. Scopo di questo studio è analizzare come gli autori considerati si siano rapportati all‟altro che 2 hanno incontrato in viaggio, come questo incontro/scontro1 abbia influito sulle loro strutture culturali, ed infine evincere quale sia la relazione etica che emerge dall‟incontro. Prima di proseguire spiegando come questo studio procederà, è importante una precisazione terminologica. In questa tesi si usano molto frequentemente i termini altro – diverso – nuovo, ed in alcuni casi essi possono apparire sinonimi. Come si avrà modo di spiegare più diffusamente nel paragrafo „L‟incontro/scontro,‟ con il termine altro si vuole indicare ciò che è assolutamente altro e che quindi non è possibile comprendere. Emmanuel Lévinas, a cui questo studio parzialmente si ispira, indica nell‟altro non solo la totale alterità ma soprattutto l‟impossibilità di comprenderla. La sola manifestazione possibile è quella del “viso,” che Seàn Hand in The Lévinas Reader spiega in questi termini: “The term „face‟ here denotes the way in which the presentation of the other to me exceedes all idea of the other in me” (5). L‟altro è tale perché va al di là di qualsiasi preesistente concezione dell‟alterità. Altro, perciò, può essere sia il diverso, inteso come „diverso da sé‟ e di conseguenza inconoscibile; sia il nuovo, perché l‟apparizione dell‟altro mette il sé in una condizione nuova: l‟altro che si presenta è „nuovo‟ perché non esperito prima. Quest‟ultimo sostantivo, tuttavia, pone alcuni limiti e non sarà spesso utilizzato come sinonimo rispetto ad „altro‟ o „diverso.‟ È emerso infatti che „nuovo,‟ o meglio la ricerca del nuovo, è spesso un punto di partenza più che un risultato. In altre parole, più che trovato, il nuovo è deliberatamente cercato. Questo è spesso il caso, ad esempio per Alberto Moravia. Questo elemento, però, sposta leggermente la prospettiva della discussione perché immette una dinamica che non è contemplata nel discorso sull‟alterità, ovvero quella dell‟opposizione fra tradizione/vecchio ed innovazione/nuovo. La novità non è il criterio su cui si sviluppa l‟alterità, può essere una delle sue componenti, ma non è quella che definisce l‟altro come tale. Seguendo Lévinas, d‟altra parte, è difficile dare un 1 La parola inglese encounter è quella che meglio riesce a trasmettere questo concetto. In italiano i due sostantivi incontro/scontro hanno rispettivamente valore positivo e negativo. In inglese, invece, encounter non ha un‟unica accezione che trasmetta a priori un‟idea di ostilità o di apertura. Il termine encounter è il più adatto perché quando diverse culture si confrontano, le situazioni che ne scaturiscono sono complesse ed entrambi gli elementi sono presenti; c‟è una componente di disponibilità verso l‟altro, ma ci sono anche elementi di contrasto e divergenza. 3 nome all‟elemento che denota l‟altro, perché l‟unica cosa che veramente lo caratterizza è l‟assolutezza della sua alterità. Può sembrare una tautologia ma l‟altro è tale solo se assolutamente altro. La ricerca del nuovo, quindi, non corrisponde necessariamente alla ricerca dell‟altro o del diverso, benché possa in alcuni casi portare all‟incontro con esso. L‟oscillazione che si registrerà in relazione a questi tre termini rispetta quanto fin qui chiarito; perciò se “altro” e “diverso” sono spesso utilizzati come sinonimi, “nuovo” invece è adottato come tale solo in pochissimi casi, e quando ciò avviene è chiarito nel testo in quale accezione lo si intende. Nuovo si riferisce solitamente alla situazione in cui il viaggiatore viene a trovarsi o, più in generale, a ciò che egli concepisce come in opposizione a ciò che già conosce. Il viaggio come momento d‟incontro/scontro e luogo cognitivo, sarà il nucleo centrale di questa discussione. Intorno a questo tema saranno sviluppate alcune delle problematiche ad esso direttamente collegate. In primo luogo si prenderanno in esame le modalità con cui esso avviene, guardando sia all‟aspetto pratico, ovvero considerando come i viaggiatori si siano fisicamente avvicinati al diverso, sia all‟approccio teorico, esaminando l‟atteggiamento mentale con cui si sono accostati ad altre culture. In secondo luogo si vedrà che tipo di relazione si stabilisca fra i viaggiatori e l‟alterità, soffermandosi in particolare sui criteri che sono stati alla base della relazione stessa. Questo punto è uno dei momenti più importanti di questo studio in quanto uno dei principi che informa questa tesi è la volontà di capire quali siano gli sviluppi, le possibilità, ma anche i cambiamenti avvenuti nel modo di relazionarsi al diverso. L‟analisi si concluderà prendendo in esame quali siano stati, nei diversi casi esaminati, gli esiti dell‟incontro sul piano etico. Si avrà modo di approfondire quest‟ultimo aspetto fra breve, in relazione all‟approccio adottato; per il momento basti accennare che una delle ragioni d‟essere della ricerca è quella di fornire una possibile chiave di lettura dei fenomeni per metterci in condizione di comprendere meglio la realtà di cui facciamo parte in quanto esseri umani. Proprio questa riflessione mi ha portato a privilegiare l‟aspetto etico su tutti gli altri. Tra le varie prospettive secondo cui l‟incontro poteva essere studiato – economica, politica, sociologica, ecc – quella 4 etica si pone a mio avviso con maggiore urgenza, soprattutto in considerazione delle caratteristiche multietniche che le società occidentali hanno acquisito. L‟incontro è un momento cruciale perché dà la possibilità di entrare in contatto con culture diverse da quella a cui si appartiene. Quest‟ultima possibilità pertiene al vasto campo dell‟esperienza umana, di cui ognuno è protagonista in quanto essere pensante ed agente, e di conseguenza suscettibile di una considerazione etica. Quanto fin qui affermato segnala anche quale sia l‟approccio ai libri qui considerati. Come si avrà modo di ribadire più oltre, uno degli elementi irrinunciabili di ogni testo di viaggio è l‟incontro/scontro con l‟altro. Essendo questo il momento centrale della mia tesi, ed essendo quest‟ultima imperniata principalmente su testi letterari, avrei potuto sviluppare l‟analisi in direzioni diverse. Ad esempio una delle possibilità sarebbe stata quella di analizzare come, in epoca contemporanea, il canone della letteratura odeporica sia cambiato in funzione dell‟incontro/scontro con l‟altro. Questa prospettiva è legittima e giustificata. Un‟osservazione ad ampio raggio di questa tradizione letteraria evidenzia infatti che i maggiori mutamenti all‟interno di questo genere siano dovuti anche al modo di concepire, rapportarsi e descrivere l‟incontro/scontro con l‟altro. Tuttavia, più che cercare una ridefinizione del genere, ho voluto considerare il viaggio come momento cognitivo; invece di cercare il nuovo paradigma di sviluppo della letteratura di viaggio, ho guardato a come l‟incontro con l‟altro diviene un momento foriero di una diversa concezione di sé nel mondo da parte di chi scrive. Questo avvicina la mia tesi all‟ambito dei cultural studies più che a quelli prettamente letterari. Può sembrare quindi opinabile la scelta di usare quasi esclusivamente testi che appartengono all‟ambito letterario. Tuttavia, va in primo luogo ricordato che la letteratura è da sempre il principale veicolo di trasmissione dell‟esperienza del viaggio, e quindi la decisione di operare su testi letterari rappresenta una continuazione rispetto ad una tradizione ben solidificata. In secondo luogo i cultural studies non negano la funzione della letteratura, al contrario, la includono in un concetto di cultura molto ampio, e vedono in essa uno dei luoghi in cui meglio si articolano le strutture dell‟immaginario umano. In 5 questa tesi il viaggio non è inteso come un episodio letterario, ma come un momento di un‟esperienza vissuta di cui si ha una testimonianza letteraria. L‟apporto critico dei cultural studies mi è sembrato inoltre appropriato anche in considerazione della notevole attenzione all‟aspetto etico che distingue questo approccio. 1. Il viaggio Prima di approfondire la problematica dell‟incontro e della relazione con l‟altro, tuttavia, è utile soffermarsi sul ruolo del viaggio sia in letteratura, sia in quanto esperienza reale, i cui esiti hanno dei diretti riflessi sulla nostra quotidianità. Nell‟affrontare il discorso sul viaggio in ambito letterario ci si deve confrontare con la sua funzione più importante, quella archetipica. Da sempre esso ha un valore duplice; è sofferenza, patimento perché legato ad un castigo o una vendetta, ma è anche conoscenza, da intendersi sia nella più generale accezione culturale, ovvero proiettata verso l‟esterno, sia come scoperta e definizione di sé, assumendo valore introspettivo. Nella Bibbia, la cacciata e il forzato spostamento che ne consegue, è la prima forma di castigo nei confronti dell‟uomo; in seguito al peccato originale “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino dell‟Eden” (3.23), e l‟uccisione di Abele viene punita proprio costringendo Caino ad essere “ramingo e fuggiasco ” (4.12) sulla terra. Anche in ambito più esclusivamente letterario il viaggio viene assimilato ad una condanna, benché con valore meno definitivo; nel primo di tutti i viaggi della letteratura occidentale, Ulisse è infatti costretto a vagare perché Poseidone “serbava rancore violento contro il divino Odisseo” (3). Nei casi citati, lo spostamento è una punizione, e nei passi biblici è una vera e propria maledizione. Tuttavia il significato del viaggio non si esaurisce nella sua proprietà espiatoria. Nel passato l‟importanza del suo ruolo aumentava in misura delle difficoltà, o delle imprese alle quali il protagonista era costretto. Nell‟Epopea di Gilgamesh, l‟altra grande epica odeporica dell‟antichità, quando il giovane re torna al suo regno sarà più saggio proprio grazie alle prove superate durante il cammino. Secondo una struttura epistemologica che diventerà fondamentale nell‟etica 6 cristiana,2 proprio le sofferenze causate dal viaggio contribuiscono alla completa realizzazione del protagonista; le prove servono a confermare il proprio ruolo in patria, come nel caso di Ulisse, o a ristabilirlo con parametri differenti, come accade ad esempio con Gilgamesh. Oltre che dal forzato allontanamento da ciò che è familiare, la sofferenza durante il viaggio è causata dalla costante incertezza con cui il protagonista si deve confrontare e che si riferisce ai luoghi in cui è costretto a vagare e alle diverse culture con le quali viene in contatto. Il timore di ciò che non si conosce è però solo una parte del confronto, ed i viaggiatori possono rientrare in patria come eroi proprio perché hanno saputo misurarsi con l‟ignoto. Anche nella sua funzione di condanna, perciò, il viaggio ha sempre conservato una importante componente educativa. Pur non essendo mai scomparso completamente,3 l‟aspetto punitivo è andato scemando, e nelle epoche successive l‟accento si sposta in modo determinante sulle possibilità di sviluppo che il viaggio offre. Proprio questa prospettiva ha in seguito permesso alla dicotomia sofferenza/conoscenza di risolversi a netto favore dell‟aspetto cognitivo. Il confronto con l‟ignoto è il momento topico del viaggio, apre le porte a nuove possibilità, e lo spostamento, da mera punizione può diventare luogo di apprendimento. I fittizi racconti di viaggio medioevali rispondono in parte a questa necessità, le meraviglie d‟oriente iniziano laddove terminano le terre conosciute, e i caratteri favoleggianti attribuiti alle terre inesplorate e ai loro abitanti servono in qualche modo a giustificare il limite della conoscenza. In epoca tardo medioevale, inoltre, le narrazioni dei pellegrini in Terra Santa, si soffermano sull‟aspetto culturale, e in qualche caso anche di scoperta, più che sulle difficoltà da dover superare per raggiungere i luoghi sacri. 4 Nel corso dei 2 La struttura purificatrice ed iniziatica dei grandi viaggi dell‟antichità si ripropone in epoca cristiana con l‟opera che probabilmente è la più rappresentativa in questo senso, ovvero la Divina Commedia. 3 Eric Leed nota che Claude Lévi Strauss, noto antropologo e viaggiatore, pur disprezzando i luoghi comuni intorno al viaggio, sottolinea proprio la fatica che l‟antropologo deve affrontare durante i suoi spostamenti per ottenere dei risultati rilevanti (9). 4 Per un approfondimento sullo sviluppo dei resoconti di viaggio religiosi, si veda il saggio di Giorgetta Ravelli „Il pellegrinaggio: genesi ed evoluzione di un genere letterario‟ contenuto nella raccolta di atti Da Ulisse a Ulisse: il viaggio come mito letterario, 69-89. 7 secoli successivi prevarrà questa concezione del viaggio, divenendo addirittura quasi esclusiva in epoca umanistica e rinascimentale, dove viaggiare è quasi sinonimo di scoprire. Per secoli i viaggiatori hanno cercato in primo luogo di svelare che cosa si trovava al di là dei confini conosciuti. La motivazione economica, che in genere monopolizza il discorso sulle esplorazioni è indubbiamente importante; tuttavia è preceduta dal bisogno umano di comprendere meglio la realtà, in questo caso da una prospettiva geografica, di cui si fa parte. Le relazioni di viaggiatori come Cristoforo Colombo, Antonio Pigafetta, o i volumi di editori come Giovanni Battista Ramusio5 hanno permesso di definire con più precisione la posizione dell‟uomo sulla superficie terrestre, in un certo senso perciò, hanno permesso all‟uomo di acquisire una diversa coscienza di sé nel mondo. Il momento più alto del viaggio come luogo di arricchimento culturale lo si raggiunge fra il diciottesimo ed il diciannovesimo secolo, con il Grand Tour. In qualche modo ogni testo odeporico porta il segno della propria epoca, sia nel contenuto che nella forma. Il Grand Tour, ad esempio, concepito come un vero e proprio percorso culturale attorno all‟Europa, arricchisce lo stesso approccio illuminista dal quale nasce. Fra Settecento ed Ottocento, per la nobiltà europea visitare altri paesi costituiva una vera e propria iniziazione, nel bene e nel male.6 Nelle narrazioni ottocentesche, in epoca romantica, i racconti di viaggio si arricchiscono di un‟ulteriore dimensione: quella introspettiva, riflettendo sulle emozioni che viaggiare provocava sull‟animo del narratore. L‟esempio più noto è forse A Sentimental Journey di Laurence Sterne, ma non è certamente l‟unico. Una caratteristica che accomuna i diversi momenti della storia del viaggio presi in esame è la curiosità, il desiderio di avventura e di scoperta che anima i viaggiatori. Il valore cognitivo del viaggio si arricchisce quindi di un‟ulteriore 5 Ramusio non è un viaggiatore bensì un editore. Lo si è voluto inserire in questa lista perché i suoi tre volumi Navigazioni e Viaggi, raccolgono narrazioni odeporiche antiche ma anche a lui contemporanee. Ramusio ha svolto un importate ruolo di conservazione dei testi; il successo dei suoi volumi, inoltre, segnala l‟interesse per le nuove scoperte geografiche, e per la letteratura di viaggio in generale, nel pubblico dell‟epoca. 6 Il Grand Tour può essere un percorso sia positivo che negativo; può portare ad un ampliamento delle conoscenze, ma anche all‟autodistruzione. Per un esame più approfondito sul Grand Tour si veda il capitolo di James Buzard nel volume Cambridge Companion to Travel Writing. 8 componente, quella fisica. La conoscenza che deriva dallo spostamento non è solo sapere intellettuale, ma è anche una conoscenza che deriva dall‟aver fisicamente vissuto il viaggio e l‟incontro con l‟altro. Del resto viaggiare, nel suo significato etimologico significa spostarsi fisicamente da un luogo ad un altro; l‟arricchimento intellettuale che ne può derivare è, quindi, in qualche modo mediato dall‟esperienza fisica del viaggiatore. Coerentemente con l‟approccio fenomenologico adottato, in cui l‟esperienza umana è tale in quanto corporea e vissuta in un mondo reale, in questo studio il viaggio e l‟incontro/scontro hanno una doppia valenza cognitiva. Attraverso l‟esperienza del corpo, ovvero l‟immediatezza e la partecipazione diretta, il viaggio e l‟incontro divengono strumento per un nuovo modo di concepirsi nel mondo e di relazionarsi ad esso. I testi letterari a cui si è fatto riferimento fino a questo punto appartengono a tradizioni e generi molto diversi: dalla mitologia greca, alla tradizione allegoricocristiana, dalle epistole medioevali sul meraviglioso oriente, ai giornali di bordo degli esploratori. Si è voluta fornire una selezione piuttosto eclettica di testi per sottolineare una delle caratteristiche che rende tanto importante il viaggio: la sua universalità. Nel corso delle diverse epoche è cambiato molto in merito ad esso: i mezzi, i tempi, le ragioni, le aspettative. È mutato di conseguenza anche il modo di descriverlo e raccontarlo. Nonostante i cambiamenti intorno al viaggio, tuttavia, è rimasta invariata la prerogativa che lo rende universale: spostarsi è una delle fondamentali attività umane, indipendentemente dal luogo, dal tempo o dall‟etnia. Il viaggio, come situazione umana quasi primordiale,7 si arricchisce nel corso dei secoli di componenti che di volta in volta sono diverse ma che si riferiscono, in ultima analisi, sempre all‟ambito cognitivo. Indipendentemente dal valore assegnatogli nei diversi contesti e per diverse ragioni, il viaggio resta un‟essenziale esperienza umana, e proprio grazie alla sua polivalenza, suscita interessanti problematiche epistemologiche. In epoca contemporanea, tuttavia, proprio il valore cognitivo del viaggio sembra essere scomparso, o quantomeno essersi evoluto in una diversa direzione. 7 Basti pensare, a questo proposito, che per secoli l‟essere umano è stato nomade, e che alcune popolazioni lo sono ancora. 9 Non è più il momento dell‟esplorazione e scoperta del mondo, e viene messa in dubbio anche la funzione formativa o di auto-definizione del viaggiatore. Oggi, informazioni ed immagini di luoghi e popolazioni anche remoti sono facilmente reperibili ed il viaggiatore può arrivare a destinazione sapendo già parzialmente ciò che lo aspetta. Durante il viaggio, quindi, al soggetto non si rivelano più l‟esotico altro e altrove, ed i rapporti si sviluppano secondo canoni che sono diversi rispetto a quelli del passato. Se sia ancora possibile attribuire al viaggio un valore esperienziale-cognitivo che sia formante per il soggetto è uno dei problemi principali di questo studio. Non si potrà fornire una decisa risposta in senso affermativo o negativo, ma si verrà delineando un percorso che evidenzia come il venire meno dell‟incontro con l‟ignoto durante il viaggio, determini la necessità di fare l‟esperienza dell‟alterità ad un livello che è fisico ed emozionale più che unicamente circoscritto all‟ambito della conoscenza intellettuale. 2. L’incontro/scontro Definire l‟altro è un paradosso necessario. Oggi questo sostantivo è usato in maniera tanto generalizzata che è sempre meno chiaro che cosa si voglia indicare con il concetto di alterità. Altro è la donna rispetto all‟uomo, altro è chi professa una differente religione, altro è chi appartiene ad una cultura diversa, ma altro è soprattutto ciò che non può essere compreso in base ai propri parametri culturali. La critica post-colonial, alla quale si farà ampio riferimento in questo studio, ha evidenziato insieme l‟importanza ed il limite degli studi che prendono in considerazione il momento dell‟incontro fra culture diverse. Vale la pena ricordare che all‟interno del discorso post-colonial l‟espressione “culture diverse,” non si riferisce solo alle costituenti culturali di un popolo, ma indica una precisa posizione di potere, in altre parole, allude più in generale all‟opposizione colonizzatore/colonizzato. Sono passati ormai molti anni da quando Edward Said con Orientalism, affermando che “the Orient was almost a European invention” (1), dava inizio ad un processo, tuttora in atto, di rilettura critica della produzione intellettuale europea. Il nodo centrale della questione e il motivo che rendeva necessaria una revisione in questo senso, erano in primo luogo i presupposti ed i 10 termini della rappresentazione della diversità. La teoria post-colonial si è poi sviluppata in molte direzioni, trovando applicazione in ambito letterario, storico, etnografico, solo per citarne i più noti, e in relazione a questioni di diversa natura, dai rapporti di potere alle problematiche relative all‟identità nazionale, dalle strutture culturali alle più vaste questioni politiche e sociali. Chi si occupa di questo ambito di studi sa che è difficile isolare uno di questi argomenti per farne una trattazione specifica; la disciplina di per sé è troppo composita per rendere possibile l‟approccio monografico. Tuttavia, proprio per non perdersi nell‟eccessiva eterogeneità, è necessaria una precisazione su quale sia l‟ambito della teoria post-colonial al quale si farà qui riferimento. Questo studio si occupa in primo luogo del viaggio e dell‟incontro con il diverso che avviene durante lo spostamento, è quindi naturale che oltre alle questioni epistemologiche legate alla rappresentazione culturale, ci si occupi delle problematiche relative all‟identità e alle questioni etiche che emergono dal confronto con la diversità. Leela Gandhi ha messo in evidenza che tutti i teorici post-colonial sono ormai concordi nell‟affermare che nel momento in cui si incontra una cultura diversa sorge il bisogno di: “[…] preservation and perpetuation of essentialised racial/ethnic identities” (126). Stuart Hall ha ulteriormente sviluppato questo punto in riferimento all‟identità, affermando che proprio il processo di creazione di un “altro” – lo studioso parla di un vero e proprio “process of othering” (227) – è il presupposto necessario per riconfermare se stessi e la propria identità. Tutta la critica post-colonial inoltre è concorde nell‟asserire che la riaffermazione avviene in termini di subordinazione dell‟altro, a livello culturale in primo luogo e di conseguenza in tutti gli altri ambiti. In altre parole, una volta dimostrato che l‟altro è per costituzione inferiore all‟europeo, si giustifica la necessità della dominazione. Tuttavia, l‟interesse per questo approccio teorico non nasce solo dal fatto che esso ha fornito agli studiosi gli strumenti per individuare gli atteggiamenti mentali di chi nel passato descriveva l‟altro e l‟altrove. È necessario saper riconoscere quali sono i meccanismi messi in atto dalla cultura europea per semplificare, banalizzare e quindi ridurre ad una posizione subalterna la diversità, 11 ma riconoscere il processo non basta. Il paragrafo che apre il volume A Critique of Post-Colonial Reason di Gayatri Spivak, è illuminante in questo senso: “Colonial discourse studies, when they concentrate only on the representation of the colonized or the matter of the colonies, can sometimes serve the production of current neocolonial knowledge by placing colonialism/imperialism securely in the past, and/or by suggesting a continuous line from that past to our present” (1). Andare a ritroso e rileggere la produzione intellettuale europea in questa chiave serve a dare delle conferme, ma se ci si limitasse a questo sarebbe in fondo solo del revisionismo; è infatti ormai pienamente stabilito che si tratta di una produzione faziosa dal punto di vista ideologico. Inoltre, ed è l‟aspetto più pericoloso secondo la studiosa, questo atteggiamento porterebbe a considerare il colonialismo/imperialismo come un momento passato e concluso, evitando in questo modo di affrontare fenomeni che sono invece tuttora in atto. In realtà l‟approccio post-colonial convince perché apre anche una nuova prospettiva sul presente, offrendo più in generale un‟interpretazione critica dell‟approccio alla diversità che va al di là di specifici luoghi e periodi storici. Altro motivo per cui è ineliminabile l‟apporto di questa teoria è che essa permette di operare delle distinzioni all‟interno delle opere che si confrontano con la problematica dell‟alterità. Come afferma Steve Clark: “Narratives of encounter are undeniably dominated by the viewpoint of the mobile culture, yet it is possible to exaggerate the degree of superiority implied” (5). Questa precisazione è fondamentale in questo studio in quanto il mio proposito è solo in parte quello di capire in che misura l‟atteggiamento mentale europocentrico si applichi ai tre scrittori di cui mi sono occupata. Ciò che mi interessa principalmente è individuare nei loro scritti i momenti in cui si sono aperti all‟altro e si sono resi disponibili ad un incontro che mira alla conoscenza ed all‟accettazione delle diversità. Riassumendo, in questa tesi non si analizzeranno i procedimenti con cui i tre scrittori hanno costruito il loro “altro” africano, ma si guarderà ai momenti in cui sono riusciti a stabilire con lui un rapporto significativo, cercando un dialogo e volendo stabilire sulla base di quest‟ultimo un rapporto che superi stereotipi e generalizzazioni culturali. 12 Il ruolo del viaggio in questo contesto è fondamentale, perché storicamente è grazie ad esso che si è entrati in contatto con altre culture, calandosi in realtà diverse da quella di appartenenza. Per il viaggiatore contemporaneo, invece, sembra essere venuta meno proprio questa possibilità in parte perché, a causa della globalizzazione la realtà tende ad assomigliarsi un po‟ ovunque,8 e in parte perché il viaggio è effettuato spesso in luoghi predisposti per i turisti e che presentano, perciò, una realtà costruita su misura. Instaurare una relazione significativa con chi appartiene ad un diverso sistema culturale diviene allora più difficile, perché occorre in primo luogo capire su che livello si sviluppi la diversità. Prima di proseguire e chiarire quale è stato l‟approccio etico qui adottato, è utile fare una precisazione riguardo al viaggio in epoca contemporanea. Il viaggio, così come lo intende la teoria post-colonial, ovvero come “travelling cultures” è in realtà un‟esperienza che riguarda solo un‟elite. Ad un livello più popolare, e quindi più diffuso, il viaggio è ancora visto come un‟immersione in un luogo ed in una cultura che spesso sono percepiti come esotici, diversi e pittoreschi. Il turista medio che si reca in Africa, o in qualsiasi altro luogo, per una vacanza, spesso vive il viaggio in modo consumistico, cercandovi la soddisfazione di un bisogno, senza preoccuparsi di come percepisce, e a sua volta è percepito, dall‟altro. Il crescente numero di spostamenti, infatti, non è segno di un maggiore o migliore scambio culturale fra chi lascia il proprio paese e chi riceve il visitatore. Va precisato, inoltre, che il discorso sul viaggio come attività ormai facente parte della nostra normalità, è proprio dell‟occidente, o comunque di paesi che hanno economie sviluppate. In realtà per la maggior parte degli abitanti del pianeta, il viaggio verso altre culture, è ancora un momento eccezionale; basta pensare ad esempio ad alcune regioni dell‟Asia, dell‟Africa o dell‟India per capire che viaggiare è ancora un privilegio. Ciononostante, è vero che la superficie terrestre è stata ormai completamente esplorata, ed è in parte giustificata la percezione che abbiamo in quanto occidentali che i confini del mondo si stiano in 8 Leela Ghandi in Postcolonial Theory appropriatamente definisce questo fenomeno una “McDonald‟sisation of the world” (125). 13 qualche modo riducendo. Ma se dal punto di vista geografico non è rimasto nulla di inconosciuto, è invece tutto da esplorare e sviluppare il rapporto che si può mettere in atto fra le popolazioni, ovvero le tante “alterità” che popolano la terra. Il problema oggi è capire su quale livello si sviluppi veramente la diversità e quale sia la giusta modalità con cui rapportarsi ad essa. Questa importante problematica verrà ripresa anche nelle conclusioni perché sembra essere proprio questa la vera sfida dei viaggiatori di questo millennio. La diversità culturale pare stia progressivamente scemando, e i diversi luoghi del pianeta sembrano condannati ad assomigliarsi sempre di più. Riconoscere la diversità diventa difficile, perché nascosta da una patina di generale omologazione ai modelli occidentali. Prima del processo di de-colonizzazione i principi della relazione erano quelli dettati dall‟occidente, ora essa si deve sviluppare in modo diverso. Al viaggiatore contemporaneo, le cui aspettative di esotismo ed eccezionalità sembrano destinate ad essere deluse, sono venuti meno i criteri secondo cui rapportarsi al diverso che incontra e l‟unica comunicazione che riesce ad instaurare spesso si basa su modelli stereotipati. Questo stato di cose porta a mettere in dubbio le possibilità cognitive del viaggio. Il recente libro di Debbie Lisle The Global Politics of Travel Writing dimostra che gli scritti di viaggio oltre ad essere stati influenti nel passato contribuendo a costruire e mantenere una cultura imperialista, lo sono a maggior ragione oggi perché sono strettamente connessi “to the „serious‟ business of world affairs, and their significance to the study and practice of global politics” (1). Quello che la studiosa a ragione sostiene, è che l‟importanza delle narrazioni di viaggio non sia affatto diminuita in conseguenza della maggiore conoscenza della superficie terrestre. Ad essere cambiato è solo l‟oggetto attorno al quale le narrazioni si sviluppano, ora non è più la scoperta dell‟esistenza della diversità, della presenza dell‟altro, che interessa, ma capire come gestire la relazione. Una proposta interessante, su questo punto, è quella avanzata da Emmanuel Lévinas, nella sua considerazione etica dell‟incontro con l‟altro. In questo studio, la discussione sulla relazione con il diverso sarà guidata dalle riflessioni del filosofo francese. Nella sua opera più importante Totalité et Infini, egli stabilisce i 14 fondamenti per una nuova relazione etica fra il sé e l‟altro. Egli propone un modo nuovo di intendere l‟incontro con la diversità, in cui l‟altro ed il sé sono messi sullo stesso piano. Lévinas afferma, in contrasto con Sartre ed Heidegger, che la relazione non deve descriversi necessariamente in termini di assorbimento o contrasto, ma può risolversi come dinamica di reciproco avvicinamento. Va segnalato che per Lévinas i due termini del rapporto restano sempre fondamentalmente separati, perché il presupposto della relazione è dato proprio dalla fondamentale inconoscibilità dell‟altro. Egli scrive: “A l‟un, l‟autre peut certes se présenter comme un thème, mais sa présence ne se résorbe pas dans son statut de thème” (TI 212). È proprio questa separatezza a rivelare la necessità di una riduzione della lontananza. La relazione fra i due termini inoltre è fondamentalmente di carattere etico perché se essi sono posti sullo stesso piano, le reciproche posizioni di potere si invalidano, e sorge invece il senso di responsabilità per l‟altro. La relazione descritta da Lévinas in termini molto astratti, trova applicazione pratica, e quindi etica, proprio nelle relazioni sociali. In uno degli ultimi capitoli, Du pareil au même, egli afferma che sono proprio le relazioni sociali il primo luogo in cui questa relazione etica viene posta in essere (322). La filosofia di Lévinas, è una proposta di impegno verso l‟altro, di dedica e cura, oltre che di reciproca accettazione. In questo studio si è ritenuto interessante inserire proprio il discorso sull‟altro di Lévinas perché in conseguenza delle dinamiche che le società occidentali stanno assumendo l‟incontro con il diverso non è più un momento eccezionale, ma parte delle nostre vite quotidiane. Prima di concludere questa sezione è doveroso accennare agli apporti venuti dal campo dell‟antropologia. Una delle funzioni della narrativa di viaggio è quella pedagogica, fin dai primissimi racconti, veri o presunti tali, l‟autore del libro di viaggio voleva informare il lettore sui luoghi, anch‟essi veri o presunti tali, che si potevano incontrare fuori dalla propria terra. I testi visti in questo studio rispondono solo in parte a questa necessità; non si tratta più, se non per alcuni passi di Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià, di testi informativi, ma di libri in cui si mette in discussione e si ridefinisce la funzione cognitiva del viaggio. Tuttavia raccontare l‟altro e l‟altrove attraverso i viaggi è sempre stato un 15 modo per sedurre i lettori, come si è visto all‟inizio di questa introduzione. La seduzione può rivelarsi positiva, in questo secolo, perché può essere usata come strumento per avvicinare all‟alterità. A questo si devono infatti i numerosi contributi in ambito antropologico che si sono sviluppati dalla seconda metà del XIX secolo e che sono solo il segno più evidente di un interesse che, nei confronti dell‟alterità, è rimasto sempre molto forte. Un campo di studi importante, anche se solo indirettamente collegato all‟argomento trattato, si è rivelato essere quello dell‟antropologia. Benché la ricerca si sia svolta su testi appartenenti all‟ambito letterario, si sono oltrepassati i tradizionali confini di questa disciplina perché il contenuto degli scritti apre il campo ad un‟analisi che sfora inevitabilmente nella problematica della rappresentazione culturale. Per questo motivo lungo la discussione si è spesso fatto riferimento ai testi di studiosi e teorici di antropologia. Fra gli altri, si è tenuto conto degli studi di James Clifford, il quale in Discourses scrive: “One must bear in mind the fact that ethnography is, from beginning to end, enmeshed with writing. This writing includes, minimally, a translation of experience into textual form” (25). Nel mio caso il pretesto da cui scaturiscono le narrazioni non è quello di uno studio antropologico, ma piuttosto la volontà di dare forma letteraria ad un‟esperienza di viaggio fatta in prima persona. Proprio l‟esperienza diretta è un elemento importante nel caso specifico, perché rappresenta il punto di convergenza fra i due ambiti, quello letterario e quello antropologico. Clifford pone l‟accento proprio sulla partecipazione fisica all‟esperienza dell‟altrove e dell‟altro; la produzione scritta che ne consegue, perciò non è dovuta ad un impegno di natura esclusivamente intellettuale, perché si basa sull‟osservazione e sulla partecipazione diretta. 3. Il luogo Infine occorre spiegare perché si è scelto di parlare unicamente di testi sull‟Africa. In primo luogo si è optato per una coerenza ed organicità tematica che non sarebbe stata possibile, o facile da mantenere, se fossero stati scelti testi meno omogenei. D‟altra parte occuparsi di alterità, significa aprire il campo ad una vastissima gamma di possibilità. Ogni narrazione di viaggio, indipendentemente 16 dalla meta, descrive una relazione con l‟alterità, quindi sarebbe stato possibile scrivere dell‟Africa, tanto quanto dell‟America, o dell‟India o anche dell‟est Europa. A ben vedere, anche un viaggio nel sud Italia, quando è raccontato con l‟intensità, la razionalità, e la precisione di Carlo Levi, è un viaggio che porta a scoprire la diversità e che obbliga ad instaurare una relazione con l‟altro. In fondo la diversità, o l‟alterità, sono tali perché a determinarle è in primo luogo la lontananza culturale, inserendo in quest‟ultimo aggettivo tutto l‟insieme di usi e costumi che caratterizzano e definiscono una data comunità. Quindi, se tutto può essere altro, perché scegliere di parlare proprio dell‟Africa? Il continente africano è geograficamente il più vicino all‟Italia, e in generale all‟Europa meridionale, nonostante la prossimità, tuttavia, la definizione “continente nero” vale anche in senso metaforico. L‟aggettivo nero, infatti, rimandando al concetto di oscuro, può essere riferito anche al fatto che per secoli l‟Africa è rimasta un continente inesplorato, sconosciuto e ritenuto “patria” di mostri e stranezze. La conformazione geografica dell‟Africa, congiunta alla frammentazione delle sue popolazioni, ha certamente contribuito a questo stato di cose. Il processo di invasione e dominazione poi, ha colmato solo molto parzialmente questo vuoto. L‟occidente si è occupato pochissimo delle culture africane, riducendole in genere ai capitoli dedicati ai loro “usi e costumi” nei libri di antropologia. A questo vuoto ha in parte contribuito anche l‟Italia. L‟esperienza italiana in Africa, in particolare quella coloniale, benché non sia completamente dimenticata, è stata per buona parte tralasciata come segno di un passato che si preferisce dimenticare. Questo si traduce in una grandissima lacuna nel campo degli studi di letteratura italiana sulle opere scritte sull‟Africa, o lì ambientate. Eppure, benché l‟Italia non possa vantare una letteratura coloniale quale quella francese o britannica, alcune opere furono scritte proprio con l‟intento di esaltare una identità italiana che si sentiva il bisogno di rafforzare. È il caso ad esempio di Mal d’Africa di Riccardo Bacchelli di cui si parlerà nel primo capitolo. Al di là delle specifiche opere, tuttavia è la situazione ad essere singolare e quasi ironica; se in epoca fascista l‟Africa serviva come proiezione per esaltare una fittizia identità, oggi gli immigranti provenienti dall‟Africa, fra gli altri, stanno 17 contribuendo in concreto a creare una diversa identità italiana. Recentemente, infatti, l‟Italia ha dovuto imparare a relazionarsi con persone di origine africana, che sono diventate parte effettiva della società italiana. Negli ultimi anni questo fenomeno ha assunto proporzioni tali da costituire un‟ulteriore spinta verso l‟approfondimento delle dinamiche culturali che si sono sviluppate e si stanno tuttora sviluppando fra Africa ed Italia. Va fatta una precisazione rispetto alla terminologia usata in questo studio. Il nome Africa, così come Europa, America o Asia, sta ad indicare un indistinto ed eterogeneo insieme di nazioni, culture, tradizioni. In realtà l‟Africa come concetto culturale non esiste; esiste solo come concetto geografico e parlare di Africa o cultura africana come di un unicum è una radicale semplificazione. Tuttavia, si è dovuto ricorrere proprio a questi termini generalizzanti in parte per l‟assenza di un vocabolario che garantisca una giusta rappresentazione delle realtà africane, in parte perché questa tesi non si occupa nel dettaglio delle diverse culture che si possono incontrare in Africa. Lo scopo principale è di analizzare come i viaggiatori abbiano reagito di fronte all‟altro che hanno incontrato nei loro viaggi in Africa. All‟alterità non vengono assegnate specifiche caratteristiche, essa è intesa in senso ampio: l‟altro a cui si fa riferimento in questo studio non è tale perché appartenente ad una etnia piuttosto che ad un‟altra, ma lo è perché l‟incontro provoca negli scrittori una trasformazione nel loro modo di concepire e concepirsi nel mondo. 4. I capitoli Nel primo capitolo si prenderà in esame un testo poco conosciuto, appartenente alla letteratura di viaggio d‟esplorazione, Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià, 9 di Gaetano Casati, anch‟egli sconosciuto ai più. Casati, andò in Africa alla fine del XIX secolo in qualità di esploratore e grazie alla sua prolungata permanenza nella zona meridionale del Sudan, che in quel periodo veniva chiamata Equatoria, riuscì a sviluppare una profonda conoscenza di alcune tribù africane che abitavano quelle zone. Casati è uno degli ultimi occidentali a 9 Da questo punto, il testo di Casati verrà indicato con il titolo abbreviato Dieci anni in Equatoria. 18 poter ancora vivere il viaggio come scoperta geografica, e date le sue singolari modalità, egli riesce ad instaurare un rapporto con l‟altro africano dagli aspetti particolarmente stimolanti per un lettore contemporaneo. Il suo testo incuriosisce in primo luogo per le insolite circostanze e condizioni in cui si è svolta la vicenda. Egli restò in Africa per dieci anni e trascorse la maggior parte di questo tempo con persone del luogo. Da questa inconsueta esperienza africana nasce il suo libro in due volumi Dieci anni in Equatoria. Il testo di Casati, oltre a fornire i dettagli sul suo incarico e i conseguenti spostamenti, è anche la testimonianza di una progressiva comprensione della diversità culturale. La sua lunga convivenza con alcune tribù ha certamente facilitato l‟avvicinamento, tuttavia, il suo atteggiamento mentale non è riassumibile semplicemente nella formula „conoscere significa comprendere.‟ L‟interesse dell‟esploratore nei confronti delle culture africane con cui è entrato in contatto, si deduce proprio dal fatto che egli abbia voluto – oltre che potuto – comprenderli. Il testo di Casati, non va considerato come una testimonianza post-colonial ante litteram; egli parte e ritorna in Italia con la convinzione che l‟Africa necessiti dell‟azione civilizzatrice degli europei, sarebbe quindi improprio interpretarlo come uno scritto che anticipa problematiche che sono tipiche dei nostri giorni. Ciononostante, più volte in questo studio si definisce Casati una voce fuori dal coro perché, pur situandosi in piena epoca di colonizzazioni, la sua descrizione della diversità non è informata unicamente da un‟ottica di dominio. La rappresentazione culturale che emerge dal suo libro non risente del modello ideologico imperialista che è alla base del discorso coloniale. Uno dei presupposti fondamentali della critica post-colonial è che i criteri della rappresentazione dell‟altro sono dettati dalla necessità di legittimare la presenza dominante da parte dell‟Europa. Banalizzazioni culturali, stereotipi e semplificazioni, fra gli altri, hanno in genere la funzione di descrivere l‟altro come inferiore a qualche livello, e servono perciò a giustificare il potere territoriale, politico ed economico. Non mancano, anche in Dieci anni in Equatoria, alcuni degli stereotipi immancabili nei testi di quel periodo, ma sono presenti più come elemento retorico che 19 contenutistico. Il discorso che si faceva allora intorno all‟alterità africana, non stabilisce i criteri con cui Casati si rapporta ad essa nella quotidianità, e la sua narrazione ne è influenzata solo ad un livello formale. L‟approccio al diverso che si deduce dal testo, è guidato dalla volontà di conoscere le culture con le quali si trovava a convivere. Proprio l‟abilità di Casati nel costruire relazioni fondate sull‟apertura rispetto alla diversità è stata notata da uno degli scrittori più influenti della prima metà del XX secolo. Nell‟ultima parte del primo capitolo, a chiusura del discorso su Casati, si è portata l‟attenzione sul volume di Riccardo Bacchelli Mal d’Africa. Il testo di Bacchelli è stato ripreso perché lo scrittore re-interpreta l‟avventura di Casati in termini letterari ma anche fortemente ideologizzati. Bacchelli offre una lettura deviata della relazione etica che l‟esploratore era riuscito a costruire con gli africani con cui era entrato in contatto; in questo modo Dieci anni in Equatoria diviene terreno e strumento per la costruzione di una fittizia identità italiana facilmente riconoscibile nel modello fascista allora imperante. L‟inserimento del suo libro all‟interno della mia tesi è doppiamente motivato: oltre alla continuità tematica, Mal d’Africa offre degli spunti di riflessione molto fecondi sui possibili fondamenti etici ed ideologici nella relazione con l‟altro. Il volume di Bacchelli permette soprattutto di esaminare la funzione che la relazione con l‟alterità può assumere nella costruzione di un‟identità nazionale. Va chiarito, tuttavia, che in questo contesto il romanzo di Bacchelli, è considerato come esempio in negativo perché rappresenta una regressione, sul piano etico, del rapporto con il diverso. Le modalità dell‟approccio all‟altro descritte nel primo capitolo sono singolari e per certi versi uniche all‟interno di questa tesi, perché l‟Africa che visiteranno Alberto Moravia e Gianni Celati è ormai un continente tanto esplorato e conosciuto che loro ci andranno in veste di turisti. Il secondo capitolo si occupa degli scritti africani di Alberto Moravia, A quale tribù appartieni, Lettere dal Sahara, Passeggiate africane e La donna leopardo. Moravia, vive il viaggio in Africa in modo molto diverso rispetto a Casati. Nel continente africano lo scrittore vede il luogo in cui è ancora possibile trovare il primitivo, fare l‟esperienza del nuovo ed incontrare il realmente diverso. 20 Questa vaga idealizzazione dell‟Africa porta a presumere che Moravia ricorra al topos del continente misterioso ed inesplorato in cui ritrovare un ideale stato di natura ormai perso in Europa. Lo scrittore certamente ama soprattutto gli aspetti meno evoluti del continente africano, non perché egli metta in atto una stereotipia culturale europea, ma in quanto essi gli permettono di avvicinarsi all‟Africa con spirito ricettivo, abbandonandosi in primo luogo alle sensazioni che la natura e gli abitanti gli suscitano. La sua percezione della diversità è quindi dedotta dalla situazione in cui si trova, senza però essere semplicemente occasionale o generica. La scelta di inserire Moravia in questo studio è dovuta, infatti, alle penetranti analisi dei comportamenti umani che egli sapeva offrire e che gli derivavano dal desiderio e bisogno di comprendere profondamente la società di cui faceva parte. Moravia è stato uno degli scrittori italiani più influenti del XX secolo, e in quanto intellettuale militante egli si è occupato di questioni politiche e culturali, oltre a quelle specificatamente letterarie. Inoltre, forse più d‟ogni altro, Moravia rappresenta l‟intellighenzia italiana del dopoguerra, che si contraddistinse per l‟impegno sociale e politico. Lo caratterizzava un‟inclinazione a voler evincere i principi fondamentali delle realtà con cui veniva in contatto, facendo leva su una consapevolezza che gli poteva derivare solo dal coinvolgimento in prima persona. La sua partecipazione attiva, e allo stesso tempo attenta alle dinamiche che lo circondavano, era guidata dal bisogno di approfondire le ragioni prima ancora delle modalità delle azioni umane. Questa stessa attitudine mentale la si ritrova anche nei suoi libri di viaggio, e non solo in quelli relativi all‟Africa, naturalmente, benché in questa sede ci si riferisca esclusivamente ad essi. Tuttavia, questo bisogno di una comprensione profonda è vissuto in Africa in modo contraddittorio. Proprio la sua quasi eccessiva capacità analitica delle circostanze e dei contesti sembra porgli dei freni quando si trova a confronto con le realtà africane. Fra i tre scrittori considerati, infatti, è quello maggiormente influenzato dalla consapevolezza dell‟impostazione imperialista della relazione fra europei e africani. Per questo motivo cerca un rapporto che sia il meno invasivo possibile, soprattutto con la popolazione, anche quando questo si traduce in assenza di una relazione vera e propria. Sapendo che la 21 rappresentazione può tradursi in una forma di dominazione, egli preferisce limitare i suoi contatti diretti con gli autoctoni ai soli casi di necessità. Invece di cercare di instaurare un rapporto dinamico con l‟altro, preferisce mantenere una posizione pressoché neutrale, quasi come uno spettatore che assiste ad uno spettacolo al quale non vuol partecipare per non rovinarlo. Per questo motivo la distanza è la caratteristica principale attorno a cui si sviluppa l‟approccio di Moravia all‟altro. L‟apparente contraddizione si risolve se si considera che la sua scelta non è dettata da indifferenza, ma da rispetto. La consapevolezza delle dinamiche di potere che preesistono, in epoca contemporanea, a qualsiasi relazione fra europei ed africani, esercita un‟influenza determinante nello scrittore. Ad essere discriminante, infatti, nel guardare ai viaggi di Moravia e Celati rispetto a quello di Casati, è il fatto che per quest‟ultimo si tratta di un‟esperienza non mediata se non dalle poche informazioni acquisite prima della partenza. Gli altri due scrittori, invece, vanno in Africa da turisti, quindi organizzati ed equipaggiati delle necessarie informazioni. Anticipando una modalità del rapporto con l‟altro che si ritroverà in modo amplificato in Avventure in Africa, Alberto Moravia sente che la relazione si deve svolgere su di un livello diverso rispetto a quello su cui si era svolto fino a quel momento, ma non potendo prevedere quale sarebbero state le nuove basi per lo sviluppo del rapporto, preferisce sentire piuttosto che rappresentare. Celati, infine, vive l‟esperienza del turismo di massa, e sperimenta in prima persona come il viaggio, in epoca contemporanea, possa essere profondamente condizionato da cliché culturali. Lo scrittore ed il suo compagno di viaggio si trovano, infatti, a vivere una situazione che si presenta come ribaltata rispetto a quella che poteva essere vissuta all‟epoca di Casati. Alla fine del XIX secolo, i popoli africani venivano percepiti in base a stereotipi e banalizzazioni, ora invece sono i turisti bianchi in vacanza in Africa ad essere oggetto di una semplificazione culturale da parte degli africani. Per questi ultimi gli europei rappresentano una possibilità di guadagno economico, e di conseguenza vanno sfruttati in questo senso. Al viaggiatore resta la sensazione di non avere la possibilità di partecipare attivamente nel creare un rapporto con chi incontra, ma dover subire passivamente 22 un ruolo imposto a priori da un criterio economico. È sembrato interessante notare, proprio per il paradosso che ne deriva, che di fatto è proprio l‟economia occidentale quella che definisce, almeno in un primo momento, l‟incontro con l‟alterità descritto in Avventure in Africa. Questo aspetto si è rivelato determinante nel rafforzare l‟impressione che oggi sia sempre più difficile trovare la diversità. Gianni Celati sembra chiudere con tono negativo il discorso sul rapporto che il viaggiatore può instaurare con chi incontra altrove. Egli sembra porre dei dubbi sia sull‟esistenza di un altro culturalmente diverso, sia sulla possibilità di avere con esso un dialogo che non sia mediato da stereotipi. L‟unica conoscenza che sembra possibile è quella che segue le regole e i ruoli che l‟economia di massa ha assegnato ai diversi paesi. L‟aumentata possibilità di viaggiare e quindi di fare l‟esperienza di culture diverse, non sono garanzia di un incontro più proficuo o più profondo con l‟altro. Gli sviluppi del viaggio di Celati dimostreranno, tuttavia, che allo stesso modo di Moravia, anche nel suo caso la relazione deve svolgersi ad un livello che non può essere quello stabilito nell‟immediatezza dell‟incontro. Moravia, però, aveva preferito evitare qualsiasi tipo di rapporto, privilegiando il valore della testimonianza rispetto a quello relazionale. Poter assistere, senza essere notato, ad uno spettacolo o ad un momento della quotidianità africana, era per lui il modo migliore per fare la vera esperienza della diversità. Celati, invece, inizialmente disturbato dalla palese massificazione dell‟esperienza che stava vivendo, e quindi anche dall‟apparente mancanza di un “altrove” e di un “altro,” troverà nella condivisione di momenti della vita propria e dell‟altro una delle chiavi di avvicinamento al diverso da sé. Il motivo della condivisione è vissuto da Celati sul piano emozionale, ovvero in decisa contrapposizione all‟aspetto razionale o intellettuale dello scambio con le persone del luogo. Lo scrittore tiene a precisare spesso che non comprende la situazione, gli usi e costumi o addirittura non capisce quello che vede; ma buona parte di quello che lo circonda lo emoziona abbastanza da fargli nascere il desiderio di condividere momenti che sono propri ad altri luoghi ed altre dimensioni di vita. Allo stesso modo, vorrebbe che siano alcuni africani incontrati in viaggio ad essere partecipi di occasioni che invece appartengono alla sua cultura e al suo mondo. Per concludere questo breve 23 excursus, è possibile individuare proprio nel disinteressato desiderio di condivisione uno degli strumenti che permette di superare l‟ostacolo che per Moravia era stato insormontabile, ovvero quello di una rappresentazione culturale che non risulti, nella migliore delle ipotesi, in una superficiale caratterizzazione. Infine è necessario fare una precisazione: questa tesi riflette anche un percorso intellettuale contingente alla redazione della tesi stessa. Nel susseguirsi dei capitoli il mio approccio alla materia trattata si è arricchito ed approfondito. Del resto una tesi, soprattutto nel campo delle scienze umanistiche, non si presenta come asserzione definitiva di un determinato stato di cose, ma si configura piuttosto come una tappa, spesso nemmeno l‟ultima, di un cammino. Nel caso di questo studio, lo sviluppo rimane chiaramente individuabile. Dalla lettura emerge, quindi, sia lo svolgimento dell‟argomento stesso della tesi, sia il progressivo arricchimento, tematico e teorico, dei miei strumenti critici. Questa evoluzione, tuttavia, è dovuta solo in parte al mio personale approccio, in quanto essa dipende anche dalla tipologia dei testi trattati. In particolare, il libro analizzato nel primo capitolo offre spunti di discussione originali ed importanti, ma meno complessi rispetto a quelli dei capitoli successivi. Alberto Moravia e Gianni Celati, a cui sono dedicati il secondo e terzo capitolo, si confrontano infatti con situazioni, problematiche e dinamiche molto più articolate rispetto a quelle che ritroviamo in Casati. Lo studio dei loro testi si apre perciò a possibilità di analisi e discussione che Dieci anni in Equatoria non offre. In generale si può notare che la mia tesi riflette, in parte, la complessità delle dinamiche nella relazione con l‟alterità in epoca contemporanea. Nonostante oggi sembri molto più agevole avvicinarsi all‟altro, una vera relazione rimane difficile da stabilire ed in ultima analisi il rapporto che ne può derivare rimane responsabilità etica del viaggiatore. Primo capitolo La presenza italiana in Africa nel XIX secolo, prima di assumere palesemente i connotati di tentativo coloniale, fu volta all‟esplorazione. Nella seconda metà del 1800 vi furono infatti numerose esplorazioni nell‟Africa centro settentrionale, più precisamente nell‟odierno Sudan meridionale, che allora aveva il nome di Equatoria. Lo scopo principale delle spedizioni, in un primo momento, fu quello scientifico-geografico. Così come accadde successivamente nella politica coloniale, almeno per quella in età crispina, le spedizioni esplorative non avevano una struttura regolare e non potevano contare sul supporto statale. Esse si basavano essenzialmente sull‟iniziativa di singoli individui, sostenuti in una prima fase da società a carattere scientifico, quali la Società Geografica Italiana, 10 e in un secondo momento, da società commerciali che cercavano in Africa nuove possibilità di investimento economico. Le vicende africane di quei viaggiatori italiani, sono state rese note alla fine del secolo XIX attraverso la pubblicazione delle loro memorie o appunti di viaggio. Fra questi testi va annoverato anche il libro di cui ci si occuperà in questa sede: Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià di Gaetano Casati. Date le condizioni specifiche in cui Casati si trovò a vivere e viaggiare in Africa, le sue memorie trascendono i limiti dell‟odeporica, offrendo lo spunto per un esame che approfondisca e sviluppi una delle questioni più interessanti messe in luce dalla recente critica post-coloniale: quella dell‟incontro con l‟altro e le sue conseguenze sull‟identità personale. La discussione non resterà ancorata unicamente all‟esperienza isolata del viaggiatore italiano, ma si svilupperà su di un livello più ampio, riflettendo sugli esiti che l‟incontro con altre culture ha avuto sull‟identità nazionale italiana. Il testo di Gaetano Casati fu infatti ripreso alcuni anni dopo da Riccardo Bacchelli che con Mal d’Africa ne faceva una riscrittura letteraria dai risvolti nazionalistici. La discussione si rivolgerà a Bacchelli solo in un secondo 10 David Atkinson che affronta l‟imperialismo italiano da una prospettiva geografica, parla di una “geographical mania” (17). Lo studioso rileva che fra il 1860 ed il 1880 in tutta Europa nascono più di ottanta Società geografiche le cui parti costituenti e le cui priorità erano estremamente eterogenee. La funzione implicita di tali società era quella di appoggiare le diverse nazioni europee nella loro occupazione, prima economica e poi politica, dell‟Africa. 25 momento, per ora ci si soffermerà su Dieci anni in Equatoria per esaminare nello specifico quale sia il tipo di relazione con l‟alterità messa in atto dal viaggiatore, ed evincere quali siano i motivi che hanno portato Bacchelli a scegliere proprio questo testo. La prospettiva adottata in questa sede per l‟analisi di Dieci anni in Equatoria risponde quindi in prima istanza all‟esigenza di indagare i presupposti concettuali su cui si fondarono le relazioni fra gli italiani e i popoli africani, per appurare e definire quali siano stati gli sviluppi etici che ne conseguirono. Nella seconda parte del capitolo si vedrà, inoltre, che nel testo di Riccardo Bacchelli la questione morale diventa essenziale nella costruzione di una specifica identità nazionale italiana. 1. Un paradigma interpretativo L‟incontro con l‟altro, di conseguenza, diviene la principale discriminante nell‟istituire il paradigma teorico all‟interno del quale ascrivere il testo di Casati.11 In questo quadro di riferimento, i due viaggiatori italiani emblematici delle opposte posizioni nel relazionarsi all‟altro fin dal momento dell‟incontro, sono Marco Polo e Cristoforo Colombo. Il divario fra i due è principalmente di natura ideologica, ed è quest‟ultima a sostenere e guidare i codici culturali e letterari che sottendono ai testi. La distanza teorica deriva anche dalla loro appartenenza a due momenti storici diversi, ma più che soffermarsi sullo sviluppo storico del pensiero europeo, si vedrà nello specifico come ne sia stato influenzato il discorso sul viaggio e sull‟alterità in ambito letterario. La diversa forma mentis alla base dei due testi, scaturisce infatti proprio dalla narrazione stessa: dal Milione e dal Giornale di bordo, emergono una contrastante ricezione e di conseguenza una diversa concettualizzazione dell‟altrove e dell‟altro. Si deve quindi considerare che cosa rappresenti il viaggio, come sia vissuto e quali siano le modalità 11 Rifacendosi al Kuhn di La struttura delle rivoluzioni scientifiche, qui si considera il paradigma sia nella sua funzione conoscitiva, sia in quella normativa (137-138). Esso informa su quelli che si considerano i punti di riferimento inderogabili e le loro peculiarità, quindi nel caso specifico Polo e Colombo e i loro comportamenti in quanto viaggiatori, e al contempo fornisce i parametri attraverso i quali esso è stato costruito, indicando quindi non solo un modello, ma anche il criterio che ne ha guidata la realizzazione. 26 letterarie scelte per trasmetterne l‟esperienza. Ironicamente, la posizione ideologicamente antitetica dei due viaggiatori è rafforzata, a livello simbolico, da un aspetto pratico: Marco Polo si dirige a piedi verso est, mentre Colombo parte in direzione diametralmente opposta, e prende il largo verso ovest. Proprio dal viaggio in senso pratico, inteso quindi nella fase di spostamento, partiremo per la discussione sulla diversità di approccio fra Polo e Colombo. Prima di iniziare la riflessione sui loro testi va ricordato il motivo principale per cui li si è scelti. Le loro testimonianze di viaggio rappresentano un punto di riferimento letterario e culturale, ma sono anche gli strumenti che permettono di far risaltare appieno l‟apertura, la curiosità e l‟interesse per l‟alterità che caratterizza i testi considerati in questa tesi, e in particolare quello di Gaetano Casati. In altre parole l‟antitesi fra Polo e Colombo consente di tracciare un paradigma teorico sulla base del quale si svilupperà il discorso sulla relazione con l‟altro. Il loro antitetico avvicinamento al diverso diviene rappresentativo dei due opposti modi di guardare e di rapportarsi a ciò che non si conosce. Questo modello analitico è particolarmente utile in questo primo capitolo; in quanto grazie ad esso si riescono ad esaltare l‟originalità del testo di Casati e il suo importante apporto etico nella relazione con l‟altro. 1.1 Marco Polo: il viaggio attraverso la terra incognita Per Marco Polo viaggiare non è relativo limitatamente all‟esperienza fisica dello spostamento, ma costituisce un momento di crescita esperienziale e cognitiva; è quindi in primo luogo un‟esperienza culturale. La narrazione del viaggiatore veneziano non racconta solo uno spostamento verso la Cina, ma anche attraverso un grande numero di paesi, che si includono in una più ampia esperienza di viaggio e che contribuiscono a determinarla tanto quanto lo farà il lungo soggiorno alla corte del Gran Kahn. Vale la pena di soffermarsi brevemente sul concetto di viaggiare verso e attraverso, perché questo differente modo di affrontare lo spostamento è uno dei livelli su cui si è concepita l‟antitesi fra i due viaggiatori. Nel Milione, le diverse nazioni attraversate, i luoghi intermedi fra il punto di partenza e quello di destinazione, non sono i momenti morti del viaggio, 27 quasi fossero il mezzo necessario al raggiungimento di un fine, ma sono a pieno titolo parte del viaggio in Cina. Quello di Marco Polo quindi, è anche un viaggio attraverso, che comincia subito, appena lasciata Venezia. Questo significa che la sua attenzione è rivolta ad ogni singola tappa del percorso, e l‟altrove per Polo non è solo la Cina per se, ma tutto ciò che incontra strada facendo. Questo originale sguardo fu certamente favorito anche dalle condizioni pratiche del viaggio: la lentezza degli spostamenti, effettuati principalmente a cavallo, gli diede il tempo di poter osservare le popolazioni, instaurando, quando possibile, un contatto diretto con esse. È stato affermato che Marco Polo, con John di Mandeville, inaugura un nuovo modo di viaggiare: staccandosi dalle tradizionali forme narrative dei pellegrinaggi e delle crociate, i due autori si concentrano sull‟esperienza vissuta e fanno della curiosità nei confronti di diverse culture il motivo principale delle loro relazioni di viaggio (Hulme, Peter and Tim Youngs, 2002).12 La funzione del viaggio come momento di ridefinizione dei confini cognitivi è quindi rafforzata dal fatto che esso è consapevolmente vissuto come tale, ovvero come momento di scoperta anche culturale. Ricollegandosi in parte a Hulme e Youngs, si può affermare, semplificando leggermente, che prima di Polo l‟odeporica si rifaceva sostanzialmente a due modelli, quello del racconto dell‟oriente meraviglioso e quello dei pellegrinaggi o delle crociate in terra santa. Marco Polo dà una nuova direzione al racconto del viaggio modificando sostanzialmente la sua impostazione e funzione. L‟allontanamento da ciò che è familiare diviene strumento di conoscenza, il viaggio perciò non è affrontato con lo spirito di riconoscere ciò che già si sa, ma piuttosto con quello di cercare ciò che è sconosciuto. Polo non era partito digiuno di informazioni sull‟oriente: come tutti i viaggiatori, prima di mettersi in cammino aveva letto il leggibile sui luoghi che avrebbe visitato. I suoi strumenti di conoscenza erano però limitati alle narrazioni medioevali, le quali non avevano alcun valore scientifico. Di conseguenza, lo spostamento rappresenta per lui la concreta possibilità di una continua scoperta 12 Va precisato, peró, che il viaggio di Marco Polo, benché ricco di mirabilia ed esotismi, é realmente avvenuto, mentre il «Wonders of the East» di John De Mandeville é frutto di fantasia e di rielaborazione di altri testi medioevali sull‟Oriente. 28 dell‟ignoto, affrontata con uno spirito da esploratore, quindi attento alla diversità e incuriosito da ciò che è nuovo. Marco Polo affronta un mondo che gli diviene, man mano che il suo cammino prosegue, sempre più sconosciuto, ed in questo senso, Il Milione testimonia anche di un graduale avvicinamento all‟altro e all‟altrove, in cui progressivamente il viaggiatore entra in relazione con culture che gli sono sempre meno familiari. Il derivare da un‟esperienza realmente vissuta conferisce al testo del viaggiatore veneziano una credibilità tutta nuova, ed il Milione diviene il punto di riferimento per tutta la cartografia dei secoli successivi e strumento di conoscenza dell‟oriente. L‟interesse per Marco Polo scaturisce proprio dalla novità nell‟assunto testuale: per la prima volta nella letteratura di viaggio occidentale l‟esperienza sensibile non è più artificio retorico, ma realtà vissuta. La funzione documentaristica, che si aggiunge a quella di puro intrattenimento, funzione usualmente assegnata alla letteratura di viaggio, comincia quindi proprio con il testo di Marco Polo. Da quel momento, la terra incognita diviene rappresentabile e raccontabile, e va ad arricchire il bagaglio culturale dell‟occidente. La teoria post-colonial, ha messo bene in evidenza i limiti di questa rappresentazione, ma, pur riconoscendo i problemi suscitati dalle modalità con cui essa avvenne, ci si vuole per il momento soffermare sul fatto che dopo Marco Polo, attraverso i viaggi e le relazioni che ne conseguivano, la terra e i suoi abitanti stavano prendendo dei confini sempre più definiti e l‟occidente modificava ed arricchiva le proprie cognizioni geografiche e culturali. L‟originalità di questo modo di vivere, concepire e raccontare il viaggio, risulta ancor più evidente in considerazione del fatto che nelle narrazioni medioevali la reale esperienza sensibile non era un elemento ritenuto necessario, e spesso accadeva che i luoghi descritti non fossero stati in realtà mai visitati. L‟oriente, in particolare, era genericamente indicato come la sede del meraviglioso. La lettera di Alessandro ad Aristotele, la lettera del Prete Gianni, ma anche Mandeville’s Travels di John de Mandeville sono compilazioni a tavolino, rielaborazioni di altri testi, o più semplicemente opere frutto di fantasia. Nel Milione, invece, gli esotismi presenti 29 servono a rispondere al gusto del pubblico e ad inserirsi all‟interno del genere, ma non sono il cuore della narrazione. Contrariamente al Giornale di bordo di Cristoforo Colombo, il Milione non è efficace sul piano scientifico–geografico, tuttavia è un insostituibile documento culturale sulla Cina del XIII secolo. La profonda conoscenza di Marco Polo rispetto all‟oriente deriva da una lunga permanenza in quei luoghi; egli viaggia per circa 26 anni, 17 dei quali li passa presso la corte dell‟imperatore cinese. In questo lunghissimo lasso di tempo egli si era perfettamente integrato, imparando a parlare il cinese e svolgendo anche l‟attività di ambasciatore per il Gran Kahn (lo stesso ruolo che avrà, come vedremo, anche Casati in Africa). Le condizioni oggettive della società cinese furono certo un ulteriore elemento a favore dell‟assimilazione di Marco Polo, il cui interesse era certamente potenziato anche dal fatto di trovarsi in una delle più evolute società dell‟epoca. La tentazione che si potrebbe avere è di far derivare la comprensione, e quindi l‟accettazione, dalla conoscenza. Tuttavia, i termini del rapporto non vanno capovolti: l‟adesione e l‟integrazione alla civiltà cinese, avvengono unicamente in quanto resi possibili dalla sua personale predisposizione ed interesse verso l‟alterità. In altre parole Marco Polo accetta diversi usi e costumi, in alcuni casi facendoli propri, perché curioso ed interessato ad essi, non perché costretto dalle circostanze. A questo proposito vale la pena menzionare che il Gran Kahn fece di Polo il suo ambasciatore presso paesi stranieri. L‟esperienza in quanto viaggiatore di Marco Polo, ha probabilmente giocato un ruolo importante nella decisione del Gran Kahn di conferire al veneziano questo delicato ruolo di rappresentanza; d‟altro canto questo compito poteva essere svolto solamente da qualcuno il cui approccio alla diversità non fosse limitato da pregiudizi. È stato fin qui dimostrato come con Marco Polo l‟esperienza culturale diventi elemento ineliminabile del viaggio e perciò venga vissuto in ogni momento del suo svolgersi, anche in funzione di essa. La sua narrazione acquista valore in relazione alla materia raccontata: non più tanto il meraviglioso fantastico, quanto piuttosto il meraviglioso realmente incontrato. Uno dei titoli 30 francesi usati per indicare il volume, Conte des merveilles du monde,13 è sintomatico dell‟atteggiamento mentale del viaggiatore, che vuole raccontare le “meraviglie del mondo” ancora sconosciuto nell‟Europa occidentale. Il proemio si apre infatti affermando: “Signori, imperatori e re, duchi e marchesi, conti, cavalieri e borghesi, tutti voi che volete conoscere le diverse singolarità umane nelle diverse regioni del mondo accogliete questo libro; leggetelo e fatevelo leggere” (43). La scrittura per Marco Polo, vale la pena ribadirlo, è momento di comunicazione, ma è soprattutto strumento informativo. Attraverso essa egli rende conto non solo della propria personale esperienza di viaggio, ma anche di civiltà e culture diverse da quella che gli è familiare. Nel Milione raramente si trovano giudizi di valore sulle altre culture, generalmente si tratta di una descrizione intesa ad enfatizzare ciò che la diversità può offrire; l‟alterità, non è vista come una minaccia ma come uno strumento di crescita culturale. Marco Polo parte per un viaggio che doveva durare mesi, al massimo pochi anni e invece resterà in oriente per quasi vent‟anni, derogando all‟originario motivo del viaggio, l‟acquisto di tessuti e spezie, istituendo, però, un nuovo modello di viaggiatore. 1.2 Cristoforo Colombo: l’archetipo colonialista Il Giornale di bordo di Cristoforo Colombo si presenta come molto più pragmatico fin dal titolo, quindi ci si aspetterebbe una maggiore attendibilità nella descrizione del viaggio, dei luoghi e delle popolazioni incontrate. In realtà la descrizione di Colombo obbedisce a dei criteri che non sono quelli che avevano informato il testo di Marco Polo, si resterebbe quindi delusi se si cercasse nel suo testo la descrizione del meraviglioso incontrato ad occidente. Per Cristoforo Colombo il viaggio, in particolare nella fase di spostamento, è solo un mezzo necessario a raggiungere un fine. L‟attraversamento dell‟oceano è un‟inevitabile tappa intermedia, un ostacolo da superare per raggiungere le Indie. Le condizioni pratiche del viaggio furono, anche in questo caso, determinanti nel definire 13 Il ruolo svolto da Rustichello da Pisa, per quanto determinante sia stato sia per il titolo che per il testo stesso, non è qui preso in considerazione in quanto non si affronta il Milione dal punto di vista filologico, ma viene piuttosto considerato come punto di riferimento teorico. 31 l‟atteggiamento mentale del viaggiatore. Polo si era spostato a piedi e aveva attraversato territori abitati, mentre Colombo aveva compiuto il suo viaggio via mare affrontando uno spazio chiaramente non abitato, e potenzialmente pericoloso. Il mare, del resto, rappresenta non solo l‟ignoto, ma anche tutti i pericoli e le incertezze che derivavano da quel tipo di spostamento, è quindi naturale che l‟avvistamento della terra fosse la principale preoccupazione di Colombo. Il “viaggio verso,” quindi, non viene vissuto come costituente di un‟esperienza più ampia, appartenente al campo della conoscenza in senso lato, né è concepito come momento di possibile arricchimento intellettuale, ma piuttosto come tragitto da compiere in vista di un obiettivo più importante, ovvero il raggiungimento di quelle che l‟esploratore credeva essere le Indie. La componente teleologica è perciò molto forte nel viaggio di Colombo, così come lo deduciamo dal Giornale di bordo: egli parte verso le Indie per cercare oro e pietre preziose, ovvero il tesoro del Cipango che trovava descritto nel Milione, di cui aveva portato con sé una copia. La spedizione di Cristoforo Colombo è finalizzata alla scoperta geografica e alla conquista dei territori; quindi la diversità rispetto a Polo non è conseguente solo a motivi pratici, essendo il viaggio impostato in maniera diversa fin dalla partenza. Colombo è, forse inevitabilmente, precursore inconsapevole di quelle che diventeranno le caratteristiche fondamentali del colonialismo: egli parte per conto dei regnanti di Spagna, è da loro sovvenzionato e al loro regno intende annettere tutti i territori conquistati. Il viaggio serve a rafforzare ed ampliare il potere europeo, e quindi come tale è vissuto e raccontato. Si è precedentemente visto che Marco Polo percepisce il proprio viaggio come un momento di crescita culturale e scoperta del meraviglioso reale. Con Colombo, invece, questa consapevolezza non ha possibilità di attuazione: in primo luogo egli attraversa uno spazio vuoto, in secondo luogo, quando tocca terra è impegnato a riconoscere più che a conoscere, perché è certo di essere in un luogo diverso da quello effettivamente raggiunto. Vale forse la pena ricordare che nel momento in cui entra in contatto con le popolazioni indigene, Colombo crede di essere giunto in un territorio già noto, le Indie occidentali, e perciò non è 32 pienamente consapevole della reale eccezionalità ed originalità di ciò di cui si trova a fare l‟esperienza. Per Colombo quindi il viaggio si risolve essenzialmente in due momenti: la conferma di ipotesi geografiche e la conquista territoriale con il dominio politico che ne consegue, ed il suo sguardo sull‟altro e sull‟altrove è pregiudicato dalla funzione che egli sa di svolgere. La curiosità culturale non trova spazio nelle intenzioni del viaggiatore, né nel suo racconto. Le realtà umane con cui entra in contatto non suscitano il suo interesse a conoscere, e di conseguenza agli indigeni e ai loro modi di vita viene dedicato uno spazio esiguo nel Giornale di bordo. L‟autore si limita a descrivere il loro aspetto esteriore, affermando che probabilmente essi sarebbero divenuti buoni schiavi e che facilmente si sarebbero convertiti al cattolicesimo: “debbono essere buoni servitori e ingegnosi, perché osservo che ripetono presto tutto quello che io dico loro, e ritengo anche che possano diventare agevolmente cristiani, poiché mi parve che non appartengano a nessuna setta” (92). Colombo impone modelli e leggi, perché arrivare è sinonimo di conquistare. Il diverso modo di rapportarsi e di descrivere l‟altro sono conseguenza anche della diversa relazione di potere istituita fra i due viaggiatori e le popolazioni incontrate. Marco Polo arriva in un paese il cui livello di civiltà egli percepisce come paritario a quello occidentale; Colombo, invece, si trova di fronte ad una cultura che non solo è completamente diversa dalla sua, ma nella quale non riconosce nessuno degli elementi che per lui costituiscono “la civiltà.” Le popolazioni americane non avevano un‟organizzazione politica statale, le loro forme di sussistenza economica sembravano primitive se paragonate a quelle europee, non conoscevano la scrittura ed essendo nomadi non avevano sviluppato un tessuto urbano o un sistema architettonico. Mancavano, inoltre, forme d‟arte riconoscibili come tali ad un occhio europeo. Non sorprende quindi che Colombo non esiti a considerare gli indiani americani come inferiori ad ogni livello. Si è detto che l‟approccio ideologico di Colombo è opposto rispetto a quello di Marco Polo. A questo proposito un esempio aiuterà a rendere chiare di quali fossero le fondamenta sulle quali si voleva impostare il rapporto con le popolazioni americane. Colombo capì entro breve tempo che date le peculiari 33 caratteristiche delle società indigene da lui incontrate, gli europei avrebbero facilmente conquistato la loro fiducia. Ciò che Colombo rileva più frequentemente è infatti la loro generosità e la facilità con cui esse si prestavano al volere degli europei da poco arrivati. Nello specifico, Colombo prende con sé sulla sua nave un indigeno con l‟intento di portarlo in Spagna per “farne dono” ai sovrani. Qualche malumore fra le popolazioni, che cominciano a dubitare delle intenzioni degli stranieri, lo convince a lasciare libero l‟uomo: E guardando verso terra nel momento in cui vi giungeva l‟uomo che avevo liberato e al quale avevo dato le cose predette senza farmi consegnare in cambio il suo gomitolo di cotone, benché egli volesse darmelo, vidi che quelli della terra lo circondavano ed egli diceva loro che era ammirato di noi, che eravamo brava gente, e che quell‟altro che era fuggito da noi doveva averci fatto qualche affronto, e che appunto per questo volevamo portarlo via. Mi sono comportato così con questo uomo e l‟ho liberato e regalato delle cose predette precisamente perché ci prenda in grande stima e quando le Altezze Vostre torneranno un‟altra volta a mandar qui gente, gli abitanti la accolgano bene. Del resto il valore delle cose che gli diedi non superava i 4 maravedis. (100-101) L‟obiettivo di Colombo è essenzialmente politico ed economico, vuole trovare oro e pietre preziose e aggiungere ai domini spagnoli le terre scoperte. La sua è un‟ottica colonialista. L‟approccio di Colombo è determinato da una dinamica di potere, dal punto di vista ideologico, ma anche culturale, esso è perciò univoco, e non lascia spazio ad altri elementi né a deroghe come era successo con Marco Polo. Cristoforo Colombo, non apporta grandi cambiamenti al genere odeporico, del resto per lui la scrittura assolve unicamente a due funzioni: in primo luogo deve registrare i dati fisici, secondariamente deve testimoniare la conquista ed è, quindi, un atto politico.14 Benché Colombo non potesse comprendere l‟ampiezza 14 Anche nel caso di Colombo, cosí come è stato precedentemente fatto per Marco Polo, non ci si vuole soffermare sul comunque importante ruolo avuto da Bartolemeo della Casa, trascrittore del 34 del meccanismo che avrebbe innestato la sua scoperta, è comunque palese che il suo Giornale di bordo vuole assolvere anche ad una funzione politica. Se non di altro, il viaggiatore genovese è consapevole dell‟importanza del suo scritto, che sarà infatti fra il materiale utilizzato per definire l‟attribuzione dei domini territoriali delle diverse nazioni europee. 1.3 Letteratura di viaggio: specchio (in)fedele delle realtà possibili Si è fin qui visto come Marco Polo e Cristoforo Colombo affrontino il viaggio e ne trasmettano l‟esperienza con modalità affatto diverse. Si è voluto fare riferimento a questi due viaggiatori, in parte per l‟irriducibilità del cambiamento nell‟assetto culturale europeo in conseguenza dei loro viaggi, ed in parte perché considerati simbolici in quanto definiscono due modi antitetici di relazionarsi all‟altrove e all‟altro. I loro testi istituiscono un archetipo all‟interno del quale si possono far risalire le diverse modalità con cui i viaggiatori si sono rapportati al nuovo incontrato in viaggio. Di tutti i viaggiatori-scrittori, inoltre, la scelta è caduta su Marco Polo e Cristoforo Colombo anche perché essi sono fra gli autori più importanti dell‟odeporica italiana. Si è fin qui chiarito, infatti, come essi definiscano un quadro di riferimento ideologico; a questo si deve aggiungere che essi sono due autori imprescindibili di una lunga tradizione letteraria, quella specifica della letteratura di viaggio, a cui appartiene anche il testo di Gaetano Casati. Si è detto che i loro testi rinnovano in modo profondo il sapere europeo, arricchendolo di informazioni fino a quel momento non reperibili. Ma la componente narrativa e culturale più interessante, dal mio punto di vista è un‟altra. Polo e Colombo, essendo fra i primi ad avvalersi di un metodo per quanto possibile documentario, sono anche fra i primi a rendere manifesto che a prescindere dalla motivazione, un‟ineliminabile componente del discorso della letteratura di viaggio, è la descrizione delle diverse culture incontrate e del Diario di bordo. Ancora una volta il testo viene considerato come generale riferimento ideologico, quindi evitando ogni questione filologica. 35 rapporto stabilito con esse. Trinh T. Minh-ha apre il suo saggio “Other Than Myself/My Other Self,” contenuto in Travellers’ Tales affermando che: Every voyage can be said to involve a re-siting of boundaries. The traveling self is here both the self that moves physically from one place to another, following “public routes and beaten tracks” within a mapped movement, and the self that embarks on an undetermined journeying practice, having constantly to negotiate between home and abroad, native culture and adopted culture, or more creatively speaking, between a here, a there, and a elsewhere. (9) La studiosa si occupa di viaggi nel XX secolo e non ha bisogno di chiarire che i confini a cui si riferisce non sono meramente geografici, ma si tratta piuttosto dei confini culturali e ideologici che vengono ridefiniti da ogni viaggio, o quasi. Visto nei termini proposti da Min-ha, ovvero come uno spostamento in cui il soggetto modifica le proprie “linee di confine” stabilendo un rapporto fra il luogo d‟origine ed i luoghi visitati, il viaggio è in primo luogo un momento dialettico. Il viaggiatore deve costantemente ridefinire la propria percezione della realtà inserendola in un contesto i cui confini non possono più essere esclusivamente quelli conosciuti e comodi della propria cultura nativa. Ampliandosi lo spettro delle realtà possibili, il viaggiatore deve conseguentemente allargare i confini della personale concezione del reale per poter contestualizzare ciò che non gli è familiare. Questo processo avviene indipendentemente dall‟epoca, dalla destinazione e dalla motivazione del viaggio; l‟unica variabile applicabile è di quanto il viaggiatore sia disposto a spostare le proprie linee di confine. Nel caso di Colombo, ad esempio, l‟intenzione di dominio almeno territoriale, è presente fin dalla partenza e certo pregiudica il suo sguardo nei confronti degli indigeni americani; questo però non incide sul suo dover ridefinire i limiti di ciò che conosce, influendo, invece, sulla sua disponibilità ad ampliare più o meno quegli stessi limiti. Ogni testo odeporico, perciò, si presta ad una lettura critica fondata sull‟analisi di questo momento dialettico in cui l‟autore deve mediare fra il noto e l‟ignoto, e su come questa mediazione influisca sul suo antecedente modello di 36 pensiero. La stessa discriminante, ovvero il confronto dialettico, si può applicare quando ad essere oggetto d‟osservazione sia la relazione che i viaggiatori istituiscono con l‟altro. È proprio su questa differenza che si istituisce il criterio in base al quale si sviluppa l‟incontro/scontro con il diverso. Per Polo l‟incontro era impostato in termini positivi: il suo interesse verso il nuovo, gli permette di istituire una relazione di mutuo avvicinamento. La curiosità, elemento ineliminabile del suo modo di viaggiare, definisce anche il suo atteggiamento nell‟incontro con l‟altro, che è vissuto come momento di rivelazione ed accettazione di ciò che non si conosce. Per Colombo, al contrario, l‟incontro/scontro con culture fino ad allora sconosciute è una tappa nel cammino verso il pieno controllo delle terre da lui scoperte. L‟altro, in questo contesto, viene strumentalizzato fin dal momento dell‟incontro ed inserito in un‟ottica di dominio e prevaricazione. A questi due opposti atteggiamenti mentali si farà costante riferimento nel corso della tesi perché divengono il paradigma attraverso il quale individuare ed analizzare le modalità secondo cui l‟incontro/scontro si attua e si evolve. 2. Gaetano Casati: una breve biografia Prima di affrontare il testo di Casati da un punto di vista critico, è opportuna una riassuntiva biografia che permetta di presentare un personaggio altrimenti sconosciuto. Gaetano Casati nasce a Ponte d‟Albiate in provincia di Milano il 4 settembre 1838. Dopo gli studi superiori entra all‟università per studiare matematica ma nel 1859 abbandona per aggregarsi in qualità di volontario alle truppe dei bersaglieri nella guerra d‟Indipendenza contro l‟Austria. In seguito all‟unificazione dell‟Italia egli inizia la carriera militare presso l‟Accademia di Ivrea, e nel 1866 partecipa alle campagne contro il brigantaggio nel sud Italia in qualità di Capitano. In seguito egli viene assegnato alla squadra topografica dell‟Istituto di Livorno che ha il compito di redigere la carta geografica militare dell‟Italia. Quest‟ultimo incarico, sarà molto importante in quanto gli farà acquisire le competenze tecniche che furono il requisito necessario per la sua partenza per l‟Africa. 37 Nel 1879 si congeda dall‟esercito ed entra nella redazione dell‟Esploratore. La rivista l‟Esploratore era stata fondata dal Capitano Manfredo Camperio nel 1877 con il fine di dare notizia in Italia delle stato delle esplorazioni in Africa. Attorno alla rivista si formò ben presto un gruppo di persone animate, oltre che dalla curiosità geografica, anche da interessi commerciali, la “Società di esplorazione commerciale in Africa.” È in questi ambienti che si muove Casati, anche se nel suo caso non sono tanto le possibilità commerciali ad attrarlo, quanto piuttosto la possibilità di poter far parte di una spedizione. Quando Romolo Gessi, uno degli esploratori italiani che si trovava in Africa verso la fine del XIX secolo, scrive a Camperio per chiedere che gli mandi “un giovane, possibilmente ufficiale, che conosca il modo di costruire le carte geografiche” (Dieci anni in Equatoria, X), Casati si offre immediatamente volontario e la vigilia di Natale del 1879 partì per l‟Africa. Scopo del viaggio di Casati avrebbe dovuto essere quello di esplorare la zona attorno al bacino del fiume Welle, l‟attuale Uele, e Romolo Gessi, avrebbe dovuto fargli da guida e da punto di riferimento. Gessi però, impegnato nella lotta antischiavista, deve partire per Cartoum per prendere contatti con le autorità locali ma muore nel tragitto verso la capitale del Sudan. A quel punto Casati si troverà ad affrontare l‟Africa centrale a piedi, e da solo. Nonostante la situazione a dir poco non ottimale, decide di rimanere per continuare, almeno nelle intenzioni, la mappatura della zona. Nel frattempo, però, la situazione politica si complica notevolmente a causa delle rivoluzione mahdista. La Società Geografica Italiana, intanto, saputo che Casati era solo in una terra inesplorata con poche cognizioni dell‟Africa e con gli strumenti linguistici che poteva aver acquisto nel viaggio via nave da Genova, decide di indire una colletta per effettuare una spedizione di salvataggio. Casati rifiuta e decide di restare in Africa al fianco di Emin Pascià,15 che nel frattempo aveva 15 Emin Pascià, il cui vero nome era Eduward Schnitzer, visse fra il 1840 ed il 1892. Era entrato al servizio del governo inglese che gli avevano affidato il governo di Equatoria, ovvero la regione che oggi corrisponde al Sudan meridionale. Benché il nome Emin Pascià faccia supporre che egli fosse passato alla religione islamica, gli storici non sono d‟accordo sulla possibilità che egli si fosse effettivamente convertito. Lo Schnitzler viene anche descritto come personaggio piuttosto avulso rispetto al contesto coloniale in quanto pare che egli fosse più dedito agli studi di botanica ed entomologia che al governo di Equatoria. In seguito alla rivolta mahdista nel 1881 egli fu 38 raggiunto. Da quel momento i compiti di Casati si moltiplicheranno perché egli non si dedicò unicamente alla geografia, ma prese parte attiva alle vicende politiche dell‟Africa nord orientale. Quest‟ultimo aspetto non è chiarito in Dieci anni in Equatoria, ma attraverso qualche oscuro canale e per qualche non precisato motivo Casati entra alle dipendenze del governo egiziano facendo da tramite fra il governatorato inglese ed alcuni re delle tribù locali. Si può ipotizzare che questa funzione gli fosse stata conferita perché egli si trovava in loco e perché era riuscito ad conquistarsi la fiducia delle tribù locali. Va precisato, tuttavia, che nessuna biografia o testo critico su Casati conferma questa supposizione; d‟altro canto, però, nessuno fornisce le ragioni di tale compito politico. Casati resterà in Africa per dieci anni, da qui il titolo del suo libro, per sua volontà, e molto spesso solo in compagnia di indigeni africani. L‟esperienza di Casati è rilevante per il mio discorso sull‟alterità proprio per quest‟ultimo motivo. La sua convivenza con gli indigeni alla lunga gli aveva fatto acquisire abitudini e modi locali, ma, cosa più importante, fin da subito egli si era dimostrato attento, curioso ed aperto nei confronti dell‟alterità rappresentata, in questo caso, dagli indigeni dell‟Africa centrale. Al suo ritorno in Italia, benché divenuto relativamente famoso, egli decide di ritirarsi nella sua casa di Ponte d‟Albiate e scrive Dieci anni in Equatoria, che venne pubblicato nel 1891. Il volume gli vale al medaglia d‟oro al Primo Congresso Geografico Italiano che si tenne a Genova nel 1892. Al suo rientro, inoltre, egli aveva portato con sé sei indigeni africani, cinque di loro morirono, pare di malattie polmonari, e sopravvisse solo Amina, la bimba africana adottata da Casati. Gaetano Casati muore il 7 marzo 1902. 3. Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià: un orientalismo italiano? Come affermato precedentemente in relazione ai viaggi di Polo e Colombo, la ridefinizione della prospettiva culturale, avviene a prescindere dal momento storico in cui il viaggio viene intrapreso, è quindi appropriato applicare lo stesso costretto a ritirarsi progressivamente verso sud, fino a che la spedizione di Henri Stanley, partita nel 1887, lo portò in salvo (The Scramble for Africa ). 39 metodo al testo di Gaetano Casati. Dieci anni in Equatoria, nasce dall‟esigenza di rendere note le modalità con cui si erano svolti sia la missione esplorativa che i fatti storici di cui Casati era stato protagonista. Il testo, però, si presta anche ad una lettura che amplia le intenzioni memorialistiche, visto l‟ampio spazio dedicato a rilevazioni che nel proponimento dell‟autore avrebbero dovuto essere di carattere scientifico. La difficoltà nell‟indicare precisamente un ambito di riferimento per questo volume, deriva anche dalla considerazione che nello scritto è presente l‟emulazione dei testi scientifici dell‟epoca, ma la mancanza di appropriate attrezzature tecniche non consentì all‟esploratore italiano di raggiungere dei risultati che si possano ritenere rilevanti. Più che di un testo scientifico, perciò si tratta di una dettagliata, ma pur sempre amatoriale, descrizione delle popolazioni incontrate e dei luoghi visti durante il suo viaggio. Dieci anni in Equatoria fa parte di quel sostanzioso gruppo di libri scritti fra la fine del XIX e l‟inizio del XX secolo da esploratori e colonizzatori che in quel periodo scoprivano e conquistavano l‟Africa. Edward Said in Orientalism, ricorda che fra il 1815 ed il 1914 l‟Europa raggiunse il suo apice in termini di espansione coloniale, e i paesi che ne risentirono in misura maggiore furono l‟Africa e l‟Asia (41). L‟orientalismo che dà il titolo a questa sezione, si riferisce proprio al libro dello stesso Said, ormai considerato l‟iniziatore degli studi post-colonial. Dieci anni in Equatoria è assimilabile per varie ragioni ai testi a cui Edward Said fa riferimento nell‟individuare le linee costitutive di un discorso sull‟altro orientale. Casati, come gli esploratori e i governatori inglesi, univa al proposito esplorativo, quello di portare un certo grado di civilizzazione nell‟Africa centrale. Il punto di domanda da me posto vuole infatti istigare ad un‟indagine proprio in questa direzione: come si pone Casati rispetto al discorso sull‟oriente e sull‟altro? È anch‟egli fra i fautori di un orientalismo africano? E in caso affermativo, in che misura? Va chiarito subito che il testo di Casati non fa eccezione su questo punto, rispetto agli altri testi del periodo, in quanto anche lui era convinto che il ruolo dell‟Europa in Africa fosse quello di aiutare e agevolare lo sviluppo di quelle zone, dato che le popolazioni autoctone non erano in grado di provvedere a ciò da 40 sole. Tuttavia Dieci anni in Equatoria è stato preso in esame in questa sede perché il percorso di avvicinamento all‟altro, al di là della contingenza storica in cui avviene, è caratterizzato da modalità tali che pongono Casati in una posizione diversa rispetto a quella della maggior parte dei suoi contemporanei. Come si vedrà in seguito egli tenta un approccio alla materia che vorrebbe essere di tipo antropologico e in alcuni caso anche letterario, ma i risultati in realtà sono di poco valore. In definitiva questo si rivela elemento positivo proprio perché Casati non è stretto nella maglie di una professionalità scientifica o letteraria, i momenti più ingenui del suo scritto costituiscono un valore in quanto mettono in evidenza come non sia frutto solo di una impostazione ideologica stabilita a priori. In altre parole, il fatto che l‟autore non riesca a mantenersi all‟interno dei criteri a cui aveva cercato di modellare il proprio testo, avvalora l‟originalità della testimonianza. Essendo libera dagli schemi espressivi imposti dal metodo della disciplina specifica, la narrazione è tanto più interessante in quanto non è improntata al discorso scientifico che si faceva intorno all‟Africa alla fine del XIX secolo. L‟amatorialità, di per sé, non costituisce un elemento a favore della validità del narrato, ma nel caso del testo di Gaetano Casati alla mancanza di una professionalità scientifica supplisce l‟interesse per quanto egli veniva pian piano scoprendo e conoscendo. Dieci anni in Equatoria interessa ancora di più, perciò, se considerato alla luce dei cambiamenti avvenuti all‟interno del metodo antropologico negli ultimi anni, cambiamenti che hanno invalidato quella stessa metodologia a cui Casati non era riuscito a conformarsi. Sulla scia dei post-colonial studies, James Clifford antropologo e teorico, ha messo in discussione l‟oggettività scientifica di ogni rappresentazione culturale. Nel volume The Predicament of Culture, egli ha dimostrato l‟impossibilità di riprodurre una cultura nella sua interezza, affermando che ogni descrizione, per quanto si voglia aderente al reale, può restituire solamente “partial truths” (6). L‟affermazione di Clifford obbliga ad una revisione di tutto ciò che è stato scritto fra il XIX ed il XX secolo in ambito antropologico, perché mette in discussione proprio l‟approccio cognitivo: per quanto l‟osservazione sia vicina e la conoscenza profonda, le categorie mentali 41 usate per assimilare e poi rendere la diversità culturale, sono sempre categorie occidentali. Questa osservazione pertiene anche a Casati, e il fatto che lui non riesca ad uniformare la sua narrazione ai parametri del discorso scientifico occidentale di fine secolo, non gli conferisce, una posizione super partes, così come non dà a priori maggior valore alla sua “parziale verità.” Tuttavia, proprio in ragione di questa sua caratteristica, la rappresentazione dell‟alterità e del rapporto che l‟autore riesce ad instaurare con essa sono le componenti più interessanti di questo libro. L‟immediatezza espressiva e lo svolgimento poco sistematico del contenuto si rivelano positivi, quindi, in quanto forieri di una diversa prospettiva sull‟Africa, le cui culture non vengono immobilizzate in tipologie e caratterizzazioni, ma rese nel loro vissuto quotidiano. Non si vuole guardare a Dieci anni in Equatoria come ad un testo rispondente ai criteri post-colonial ante litteram, bensì utilizzare questo approccio per capire come Casati rappresenti il suo “altro.” Come messo in luce nell‟introduzione l‟importanza dell‟apporto teorico della critica post-colonial consiste infatti nell‟aver permesso di operare dei distinguo all‟interno di un corpus di opere e di autori; si può dare per scontato che si tratti di una resa narrativa ideologizzata e parziale, quello che interessa capire sono le modalità della rappresentazione soprattutto come l‟incontro agisca sulle strutture culturali del viaggiatore che si confronta con l‟altro. Parafrasando le parole di Trinh T. Minh-ha, interessa capire quanto il viaggiatore sia disposto a modificare le proprie linee di confine. In questo contesto Casati si distingue per essere particolarmente vicino al modello di viaggiatore che si è identificato con Marco Polo. Anche per lui attraverso il viaggio avviene la scoperta della diversità; a questa scoperta si associa immediatamente la sua capacità d‟accettazione ed integrazione in una cultura estranea alla propria. Su questa attitudine, come si vedrà in seguito, Bacchelli farà leva per costruire un vero e proprio modello italiano di uomo e viaggiatore. Che in relazione al rapporto con gli indigeni Casati sia un po‟ una voce fuori dal coro è segnalato anche dal fatto che, benché tutti gli studiosi siano d‟accordo nel considerarlo il meno interessante da una prospettiva scientifica, il suo, fra i 42 volumi scritti dagli esploratori italiani, è quello più citato.16 La storica Paola Ivanov, nel suo articolo Cannibals, Warriors, Conquerors, and Colonizers: Western Perceptions and Azande historiography, istituendo un paragone fra Dieci anni in Equatoria ed il testo di un altro esploratore, il russo Junker, afferma che spesso Casati è costretto all‟imprecisione perché gli mancano i mezzi, intendendo questi ultimi propriamente nel significato di attrezzi pratici necessari a fare misurazioni e valutazioni precise. Scrive la Ivanov: “But unlike Junkers, Casati showed little detachment in his description and considerable powers of empathy” (159); e continua poco oltre, affermando: “Casati readily attributed positive characteristics to the „blacks‟ (neri), and puts any negative ones down to their lack of education […]” (159). In generale Casati è definito come: “receptive and relatively free of prejudice” (159). La Ivanov non è la sola ad avere questa opinione. Maria Carrazzi, nel Dizionario biografico degli italiani, sottolinea la particolare comprensione di Casati nei confronti della cultura africana, e definisce questa singolare attitudine “osservazione partecipante,” utilizzando un‟espressione sulla quale si avrà modo di ritornare fra breve. Questo atteggiamento di osservazione partecipante, se da un lato compromette la professionalità di Casati, dall‟altro conferma il giudizio della Ivanov, ribadendo come l‟approccio mentale del protagonista non fosse improntato unicamente ad un‟ottica imperialista. Il motivo addotto da tutti gli studiosi a spiegazione di tale interesse per Casati è quindi sempre lo stesso: il rapporto da lui stabilito con le popolazioni africane, la sua capacità di integrazione in quel contesto, di conseguenza una resa letteraria delle culture africane relativamente libera da preconcetti.17 Su questo punto si concorda pienamente con quanto affermato fino 16 Dieci anni in Equatoria, ad esempio, è l‟unico testo scritto da un esploratore italiano che venga inserito nel volume East Africa Explorers edito da Charles Richard e James Place. 17 Fa eccezione, a questo proposito, il saggio di Francesco Surdich La rappresentazione dell’alterità africana nei resoconti degli esploratori italiani di fine Ottocento. Surdich, includendo Casati in un gruppo di autori piuttosto eterogeneo, afferma che gli scritti dei primi esploratori in Africa rafforzano stereotipi precedentemente esistenti. Il loro radicamento nella coscienza nazionale sarebbe, sempre secondo Surdich, il motivo per cui questi stessi luoghi comuni riemersero in epoca fascista rinvigoriti dall‟ideologia nazionalista. È chiaro che su questo punto non sono d‟accordo con Surdich, in quanto le stereotipie del testo di Casati hanno più valore retorico che contenutistico. Inoltre, la rilettura nazionalista o fascista del suo testo non può essere attribuita retrospettivamente a Casati. 43 ad oggi dagli studiosi, ma questa tesi vuole approfondire questa problematica e vedere come si sviluppi l‟incontro e la relazione con il diverso in Dieci anni in Equatoria. Rifacendosi al quadro teorico istituito inizialmente, si prenderanno in considerazione innanzi tutto le modalità del viaggio, in secondo luogo si guarderà a quali criteri sia stato improntato l‟incontro ed il rapporto con le popolazioni indigene, e come queste abbiano influito sulle strutture mentali del viaggiatore. 3.1 Il viaggio e l’incontro Uno dei criteri su cui si è stabilita la dicotomia fra Polo e Colombo, è quella del viaggiare verso o attraverso. Nelle intenzioni, il viaggio di Casati è assimilabile a quello di Colombo; come quest‟ultimo anche Casati parte per una missione esplorativa non scevra da intenzioni colonialistiche, anche se, va detto, nel suo caso esse sono solo vagamente tali. Come Polo, invece, si troverà a viaggiare a piedi attraverso un continente largamente inesplorato le cui popolazioni sono via via sempre meno conosciute. Anche il suo, quindi, è un viaggio attraverso; anch‟egli si trovò a vivere a contatto con gli indigeni trascorrendo presso di loro periodi di tempo anche piuttosto lunghi. Dieci anni in Equatoria testimonia, oltre agli aspetti più pragmatici della missione esplorativa e degli avvenimenti storici, soprattutto un progressivo avvicinamento e una sempre più approfondita comprensione della cultura africana. La principale motivazione del viaggio ha certo influito sul modo in cui ha impostato le relazioni con gli indigeni, essendo partito in primo luogo per una missione esplorativa, il suo punto di vista non è necessariamente quello indotto da una prospettiva di dominio. Le condizioni oggettive in cui Casati si trovò, operarono di fatto a favore di un‟integrazione: si muoveva a piedi, quindi lentamente, ed ebbe a sua disposizione ben 10 anni per sviluppare la propria relazione con l‟Africa e gli africani. Si trovò, senza averlo programmato, in una situazione che qualsiasi antropologo dell‟epoca avrebbe considerato ideale, ovvero quella di chi, pur non appartenendo ad un gruppo sociale, vive all‟interno di esso. Questa posizione privilegiata consente di essere a strettissimo contatto con la cultura studiata, 44 esaminando comportamenti e modelli sociali di un determinato gruppo, senza però divenirne parte integrante, permettendo quindi di mantenere la distanza necessaria ad una descrizione che si vuole oggettiva, o quantomeno scientifica. Questo metodo antropologico, che ebbe grande sviluppo fra la fine del XIX e l‟inizio del XX secolo è definito “participant observation,” utilizzando un‟espressione coniata proprio da James Clifford, che, come visto precedentemente mostra i limiti di questo approccio scientifico. Ma Casati, si è ampiamente detto, non è uno scienziato e la sua voce fuori dal coro non va cercata nelle descrizioni più o meno accurate ed oggettive degli usi e costumi degli africani, quanto piuttosto nel suo modo di vivere fra loro. Casati riuscì a stabilire una relazione non improntata alla dominazione dall‟altro; grazie in primo luogo ai quotidiani scambi che egli aveva con loro, egli riuscì ad adottare nei loro confronti un atteggiamento di apertura, tanto che gli antropologi suoi contemporanei lo accusarono piuttosto di un eccessivo personale coinvolgimento nei confronti delle tribù con cui venne in contatto.18 Per Casati, questa partecipazione fu più una conseguenza che un‟intenzione, ciò nondimeno, i risultati sono tali per cui la resa testuale della sua esperienza in Africa, avviene al di fuori dei topoi della letteratura coloniale. Quest‟ultimo aspetto, ovvero quello relativo ai luoghi comuni non va sottovalutato in quanto, come già detto a proposito di Polo e Colombo, la trasmissione letteraria dell‟esperienza di viaggio risente sempre, anche se in misura più o meno importante, di un canone di riferimento. Non si tratta necessariamente di un canone letterario, quanto piuttosto di un discorso relativo ad alcuni luoghi ed argomenti. Si è visto, per esempio, che nel caso di Marco Polo scrivere dell‟oriente significava raccontarne anche le mirabilia; per Cristoforo Colombo, invece, che conosceva i testi di altri esploratori, è la meraviglia suscitata dalla natura selvaggia ad essere l‟elemento inderogabile nel descrivere l‟altrove. Benché Casati faccia parte ormai di un mondo moderno, lontano dal 18 La Ivanov si sofferma brevemente anche sulle critiche mosse a Casati dall‟antropologo russo Junker, ma descrive poi quest‟ultimo nei termini di un bieco colonizzatore più che di un antropologo. Egli considera i neri pigri, bambineschi, senza onore e non degni di fede (Ivanov 160) dimostrando di avere un orientamento ideologico nei confronti dell‟altro che è molto lontano rispetto a quello di Casati. 45 sistema epistemologico dei due viaggiatori citati, non è esentato dal subire, a sua volta, il condizionamento culturale dato dall‟appartenere ad uno specifico luogo e periodo storico. L‟Africa in quel periodo era un continente ancora ampiamente inesplorato, a causa delle sue caratteristiche morfologiche e naturali, non è difficile allora capire perché venisse dipinto come un continente misterioso, ostile, popolato da barbari cannibali, oppure affascinante, ricco, incontaminato e quindi puro. La presenza di questi elementi canonici nelle narrazioni sull‟Africa alla fine del XIX secolo è tale per cui non solo essi contribuiscono, un po‟ come accadeva con Marco Polo, a definire un genere, ma rafforzano nella coscienza comune la validità del contenuto. In “The Savage in Literature,” Brian V. Street, occupandosi in particolare delle teorie evoluzionistiche che si diffusero nel XIX secolo, e che furono utilizzate per supportare l‟imperialismo, ha dimostrato che esse non sono né successive né contemporanee, bensì antecedenti l‟impero coloniale (5). Ciò significa che l‟atteggiamento mentale con cui il nuovo veniva affrontato, era già in parte formato in Europa. Benché i viaggiatori giungessero in luoghi sconosciuti, perciò, avevano già a loro disposizione dei parametri all‟interno dei quali inserire ciò che incontravano. Entro un certo limite potevano riconoscere più che conoscere. Creando un circolo vizioso, gli scritti di viaggio confermano quelle stesse teorie da cui in parte traggono nutrimento, rafforzandone in questo modo la validità. Dieci anni in Equatoria si allontana da questi topoi della tradizione perché trasmette ampiamente gli aspetti del viaggio che si riferiscono alla scoperta di un‟altra cultura. L‟intero libro può essere letto nella prospettiva della progressiva conoscenza che l‟esploratore acquisì attraverso un vero e proprio percorso di avvicinamento fisico all‟altro. Si comincia qui ad intravedere una tematica che diverrà centrale nei capitoli successivi, ovvero quella relativa allo spostamento, inteso nel senso di movimento fisico di avvicinamento all‟altro. Grazie a questo spostarsi – andare verso – l‟esperienza del viaggio acquisisce una dimensione cognitiva che Casati riesce a mettere a frutto e trasmettere. In Dieci anni in Equatoria, tuttavia, questa problematica manca di incisività perché l‟esploratore non ha piena coscienza di quanto la prossimità fisica giochi un ruolo 46 fondamentale nell‟approccio all‟altro. Nei capitoli successivi, invece, il corpo e la vicinanza fisica saranno fra i nodi centrali della discussione, perché sia Moravia che Celati vivranno questo momento con estrema consapevolezza. D‟altra parte l‟incoscienza di Casati costituisce un elemento a favore del rapporto con l‟altro. Riesce a viverlo in modo pieno proprio perché non cerca una resa intellettuale al proprio vissuto. Vive la relazione in modo naturale, lasciandosi quasi trasportare dagli eventi, senza operare forzature o mettere freni ideologici. Riesce perciò a fare l‟esperienza dell‟altro, ma anche l‟esperienza di sé con l‟altro, in modo molto più diretto e disinibito di quanto non riusciranno a fare gli scrittori di cui si parlerà successivamente. Per questo motivo, i luoghi comuni a cui si è fatto in precedenza riferimento, ed il cannibalismo in primis, in Dieci anni in Equatoria sono solo dei procedimenti formali. La narrazione procede sobriamente, evitando cioè enfatizzazioni ed esagerazioni volte a suscitare meraviglia, stupore e, trattandosi di tribù cannibali, anche orrore, nel lettore. Allo stesso modo solo in un paio di occasioni, egli esalta la cultura primitiva o la bellezza di una vita non contaminata dalla civiltà. In questi casi, è riconoscibile il cosciente uso retorico di tali affermazioni, in quanto sono poste all‟inizio o in conclusione di capitolo. Il segno più forte dell‟originalità del percorso di avvicinamento di Casati agli africani, è la mancanza sia del completo rifiuto della cultura e dei modi di vita delle popolazioni indigene, sia la loro idealizzazione; ovvero manca quella semplificazione culturale che Elizabeth Hallam in Cultural Encounters ha indicato attraverso l‟espressione “noble or ignoble savages” (3). La mancanza di questo riduttivo binomio gli permette di trasmettere un‟immagine che non tralascia gli aspetti culturalmente più interessanti, né quelli che gli sembrano i più deprecabili della società africana. In questo caso Casati si rivela atipico rispetto al suo contesto storico perché l‟assenza di questa dicotomia deriva da un atteggiamento ideologico che sottende la scrittura; si tratta cioè, di un più ampio e personale approccio al reale. 47 Ad esso va attribuito senza dubbio anche il modo in cui Casati sceglie di muoversi fra gli africani; fin dalle prime pagine lo troviamo a suo agio presso i Dinca la prima tribù presso la quale ha sostato: Nelle lunghe serate, assisteva talvolta a canti e balli, specialmente improntati ad idee guerresche. Seduti davanti a fuochi crepitanti per legna non bene essicata, la lancia nel destro pugno, e tenendo colla sinistra lo scudo intuonavasi dal capo che dirigeva l‟azione un cantico a strofe, intercalato da cori rimbombanti di maschia robustezza. [...] Una delle mie gradite occupazioni, durante il mio soggiorno tra i Dinca, era quella di ascoltare il racconto di qualcuna di quelle favole, che si perpetuano per tradizione orale nella letteratura, per così dire, del popolo, e che caratterizzano, e mettono in evidenza le doti intellettuali e morali di esso, spesso falsamente apprezzate e giudicate a causa delle esteriorità selvagge. (40-42) Non sorprende che Casati abbia assistito alle danze indigene, ma interessa il tono con cui egli trasmette questa esperienza. Le “lunghe serate [...] seduti davanti a fuochi crepitanti” dà a tutta questa situazione un‟atmosfera tale che, se non fosse che si tratta di danze guerresche, non sorprenderebbe se quello che segue fosse accaduto in un salotto della Brianza. Casati, facendo un‟operazione comune a molti narratori di viaggi riporta l‟ignoto al noto, ovvero legge la novità attraverso le categorie che gli sono familiari. È certamente parziale la descrizione che Casati offre, ma leggendolo nelle sue parole, l‟ignoto, l‟Africa, almeno in questo caso, trasmette una confortevole sensazione di vita comunitaria. La seconda parte del paragrafo citato è ancor più interessante per due motivi: il più evidente è l‟affermazione conclusiva, il secondo, è dato dall‟interesse dell‟autore nelle favole tradizionali.19 L‟esaltazione delle doti intellettuali degli autoctoni contrapposte alle loro “esteriorità selvagge” è un luogo molto frequente nelle narrazioni odeporiche, tanto da poter essere considerato quasi privo di valore. In questo caso, a ridare validità all‟affermazione 19 In Dieci anni in Equatoria vengono riportate 5 favole, le uniche che Casati ricorda fra tutte quelle che aveva sentito raccontare. Egli le aveva trascritte tutte, ma le sue note furono bruciate dal re Chiua, ed egli fu perciò costretto a ricostruirle a memoria. 48 di Casati, è quanto afferma a proposito della produzione culturale, nel caso specifico le favole, della tribù presso la quale si trovava. Stupisce che Casati, arrivato da pochi mesi sia già in grado di comprendere il racconto, ma questo punto si chiarisce facilmente: egli aveva con sé alcuni informants20 che traducevano per lui quanto detto. Le favole gli interessano perché, in assenza di una cultura letteraria scritta, sono uno dei pochi veicoli attraverso i quali trasmettere i valori della tradizione popolare. Trascriverle significa portarle ad un livello ulteriore rispetto a quello della cultura orale: in questo modo esse da un lato entrano a far parte del patrimonio narrativo comune, dall‟altro sono testimonianza tangibile di una cultura che contribuiscono così a conservare. Casati le trascrive anche perché vuole fornire un documento delle loro “doti intellettuali e morali,” questo significa che egli le ritiene oltre che documenti culturali anche testimonianza di una civiltà che considera tanto interessante da volerla far conoscere ai lettori italiani. Il procedimento espositivo di Casati è interessante: alla descrizione di una delle manifestazioni esteriori, fisiche, della cultura indigena, data dai canti e dalle danze, segue quella più intellettuale, rappresentata dalla tradizione orale. Mirando alla completezza dell‟informazione, l‟autore riferisce i due livelli in cui la cultura si espleta, cercando così di restituire un quadro che sia il più esaustivo possibile. In questo senso, fin dalle prime pagine, il viaggio di Gaetano Casati assume delle caratteristiche che lo avvicinano al viaggio di Marco Polo, ovvero viaggio non solo come spostamento fisico, ma come esperienza culturale. Questo interesse nei confronti della tradizioni, valori, e cultura degli indigeni non vede nell‟esperienza presso i Dinca un episodio isolato. Ogni gruppo da lui conosciuto viene descritto in tutti i dettagli che gli è possibile ricordare. Fra le varie tribù, quelle che Casati ha conosciuto meglio, per essersi fermato con loro più a lungo, sono i discendenti dei Mombettu, a cui dedica ampio spazio nel suo volume. Il paragrafo in cui egli descrive l‟entrata nella loro regione è paradigmatico: 20 Anche questo termine è mutuato da Clifford il quale ha così chiamato la figura che spesso si ritrova a seguito degli esploratori. L‟informant, era una persona del luogo che conosceva più lingue ed anche il territorio e poteva quindi svolgere la funzione di guida ed interprete. 49 Stavo per entrare nel Mombettu nella regione illustrata dallo Schweinfurth. Avevo sentito a raccontare cose mirabili di questo paese. La maestà del suo aspetto, i suoi fiumi dalle ormai celebri gallerie, i banchetti di carne umana, la popolazione pigmea, il cimpanzé dalle forme semiumane, la fine tragica di Re Munza, gli obbrobri perpetrati dagli Arabi, eccitavano la mia curiosità. (81) Se si guarda solo all‟aspetto cognitivo del viaggio di Casati, questo raggiunge probabilmente il suo apice mentre si trova nella regione dei Mombettu. Che il sentimento che anima il protagonista di fronte a tali “meraviglie” non sia timore, ma la semplice curiosità è significativo dell‟atteggiamento assunto da Casati nei confronti del nuovo. Benché utilizzi alcuni luoghi comuni sull‟Africa, come la magnificenza della natura, strani esseri antropomorfi, il cannibalismo, ecc., ad essi viene conferito un valore positivo, perché suscitano curiosità, e servono da stimolo per la conoscenza più che da deterrente ad essa. Uno degli atteggiamenti che contraddistingue Casati e sul quale si ritornerà fra breve, è il suo gusto per sfatare, minimizzare o addirittura giocare sul valore di alcuni luoghi comuni, come accade anche in questo caso dove gli “abbrobri perpetrati dagli arabi” e “i banchetti di carne umana” suscitano curiosità piuttosto che aberrazione. Quando entra nella regione dei Mombettu, che prende il nome ovviamente dalla popolazione che la abitava, la tribù originaria è ormai scomparsa, e ne rimanevano solo i discendenti. Casati passa molto tempo presso di loro e riesce ad approfondire la conoscenza di questa civiltà, tanto da essere una delle fonti a cui ci si rifà per la sua storia. La Ivanov ha fatto notare che fra tutti gli antropologi che si sono occupati della tribù dei Mombettu, Casati non è il più preciso, ma è l‟unico a riportare le modalità con cui il trono veniva ereditato. È infatti l‟unico a mettere in luce che si tratta di una dinasta monarchica fondata sul matriarcato. Casati supera l‟interesse che può derivare dallo scambio quotidiano con le popolazioni africane, e si mostra non solo interessato, ma estremamente tollerante anche nei confronti della pratica che da sempre aveva suscitato scandalo fra gli europei: il cannibalismo. A questo proposito, in Colonial Encounters, Peter Hulme scrive: “Human beings who eat other human beings have always been 50 placed on the very borders of humanity. They are not regarded as inhuman because if they were animals their behaviour would be natural and could not cause the outrage and fear that „cannibalism‟ has always provoked” (14). L‟orrore provocato dal cannibalismo non deriva dalla pratica in sé, ma da chi la mette in atto. Come afferma Hulme, essa sarebbe stata accettata come naturale se a nutrirsi di carne umana fossero stati degli animali; il problema deriva dal vederla praticata da altri esseri umani. Chi si deve confrontare con l‟antropofagia deve far fronte a due grosse questioni, da un lato, in quanto uomini, il doversi riconoscere come parte della stessa specie di cui fanno parte i cannibali, dall‟altro il non volersi riconoscere come simili ad essi. In passato questo problema è stato risolto nei termini descritti da Hulme, ovvero allontanando il più possibile quegli uomini dalla razza umana. Metterli ai bordi serviva proprio a questo: a definirli come l‟ultimo stadio di un‟umanità che comunque era più progredita. Ancora una volta la definizione dell‟altro serve a ribadire la propria identità. Casati su questo punto dà prova di una tolleranza che sfiora l‟incredibile; egli chiarisce che non pratica l‟antropofagia, ma non è mai esplicitamente critico nei confronti di essa. Si sarà notato che nell‟entrare nel territorio dei Mombettu, Casati fra le altre cose elenca “banchetti di carne umana,” senza però fare nessun commento rispetto ad essi. Allusioni o chiari riferimenti al cannibalismo si trovano in diversi punti di Dieci anni in Equatoria e l‟atteggiamento di Casati non cambia: egli prende atto ma non condanna. Il protagonista, che pure in altri momenti definisce gli indigeni come primitivi e bisognosi di educazione, non usa mai l‟argomento del cannibalismo a dimostrazione della loro inciviltà. Al contrario, attraverso l‟uso dell‟ironia, o con dichiarazioni di aperta tolleranza egli vuole dimostrare che cannibalismo non è necessariamente sinonimo di barbarie. Casati tocca apertamente l‟argomento due volte, la prima a proposito degli Abacà: “Sono antropofagi, senza però essere né inumani né feroci” (75). Egli non ha motivo per sentirsi particolarmente legato alla tribù degli Abacà, è stato presso di loro poco tempo e non aveva avuto il tempo di approfondire la conoscenza di questo gruppo; inoltre poco prima li aveva definiti: “Diffidenti, e nello stesso tempo avidi, sono poco laboriosi, e molto meno guerrieri” (74). La sua 51 comprensione non è quindi da attribuire ad una sua maggiore vicinanza al gruppo, va quindi eliminato il sospetto di un interesse specifico a quella tribù. La dichiarazione di Casati interessa soprattutto per la scelta linguistica, più precisamente l‟utilizzo dei sostantivi “antropofagi” e “inumani.” L‟attenzione su queste due specifiche parole è derivata dalla lettura di Hulme. Egli, nel paragrafo citato precedentemente, usa esattamente la parola “inhuman” per indicare il modo con cui gli europei guardavano alle popolazioni presso le quali si pratica il cannibalismo. Il fatto che entrambi usino la stessa parola è casuale, ma non completamente; se il sostantivo è una coincidenza, l‟ideologia che sottende ad esso non lo è. Casati usa il termine inumano in quanto all‟epoca esso era largamente usato nel discorso sul cannibalismo. L‟utilizzo dell‟avversativa, poi, indica proprio la presenza di quel preconcetto culturale a cui Hulme fa riferimento “sono antropofaghi perciò inumani,” e che Casati vuole sfatare. Evidentemente gli era familiare il discorso relativo al cannibale che in quanto tale si definisce come primitivo, ma non lo condivide. Hulme inoltre, sempre nel capitolo “Columbus and the Cannibals,” percorre brevemente la storia dei due sostantivi “cannibali” e “antropofagi” e fa notare che da Colombo in poi il termine più comunemente usato, se non il solo, era il primo, e solo nel XIX alcuni studiosi di discipline scientifiche hanno ricominciato a far circolare nuovamente anche “antropofagia.” Le doti letterarie di Casati sono opinabili, ed egli non si sofferma troppo sul labor limae lessicale, quindi che abbia scelto proprio la parola scientifica per parlarne significa che egli vuole affrontare l‟argomento con questo criterio, rafforzando così la credibilità della sua affermazione. Un secondo esempio del modo in cui l‟autore affronta questa difficile questione viene offerto alcuni capitoli dopo. Durante il suo soggiorno presso la popolazione degli Abarambo, il capo tribù gli offre della carne di un tipo particolare di scimmia, il cinocefalo: - Che ne debbo fare? È tanto guasta dalle ferite..... [chiede Casati al re] - Mangiarla; ha una carne squisita. [risponde il sovrano] - Grazie non usiamo noi cibarci di tali animali. - Avete torto. La carne di voquo è ottima quanto quella dell‟uomo. 52 Sorrisi. Era la seconda volta che ricevevo una volontaria ed esplicita confessione dei gusti della cucina antropofaga. (173-74) Che il dialogo sia frutto della fantasia di Casati è molto probabile. Già Junker, infatti, restando a quanto afferma la Ivanov, aveva accusato Casati di essersi inventato questo ed altri dialoghi su questo soggetto. Che il dialogo sia reale o no, non ha grande importanza; quello che interessa qui è la modalità che in questo caso l‟autore ha scelto per esprimere la sua opinione: il dialogo riportato dà a tutta la situazione un tono che è ironico più che specificatamente critico. Casati usa l‟ironia per ridimensionare uno dei fenomeni più delicati e difficili da trattare, la pratica del cannibalismo in Africa. Forse proprio questa sua disponibilità a comprendere anche quelle forme di cultura che non vuole fare proprie, hanno determinato la vicinanza che si era venuta a creare fra Casati e alcune tribù del Sudan. Mentre si trovava fra i discendenti dei Mombettu, ad esempio, arriva persino a stringere un patto di sangue con Kanna uno dei loro capi (192). Per i capotribù africani avere presso di sé un bianco, era un punto d‟onore ed in genere questi ultimi erano trattati con molto riguardo. Stringere un patto di sangue, tuttavia andava al di là del semplice onore, perché equivaleva a stabilire un legame di fratellanza e di reciproca fiducia. Che Casati avesse un rapporto privilegiato con queste popolazioni è testimoniato in particolare, dal suo ruolo come ambasciatore. Così come era accaduto per Marco Polo, anche Casati si trova a fare da intermediario presso nazioni straniere e per un paese che non era il suo, in questo caso specifico la Gran Bretagna. Come affermato nella biografia, non sono chiare le modalità con cui si sono svolti i fatti, l‟unico elemento certo è che durante la rivolta mahdista Emin Pascià, con il quale Casati era in contatto più o meno regolarmente, gli affida il compito di ambasciatore presso l‟Unioro. Compito di Casati doveva essere quello di convincere il re Chiua ad aprire i confini del suo regno per permettere il passaggio agli europei. Casati otterrà molto meno di quanto chiede, e i rapporti con il sovrano saranno, questa volta, improntati alla sfiducia e alla poca stima reciproca.21 Il risultato, d‟altra parte, non ha grande rilevanza, quello che è 21 Il re dell‟Unioro viene chiamato Chiua da Casati, ma è passato poi alla storia con il nome di 53 interessante, ovviamente, è che sia stato scelto proprio Casati per questo compito. Evidentemente, la familiarità che egli aveva raggiunto con gli indigeni gli conferiva uno status molto singolare, e che era riconosciuto non solo dagli europei, che gli avevano affidato l‟incarico, ma anche dalle stesse tribù africane che accettavano che fosse lui a fare da intermediario. 3.2 Una difficile sistemazione Nell‟introduzione si è affermato che questo studio si sviluppa su opere letterarie; nei capitoli successivi si prenderanno in considerazione testi che appartengono senza dubbio a quest‟ambito. Dieci anni in Equatoria, invece, è un testo complesso da definire, certamente non è un‟opera di letteratura in senso stretto, e come dimostrato in precedenza, non può essere considerato nemmeno un testo scientifico. Non si è voluta proporre in questa sede un‟analisi stilistico letteraria dello scritto di Gaetano Casati, in quanto le caratteristiche testuali di Dieci anni in Equatoria, la disorganizzazione tematica e strutturale, l‟incoerenza stilistica e una trattazione fondamentalmente impressionistica della materia, porrebbero dei gravi limiti ad uno studio di questo genere. Casati del resto non vuole scrivere un‟opera letteraria, ma di divulgazione. Questo non riduce l‟interesse nei confronti del suo testo, al contrario, si è visto che sono proprio queste caratteristiche ad aprire possibilità interpretative differenti. Dieci anni in Equatoria è una narrazione atipica che tenta di riunire stili e discipline diverse, senza però produrre risultati di rilievo se non per quanto concerne proprio la relazione che l‟esploratore riuscì a realizzare con gli africani. Nella sezione precedente si sono esaminati i momenti palesemente dichiarativi della posizione di Casati rispetto all‟Africa e agli africani. Quello stesso atteggiamento lo si ritrova all‟interno del testo in momenti che sono meno esplicativi ma altrettanto interessanti. L‟aspetto tecnicamente più convincente a questo proposito sono le appendici in calce ai due volumi, che Casati pone a conclusione delle vicende storiche e personali. La prima è costituita da alcune Cabrega, che si trova anche con la grafia Chiabrega. 54 tavole meteorologiche in cui con grande precisione riporta rilevazioni fatte mentre si trovava presso i Mombettu e altre zone dell‟Africa. La seconda appendice inserita nel primo volume è quella più interessante, perché si tratta di una tavola comparativa di alcune lingue. Nonostante il lungo soggiorno, Casati non aveva mai imparato a parlare nessuna delle lingue africane, anche a causa dei continui spostamenti, e la tavola, come afferma lui stesso, non è solo opera sua: “il Signor Hassàn Vita, già medico farmacista al servizio del Governo dell‟Equatoria, gentilmente mi favorì della sua opera nella compilazione di questa tavola” (31617). Nonostante questo, Casati una conoscenza di base dovette acquisirla a giudicare dal piccolo dizionarietto in cui diversi termini vengono declinati nelle svariate lingue: Dinca, Morù, Mambettu, Bamba, Sandeh, Bari, ed infine Lur. I lemmi riportati sono quelli destinati ad una conversazione elementare, per cui ai numeri seguono in ordine alfabetico: sostantivi indicanti le parti del corpo, gli attrezzi da lavoro, il cibo, i momenti del giorno, gli animali, ed alcuni verbi essenziali, fra i quali si trova anche il verbo “russare.” Come era accaduto per le favole, che Casati aveva trascritto per estenderne la conoscenza anche e chi non aveva fatto l‟esperienza diretta dell‟Africa, anche nel caso delle lingue l‟intenzione divulgativa prevale su qualsiasi proposito letterario. Nel caso delle tavole comparative delle diverse lingue, inoltre, emerge un ulteriore elemento che merita di essere notato. Nell‟introduzione si è spiegato perché si è scelto di includere in un unico nome, Africa, la molteplicità sociale, culturale e politica che caratterizza il continente. Casati, che era rimasto sul luogo per molti anni aveva vissuto in prima persona questa frammentazione. Nel suo libro se ne colgono alcuni aspetti, ma senza dubbio queste tavole linguistiche sono quelle che più di ogni altro commento mettono in luce la natura composita del continente africano. Dieci anni in Equatoria mira a fornire al lettore un quadro che sia il più esauriente possibile sulle culture africane. Infine, terza ed ultima appendice, è quella relativa alla mappatura della zona dell‟Uele, il motivo principale del viaggio. A conclusione del secondo volume Casati riporta la mappa, disegnata sulla base delle rilevazioni fatte da lui e da Junker, dell‟itinerario compiuto nella fase esplorativa in Africa. Quel poco di 55 lavoro sul territorio che Casati era riuscito a fare aveva comunque dato dei frutti, in fondo lo scopo della sua missione era stato, anche se solo parzialmente, raggiunto. Queste appendici sono probabilmente fra i pochi dati che si possano considerare scientifici. Casati vorrebbe dare al proprio testo un‟impostazione che egli deduce da The Hearth of Africa di Georg Schweinfurth, che oltre ad essere il volume al quale si ispira per il valore scientifico, è anche l‟archetipo dell‟organizzazione grafica del suo libro. In realtà, fatta eccezione per quest‟ultimo aspetto, Dieci anni in Equatoria è molto lontano dal modello di riferimento, in particolare perché manca coerenza narrativa ed un‟unità tematica. Idealmente si potrebbe supporre che l‟autore sviluppi la narrazione sulla base dell‟itinerario da lui seguito in Africa; l‟intenzione è certamente questa, il testo infatti si apre con una lettera al Capitano Camperio, in cui Casati descrive la sua partenza da Milano e l‟arrivo a Suakim, e si chiude con il ritorno in patria. Ma Dieci anni in Equatoria non è un itinerario perché Casati sembra non voler tralasciare niente di ciò che ha vissuto, visto e imparato in Africa. Le notizie sono disordinate e confuse perché, ingenuamente, egli non opera dei distinguo importanti rispetto al materiale trattato. Di conseguenza al racconto di viaggio in senso stretto, sono affiancate più che subordinate, la descrizione fisica delle popolazioni incontrate, con i loro usi e costumi, riportando brevemente, laddove la conosca, anche la loro storia ed in alcuni casi anche le favole della loro tradizione. Casati era partito per l‟Africa in missione esplorativa, quindi a quanto qui sopra elencato si devono aggiungere anche le rilevazioni topografiche e morfologiche. A tutto questo infine si affianca la cronaca dell‟instabile situazione politica che avrebbe portato alla rivolta mahdista e che Casati si era trovato a vivere in prima persona.22 22 Mahdi, nella religione islamica, è la figura salvifica la cui funzione è quella di sorgere contro un‟oppressione, promuovere una trasformazione sociale e quindi riportare giustizia, seguendo il volere divino. Per gli studiosi che si sono occupati di questo aspetto della religione mussulmana, non è del tutto inappropriato parlare di “messianesimo islamico”(Sachedina, 1989). Benché le caratteristiche siano simili a quelle del messia delle religioni cattolico cristiana e giudaica, vi sono alcune differenze di carattere dottrinale nella figura del Mahdi e dei suoi seguaci. (Questi ultimi in particolare sono considerati responsabili nella realizzazione del progetto di salvezza). Nel caso specifico di Gaetano Casati, egli si trovò a vivere uno dei momenti in cui il movimento mahdista, guidato da un nuovo Mahdi la cui venuta era stata profetizzata dal Maometto stesso, cercava di prendere il controllo dell‟Africa orientale fin dal 1881. Di fatto 56 Un esempio tipico del modo di procedere di Casati lo ritroviamo nella pagina riportata di seguito. Oggetto della narrazione sono la passata grandezza dei Mombettu, da cui deriva la loro superiorità rispetto alle altre tribù, e la descrizione del loro abbigliamento. Casati procede in modo quantomeno arbitrario: La dominazione dei Mambetto, sebbene troncata con la violenza e colla dispersione delle tribù, pure lasciò duratura la memoria delle sue gesta, il prestigio del suo nome, la superiorità e la prevalenza nelle arti, negli usi e nei costumi. Il modo d‟abbigliamento, l‟acconciatura del capo, le pratiche superstiziose, l‟armamento in guerra le feste ed i balli, gli utensili per gli usi domestici, tutto è improntato a foggia loro. La lingua, poi, ebbe un trionfo assoluto e completo; e, se ciascuna tribù ricorda il proprio idioma, tutti però riconoscono il di lei primato, e per riverenza alle tradizioni gloriose, e come idioma che soddisfa al bisogno di facilitare le reciproche relazioni. Mi trovava un giorno presso il principe Jangara, quando Mbala si presentò a rendere visita. Tutti scattarono in piedi e Jangara, portatosi ad incontrarlo, lo invitò ad occupare il di lui posto, acconciandosi egli, in segno di rispetto, su di un panchetto molto più basso. Era un riflesso della grandezza passata, sempre splendida e viva, e che imponeva alle menti il rispetto. L‟abbigliamento è più o meno ricercato secondo la condizione degli individui; dal ricco vestimento che copre il petto, e, scendendo alle ginocchia ripiegato, va a coprire il dorso fino all‟altezza delle spalle, stecchito, ben disteso, dal colorito o rosso, o bruno, o cinereo, stretto alla cintola con cordoni grossi, di fine lavorio, si scende per una lunga serie intermedia fino al cencio che copre o meno talune parti del corpo, rattenuto da una cordicella qualsiasi. (106) l‟insurrezione mahdista mirava ad eliminare il governo britannico per impadronirsi del Sudan e dell‟Egitto. Ma le ovvie ragioni pragmatiche fanno sospettare della piena veridicità delle motivazioni religiose: l‟Africa orientale era in quel momento l‟area geografica più attiva nella tratta degli schiavi, prendere il controllo di quella regione avrebbe significato assumere il controllo di una delle attività più redditizie del momento. 57 Questo esempio, benché sia relativo ad un unico soggetto, basta a mostrare come l‟autore proceda più per associazione di idee che per rigore argomentativo. La stessa mancanza di coerente sviluppo espositivo incontrato in questo breve passaggio, la si riscontra anche a livello generale. È difficile indicare un unico perno attorno al quale si svolge la narrazione, e l‟itinerario spazio-temporale funge solo da pretesto. Riccardo Bacchelli, che avrebbe riscritto il testo, ha visto nell‟organizzazione testuale il suo punto debole e, in Africa fra storia e fantasia afferma che la difficoltà maggiore l‟aveva incontrata nel mettere ordine in una narrazione che procede in modo estremamente confuso: “Dieci anni in Equatoria è un libro, o meglio un repertorio confuso e folto, disordinato, e stipato, di notizie esposte in uno stile e modo illegibile e quasi inintellegibile, salvo a fare quel che ho fatto, procedendo a sceverarle, chiarirle, ordinarle con metodo filologico e criterio storiografico” (37). Così come è impossibile dare un‟univoca interpretazione della struttura narrativa, altrettanto difficilmente si potrebbe trovare un aggettivo che da solo basti a definire lo stile di Casati. A momenti volutamente ricercati sul piano letterario, infatti, seguono pagine dalle intenzioni scientifiche, a cui si alternano qui e lì più o meno vaste riflessioni economicopolitiche e pseudo-filosofiche sul concetto di civiltà. Manfredo Camperio, direttore della rivista L’esploratore e autore del proemio ai due volumi, anche se in termini retorici, era riuscito ad evidenziare proprio questo aspetto: La lunga dimora in quei paesi incantati, la perfetta conoscenza di varie lingue di quelle tribù e la quasi completa solitudine, nella quale visse per parecchi anni, interrotta solo dalla breve dimora con Emin e Jumker, danno poi a questo testo un‟impronta tutta speciale. È soprattutto la verità che vi traspare, solo la verità. Non vi si trova nessun artifizio di scrittore provetto che conosce gli effetti che fará sul lettore. (X-XI) Casati del resto non scrive Dieci anni in Equatoria con intenzioni letterarie, ciò che lo interessa, è principalmente divulgare la propria originale esperienza in Africa e far conoscere agli eventuali lettori la realtà di quei luoghi. Vale la pena 58 soffermarsi su questo elemento in quanto è fondamentale data la lettura critica che si è proposta. Se da un lato è vero che Casati non sviluppa la sua narrazione in modo organico in riferimento ad un preciso argomento, è però certo che possiamo indicare nella rappresentazione dell‟alterità e nel tipo di relazione che era riuscito a mettere in atto con essa, il momento forte del testo. Egli mira soprattutto alla completezza e alla veridicità dell‟informazione, e non vuole tralasciare niente che ritenga degno di essere conosciuto in Europa. L‟esperienza del viaggio di Casati è molto vicina a quella di Marco Polo, non solo per le caratteristiche oggettive del viaggio stesso, ma per il modo in cui il viaggio viene affrontato e descritto. Per entrambi i viaggiatori, la convivenza, o quantomeno la vicinanza fisica con le popolazioni con cui vennero in contatto, furono lo strumento grazie al quale riuscirono ad instaurare un rapporto non sviluppato in base a stereotipi culturali. Casati non era partito per l‟Africa con l‟intenzione di conoscere le diverse tribù con le quali sarebbe venuto in contatto. Egli incontra il diverso senza cercarlo direttamente, ma l‟incontro/scontro e, soprattutto, il rapporto che stabilisce con l‟altro, avvengono perché riesce a mettersi in una condizione di disponibilità ad accogliere e conoscere ciò che via via incontra durante il suo viaggio. La conoscenza gli deriva quindi dall‟esperienza diretta e quasi indipendentemente della sua stessa volontà: pur non cercando l‟altro è disposto ad accoglierlo, a farlo divenire parte della sua quotidianità. Casati godeva di una prospettiva privilegiata e quasi unica in merito agli africani, perché i diversi compiti geografici e politici che gli erano stati affidati lo avevano portato ad essere in costante contatto con gli indigeni. Attraverso il contatto quotidiano con essi, il suo viaggio si arricchì di una dimensione cognitiva rispetto all‟alterità tanto inaspettata quanto profonda. La meticolosità delle sue descrizioni si deve forse in parte a questa volontà di trasmettere la sua conoscenza delle culture africane che, data l‟epoca, era piuttosto eccezionale. La condivisione, la partecipazione in prima persona alla vita dell‟altro, nei luoghi dell‟altro, introduce un aspetto importante di questa discussione: ovvero la vicinanza fisica come strumento di conoscenza. Tuttavia Casati è inconsapevole della rilevanza e degli sviluppi di questo aspetto della 59 relazione. Egli la vive in prima persona, la trasmette attraverso il suo testo ma non realizza che proprio questa modalità relazionale aprirà le porte ad un nuovo modo di concepire chi è diverso da sé. Del resto la problematica della relazione con l‟alterità è recente e l‟esploratore non poteva avere coscienza di tutti gli sviluppi a cui l‟incontro/scontro con un‟altra cultura avrebbe portato. Per Moravia e Celati, invece, questo aspetto diventerà il nucleo stesso attorno a cui si svilupperà il loro rapporto con l‟altro. La vicinanza fisica sarà vissuta in modo molto diverso dai due autori trattati nei successivi capitoli. Per Moravia essa sarà l‟apice stesso della relazione, per Celati, al contrario, il trovarsi a diretto contatto con gli africani non rappresenta un momento significativo perché non è uno strumento per una più profonda comprensione. Egli dovrà perciò cercare delle modalità diverse per sviluppare la propria relazione. 3.3 La cultura mussulmana Si è fino a questo punto messo l‟accento sulla disponibilità che Casati dimostra nel rapporto con le culture che non conosce. Va fatta una deroga però, in relazione ai mussulmani: il protagonista di Dieci anni in Equatoria è categorico nel ripudiare l‟islam e qualsiasi sua manifestazione. Nel caso specifico alle difficoltà di approccio culturale vanno aggiunte delle questioni di carattere pratico. Fra la Gran Bretagna e i mussulmani provenienti dalle vicine regioni dell‟Arabia era scontro aperto per conquistare il dominio territoriale della zona meridionale del Sudan e con essa anche il monopolio della tratta degli schiavi, attività particolarmente redditizia. Casati evita di prendere in considerazione questo aspetto della questione, ma è pronto ad attribuire ai mussulmani caratteristiche di brutale barbarie, li ritiene incapaci di qualsiasi tipo di morale e li considera un elemento “sempre pestifero” e “vero incubo che pesa sull‟Africa” (246–249). L‟affermazione “si comportano come bravissima gente” (9) resta un caso isolato, tanto più che è immediatamente seguita da una descrizione in cui agli arabi Biscerini vengono attribuiti tratti quasi animali (10). L‟alterità assoluta, quella che non solo non si può comprendere, ma con la quale è impossibile ogni forma di dialogo, è, ancora una volta, la cultura mussulmana. 60 4. Mal d’Africa: l’invenzione di un eroe italiano Nel 1932, in piena epoca fascista e coloniale, Riccardo Bacchelli fa pubblicare a puntate nella rivista Nuova Antologia la sua nuova opera: Mal d’Africa: romanzo storico. Il romanzo è in realtà una riscrittura letteraria, in chiave patriottica, delle memorie del capitano Gaetano Casati. Bacchelli non chiarisce in nessuno scritto quale sia il motivo per cui fra tutti gli esploratori italiani recatisi in Africa abbia scelto proprio Casati. Dieci anni in Equatoria non era infatti l‟unico volume di questo genere a sua disposizione, anche Romolo Gessi, per esempio, per fare un nome già visto, aveva scritto le memorie delle sue esplorazioni in Africa. L‟ipotesi qui proposta è che il testo di Casati sia quello che meglio risponde alle esigenze nazionalistiche di Bacchelli. Si dimostrerà, infatti, che la ripresa di questo testo è un‟operazione non solo appartenente all‟ambito letterario, ma anche, e potremmo dire soprattutto, a quello ideologico. Con la riscrittura di Dieci anni in Equatoria, Bacchelli mira alla definizione di un‟identità nazionale e alla legittimazione delle presenza italiana in Africa. Più precisamente, attraverso la storia di Casati, egli vuole fornire un esempio più ampio, ovvero quello di un modo onesto e prettamente italiano di viaggiare, esplorare, e, perché no, anche colonizzare. Il racconto odeporico di Gaetano Casati, viene ripreso quindi per portarlo al di fuori dalle strutture letterarie e proiettarlo in un processo di costruzione di un‟identità italiana. Rispetto a quest‟ultima l‟accento di Bacchelli è posto in modo vigoroso sulla dimensione etica di Gaetano Casati ed in particolare sul suo rapporto con gli africani con cui viene in contatto. Ciò che ha attratto l‟attenzione dello scrittore su Casati è la particolare comprensione della cultura di cui quest‟ultimo si trovò a far parte, e la sua personale capacità di trasmetterla nel testo scritto. In “Gaetano Casati esploratore a piedi,” contenuto nel volume di saggi Nel fiume della storia, Bacchelli scrive: Una vivace e intima predilizione portava il Casati ad appoggiarsi sulla fiducia e l‟amicizia degli indigeni, il suo fondo generoso e veramente buono dell‟animo suo lo disponeva non a sfruttare cotesta confidenza, 61 ma a parteciparne e a corrispondervi, pure rimanendo lui uomo di mente razionale, fra quei puri istintivi [...]. Per simili tratti d‟una umanità veramente vicina alla naturalità primitiva intatta, il Casati ha una sensibilità comprensiva rara, che sa riferirceli senza guastarli, freschi, intatti e ingenui. (162) Il brano citato mette in risalto quanto Bacchelli sia palesemente ancorato ad un‟ottica di tipo imperialista, molto più di quanto non lo sia Casati. Tuttavia ciò che mi interessa soprattutto far notare, è il „personaggio Casati‟ che emerge da questa descrizione. Bacchelli capisce che la vera ricchezza di Dieci anni in Equatoria consiste nell‟aver creato e trasmesso una prospettiva diversa rispetto alle tipiche narrazioni sull‟Africa. L‟inusuale punto di vista del viaggiatore si fonda sulla curiosità nei confronti dell‟altro, sulla volontà di conoscerlo, sulla capacità di dialogo, sull‟integrazione, in pratica sul voler e sul saper ridurre la distanza fra il sé e l‟Altro. In alte parole Casati era riuscito ad inserire il suo rapporto con gli africani all‟interno di un orizzonte etico nato dall‟esperienza vissuta in prima persona e fatto di reciproco interesse e tolleranza; non solo, era riuscito anche a trasmetterlo attraverso il suo testo. L‟aspetto più discutibile di Mal d’Africa, è proprio quello di servirsi di questa dimensione etica per costruire un personaggio che diviene simbolico di una italianità che si sviluppa lungo le linee del valore, dell‟altezza morale e di una imprescindibile empatia verso gli altri. Bacchelli quindi usa Casati come esempio per dimostrare la profonda umanità intrinseca nell‟essere italiano. In questo contesto l‟Africa funge solo da sfondo per tratteggiare un personaggio ideale. Soprattutto il rapporto con gli africani viene strumentalizzato a fini ideologici e usato per dimostrare quanto gli italiani siano capaci di aprirsi e comprendere l‟altro grazie ad una fondamentale bontà d‟animo. Utilizzando una delle classiche categorie individuate dalla critica post-colonial, l‟altro diviene lo specchio su cui proiettare la propria identità elaborandola in positivo. L‟elemento più problematico di Mal d’Africa è proprio questo: partendo da un fatto reale – Casati era stato veramente quel tipo di uomo – Bacchelli trasferisce al popolo italiano 62 delle qualità che erano state peculiari dell‟esploratore, manipolando così non solo il testo letterario, ma anche i presupposti ideologici che ad esso sottendono. In definitiva Mal d’Africa altera sia la forma che il contenuto, perdendo nel processo proprio quanto di innovativo Casati era riuscito a proporre rispetto alla relazione con una cultura diversa dalla propria. Dieci anni in Equatoria spiccava rispetto agli altri testi perché testimoniava un progressivo avvicinamento, una graduale riduzione della separazione che passando attraverso il continuo contatto fisico evolveva in una sempre maggiore comprensione della cultura africana tanto da permettere all‟esploratore di integrarsi. Dieci anni in Equatoria è soprattutto la testimonianza di una relazione con l‟altro nel suo svilupparsi ed evolversi, e la reciproca conoscenza che ne consegue ne è il frutto. Facendone una lettura fortemente ideologizzata e modificando radicalmente l‟intenzione del testo di Casati, in Bacchelli la relazione con gli africani diviene solo un punto di partenza per dimostrare l‟essenziale rettitudine, moralità ma anche altruismo e benevolenza che sono insiti nell‟identità italiana. Questa riflessione fornisce un‟ulteriore motivazione sulla scelta di Dieci anni in Equatoria, legata non a ciò che Casati ha scritto o perché lo ha scritto, ma a ciò che Casati è stato come uomo, o meglio, come scrive Bacchelli nell‟articolo già citato: “uomo e onest‟uomo e esploratore della scuola italiana, a piedi e con le buone: amico di negri, prode e generoso” (166). Questa definizione avvalora la mia tesi che sia proprio la prospettiva morale alla base della scelta di Bacchelli, e fa luce anche su quale sia l‟anello che unisce l‟istanza nazionalista e quella coloniale. La problematica dell‟identità nazionale italiana e del suo rapporto con la letteratura, è molto ampia, è perciò necessario fin da subito segnalare i limiti entro i quali si svolge questa indagine. Non ci si occuperà qui del contributo che le opere di Bacchelli in generale possano aver dato alla definizione di un carattere nazionale, ma si considererà esclusivamente Mal d’Africa, e limitatamente al contesto della funzione che qui gli si attribuisce in un periodo di imprese coloniali. Romano Luperini, in Letteratura e identità nazionale nel Novecento, ha segnalato che fra il 1880 ed il 1895 nasce una generazione di intellettuali che 63 “conserva un bagaglio etico – politico, […] difende valori patriottici e comunque nazionali”(10). Fra questi intellettuali c‟è anche Riccardo Bacchelli. Casati, filtrato attraverso le sue parole, diventa non solo un eroe, ma un onesto eroe, che si fa portatore in Africa di un esempio di quei valori morali che, come affermato precedentemente, sono descritti come tipicamente italiani. L‟Italia in quanto nazione è un concetto recente, e il suo sviluppo, soprattutto nei primi anni, è simbolicamente legato alla sua presenza in Africa. Sebbene le prime annessioni africane all‟Italia, datino alla fine del XIX secolo, è solo con il regime fascista che la colonizzazione diviene massicciamente parte di una retorica nazionalista. Retorica che, senza voler qui necessariamente toccare il terreno della superiorità della razza, aveva certamente scopo apologetico dell‟Italia e dell‟identità nazionale. Esempi di letteratura italiana ambientata in Africa non mancavano.23 Sia D‟Annunzio che Marinetti, per citare solo i più importanti, vi avevano situato romanzi e drammi teatrali, ma, benché ambientati nel presente, entrambi erano proiettati in un‟altra dimensione temporale. D‟Annunzio verso il passato della Roma imperiale, Marinetti verso il futuro. La storia di Casati, invece, apparteneva al presente, ed era al presente che si rivolgeva. Ad aumentarne il valore, inoltre, c‟era la considerazione che essa serviva a dimostrare l‟esistenza di una vera e propria “scuola di viaggiatori d‟Africa a piedi (....) fondandosi sulla buona intesa e l‟aiuto e l‟ospitalità e l‟amicizia degli indigeni; la scuola, in Sudan, dei Miani e dei Piaggia.”24 Quello che alcuni anni più tardi sarebbe stato criticato come un approccio errato alla descrizione dell‟altro, ovvero la “partecipant observation,” viene considerato da Bacchelli come una categoria positiva. Ovviamente egli non può riconoscere l‟osservazione partecipante come approccio cognitivo, ma individua nella narrazione l‟atteggiamento mentale derivante dall‟aver vissuto in prima persona l‟esperienza del viaggio in Africa e dell‟avvicinamento all‟altro africano. Proprio perché frutto di una conoscenza diretta perché esperita sulla propria persona, la storia di Casati acquisiva quel valore di veridicità che mancava 23 D‟Annunzio nella tragedia Più che l’amore che metteva in scena le vicende di un esploratore italiano in Africa aveva fatto seguire le Canzoni delle gesta d’oltremare. 24 „Gaetano Casati esploratore a piedi‟ in Nel fiume della storia. 64 ai testi non documentari. Ad accrescerne l‟importanza, c‟era inoltre la considerazione che quelle stesse vicende, erano passate alla storia. Bacchelli sceglie Casati, quindi, in parte per la singolare esperienza dell‟esploratore, in parte per le circostanze storiche contingenti, in cui il libro era nato e si era sviluppato. È perciò palese che Bacchelli, attraverso la storia di Casati, rivendica anche un ruolo coloniale attivo dell‟Italia in Africa. Ruolo che trae la propria validità e legittimazione storica dal fatto che Casati non è un personaggio di fantasia, ma un uomo in carne ed ossa la cui esperienza vissuta è letterariamente e quindi culturalmente documentata. Ciò che Edward Said in Orientalism ha chiaramente espresso è che quello fra colonizzatori-colonizzati è un rapporto di potere che si fonda in primo luogo, non su una superiorità politica o economica, bensì su una superiorità culturale. Oggi sappiamo che tale percezione è faziosa; tuttavia, la giustificazione ideologica dell‟imperialismo ruota proprio attorno a questa sbilanciata visione del mondo per cui l‟occidente oltre a dominare poteva descrivere l‟oriente sulla base di un approccio culturale i cui esiti vengono considerati come oggettivamente veri. Questo privilegio, scrive Said, è giustificato: “because his [dell’occidente] was the stronger culture, he could penetrate, he could wrestle with, he could give shape and meaning”25 (44). Sia Casati che Bacchelli, non hanno dubbi sul fatto che la cultura di cui sono rappresentanti, sia superiore a quella a cui stanno dando “forma e significato,” per riprendere le parole di Said. Ma, mentre Casati non fa della propria superiorità culturale un motivo importante del suo testo, Bacchelli la usa per arricchire di una dimensione nazionalistica ed ideologicamente faziosa le memorie di Casati. Riprendendo brevemente quanto affermato in precedenza, in Casati tale superiorità viene messa in ombra da una quotidianità condivisa con gli africani che metteva in luce le possibilità di dialogo e di scambio fra le due culture. Per Bacchelli al contrario, tali dinamiche non sono frutto di una dialettica di reciprocità ma di un movimento unidirezionale in cui Casati, grazie alla propria superiorità e magnanimità, riusciva a comprendere chi gli era “inferiore.” 25 Va precisato che Said non intende fare una “demonizzazione” dell‟occidente. Ciò che egli propone non è una rivendicazione politica, ma culturale. 65 Che la rappresentazione culturale dell‟alterità serva a ridefinire l‟identità europea è stato messo in luce anche da Peter Hulme in Colonial Encounters. Guardando alle conseguenze dell‟impari rapporto culturale fra colonizzatore e colonizzato, egli afferma che la percezione della propria superiorità come civiltà, fornisce non solo giustificazione ideologica al dominio, ma serve agli europei per riaffermare la loro identità. In accordo con la linea di Hulme, si vuole qui mettere l‟accento su un preciso aspetto di questa rappresentazione culturale. Viste le caratteristiche attribuite agli indigeni (i.e. primitivismo, cannibalismo, ecc.) l‟identità europea non solo si ribadisce, ma lo fa in positivo. La diversità dell‟altro ha peculiarità tali che l‟Europa non può uscire da questo confronto se non vedendo rafforzato e giustificato il proprio ruolo di dominatrice. Come avviene nel caso dello stereotipo, anche qui si tratta di un movimento a doppio senso; rappresentare la civiltà che si confronta con la barbarie è il frutto di una posizione ideologica presa a priori, e le narrazioni che ne derivano a loro volta la rafforzano. Proprio in quest‟ottica, il contesto africano coloniale e l‟esperienza di Casati serviranno a Bacchelli come sfondo sul quale sviluppare una narrazione improntata ad un‟ottica imperialista. Mal d’Africa dimostra quanto possa essere efficace un‟ideologia, ma ne mette in luce anche i limiti e il potere riduttivo rispetto ad un testo letterario. Le parole di Bacchelli, oltre ad essere una politicizzata distorsione dei fatti, rendono l‟esperienza vissuta da Casati molto meno articolata e ne tralasciano proprio la componente etica che si prefiggevano di esaltare. Casati viene banalizzato e reso un colonizzatore la cui grande qualità e quella di saper guardare agli africani con una sguardo umano ma chiaramente paternalistico. Il romanzo di Bacchelli è una personale riscrittura di Dieci anni in Equatoria: lo scrittore modifica situazioni e commenta liberamente i fatti storici narrati da Casati. Il protagonista di Mal d’Africa è un personaggio molto diverso dall‟esploratore che si conosce attraverso le pagine di Dieci anni in Equatoria. Scopo di questa libera interpretazione è rendere Gaetano Casati un vero e proprio eroe, e più precisamente un onesto eroe italiano. La natura di alcuni episodi aggiunti da Bacchelli è interessante: essi hanno sfondo sentimentale ed in qualche 66 caso sforano nella dimensione erotica. Bacchelli pone, a motivazione del viaggio di Casati, la sfiducia nei confronti della situazione politica italiana 26 e una delusione sentimentale. Non vi è accenno ad esse in Dieci anni in Equatoria, ma con una captatio benevolentiae nei confronti delle lettrici: “E le lettrici hanno già indovinata una delusione d‟amore” (20-21), Bacchelli definisce ben presto che tipo di uomo sia Casati: “anche da giovane fra giovani ufficiali, Casati era stato sempre piuttosto ritenuto e alieno dagli spassi rumorosi e dalla licenza del costume. Teneva la donna in alto concetto [...]” (21). Bacchelli conferisce immediatamente al personaggio una dirittura morale che sarà costantemente ribadita lungo il romanzo, anche quando la situazione contingente sembri contraddire ad essa. È il caso ad esempio dell‟orgia di cui Casati è protagonista a Metammeh. Anche in questo caso l‟episodio è frutto di pura fantasia, perché Casati parla di questo villaggio in termini molto meno personali: “Metamme, sulla riva destra del fiume, [...] è celebre per la vita licenziosa e molle delle sue donne” (13). In Mal d’Africa, Metammeh serve da sfondo per una più precisa caratterizzazione del personaggio Casati. Egli attira fin da subito l‟attenzione delle donne: “E bisogna dire per la piena intelligenza del luogo e dei fatti che l‟uomo era di robusta e maschia persona, e che tale spiccava in confronto col „reiss‟ e con quegli altri mingherlini e molli” (38). Prova ulteriore e definitiva della virilità, secondo i canoni dell‟epoca, è data dal fatto che egli non riesce a sottrarsi alle offerte che gli vengono fatte. Quando esce dalle vie di Metammeh però egli prova “la tristezza naturale dell‟orgia consumata” (40), e si tratta di una stanchezza fisica che si riflette anche nell‟animo del protagonista. Il rimorso che ne consegue è accompagnato dalla risoluzione a non lasciarsi più trascinare in situazioni del genere, e all‟accenno del reiss ad altri luoghi di quel tipo risponde: “Li terrai per te e per i pari tuoi, e mi parlerai solo se ti interrogo” (39). Francesco Marcucci, nel suo articolo “A proposito di Mal d’Africa,” attribuisce all‟episodio il valore più ampio di una prova d‟iniziazione all‟Africa stessa, e vede in esso un momento 26 La delusione politica si può facilmente ricondurre alle delusioni post-risorgimentali della generazione di Casati. 67 necessario a conservare i “connotati virili e la saldezza morale” (41) del personaggio. Sembra più che plausibile quindi anche una lettura in chiave idealizzante: Casati è capace di dimostrare la propria virilità ma non al prezzo dei propri valori, non è un caso quindi Bacchelli lo avesse definito “uomo e onest‟uomo.” La superiorità di Casati rispetto al contesto africano nel testo di Bacchelli si sviluppa principalmente in relazione alla sua statura morale, egli non contravverrà più ai propri valori, e l‟episodio di Metammeh allora ha funzione quasi apotropaica. Nelle citazioni proposte precedentemente ritorna molto spesso la parola “onesto”: l‟aggettivo più frequentemente usato per descrivere Gaetano Casati in Mal d’Africa è infatti proprio “onesto.” Lo troviamo per la prima volta in apertura di romanzo, “l‟onesto Casati” (21), e poi via via a varie riprese ed in varie situazioni fino a giungere alle pagine conclusive dove si descrive un Casati che rientrando in Italia “si affacciò con i suoi occhi chiari, onesti, spaesati, al finestrino” (433). Ribadire l‟onestà di Casati dà maggior valore e rafforza un altro suo tratto personale: il suo sincero amore per il prossimo. Si è detto precedentemente che la sua capacità di empatia nei confronti dell‟“altro,” è uno dei motivi per cui Bacchelli riscrive Casati, anche questo più volte ribadito e fin da subito affermato in Mal d’Africa: “E convien dirlo, a modo di prefazione, ora che il Capitano Casati è alle soglie dell‟Africa selvaggia, perché l‟amor del prossimo e la sua filosofia l‟accostarono ai negri con una disposizione dell‟animo, con un tratto così semplice e schiettamente umano che è raro e forse unico” (50). Nel testo di Bacchelli, la dirittura morale di Casati, insieme a questo sincero interesse per gli africani gli conquisteranno il rispetto sia degli europei, a partire da Emin Pascià, sia quello dei diversi capi tribù con cui venne in contatto. Si è detto che Casati non ha bisogno di sottolineare la propria superiorità culturale, molto diverso è, invece, il caso di Mal d’Africa. L‟empatia che egli aveva dimostrato nei confronti della civiltà africana, viene enfatizzata poiché è tanto più alta in quanto capace di capire quella “umanità primitiva.” Nel romanzo di Bacchelli la sottolineata distanza culturale viene colmata grazie all‟atteggiamento di Casati. In questo caso è un movimento a senso unico perché, 68 come aveva scritto precedentemente in „Gaetano Casati, esploratore a piedi,‟ fu lui “a familiarizzarsi con loro e ad amarli e a farsene amare” (161). È merito quindi della sua apertura mentale, e della tolleranza che gli derivavano dal far parte di una civiltà più avanzata se seppe integrarsi e farsi poi tramite di quella cultura. Si potrebbe obiettare che l‟amore per il prossimo poteva essere un tratto personale di Casati, e che non assume necessariamente valore nazionale. In Bacchelli questa possibilità viene presto sventata perché l‟interesse per altre culture, insieme all‟abilità di sapersi conquistare un ruolo attivo nel mondo coloniale e la dimostrazione di coraggio, vengono descritte come abilità o virtù tutte italiane: Era insomma la vecchia e sempre nuova attitudine del giramondo italiano, avventuroso e cordiale; vecchia pensava Casati, almeno come Marco Polo. L‟Italia ha poche merci da esportare e pochissimo denaro da spendere in colonie. È naturale che non abbia una politica colonialistica, almeno per ora. Ma ha degli uomini, ne ha sempre avuti, ne avrà sempre, uomini che vivono di poco, non le costano nulla, altrettanto economici quanto valorosi. Noi dobbiamo difendere riscattare, mettere in valore i loro meriti e le loro precedenze. Non è solo una questione di giustizia, ma di prestigio nazionale, a cui segue sempre un utile, presto o tardi, politico o economico. (49-50) Allo stereotipo “italiani brava gente” Bacchelli affianca il nuovo modello di cittadino italiano che ha una coscienza nazionale e che vuole farsi portatore dei valori e del prestigio della sua patria. A ben vedere, anche il luogo comune non è utilizzato casualmente, bensì ha funzione apologetica. Bacchelli istituisce una vera e propria tradizione nazionale di viaggio che va da Marco Polo a Casati che è lineare e simbolicamente coerente nei suoi modi: ovvero nel coraggio, nella tolleranza e nella capacità di “sapersi rapportare al mondo.” In Mal d’Africa, inoltre, gli italiani vengono definiti “valorosi” e con “meriti.” Questi valori non sono veri limitatamente ad una tradizione di viaggio, ma si proiettano in un quadro nazionale e storico quando Casati incontra Romolo 69 Gessi. Questo incontro, che nel libro di Casati ha una rilevanza minima, diventa nel testo di Bacchelli un‟altra occasione per ricordare il valore di quegli uomini in relazione a momenti fondamentali della storia d‟Italia. Dice Gessi rivolgendosi a Casati: “nel „49 sono stato a fare il mio dovere d‟italiano all‟assedio di Venezia; ho fatto la campagna di Crimea, ho servito con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi. Dell‟Africa si sa” (89). Nei due esempi citati Bacchelli non fa mai sentire la propria voce, come fa invece, e abbondantemente, in altri luoghi del romanzo. Nel primo caso è a Casati che attribuisce la consapevolezza dell‟importanza della propria tradizione nazionale, nel secondo, invece è direttamente dalla voce di Romolo Gessi che valore personale e storia nazionale divengono un tutt‟uno. Bacchelli usa l‟autodefinizione da parte dei due protagonisti per confermare la validità storica del prestigio nazionale. A nutrire la narrazione di Bacchelli è in fondo un‟ideologia imperialista, ma egli la cela in parte facendo parlare o pensare direttamente i due esploratori. Casati, quindi, non è il solo ad essere “uomo e onest‟uomo,” in quanto egli fa parte di una tradizione di viaggiatori e soprattutto di una tradizione nazionale. Homi Bhabha, nel volume da lui edito Nation and Narration, afferma che la costruzione di nazione in quanto “powerful historical idea” nasce dalla combinazione della tradizione dell‟ideologia politica e quella del linguaggio letterario. Homi Bhabha lavora poi sul solco di queste due istanze per evidenziare l‟ambivalenza insita nel concetto stesso di nazionalismo. Per Bhabha questo non è da considerarsi come un generico sentimento di fierezza nazionale, ma piuttosto come l‟insieme di elementi che caratterizzano un popolo in quanto tale. E‟ interessante che Bacchelli non faccia mai direttamente l‟elegia dell‟Italia come nazione, ma metta invece in chiaro risalto il valore, la prodezza, il coraggio, e anche l‟umiltà, di quegli uomini che sono la radice nazionale e storica dell‟Italia in cui Bacchelli viveva. Il nazionalismo di cui il volume di Bacchelli si fa portatore, va letto in chiave storica, esso vuole essere un contributo all‟identità nazionale italiana. In pieno regime fascista Bacchelli sceglie di dare ai lettori un vero e proprio eroe, una gloria nazionale. In Dieci anni in Equatoria, egli vede non tanto un valore letterario o l‟eccezionalità di un‟esperienza, quanto piuttosto 70 un modello da poter plasmare per esaltare l‟identità italiana. La singolare esperienza personale di Casati diviene un momento topico della storia dell‟Italia e mezzo attraverso il quale mettere in luce valori sentiti come tipicamente italiani. Alla luce di quanto fin qui affermato a proposito di Mal d‟Africa, il paradigma istituito inizialmente far Marco Polo e Cristoforo Colombo risulta completamente ribaltato in Mal d‟Africa. Dieci anni in Equatoria aveva trasmesso un modello di viaggiatore che grazie al proprio interesse verso l‟ignoto, si era saputo avvicinare ed in alcuni casi anche integrare alle tribù africane che aveva incontrato lungo il cammino. Un po‟ come era accaduto anche per Marco Polo, il viaggio di Casati si era trasformato in un‟esperienza cognitiva eccezionale perché egli aveva vissuto presso alcune popolazioni africane, ed aveva saputo adattarsi al loro stile di vita. Bacchelli, invece, sposta il baricentro e porta Casati ad essere molto più simile al modello proposto da Cristoforo Colombo, ovvero quello di un viaggiatore che vede nella destinazione del proprio viaggio solo un punto di arrivo, e non un luogo per una partenza verso la conoscenza dell‟altro. In questi termini tutto l‟aspetto etico di Dieci anni in Equatoria viene destituito e diventa solo l‟occasione per rivendicare un ruolo internazionale dell‟Italia e contribuire alla positiva definizione dell‟identità nazionale. Conclusioni In questo capitolo si è preso in esame il testo Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià scritto da Gaetano Casati al suo ritorno in Italia dopo aver passato dieci anni nella zona meridionale del Sudan presso diverse tribù autoctone. Il testo di Casati è stato inserito all‟interno di un paradigma teorico, che farà da guida a tutto il percorso di questa tesi, e che vede in Marco Polo e Cristoforo Colombo i due viaggiatori-simbolo di due opposti modi di viaggiare e relazionarsi all‟altro. Si è dato rilievo a questo aspetto della narrazione di viaggio in quanto è uno degli argomenti che da sempre suscita l‟interesse del lettore. L‟incontro con culture diverse, inoltre, è uno degli elementi ineliminabili di qualsiasi narrazione di viaggio a prescindere dal periodo storico in cui è stata scritta. La critica post-colonial, tuttavia, ha segnalato i limiti cognitivi di queste 71 narrazioni perché ha messo in evidenza come nel passato la descrizione della diversità avvenisse in modo fazioso e servisse in fondo a giustificare la dominazione coloniale. Questo approccio critico, inoltre, ha permesso di distinguere le diverse modalità di avvicinamento all‟altro e come esse contribuiscano a creare, od ostacolare, la relazione. Nel caso del presente studio si è fatto inoltre riferimento alla proposta del fenomenologo Emmanuel Lévinas che propone un‟etica dell‟incontro con l‟altro che non si fonda su rapporti di potere, ma che fa dell‟assoluta diversità dell‟altro il punto centrale del rapporto. Allo stesso modo Casati, pur non potendo capire nella sua interezza la cultura africana, si era aperto ad essa e si era dimostrato pronto ad accoglierla nella sua quotidianità; questa costante vicinanza all‟alterità ha certo contribuito a fornirgli gli strumenti per una conoscenza sempre più profonda. Casati instaura con le popolazioni del luogo un rapporto improntato alla comprensione, alla tolleranza, e all‟amicizia, tanto da non potersene separare nemmeno quando tornerà in Italia. Molti anni dopo, nel 1932, il testo di Casati è stato ripreso da Riccardo Bacchelli che lo usa per farne un‟apologia dell‟identità nazionale italiana. Egli opera una libera interpretazione di Dieci anni in Equatoria e trasforma Gaetano Casati in un eroe nazionale. Mal d’Africa, che viene pubblicato in un momento storico che vedeva l‟Italia impegnata in Africa proprio come nazione colonizzatrice, vuole fornire un modello positivo di identità italiana. Casati è un esempio di virilità e rettitudine morale: costantemente definito “onesto,” egli viene proposto come esempio eroico degli italiani in Africa. Il sottotitolo di Mal d’Africa, “romanzo storico” serve quindi anche a ricordare che la storia e l‟identità nazionale si raccontano e si costruiscono anche attraverso la letteratura. Bacchelli, però, fa un passo indietro rispetto a Casati, l‟esploratore era riuscito in buona parte ad evitare di usare l‟altro per definire la propria identità. Per Bacchelli, invece, l‟Africa non è qualche cosa di vero, di vissuto, è solo un luogo quasi di fantasia in cui ambientare la storia di un eroe. In Bacchelli manca l‟elemento che aveva reso davvero unico il racconto di Casati, ovvero il fatto che lui aveva veramente vissuto in Africa. L‟esperienza di Casati era stata fisica, reale; era andato in Africa ed era entrato veramente in contatto con gli africani, 72 mentre per Bacchelli si tratta solo di un‟operazione a tavolino, compiuta a fini ideologici. È il ruolo del corpo a determinare la diversa prospettiva con cui si guarda all‟Africa. Per l‟esploratore il viaggio, aveva portato ad un vero sviluppo della conoscenza, per Bacchelli, che invece andrà in Africa solo molto dopo aver scritto Mal d’Africa, non c‟è nessuna componente cognitiva che arricchisca veramente il suo romanzo. Anzi, ad essere determinante è proprio il fatto che sia rimasto in patria; è forse questo il motivo per cui ad emergere, in Mal d‟Africa, sono problematiche legate all‟Italia stessa più che all‟incontro con l‟altro. Secondo capitolo Nel corso del Novecento non furono molto numerosi gli scrittori italiani che si recarono in Africa. Chi lo fece, ci andò per i più disparati motivi: dalla guerra d‟Africa alla ricerca di avventure esotiche, dall‟interesse per le culture africane al più semplice turismo. Elvio Guagnini, nel suo articolo “Italiani in Africa da Scarfoglio a Celati: Alcune linee per un bilancio,” ha tracciato in maniera generale ma comunque piuttosto chiara quale sia stata la presenza italiana in Africa. Si nota subito, dall‟articolo di Guagnini, che vi è una netta separazione, che si riflette anche a livello quantitativo, fra la prima parte del secolo e gli anni successivi alla seconda guerra mondiale. I primi decenni sono caratterizzati da una presenza italiana, che è quasi sempre, in modo diretto o indiretto, legata al colonialismo. I testi narrativi che ne derivano sono testimoni di un preciso momento politico e, in alcuni casi, anche di una specifica ideologia, ovvero quella imperialista. Si è visto nel primo capitolo che questo è il caso, ad esempio, di Bacchelli27 che riprende a scopo nazionalistico il testo di Casati; similmente, frutto di una proiezione colonialista è anche l‟improbabile Mafarka le futuriste di Marinetti ambientato appunto in Africa, dove lo scrittore aveva vissuto alcuni anni.28 Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, invece, la presenza italiana in Africa cambia completamente le proprie modalità. Al tentativo di dominio coloniale o alla ricerca di avventure eccentriche, subentra, nella maggior parte dei casi, una più innocua motivazione, quella turistica. Mentre per altre mete, quali Stati Uniti, Russia, India ecc. sono numerose le testimonianze di autori che vi si erano recati, è invece piuttosto esiguo il numero di volumi dedicati ai viaggi in Africa, o le narrazioni che scaturiscono da un soggiorno in quei 27 Potrebbe essere opinabile l‟inserimento di Bacchelli in questo contesto, in quanto egli si recherà in Africa solo alcuni anni dopo aver scritto Mal d’Africa. Ció nonostante lo si è voluto citare in quanto il suo romanzo riprende una vicenda che scaturisce da un viaggio realmente effettuato. 28 Si sono qui volutamente ripresi solo alcuni degli autori citati nel primo capitolo e che sono legati ad un‟ideologia colonialista, anche se espressa con modalità molto differenti. La letteratura coloniale italiana in Africa è un argomento largamente inesplorato, ma un‟ottima introduzione alla materia è il volume di Giovanna Tommasello L’Africa tra mito e realtà: storia della letteratura coloniale italiana. 74 luoghi. Fra i pochi autori che visitarono il continente africano, e che ne scrissero, un posto di primo piano rispetto agli altri lo occupa Alberto Moravia, il quale, a partire dal 1962, si reca in Africa almeno una volta l‟anno. 1 Alberto Moravia: precisazioni relative alla scelta I motivi che portano a considerare Moravia un autore inevitabile all‟interno della discussione sulla rappresentazione narrativa dell‟altro in Africa sono numerosi. In primo luogo Moravia era un instancabile viaggiatore; egli è probabilmente lo scrittore italiano del Novecento che ha viaggiato di più. Basti pensare che una delle sezioni del suo vasto volume Viaggi: Articoli 1939-1990, è intitolato “Mondo 1964: Viaggio senza illusioni sui cinque continenti.” Moravia rappresenta una tipologia non troppo atipica nella storia letteraria italiana, quella dell‟intellettuale viaggiatore. Quello che lo distingue, però, oltre alla quantità, è soprattutto la qualità piuttosto eccezionale delle sue esperienze. Come giornalista, scrittore o semplicemente turista, ad esempio, egli andò negli Stati Uniti e nell‟ex Unione Sovietica durante la guerra fredda, visitò poi la Cina in epoca maoista, assistette al funerale di Nehru, e poi ancora Cuba, il sud America, il Giappone, oltre all‟ovvia Europa. Quando arriva in Africa, perciò, ed avviene piuttosto tardi, ovvero negli anni ‟60, Moravia non è un viaggiatore novello, pronto a stupirsi ad ogni passo. Aveva visto, e ne aveva scritto, realtà completamente diverse tra loro, alcune delle quali avevano plasmato la storia mondiale del Novecento. Queste esperienze, unite alla sua sensibilità personale, sulla quale ritorneremo fra breve, gli hanno permesso di sviluppare un‟attenzione nei confronti del momento del viaggio, che raramente si riscontra in altri autori che si sono occupati dell‟Africa. In secondo luogo Moravia non fu solamente uno scrittore, ma anche un intellettuale di primo piano, caratterizzando la vita culturale italiana per buona parte del XX secolo. Lo storico della letteratura Giulio Ferroni ha giustamente indicato il ruolo di Moravia come quello di: “una sorta di figura ufficiale, di „mostro sacro,‟ di maître à penser, con un giudizio sicuro su qualsiasi evento culturale, politico, sociale” (431). La sua funzione in quanto intellettuale, ed il suo impegno anche in campo politico, sono il segno della sua consapevolezza rispetto 75 alle dinamiche culturali, sociali ed economiche di cui era partecipe. Proprio in quanto intellettuale, egli non cercò mai un isolamento dalla società, ma, al contrario si sentì spinto a riflettere sui meccanismi che la regolano. Una delle grandi abilità di Alberto Moravia fu quella di saper individuare e concettualizzare i principi regolatori della realtà circostante. Questo suo atteggiamento attento, analitico ed insieme partecipe, è importante in questo studio perché si rifletterà in modo duplice nelle sue narrazioni sull‟Africa. Da un lato egli andrà in Africa da turista “informato” nel senso che sarà a conoscenza dei processi politico-sociali in atto nel paese e anche ad essi rivolgerà la sua attenzione, dall‟altro la sua tendenza all‟astrazione lo porterà, almeno in un primo momento, a cercare di comprendere razionalmente la realtà africana. Si afferma che questo avviene soprattutto inizialmente perché il rapporto fra Moravia e l‟Africa è complesso e in alcuni momenti contraddittorio. Il suo bisogno di esplicitare le dinamiche umane attraverso la razionalizzazione si stempera progressivamente, man mano che la sua conoscenza dell‟Africa aumenta. In altre parole, paradossalmente, quanto più conosce dell‟Africa, tanto meno la vuole spiegare a se stesso e agli altri. Come si può già intuire, l‟incontro di Moravia con l‟Africa scatena dei meccanismi contraddittori, e proprio attorno a questi ultimi si sviluppa questo capitolo. Parzialmente collegato a quanto detto rispetto alla consapevolezza intellettuale è il terzo motivo per cui si è voluto inserire Moravia in questo studio: la sua sensibilità. In essa l‟autore aveva una gran fede, e come dice ad Alain Elkann: “Ci sono quelli [bambini] che sono molto sensibili, ipersensibili, quelli ipersensibili possono diventare dei disadattati; ma possono anche diventare degli artisti” (Vita 7). L‟autore, già con Gli Indifferenti, aveva dimostrato di avere, uno spirito particolarmente acuto nel saper narrare attraverso i puri fatti, le motivazioni psicologiche che ad essi sottendono. A questo proposito, in Alberto Moravi:. Vita parole e idee di un romanziere, Enzo Siciliano scrive: Ma tanta difesa nei confronti di quella realtà crolla al momento di scrivere, dove proprio di ciò che oltrepassa l‟essere egli va in cerca: ma anche in quel caso, ancorando nei fatti, o in un sistema a scatola cinese di fatti […], la sua percettività. Sesso e denaro, irrinunciabili 76 certezze dell‟invenzione moraviana, fissano il telone su cui si profila l‟orizzonte di quella realtà. (10) Nel binomio sesso e denaro Moravia aveva individuato una chiave interpretativa delle azioni degli esseri umani. Trattandosi di un atteggiamento mentale che gli è proprio, il bisogno di estrarre dal quotidiano le determinanti comportamentali non si riferisce solo alla sua opera narrativa in senso stretto, e lo si ritrova anche quando scrive a proposito dell‟Africa. Benché sia meno penetrante, questa stessa attenzione nei confronti del quotidiano è presente anche nei suoi libri di viaggio. Moravia non si ferma in un luogo abbastanza a lungo da sviluppare una conoscenza tanto approfondita da potersi tradurre nella comprensione delle “idee strutturali profonde”; tuttavia questo non gli impedisce di cercarle. La sua personale tendenza alla riflessione non viene meno quando lo scrittore si trova in viaggio; al contrario, grazie ai suoi frequenti spostamenti egli aveva avuto la possibilità di sviluppare la sua curiosità e la sua sensibilità nei confronti della diversità culturale. Moravia non viaggia per obbligo, motivi di lavoro o altro, lo fa perché ama incontrare ciò che non conosce e, come si vedrà, il viaggio è il momento in cui Moravia cerca il nuovo e attraverso esso incontra il diverso. Come si è detto in precedenza, però, quando viaggia in Africa gli esiti di questo incontro sono per molti versi incerti, e l‟ambiguità che egli manifesta di fronte all‟alterità sarà uno delle principali problematiche di cui ci si occuperà in questo capitolo. Infine, ma questa potrebbe essere considerata la ragione principale, si è scelto Moravia per il suo grande amore per l‟Africa. Lo scrittore parla volentieri della sua passione, o del suo amore per l‟Africa, senza però chiarire che cosa intenda affermare attraverso queste espressioni, ovvero cosa significhi questa passione. Sappiamo di certo che uno dei modi in cui questo amore si manifestò furono i numerosissimi viaggi che vi fece; ma Moravia non spiega come questo sentimento si traduca, sia a livello emozionale che fisico. Il rapporto di Moravia con l‟Africa diventa sempre più viscerale, e forse perché si tratta di una relazione che è in primo luogo sentita e non controllata dalla razionalità, preferisce lasciare questo nodo irrisolto, non fornendo spiegazioni raziocinanti, ma astratte, e 77 lasciando che sia il vissuto a prendere il sopravvento. Questo mette in luce una delle problematiche più interessanti che si incontrano nell‟occuparsi degli scritti africani di Moravia. Il suo bisogno di comprendere la realtà sembra essere unidirezionale, ovvero proiettato verso l‟esterno, evitando invece la riflessione introspettiva; quasi che Moravia rifiutasse di voler capire cos‟era quell‟amore, e volesse solamente viverlo. In questa sede, però, non si poteva lasciare intentata un‟osservazione più analitica di questo “amore per l‟Africa,” relegandolo unicamente al campo dell‟impressione momentanea. Questo rifiuto ad esprimere le ragioni per cui ama l‟Africa, d‟altra parte, è coerente con il suo modo di affrontare il viaggio. Il bisogno di vivere l‟alterità diviene via via superiore a quello di capirla. L‟esperienza fisica, quindi, non solo precede quella intellettuale, ma finisce per prevalere su essa. Questo allora si traduce in una disponibilità all‟incontro che è proprio al cuore del suo entusiasmo, o del suo amore, per il continente nero. A portarlo in Africa, quindi, non è solo un superficiale interesse o la curiosità per luoghi che non aveva mai visitato prima, ma il desiderio di fare l‟esperienza fisica dell‟assoluta diversità. È attorno al desiderio che ruota la relazione fra Moravia e l‟Africa, desiderio di essere fisicamente in un luogo, di aprirsi ed accogliere ciò che esso offre. Moravia è fortemente attratto dal nuovo, da ciò che non conosce, soprattutto quando viaggia, e l‟Africa è il continente in cui più di ogni altro le sue strutture culturali e mentali sono continuamente sollecitate perché esposte a situazioni che per lui sono, e talvolta resteranno, incomprensibili. Ma, come detto, prima ancora di capire, quando viaggia in Africa egli vuole sentire. Tuttavia proprio questo punto fa emergere il principale paradosso di Moravia rispetto all‟Africa; vuole viverla in modo diretto, senza che si frappongano barriere intellettuali o culturali. Se però egli riesca davvero a frenare la sua inclinazione all‟analisi e a lasciare che sia l‟esperienza diretta a determinare il criterio della sua relazione con l‟atro, è quantomeno opinabile. L‟amore per un luogo, del resto, non è necessariamente un criterio positivo nel momento in cui si voglia procedere ad un esame critico dei testi, in quanto ne potrebbe emergere una descrizione idealizzante ed acritica. Ciò è particolarmente vero per questo studio, in cui i testi narrativi sono esaminati sulla base di un 78 modello teorico il cui principale criterio selettivo è il rapporto con il diverso che questi testi descrivono. In altre parole, un‟eccessiva idealizzazione del luogo e dei suoi abitanti, potrebbe portare ad una narrazione priva di interesse, in questa sede, perché sarebbe testimonianza più di una celebrazione della diversità che di un rapporto in cui si cerca di sviluppare un dialogo con essa. Non è il caso di Moravia, per cui l‟attrazione nei confronti del continente africano non si traduce mai in un‟apologia. Quanto detto in precedenza rispetto alla sua capacità di analisi e contestualizzazione si riflette anche nei suoi testi di viaggio, in cui l‟esperienza personale ha una resa narrativa che testimonia un interesse non indiscriminato, ma elaborato con consapevolezza sociale e storica. 2. Moravia in relazione a Casati e Bacchelli: continuità ma anche un problema critico Le narrazioni nate dalle sue esperienze di viaggio in Africa e qui analizzate sono raccolte in tre libri di saggi: A quale tribù appartieni? del 1972; Lettere dal Sahara del 1981 e Passeggiate africane del 198729. In parte per il mutato contesto storico, in parte per le convinzioni politiche di Alberto Moravia, i testi considerati sono informati da una posizione ideologica molto più complessa rispetto a quella di Gaetano Casati e Riccardo Bacchelli. Per questi ultimi, il rapporto con le culture africane era in stretta relazione al ruolo dell‟Italia in Africa. Considerato il momento storico, è piuttosto naturale che fosse così: gli imperi coloniali erano in piena attività all‟epoca di Casati, e con Bacchelli si è addirittura ad uno stadio che avrebbe dovuto essere quello pre-costitutivo dell‟impero coloniale italiano. L‟ideologia imperialista e nazionalista che nutriva il discorso sull‟Africa, e più in generale sui paesi del Terzo Mondo, è perciò implicita nei loro testi. Essa è il presupposto teorico che indirizza le loro narrazioni, dato che entrambi vivono e scrivono in un periodo in cui non ci si pongono dubbi sulla funzione civilizzatrice dell‟Italia nei confronti dell‟Africa. Essendo quello colonialista un progetto molto esplicito anche a livello culturale, a posteriori è facile riconoscerlo, così come è facile riconoscere gli scostamenti rispetto ad esso. Benché Gaetano Casati deroghi 29 Quando non indicati per esteso, i titoli verranno abbreviati rispettivamente in AQ; LS; e PA. 79 in parte all‟ideologia imperialista, infatti, questa resta un punto di riferimento per il suo libro perché di essa è permeato il panorama intellettuale dell‟epoca. Ciononostante, egli aveva dimostrato come ci si potesse allontanare dal ruolo di esploratore/colonizzatore, grazie ad un atteggiamento ricettivo rispetto alla cultura indigena. La sua posizione verso l‟alterità africana era di piuttosto facile comprensione e sistemazione teorica: pur con tutti gli inevitabili limiti derivanti dall‟ideologia coloniale che egli mutua dal contesto storico di cui fa parte, Casati riesce a creare una relazione con le popolazioni indigene che trascende gli equilibri di potere, permettendogli di descrivere le culture africane in modo non totalmente pregiudicato dal proprio modello culturale. Moravia, invece, è partecipe di un momento storico che vede non solo la fine degli imperi coloniali, ma anche i mutamenti che ne conseguirono. Egli fa l‟esperienza diretta del primo post-colonialismo, e vede che nonostante la fase politica imperialista sia conclusa, l‟impronta che ne resta nella società africana è molto profonda. Moravia va in Africa in un periodo in cui il continente è in transizione, dal colonialismo all‟indipendenza, dietro a cui spesso si nasconde il neocolonialismo. Il suo punto di vista è influenzato dal fatto che egli sta assistendo al processo di decolonizzazione mentre è ancora in atto. Questa precisazione è importante sul piano epistemologico perché quando Moravia si reca nel continente nero, non era ancora stato elaborato un discorso nuovo sull‟Africa. Parafrasando le parole di Homi Bhabha, potremmo dire che viene a mancare la fissità che è l‟elemento costitutivo del discorso coloniale. In The Other Question egli scrive: “An important feature of colonial discourse is its dependence on the concept of „fixity‟ in the ideological construction of otherness” (37). I parametri del discorso imperialista servivano anche a definire i limiti entro i quali collocare gli sviluppi del pensiero coloniale. In altre parole, perché fosse possibile il concetto stesso di “alterità,” era necessaria una fissa struttura ideologica che segnalava e definiva l‟alterità stessa. Stabilendo una rigida differenza fra l‟Europa e “l‟altro,” si stabilivano anche le reciproche identità e si creava la dicotomia fra „the west and the rest.‟ Con la fine degli imperi coloniali, venne a mancare questa monocorde rappresentazione del mondo. Se da un lato si 80 pose finalmente fine alla giustificazione ideologica del colonialismo, dall‟altro il panorama si presentò in tutta la sua eterogeneità e complessità. In quel momento, ad esempio, era estremamente popolare la teoria pan-africanista,30 la quale pur trovando l‟appoggio di molti intellettuali, soprattutto di sinistra, restò un progetto o un‟ipotesi di sviluppo più che una realtà. Durante la decolonizzazione, d‟altra parte, non ci fu nessuna linea ideologica che emergesse in modo dominante rispetto alle altre, e benché quella terzomondista fosse probabilmente la più nota, non riuscì mai ad avere un peso decisivo per il futuro dell‟Africa. Venne meno, quindi, un riconosciuto modello teorico: da un lato la concezione imperialista non era più applicabile, dall‟altro mancava una struttura concettuale unitaria e stabile che la sostituisse. Gli scritti di Moravia riflettono considerazioni personali che si inseriscono in un contesto politico ed ideologico molto poco definito, e non si pone unicamente in termini di distacco o adeguamento rispetto ad un comune atteggiamento culturale. Mancando un discorso strutturato che funga da punto di riferimento, non è infatti possibile leggere i suoi testi cercandovi un adattamento o una deviazione rispetto ad un pensiero dominante. Con Moravia, quindi, la problematica del rapporto con l‟altro deve essere sviluppata seguendo dei parametri diversi rispetto a quelli di Gaetano Casati. Restando sempre nell‟ottica di capire quale sia stato l‟approccio all‟altro e 30 Le radici del movimento pan-africanista, noto anche con il nome di “terzomondismo,” risalgono alla fine del XIX secolo. Nasce nelle comunità afro-americane degli Stati Uniti e dei Carabi, ma arrivò ad essere attivo in Africa solo in un secondo momento, ovvero durante la fase di decolonizzazione. Il primo congresso Pan-black o Pan-negro si tenne a Londra nel 1900, il secondo a Parigi nel 1919, in concomitanza della Conferenza di Pace a cui partecipavano le nazioni vincitrici della prima guerra mondiale. Il primo congresso veramente Pan-Africanista si tenne a Manchester nel 1945; questa fu anche la sede in cui venne fondata l‟Organizzazione per l‟Africa Unita. Il movimento si basava sulla considerazione che l‟Africa avrebbe dovuto muoversi unitariamente per risolvere le situazioni problematiche che la caratterizzavano. Nel 1963, 32 governi africani si unirono per dar vita a strutture economiche, politiche ed anche militari che permettessero di rispondere ai problemi africani con metodi africani. A questa presa di posizione quasi autarchica corrispondeva una scelta di politica economica non capitalista, o per usare il loro linguaggio “di non allineamento.” I risultati, purtroppo, furono limitati, ciononostante, lo storico Basil Anderson afferma che quel momento segnò, per la prima volta, una svolta positiva nella concezione di sé e del proprio continente da parte degli africani (Africa in History 353-354). Il pensiero terzomondista ebbe comunque una certa presa sugli intellettuali di sinistra. L‟espressione “paese allineato” o “non allineato,” ad esempio, la si ritroverà anche in alcuni brani di Moravia, nonostante lui non si sia mai voluto occupare troppo della situazione politica africana. Sul panafricanismo e sull‟influenza che ebbe sulla storia africana del XX secolo si veda di Basil Davidson anche il volume The Black’s Man Burden: Africa and the Curse of Nation State. 81 i conseguenti esiti pratici, in questo capitolo si farà soprattutto attenzione alle modalità con cui lo scrittore ha voluto avvicinarsi all‟alterità in Africa. L‟originalità dell‟atteggiamento nei confronti dell‟altro non è più una categoria valida per i testi di Moravia. Che vi sia un interesse è da dare per scontato, quello che interessa ora è vedere come si sviluppi, ovvero cosa segua all‟impulso iniziale grazie al quale avviene l‟incontro. In altre parole si vuole indagare su come Moravia scelga di avvicinarsi alla diversità, e quali siano le motivazioni del suo approccio. Il momento dell‟incontro rimane fondamentale, ma essendo Moravia cosciente delle complesse dinamiche caratterizzanti le relazioni fra Europa ed Africa, diventa essenziale guardare a come lo scrittore abbia scelto di muoversi all‟interno di un contesto estremamente articolato. Proprio in considerazione della complessità del panorama africano, e della molteplicità di teorie che ne derivarono, si è scelto uno sviluppo monografico, non inserendo nell‟analisi altri testi di autori contemporanei.31 A ben vedere, del resto, nemmeno dagli scritti di Moravia emerge un discorso unitario sull‟Africa, le sue riflessioni sono a volte contraddittorie e in qualche caso contrastano apertamente con una concezione evoluta dell‟Africa. È il caso ad esempio dei primi capitoli di AQ in cui afferma che una delle ragioni del successo del neocapitalismo in quei luoghi, è il carattere infantile dell‟uomo africano (10), salvo poi contraddirsi affermando che è più vecchio perché le sue credenze religiose sono precedenti il calvinismo (13). I criteri che guidano le osservazioni di Moravia sono molteplici, spaziando dal campo politico a quello storico, dalla seria riflessione dell‟intellettuale che cerca una spiegazione all‟apartheid (PA 154) a quella di turista divertito nel vedere un elefante passeggiare a bordo piscina (PA 62-63). L‟assenza di un uniforme contesto ideologico a cui si è fatto riferimento è solo uno degli effetti della fine dell‟imperialismo, e l‟eterogeneo quadro storicopolitico che Moravia incontra in Africa negli anni settanta e ottanta è tutt‟altro che risolto. I suoi sviluppi ci riguardano oggi molto da vicino come testimoniano, tra l‟altro, gli aumentati flussi migratori ed il sempre più frequente utilizzo 31 Questo è quanto si è fatto, per esempio, nel primo capitolo a proposito di Dieci anni in Equatoria, in cui la discussione si era sviluppata anche tenendo parzialmente conto della rappresentazione dell‟alterità fornita da altri testi di esploratori del periodo. 82 dell‟aggettivo „multietniche‟ per definire le società in cui viviamo. In altre parole, Moravia ha assistito solo alla fase iniziale delle dinamiche politiche e sociali che caratterizzano la contemporaneità. Fra le discipline che si occupano dei fenomeni derivanti dalla decolonizzazione, la teoria post-colonial gioca un ruolo di primo piano, diventando oggi imprescindibile in campo culturale. Essa viene ripresa anche in questo capitolo in virtù della sua efficacia nel dare gli strumenti necessari a comprendere i nuovi meccanismi culturali, e la si applicherà con lo stesso criterio con cui lo si è fatto in Dieci anni in Equatoria. Non si cercheranno, quindi, nei testi di Moravia elementi narrativi che lo potrebbero avvicinare a questo quadro teorico, ma si utilizzerà questo approccio per appurare come la rappresentazione della diversità sia stata sviluppata. Vale quindi la pena di ribadire a questo punto che la lettura critica dei volumi di Moravia riprenderà lo schema interpretativo che era stato fissato nel primo capitolo. Si vedrà quale sia stata la mediazione che lo scrittore ha messo in atto fra il noto e l‟ignoto, esaminando in che misura sia stato capace di modificare i propri presupposti culturali. Si analizzerà con quale atteggiamento Moravia si sia avvicinato all‟altro rappresentato dall‟Africa e dai suoi abitanti, e quali ne siano stati gli esiti. Come affermato, infatti, scopo di questo studio è capire come il viaggio, e l‟incontro con il diverso che si realizza durante lo spostamento nel caso specifico in Africa, determini dei cambiamenti nella struttura culturale di coloro che lo compiono. Come dimostrato a proposito di Marco Polo e Cristoforo Colombo, il viaggio non è necessariamente un momento cognitivo, ma può diventarlo se il viaggiatore si rende disponibile alla comprensione e accettazione delle nuove realtà con cui si confronta. Nel caso di Moravia, l‟interesse ci è testimoniato dallo scrittore stesso che ne parla sempre con grandissimo entusiasmo, arrivando a definire l‟Africa: “la cosa più bella che esista al mondo.”32 La passione per l‟Africa, però, in questa sede è il punto di partenza e non quello d‟arrivo. Non si tratta di determinare il suo interesse e la sua disponibilità nei confronti dell‟Africa, ma di capire come egli elabori la sua esperienza. 32 Moravia, Alberto, e Alain Elkann, Vita di Moravia (Milano: Bompiani, 1990) 215. 83 3. Viaggiare, spostarsi, abbandono e scoperta: le modalità dell’approccio all’altro e all’Africa Oltre ai volumi sull‟Africa citati in precedenza, a questo punto vale la pena fare brevemente riferimento anche alla serie di articoli dall‟Egitto scritti nel 1965 e raccolti nel volume Viaggi: Articoli 1930-1990. Strettamente legato ai suoi viaggi è anche il suo unico romanzo ambientato in Africa, La donna leopardo, pubblicato postumo nel 1990. Moravia giunse alla “scoperta dell‟Africa” come la definisce lui stesso, piuttosto tardi. Nel libro intervista Vita di Moravia scritto in collaborazione con Alain Elkann, lo scrittore la descrive in questi termini: “Gli anni di Dacia furono però caratterizzati da una grande scoperta. [...] Sembra il titolo di un libro sugli esploratori del cosiddetto continente nero: la scoperta dell‟Africa” (212), e poco dopo continua affermando: “Fu la rivelazione della terra in cui avrei dovuto andare prima; [...]. Avevo ormai cinquant‟anni. Avrei dovuto andarci venti, trent‟anni prima. Non l‟ho fatto, non so perché. Lo rimpiango. Per me l‟Africa è la cosa più bella che esista al mondo.” (215) Alla scoperta dell‟Africa, si accompagna anche un‟altra importantissima scoperta per Moravia, quella del viaggio. L‟affermazione potrebbe sembrare contraddittoria rispetto a quanto sostenuto in precedenza, dove Moravia viene descritto come viaggiatore instancabile. Benché sia vero che le sue esperienze in questo senso erano innumerevoli, con l‟Africa egli si apre ad un nuovo modo di viaggiare. È sempre in Vita di Moravia che egli descrive in quali termini avvenne questo cambiamento: Elsa [Morante] dava il meglio di sé in circostanze eccezionali, di emergenza. Ma nei viaggi aveva la particolarità di portarsi dietro il rapporto psicologico che è proprio della vita quotidiana. Potevamo anche andare in capo al mondo, ma sembrava che fossimo tutt‟ora a via dell‟Oca. Non viaggiava Elsa, si spostava, ecco tutto. Con Dacia, invece, ho veramente viaggiato, in un senso in qualche modo avventuroso che non è tanto fatto di avventure ma di completa dimenticanza del mondo stabile e ben definito lasciato in patria. Ho viaggiato come si sogna; con questo voglio dire che per molte ragioni 84 tra le quali principale il carattere cosmopolita di Dacia [...] ho finalmente viaggiato con abbandono e scoperta. (212) Dimostreremo nel corso del capitolo che di fatto l‟abbandono di Moravia durante il viaggio non è così totale come il paragone col sogno potrebbe far supporre. In realtà la sua razionalità farà molto spesso da filtro, e non solo nella resa narrativa, alle sensazioni e alla percezione del nuovo incontrato in viaggio.33 Prima di proseguire, ci si vuole soffermare su una fondamentale distinzione da lui stesso operata nel passo citato, e che viene riferita al diverso carattere delle sue due compagne: quella fra viaggiare e spostarsi. Spostarsi significa portare il proprio corpo in un altro luogo, senza che la curiosità per il nuovo divenga una componente psicologica determinante; viaggiare, invece, significa essere ricettivi nei confronti della realtà visitata. Questa distinzione riconduce ai due diversi modelli di viaggio proposti nel primo capitolo, e simboleggiati dalle figure di Marco Polo e Cristoforo Colombo. Moravia attribuisce al viaggio un significato che va oltre il semplice spostamento, e per trasmettere l‟intensità della sua esperienza, usa due sostantivi importanti: abbandono e scoperta, entrambi riferibili ad una sfera psicologica oltre che fisica. Per Moravia il viaggio, un po‟ come era stato per Polo, non è solo lo spostamento fisico necessario al raggiungimento di un luogo, ma un‟esperienza più complessa che si realizza anche a livello mentale. Da quella prima vacanza nel 1962, per Moravia, viaggiare in Africa significherà da un lato abbandonarsi, ovvero abolire temporaneamente le proprie strutture culturali, dall‟altro scoprire, aprendosi al nuovo. Nel primo capitolo una delle principali distinzioni operate in relazione alle figure di Polo e Colombo era proprio quella relativa al viaggiare verso o attraverso. Marco Polo aveva viaggiato anche attraverso i luoghi che lo avrebbero portato in Cina, mentre Colombo è semplicemente andato verso le presunte Indie. Con termini diversi Moravia ripropone questa distinzione. Spostarsi semplicemente, significa non abbandonare mentalmente il punto da cui 33 Per il rapporto tra “nuovo,” “diverso” e “altro” si ricordino le riflessioni nell‟introduzione a questo studio (3). 85 si era partiti; un po‟ come aveva fatto Colombo che pur spostandosi non aveva mai dimenticato la sua funzione. A ben vedere, il viaggio di Colombo doveva servire ad allargare il proprio punto di partenza, aggiungendo nuovi domini al regno di Spagna; egli, non solo non aveva abbandonato “il mondo stabile e definito lasciato in patria” ma aveva viaggiato per portare quello stesso mondo in altre terre. Il viaggiatore veneziano, invece, aveva viaggiato proprio nel senso che Moravia attribuisce a questo verbo, perché si era aperto ai paesi visitati, abbandonando i propri riferimenti culturali ed imparando a vivere all‟interno di una diversa cultura. Le modalità del viaggio che Alberto Moravia apprende in seguito a questa sua prima visita in Africa sono, per alcuni aspetti, molto vicine all‟archetipo di Polo; anche per lui il viaggio è un‟esperienza culturale e di crescita cognitiva. Anche Moravia, inoltre, viaggia attraverso; i suoi soggiorni in Africa non si svolgono quasi mai in un unico luogo, ma sono invece dei più o meno lunghi spostamenti da una località all‟altra, effettuati di solito via terra. Usa l‟aereo, infatti, solo per arrivare in Africa, o per effettuare escursioni o trasferimenti che a causa della morfologia del territorio non potevano essere fatti in altro modo. Il modo in cui sceglie di spostarsi non è un particolare di poco conto, poiché Moravia, come si è detto precedentemente, è un uomo estremamente consapevole dei meccanismi sociali in cui si trova coinvolto. In questo caso, a vederlo partecipe è la dinamica del turismo, che in Africa, si svolge secondo prevedibili schemi di esotismo e avventura. Sa che l‟Africa è meta di vacanze, e che non solo è già sta scoperta, ovviamente, ma è anche stata classificata e codificata. Nel capitolo “Sulle orme di Gide,” scrive: “Già perché in Africa non si fa in tempo ad adottare un certo modo di viaggiarci che subito esso diventa luogo comune” (249). Fra le diverse, ma tutte catalogate e ormai consuete, possibilità di viaggiare nel continente africano, sceglie quella che gli consente di avere un contatto più diretto e personale con i luoghi visitati e le popolazioni. La sua ricerca del nuovo avviene in primo luogo sul piano fisico, attraverso un contatto con il territorio che non prevede nessun tipo di mediazione. Il modo in cui Moravia sceglie di spostarsi è sintomatico di quello che cerca in Africa e del tipo di relazione che 86 vuole instaurare con chi incontra. Le sensazioni fisiche che l‟Africa suscita in lui sono strettamente collegate al desiderio che lo porta a ritornarvi continuamente. L‟immediatezza dell‟esperienza è l‟elemento irrinunciabile di ogni suo viaggio. Moravia si muove su pista, con delle land-rover, decidendo autonomamente l‟itinerario. In questo modo egli può fare l‟esperienza del nuovo in maniera più diretta e meno limitata dalle informazioni fornite dalle guide turistiche. La libertà di movimento, che nessuna gita organizzata gli avrebbe potuto consentire, è la condizione necessaria per vivere pienamente l’abbandono e la scoperta dell‟Africa. Perché il viaggio possa rispondere alle sue esigenze, mettendolo in condizione di fare un‟esperienza che apre prospettive diverse da quelle già note, e non sia quindi solo una semplice vacanza, lo scrittore ha bisogno di allontanarsi dai percorsi comuni, e di vivere il viaggio in Africa in modo individuale. È utile soffermarsi sulle modalità dello spostamento per capire che cosa significhi, per Moravia, viaggiare con abbandono e scoperta. Si è già visto che questi sono gli elementi costitutivi irrinunciabili perché il viaggio sia un momento cognitivo, ma come è vissuto ad un livello pratico questo spostamento? L‟abbandono, per lo scrittore, corrisponde innanzitutto all‟allontanamento dalla propria cultura, quella occidentale. Delle molteplici Africa possibili, Moravia rifiuta apertamente quella che assomiglia o vuole assomigliare all‟Europa, e più in particolare quella in cui si riconosce la presenza del modello economico occidentale.34 Evita perciò di visitare i luoghi che esibiscono palesi espressioni del capitalismo nel continente africano. Non solo non ama alberghi, ristoranti e guide, ma ogni volta che gli è possibile evita le forme di viaggio tipiche del turismo di massa. Dacia Maraini, che ha quasi sempre accompagnato Moravia nei suoi viaggi, nell‟introduzione a Passeggiate Africane afferma che hanno cercato “di visitare il paese nel modo meno turistico possibile” (v). Prosegue poi spiegando più dettagliatamente quale fosse il loro atteggiamento: Appena arrivati cercavamo di lasciarci alle spalle l‟Africa delle grandi città, dei grandi alberghi, dei ristoranti di lusso, delle piscine e delle 34 L‟importanza di questa osservazione sarà ulteriormente elaborata in seguito, quando si rifletterà su come Moravia definisce la “sua” Africa. 87 autostrade. Per trasferirci verso l‟interno, dove le strade sono pantani pieni di buche, dove per dormire ci si deve affidare alle missioni e per mangiare bisogna accontentarsi delle banane fritte e della pasta di ignam. (v) I due, che rifiutano quasi altezzosamente la definizione di turisti, appena arrivati in Africa si allontanano dalla modernità. Lasciandosi alle spalle alberghi e piscine, prendono le distanze da una situazione di benessere economico costruito secondo parametri occidentali. Per scoprire è necessario mettersi in relazione con il nuovo, cercandolo laddove la realtà si presenta con caratteristiche affatto diverse da quella che già si conosce. La ricerca del nuovo, criterio e motivo dei viaggi di Moravia in Africa, si applica anche al suo rapporto con l‟altro africano, con gli autoctoni. La volontà di scoperta, quindi, è strettamente collegata al desiderio dell‟altro che obbliga ad andare verso ciò che non si conosce. Per trovare una realtà così nettamente differente rispetto alla propria, però, è necessario sapere in quale direzione muoversi. Riprendendo la Maraini, è necessario lasciarsi alle spalle hotels ed autostrade per andare incontro ad una quotidianità fatta di incertezza e precarietà. Ci troviamo qui, di fronte ad una delle numerose contraddizioni che caratterizzano le riflessioni di Moravia sull‟Africa: egli afferma di averla scoperta grazie all‟abbandono, in realtà, questo è accaduto solo in parte. Lo scrittore non si è mai lasciato andare in maniera incondizionata, lasciando che fosse l‟Africa con le sue mille sfaccettature ad andare verso di lui, ma ha sempre imposto a priori una direzione ai suoi viaggi, cercandovi l‟altro ma, più precisamente, l‟altro che non assomiglia in nessun modo all‟europeo. Questa riflessione fa sorgere alcune problematiche: come si sviluppa la ricerca dell‟altro per Moravia? Cosa accade quando giunge infine a fare l‟esperienza dell‟alterità? Che tipo di rapporto riesce a stabilire con gli africani? 4. Moravia e l’alterità in Africa Dovendo riassumere in un unico sostantivo l‟atteggiamento di Moravia nei confronti degli africani, si sarebbe forzati ad usare distanza. Le popolazioni 88 autoctone suscitano nello scrittore, lo stesso fascino, spesso anche con le stesse modalità che, come vedremo in seguito, gli provocherà il territorio. Diversamente da quanto accade per quest‟ultimo, però, che resta sempre primitivo, la sua posizione rispetto alle popolazioni è più complessa. I suoi contatti con i locali sono piuttosto limitati: “è raro avere rapporti con gli africani” (Vita 222), si sposta soprattutto con europei, generalmente italiani, e le sue relazioni con gli indigeni sono circoscritte nel tempo e funzionali al viaggio; si tratta in genere di guide, autisti, negozianti. Solo in pochi casi egli entra in contatto con uomini politici o intellettuali del luogo, e ancora più raramente ha rapporti con membri delle tribù dell‟interno dell‟Africa. Ad imporre questo limite, quasi una vera e proprio barriera fisica, non sono le circostanze, ma lo scrittore stesso; vale quindi la pena esaminare quali siano le ragioni di questa scelta. Le considerazioni sulle popolazioni locali contenute nel suo primo libro sull‟Africa, A quale tribù appartieni, possono sembrare contraddittorie. I diversi incontri con l‟alterità, fanno infatti nascere in lui sentimenti contrastanti, addirittura opposti. Le reazioni possono essere riepilogate, pur senza voler semplificare eccessivamente, in tre atteggiamenti che ritorneranno con modi ed intensità molto variabili ma che in fondo resteranno costanti. Particolarmente nel primo libro emerge la sensazione di trovarsi di fronte ad una civiltà ancora infantile in cui l‟uomo è, per qualche motivo che lo scrittore non spiega mai in modo dettagliato, ad uno stadio di sviluppo precedente a quello europeo. Ad una semplificazione culturale di questo genere sono riconducibili le affermazioni contenute ad esempio in “La paura in Africa,” dopo aver cercato di stabilire se sia più giovane l‟Africa o l‟Europa, sposta la sua riflessione sulle popolazioni: Ma non è forse l‟africano più giovane dell‟europeo in quanto più irrazionale, più spensierato, più infantile, più portato al ballo, al canto, alla pantomima ossia forme d‟arte che non esigono maturità intellettuale e così via? In realtà a conti fatti, gli africani sono insieme giovani e vecchi cioè la cultura dell‟Africa nera è arcaica e al tempo stesso il suo innesto nel mondo moderno è ancora problematico e immaturo. (AQ 13-14) 89 Nell‟articolo “Moravia viaggiatore nella preistoria,” Jorn Moestrup desume da affermazioni come questa un atteggiamento “quasi rousseauviano” nello scrittore (45).35 L‟interpretazione di Moestrup, benché non completamente inesatta, non può essere tuttavia condivisa. Lo sguardo dello scrittore verso l‟alterità sembra rifarsi ad un modello epistemologico addirittura pre-coloniale, le considerazioni sull‟infantilismo, intellettuale e civile, degli africani potrebbero infatti suggerire un paragone fra Moravia e Cristoforo Colombo. Molti secoli prima sbarcando in America Colombo aveva guardato alle popolazioni indigene come ad esseri primitivi in quanto non aveva riconosciuto in loro nessuna delle categorie per lui costitutive della civiltà. Moravia si trova in parte nella stessa posizione; nelle popolazioni indigene dell‟Africa non vede caratteristiche riconducibili alla civiltà così come viene intesa in occidente. Essendo un intellettuale del XX secolo, però, è cosciente che il mancato riconoscimento delle manifestazioni culturali di un popolo, non ne comporta l‟assenza. Le affermazioni sul primitivismo, che fanno supporre una semplificazione culturale da parte di Moravia, non sono infatti sentite come una contraddizione rispetto al suo sincero interesse per l‟Africa. A questa poco evoluta percezione dell‟Africa si affianca pian piano la consapevolezza che la realtà africana non è semplificabile in termini di maggiore o minore evoluzione. Nei viaggi successivi egli affronterà l‟Africa con spirito molto diverso. In questo senso un‟indicazione importante viene fornita da Moravia stesso che letterariamente, descrive quale sia l‟atteggiamento mentale con cui viaggia. Alla domanda di Elkann “Ma che cosa ti affascina di più nel viaggiare?” risponde: “L‟ignoto. Lo dice Baudelaire, del resto: Au fond de l‟inconnu chercher du nouveau. L‟accoppiamento dello sconosciuto con il nuovo” (Vita 96). Il primo viaggio in Africa gli servirà per comprendere dove cercare il veramente nuovo e gli insegnerà a distinguere il veramente diverso. La volontà di trovare ciò che non conosce è il criterio fondamentale che Moravia applica nei confronti dell‟incontro con le popolazioni. Pur non facendone mai un‟esplicita 35 Jorn Moestrup, “Moravia: Viaggiatore nella preistoria,” Studi d’italianistica nell’Africa Australe 6.2 (1993): 36-50. 90 critica, egli manifesta una chiara indifferenza per gli indigeni che si sono adattati alla modernità e nei quali è possibile riconoscere una forma di classe sociale. La mancanza di interesse è dovuta alla conoscenza del presupposto economico e culturale che determina i loro comportamenti. Si è detto ad inizio capitolo che uno dei modi in cui la cerebralità di Moravia si espleta è il suo bisogno di capire quali siano le determinanti comportamentali degli uomini; questo avviene anche nel caso delle popolazioni dell‟Africa. Un africano che vuole arricchirsi, o che ha già conquistato una posizione nella società neocolonialista, per Moravia corrisponde ad un piccolo borghese europeo, di cui rappresenta, al massimo, una versione più recente. La discriminante per riconoscere il veramente altro diviene l‟incolmabile distanza culturale, quella che non consente di capire quali siano i criteri, o le “idee strutturali profonde” a cui si è fatto riferimento all‟inizio del capitolo, che sono alla base di qualsiasi manifestazione, intellettuale o civile, della popolazione alla quale si sta rapportando. Lo scrittore arriva a concludere che in fondo Africa ed Europa, con le loro rispettive civiltà, sono complementari. Nel capitolo „Conterie e turismo‟ afferma che: “l‟africano non è „diverso,‟ non è un „altro.‟ È semplicemente l‟altra faccia dell‟Europeo, il suo completamento, la sua alternativa” (AQ 140). Si potrebbe obiettare che “alternativa” e “completamento” hanno significati divergenti; nonostante l‟incoerenza, tuttavia, la scelta lessicale è per certi aspetti chiarificatrice. Quella di Moravia è, almeno in questo caso, un‟astrazione ancorata ad un pensiero europocentrico e modernista: la cultura africana acquisisce significato non in sé, ma in quanto completamento di quella europea. All‟ingenua percezione della diversità che emerge dai primi capitoli di A quale tribù appartieni, segue una sistemazione funzionale: l‟africano è “l‟altra faccia della medaglia” rispetto all‟europeo. La definizione della relazione come complementare nasce da un‟impressione momentanea basata sul contrasto, su ciò che allontana e segnala una differenza. Questa caratterizzazione costruita su parametri negativi della relazione con l‟altro, non sarà molto frequente in Moravia. Solo in pochi casi egli percepisce la cultura africana come completamento; più frequentemente, e più interessante in questa sede, essa è 91 percepita come irragiungibilmente lontana. È quindi appropriato parlare di alternativa, se si intende quest‟ultima come possibilità di sviluppo positivo, e non limitatamente come integrazione. Tuttavia queste sue affermazioni fanno emergere un atteggiamento mentale molto modernista da parte di Moravia, che mette in gioco la dialettica tradizione/innovazione e che inserisce i due continenti, Europa ed Africa, all‟interno di un medesimo sviluppo storico. In Moravia c‟è sicuramente un approccio di questo tipo, cercare l‟ignoto ed il nuovo significa in fondo cercare l‟alternativa a quello che si è, ed il continente africano sembra offrire proprio quelle qualità che lo scrittore identifica con il nuovo. Tuttavia egli non riduce l‟Africa a mero specchio di ciò che l‟Europa e gli europei non sono più. Il sentimento del nuovo gli apre nuove prospettive, l‟esperienza diretta dell‟ignoto gli permette di avere parametri diversi con cui guardare all‟Africa e agli africani. Guardare ad essi come ad una alternativa è possibile quindi, se ciò significa guardare all‟assolutamente altro. La sensazione che emerge con maggior intensità e persistenza nei testi successivi, infatti, è quella di trovarsi di fronte ad una incomprensibile diversità, tanto distante da non poter essere colmata in alcun modo. Ci si soffermerà su quest‟ultima modalità del rapporto con l‟altro, non solo perché è quella che emerge con maggior decisione, ma soprattutto perché è quella che si rivelerà foriera di ulteriori sviluppi. Esempi di questo modo di vivere l‟incontro con l‟altro si trovano già nel primo libro A quale tribù appartieni (54, 150), ma si sviluppa soprattutto nei libri successivi Passeggiate africane e Lettere dal Sahara, e lo si deve, per quanto possa sembrare contraddittorio, alla maggiore esperienza che lo scrittore andava acquisendo dei luoghi e delle popolazioni. L‟ambiguità nei confronti delle culture africane resterà uno dei punti più importanti nel discorso sull‟alterità in Moravia; il suo desiderio di avvicinarsi e conoscere, si realizza attraverso il mantenimento della distanza. In seguito ai primi viaggi lo scrittore prova un crescente interesse nei confronti del continente africano perché lo sente come assolutamente diverso, ma per mantenere tale diversità è necessario non invaderla, restando al di qua di ogni dialogo. Per Moravia proprio quest‟ultimo è un punto di non ritorno nel rapporto con l‟altro. Il linguaggio non serve ad 92 avvicinare, ma piuttosto a frapporre codici culturali che precludono ogni possibilità cognitiva. Lo scambio, che avviene, nonostante le premesse sembrino garantire il contrario, deve trovare perciò altre vie per realizzarsi. Occorre quindi riflettere su come Moravia abbia scelto di mettere in atto la sua personale mediazione fra noto ed ignoto. Moravia riconosce con entusiasmo la propria incapacità a comprendere la cultura africana, e, cosa ancora più importante, ribadisce la volontà di non voler colmare il divario che li separa. Questa distanza, che egli concettualizza in diversi modi e di cui fornisce numerosi esempi, è alla base della sua resistenza ad avvicinarsi agli africani. La modalità fondamentale con cui l‟incontro con il diverso si sviluppa, è fissata in uno dei capitoli iniziali di A quale tribù appartieni. Come si è detto, gli incontri saranno numerosi nei libri successivi, cambieranno i contesti e le occasioni, ma le caratteristiche di trascendenza descritte in “L‟abisso dei secoli” resteranno: “Ed ecco avverto al mio fianco la presenza di qualcuno. Non mi tocca ma sento che c‟è. È una donna giovane, forse può avere venti anni. [...] Accanto a lei sta un giovane completamente nudo salvo un piccolo cencio rosso stretto intorno ai fianchi” (54-55) (corsivi miei). Alla minuziosa descrizione fisica e dell‟abbigliamento della coppia che ha a fianco, Moravia fa seguire una riflessione: Provo, guardandoli, la stessa sensazione che ispira una divisa o un costume di cerimonia o qualsiasi altro vestito di indubbio significato simbolico: una curiosità quasi scientifica, come di fronte ad un messaggio oscuro che vada decifrato. Ma l‟uniforme o l‟abito di cerimonia europea sono facilmente riferibili ad una cultura nota e familiare; quei cerchi di rame, quella tintura rossa, quelle trecce, quello sterco di vacca, sono invece il prodotto di una cultura del tutto straniera, probabilmente espressiva di un rapporto ancora diretto e non mediato con la natura. Quanto a dire che quell‟uomo e quella donna per me è come se fossero mascherati mentre in realtà sono soltanto indecifrabili. In altri termini tra loro e me c‟è un abisso di dieci, quindicimila anni; com‟è possibile colmarlo? (55) 93 Si è voluta sottolineare la scelta lessicale di Moravia perché i verbi da lui usati definiscono l‟incontro come una situazione eccezionale. Lo scrittore, che in Africa vuole trovare il diverso e cerca l‟alterità, si trova qui a provarla, quasi fisicamente, perché non la vede semplicemente, ma la avverte, la sente. L‟incontro/scontro con l‟altro è vissuto a più livelli. In un primo momento c‟è la percezione fisica dovuta alla vicinanza. Ma avvicinarsi non significa solo annullare la distanza, significa anche far entrare in campo altre dinamiche, e nel caso di Moravia queste sono soprattutto di carattere intellettuale. La dicotomia intellettualità/corporeità è una delle costanti, ed insieme anche la contraddizione più profonda, del modo in cui Moravia si relaziona all‟altro. Egli cerca l‟altro ma nel momento in cui il contatto fisico avviene non vuole gestire nessun tipo di relazione perché la consapevolezza, tutta intellettuale, di quali possano essere le conseguenze dell‟incontro gli impedisce di instaurare un vero scambio. Questo primo incontro è l‟unico in cui l‟alterità si palesa allo scrittore in modo così intenso, ed è anche quello che fissa il paradigma per i successivi. Le due dominanti della riflessione di Moravia sono l‟indecifrabilità e la distanza, e questi due elementi resteranno le costanti invariabili ogniqualvolta si debba relazionare con gli autoctoni. Questo non significa, però che non sia interessato o curioso nei loro confronti, è piuttosto vero il contrario. Le affermazioni relative alla primitività e “all‟abisso dei secoli” potrebbero essere, infatti, fuorvianti e potrebbero portare a risolvere la discussione ritornando all‟ormai noto argomento della rappresentazione come forma di dominazione. Ma, come già affermato, l‟approccio qui utilizzato è quello degli studi postcolonial, il cui fine non è tanto di fare una critica tout court di qualsiasi testo che abbia come oggetto la rappresentazione dell‟alterità, quanto piuttosto il riconoscimento dell‟atteggiamento con cui l‟autore si pone nei confronti di essa. Qualsiasi testo di viaggio è, indirettamente, anche una rappresentazione culturale, ma essa non si risolve necessariamente in una riduzione, o meglio il grado di riduzione è variabile: “Narratives of encounter are undeniably dominated by the viewpoint of the mobile culture, yet it is possible to exaggerate the degree of superiority implied” (Steve Clark 1999). L‟interesse dello scrittore è tanto 94 maggiore in quanto riconosce la cultura africana come illeggibile attraverso i propri parametri culturali. Quanto fin qui affermato porta alla conclusione che lo scrittore non si è mai completamente abbandonato; ma ha volutamente cercato il nuovo individuandolo solo nella forma che per lui era veramente rappresentativa dell‟assoluta diversità. Lo scopo dichiarato della sua ricerca intellettuale in Africa, è quello di trovare l‟ignoto, che nel caso delle popolazioni si può interpretare come “l‟assolutamente diverso” riconoscibile nel momento in cui avverte l‟impossibilità di comprendere. L‟atteggiamento di Moravia è quasi paradossale, vuole incontrare il limite della propria capacità di comprendere per assicurarsi che la vera alterità sia ancora possibile. L‟incontro ha luogo sul piano fisico ma ad esso non conseguono sviluppi; questo sua personale modalità di avvicinamento all‟altro pone però dei problemi. Il suo modo di porsi di fonte all‟alterità sembra infatti contraddire quanto afferma Lévinas, per il quale la realizzazione della distanza porta invece al desiderio di avvicinamento. Il paradosso in realtà si risolve se si considera che Moravia vuole “sentire” l‟altro attraverso i sensi, ovvero in modo viscerale. Questo aggettivo non è stato usato in modo casuale, a conferma della coerenza con cui Moravia affronta l‟altro e l‟altrove, esso ritornerà anche a proposito del suo rapporto con il paesaggio. L‟esperienza fisica dell‟altro è sufficiente per lo scrittore, il quale non vuole frapporre ulteriori barriere, che nello specifico sono le barriere del linguaggio. Moravia desidera il contatto con l‟altro e l‟ignoto ed è proprio a questo fine che si reca in Africa, ma preferisce che questo contatto resti ad un livello viscerale appunto; in altre parole, non vuole che venga frapposta alcuna barriera razionale o culturale. Qualsiasi tipo di mediazione o comunicazione, in particolare il linguaggio, porterebbe alla corruzione dell‟incontro e del rapporto stesso. Egli è quindi molto disponibile nei confronti del veramente altro. Ciò che forse può sorprendere è vedere come Moravia decida di gestire la propria disponibilità. Si è voluta sottolineare la scelta dei verbi avverto e sento, perché essi ricordano il palesarsi di Altri, che Lévinas chiama anche Autrui, così come è descritto in Totalità e infinito. Con questo termine il filosofo non indica semplicemente l‟altro in quanto essere umano diverso da me; Autrui è la proprietà 95 assoluta per cui l‟altro uomo si definisce come tale. Il filosofo descrive l‟esternarsi di Autrui come un fenomeno che precede la vista ed il tatto, entrambi atti che già inglobano e quindi riducono al medesimo (TI 199-200). Egli propone, attraverso il linguaggio, una soluzione positiva alla distanza esistente fra il medesimo e l‟altro;36 grazie al discorso egli ipotizza un rapporto dialettico che non si conclude semplicemente con la comprensione, che, nel caso di Altri, resta comunque inattuabile. Il discorso consente di presentare la diversità senza che questa venga definita e quindi limitata. Moravia percepisce una presenza, e lo sguardo, che comunque è già un atto di appropriazione, gli conferma che si tratta di una diversità che non può spiegare facilmente e che determina una distanza fra lui e la coppia che egli sente come incolmabile. Inversamente alla proposta di Lévinas, dove la realizzazione dell‟esistenza dell‟assolutamente altro spinge verso il dialogo, per Moravia questa porta ad una stasi conoscitiva, una voluta, rispettosa separatezza. Il suo interesse per gli africani ha allora un fine piuttosto sorprendente, Moravia cerca l‟irriducibilmente altro per essere testimone della diversità assoluta. Si potrebbe addirittura affermare che nell‟altro egli cerca la conferma che la diversità è ancora possibile. L‟ignoto che egli cerca in Africa e nelle tribù autoctone, allora, ha qui un doppio valore, significando ciò che non si conosce ancora, ma anche ciò che non si conoscerà mai. Ciò che Moravia cerca in Africa e negli africani allora, va al di là di quello che egli può trovare in quei luoghi, perché il suo desiderio si riferisce al bisogno di trovare una dimensione metafisica che vada al di là delle situazioni contingenti e che gli permetta di aprire il campo a riflessioni che non si indirizzano agli africani piuttosto che agli europei, ma all‟uomo in generale. L‟esempio più interessante di questa necessaria distanza si trova nelle pagine che raccontano la visita di Moravia al Sultano dei Tuareg. Lo scrittore viene condotto in uno spiazzo, che egli interpreta come una necessaria anticamera 36 Lévinas definisce il linguaggio come: “un rapporto tra termini separati” (TI 200), e non si riferisce esclusivamente alla lingua parlata, che può comunque essere intesa come un tipo di linguaggio. 96 prima di accedere alla sala reale, viene fatto accomodare, gli viene dato in dono un libro, ed è poi lasciato ad aspettare:37 La visita si protrae a lungo, pur sempre nell‟immobilità e nel silenzio, tra il sorriso del fratello del sultano, l‟espressione severa delle guardie e quella inquieta del capoguardia. Alfine quest‟ultimo rompe gli indugi, chiede spiegazioni, si spiega a sua volta; e la verità viene alfine a galla: il sultano è a Parigi e il fratello ne fa le veci; questa era l‟udienza e avrei dovuto capirlo e parlare, interrogare, levarmi le mie curiosità col fratello. Quanto, poi, ad essere introdotto nel palazzo, non se ne parla neppure: gli stranieri non possono entrarvi. Il capoguardia è un po‟ arrabbiato per l‟equivoco; mi domanda nervoso, che cosa volevo dal sultano, perché avevo chiesto l‟udienza. Rispondo con sincerità che volevo soltanto vederlo. È la verità, dopo tutto. Infatti quel libro così prezioso e così mal ridotto è un segno eloquente dell‟impossibilità di qualsiasi rapporto altro che visivo. Cosa avrei potuto apprendere, insomma, che non avevo già letto nella burbanza della guardia, nel sorriso ironico del fratello del sultano, nell‟inquietudine del capoguardia? (100) Il dialogo è ritenuto inutile, perché la situazione e la vista dei tuareg, gli basta a fargli comprendere che la distanza che li separa è troppa per essere colmata con un semplice scambio di parole. Il non voler approfondire il rapporto con gli africani non deve essere letto in chiave negativa, in quanto lo scrittore crede che quella distanza debba essere mantenuta perché la diversità resti tale. Cerca nelle popolazioni la stessa autenticità che cercava nel territorio, ma per poter far questo ha bisogno di essere il meno invasivo possibile. Più le manifestazioni a cui assiste sono spontanee, ovvero meno influenzate dalla presenza di europei, più lo interessano. Le danze fatte da professionisti a beneficio dei turisti sono falsate in quanto, perché queste siano vere, è necessario che il turista sia dimenticato, è necessario: “il sentimento di assistere ad una manifestazione che ci „ignora,‟ che 37 È interessante notare che il libro che viene regalato a Moravia è una storia dei regni Tuareg in una versione francese tradotta dall‟originale in tedesco. 97 ci „esclude,‟ che non ha bisogno della nostra presenza ed attinge la propria ragion d‟essere in motivi che non ci riguardano” (AQ 148). Nell‟istante stesso in cui la diversità si manifesta a favore di un‟altra persona, essa si annulla. Non sarebbe corretto vedere in questo atteggiamento una forma di disinteresse, si è già detto che per lo scrittore la disponibilità e la curiosità non devono essere dimostrate perché sono da lui stesso dichiarate fin dal primo momento, e sono implicite nel fatto che lui desidera andare in Africa. Altrettanto improprio sarebbe vedere queste riflessioni come una prova o conferma della propria superiorità culturale. Il discorso di Moravia sull‟Africa consiste proprio in questo, egli non considera il primitivismo come segno di inferiorità, e non vede l‟impossibilità di comunicare come un fattore negativo al quale si deve porre rimedio. Su questo punto Moravia riesce a raggiungere una notevole lucidità; non è in grado di capire cosa stia dietro a determinate manifestazioni culturali delle tribù, non riesce ad interpretare i loro simbolismi, ma questo non si traduce in pregiudizio. Anzi, al contrario un‟osservazione contenuta in Lettere dal Sahara, spiega molto bene quale sia l‟atteggiamento con cui lo scrittore guarda a quelle culture. Si trova in Costa d‟Avorio dove Dacia Maraini segue da vicino alcune tribù per farne un documentario: Dopo i primi giorni tutto mi pareva naturale, inalterabile e definitivo anche si ingiusto e magari deplorevole: i piattelli nelle labbra come l‟aspetto di termitai delle case; le pance gonfie dei bambini con l‟ombelico sporgente come un tappo di champagne, allo stesso modo della pettinatura delle donne composta di mille minime trecce zampillanti dal cranio tutto intorno al collo e alla fronte. E allora viene subito in mente questa riflessione: come hanno fatto nel passato i razzisti, i colonialisti, gli imperialisti di ogni sfumatura a preservare pur nel quotidiano rapporto con gli africani, il sentimento di una diversità irreparabile, giustificatrice di ogni sopraffazione e ogni violenza? Insomma come si fa, dopo una giornata di contemplazione, a non sentire i piattelli nelle labbra come qualche cosa di necessario 98 [...]? E a servirsene invece come una pezza di appoggio per una cervellotica e interessata convinzione di superiorità razziale? (LS 44) Moravia non cerca spiegazioni all‟uso di perforarsi il corpo con scopo decorativo o alla particolare forma delle loro acconciature, ma con spirito polemico, tiene a sottolineare quanto sia improbabile l‟interpretazione delle suddette usanze come dimostrazione di inferiorità. La posizione ideologica di Moravia nei confronti dell‟alterità africana non lascia quindi spazio a molte interpretazioni: la loro diversità non è sinonimo di inferiorità. Va sottolineata, però, anche un‟affermazione implicita fatta in relazione al rapporto quotidiano con queste popolazioni. Moravia si stupisce che nonostante la convivenza gli europei non fossero riusciti a capire le loro tradizioni e a non sentirle come “necessarie.” La quotidianità viene vista come un possibile mezzo di comprensione della cultura e quindi di avvicinamento alla realtà africana attraverso una complicità data dalla comunione di gesti, dalla condivisione degli stessi luoghi; un dialogo insomma, ma senza parole. Solo alla fine di una giornata Moravia sente che i piattelli sono necessari. In altre parole la diminuzione della distanza rende l‟altro meno indecifrabile. Indirettamente lo scrittore afferma che nella quotidianità la diversità svanisce. Si tratta proprio di quella vicinanza che lui aveva così attentamente evitato, e che in varie occasioni lo aveva fatto sentire un intruso. Sempre durante le riprese per il documentario pensa: “Trattengo il fiato apprensivo; immagino che adesso i parenti infuriati dalla nostra slealtà, si slanceranno sulla Land Rover, faranno a pezzi la macchina da presa. Confesso che dentro di me non riesco a dargli torto” (LS 51). Vi è l‟impressione che Moravia non voglia violare fisicamente il loro mondo, e che preferisca piuttosto limitarsi a guardarlo, ammirarlo anche, come se la sua presenza fosse un pericolo per la diversità che quelle popolazioni rappresentano. C‟è negli scritti di Moravia un costante sforzo di mediazione, tutt‟altro che conciliabile con l‟abbandono, tendente ad evitare sovrapposizioni culturali. Questo atteggiamento è, ancora una volta, paradossale perché la volontà di tenere la relazione solo sul piano della percezione fisica, mantenendo una separazione di fondo, corrisponde in parte a non voler mettersi in gioco per creare davvero una 99 relazione significativa, fondata sullo scambio. Inoltre mantenere la distanza serve ancora una volta a ribadire la propria identità in contrapposizione all‟alterità. Paradossalmente, viste le affermazione sulla mancanza di storia in Africa, fra l‟Europa ed il continente nero c‟è troppa storia perché sia possibile un rapporto non pregiudicato dal passato. 5. Quale fra le “Africa” possibili? Lo svolgimento della problematica del rapporto con l‟alterità fa sorgere un‟altra questione importante all‟interno del discorso sull‟Africa in Moravia, quella di che cosa effettivamente indichi questo nome. Fino ad ora si è parlato, in termini piuttosto generali di Africa quasi come se la si considerasse in modo unitario. Evidentemente, parlare del continente africano come di un unicum è inappropriato. L‟astrazione che si è operata utilizzando un solo nome per indicare una vastissima quantità di luoghi e culture non vuole essere una banalizzazione delle differenti realtà che nel loro insieme costituiscono l‟Africa. Non c‟è una sola Africa, e come questo è evidente per noi oggi, nell‟epoca della „postdecolonizzazione,‟ lo era anche per Moravia. Parlando di Africa, egli si riferisce ad un concetto tanto specifico quanto personale. Va fatta, perciò, una precisazione: egli dice di aver “scoperto l‟Africa,” grazie ad un viaggio fatto con Dacia Maraini nel 1962. In realtà, si era già recato in Africa alcuni anni prima. Nel 1954, infatti, consegnava al quotidiano Corriere della sera alcuni articoli scritti dall‟Egitto. Evidentemente, benché appartenente al continente dal punto di vista geografico, l‟Egitto, per Moravia, non è compreso nel suo concetto di Africa. Vale la pena fare chiarezza su questa incongruenza, dato che non si tratta di una questione semplicemente geografica, ma si riferisce ad un concetto astratto, più vasto, corrispondente alla sua personale concezione dell‟Africa. Per Moravia Africa significa l‟Africa nera, ovvero quella che inizia a conoscere nel Ghana, nel Togo e nella Nigeria, i primi paesi da lui visitati (sempre ad eccezione dell‟Egitto). È l‟Africa centro-meridionale, quella geograficamente più lontana dall‟Europa e quella che, almeno all‟epoca, preservava uno stato di natura e di cultura che agli occhi di un occidentale si potevano presentare come relativamente 100 incontaminati. L‟aggettivo “incontaminati,” che potrebbe suggerire un luogo comune, viene ripreso perché utilizzato spesso proprio dallo scrittore, il quale è particolarmente affascinato dai luoghi che non portano traccia della colonizzazione. L‟intuizione di quello che l‟Africa è, al di là di tutti gli avvenimenti storici, è fra gli aspetti che maggiormente hanno attratto Moravia. Lo scrittore non farà luce su questo punto, ovvero non espliciterà mai la discriminante che separa l‟Egitto dal resto delle nazioni africane da lui visitate. Che ci siano uno o più elementi disgiuntivi, però, è confermato anche dall‟assenza di narrazioni sull‟Egitto, o dall‟Egitto, nei suoi libri sull‟Africa. Anche alla luce di quanto scriverà successivamente è tuttavia possibile motivare questa differenziazione in base a due elementi: la storia dell‟Egitto e le modalità del viaggio. L‟Egitto non appartiene al concetto di Africa per Moravia, perché ha una storia ben documentata e molto nota. Lo scrittore, come avremo modo di approfondire, reputa l‟Africa il paese del preistorico, definendolo addirittura un luogo astorico.38 Chiaramente l‟Egitto non si può conformare a questa definizione; anzi, proprio la storia, con le sue monumentali testimonianze, è la ragione stessa del viaggio. I reportage che lo scrittore manda al Corriere della sera, infatti, sono documenti e riflessioni sulle visite compiute nei luoghi dell‟antica civiltà egizia. Inoltre, quando va in Egitto Moravia fa parte di un normale gruppo di visitatori, tutti facenti riferimento alla stessa guida turistica. Le modalità con cui il viaggio si svolge sono simili a quelle tipiche del turismo di massa, benché in proporzioni probabilmente ridotte rispetto a quelle odierne. Quest‟ultima riflessione si ricollega al secondo motivo per cui l‟Egitto viene visto come un paese a sé rispetto al continente di cui fa parte. Durante quel viaggio egli aveva visto luoghi e monumenti di una storia e di una civiltà specifica, quella dei faraoni. Lo stesso, mutatis mutandis, avrebbe potuto fare in qualsiasi altro paese dell‟Europa o dell‟oriente, ad esempio. Nell‟Africa nera, invece, egli scopre la possibilità di viaggiare in modo diverso, ovvero cercando consapevolmente, oltre 38 Chiaramente l‟opinione di Moravia è assai discutibile perché anche altre nazioni africane hanno avuto una storia importante ed articolata, vedi ad esempio il Ghana, l‟Etiopia ecc. Tuttavia qui non si vuole affermare che l‟Egitto ha più storia rispetto alle altre nazioni, ma che questo è il modo in cui Moravia lo recepisce. 101 che l‟esperienza culturale in senso tradizionale, anche l‟esperienza fisica dell‟incontro-confronto con ciò che risulta assolutamente „altro.‟ L‟esperienza dell‟Africa sub-sahariana gli insegna quindi che viaggiare vuol dire anche inseguire ciò che non si conosce per trovare il veramente nuovo. In Egitto era andato per guardare, nel resto dell‟Africa, invece, per conoscere. Anche in questo caso, l‟abbandono di cui parla con tanto entusiasmo, è solo parziale. Lo scrittore, volendo scoprire, impone ai suoi spostamenti una finalità determinata a priori. La ricerca del nuovo, inoltre, gli fa operare delle scelte in relazione, oltre che ai luoghi da visitare, anche alle modalità degli spostamenti. Nel primo capitolo di Lettere dal Sahara si trova quella che può essere definita una dichiarazione di poetica da parte dello scrittore, il quale afferma che scriverà: quello che penso della cosa nel momento stesso che la vedo. Sarà, insomma, il diario di un turista. So bene che le parole turista e turismo sono screditate; e che fanno pensare subito alle agenzie di viaggi, alla pubblicità delle crociere agli autobus Rome by night. Ma, dopo tutto, il turismo non è sempre stato soltanto consumismo; originariamente era una forma di educazione sentimentale [...] Il turismo, insomma era un modo di vedere la realtà non di spiegarla; di raccontarla non di mascherarla. (8) Oltre a fornire al lettore le indicazioni su come l‟argomento sarà trattato, Moravia chiarisce la sua posizione in relazione al turismo. Come brevemente visto in precedenza, dei diversi modi di viaggiare egli ne rifiuta apertamente uno: quello legato al turismo di massa. Si tratta, probabilmente, anche di un certo snobismo sociale, ma lo scrittore rifugge le compagnie di turisti, soprattutto perché esse sono indicative di quanto l‟Africa sia “consumata.” L‟aggettivo è lo stesso che Moravia usa molto di frequente nei suoi scritti e che ha sempre un‟accezione negativa. L‟Africa consumata è quella frequentata dai viaggiatori occidentali che cercano, tutto compreso, l‟esotismo africano. Consumare l‟Africa, per Moravia, non significa visitarla per conoscerla, ma, riprendendo la sua espressione, per “mascherarla” di quello che ci si aspetta da lei. 102 Strettamente collegata, anche per ragioni ideologiche, al rifiuto dell‟Africa consumata, è anche l‟indifferenza dello scrittore nei confronti dell‟Africa consumistica, ovvero quella che si è adattata più facilmente al modello economico occidentale. Inizialmente si è detto che Moravia non accetta l‟Africa in toto; egli, infatti, si mostra molto poco interessato alla parte più moderna del continente: gli alberghi di stile europeo, le cittadine di recente costruzione che gli ricordano la provincia americana, le multinazionali, i supermercati. In altre parole rifiuta la modernità africana costruita sul modello capitalistico, per le stesse ragioni per le quali era stato indifferente di fronte ad un africano in cui poteva riconoscere modelli comportamentali europei. Questo rifiuto è dovuto alle sue convinzioni politiche, ed è manifestato soprattutto in A quale tribù appartieni?, dove sono frequenti le riflessioni sulle modalità e gli esiti del neocolonialismo. Le città africane che si stavano sviluppando sotto la spinta capitalistica, ad esempio, non rappresentano il nuovo per Moravia, ma solo la versione più recente di una realtà di cui conosce già ogni tipo di presupposto sociale, economico, politico. Passeggiando lungo la “main street di Accra” (AQ 10) paragona le nuove costruzioni della capitale del Ghana alle: “[…] orgogliose, tetre, e gelide sedi di banche, con quei marmi neri e lustranti e quei graniti di grana fitta e grigia che si vedono a Zurigo, a Londra, a Nuova York, a Francoforte […] (AQ 8). Le considerazioni politiche, aspetto quasi inevitabilmente immanente del pensiero di Moravia, sono solo un fattore secondario. L‟autore, ad esempio, vuole capire le ragioni per cui le nazioni africane abbiano mantenuto molte delle strutture amministrative e burocratiche imposte loro dal colonialismo; allo stesso modo, è interessato allo scontro ancora visibile fra la cultura africana e quella europea. Questi argomenti, però, offrono solo lo spunto per alcune riflessioni di carattere generale e non diventano mai il nucleo delle sue narrazioni. Il centro dell‟attenzione, e vero protagonista della narrazione, è il sentimento che l‟Africa gli ha ispirato fin dalla prima visita e che lo aveva attratto in modo irresistibile. In questa sezione si sono finora analizzati i lati dell‟Africa che lo scrittore rifiuta apertamente; è lecito a questo punto chiedersi di cosa si era innamorato, ovvero che cosa lo spingesse a recarvisi con tanta frequenza. Una parziale risposta 103 la troviamo nell‟articolo “Passeggiate africane: il fascino del mistero,” pubblicato nel 1987 in un quotidiano ed oggi posto ad introduzione dell‟omonimo volume: Mi è stato rimproverato che nei molti viaggi che ho fatto in Africa nera non mi sono mai abbastanza occupato delle situazioni politiche, sociali, economiche, ideologiche, ecc. ecc. del continente nero. Questo è vero almeno in parte ma paradossalmente è un effetto del mio grande amore per l‟Africa. […] Bellezza! io sono stato affascinato dalla bellezza dell‟Africa e per bellezza non intendo la bellezza delle cartoline illustrate in tricromia, bensì qualche cosa di inspiegabile, di misterioso, di indicibile che si direbbe aleggia sul continente nero allo stesso modo dell‟Anima secondo i greci, cioè qualche cosa di superficiale e di esterno e appunto per questo affascinante per la sensibilità che è il mezzo privilegiato di ogni visione estetica. (xi) Quello che fa innamorare Moravia è dunque la bellezza del continente, sensazione che diventa un‟esperienza estetica vissuta appieno perché nel momento in cui la percepisce egli vi si abbandona. La bellezza dell‟Africa la troverà nei luoghi che più sono lontani da ciò che gli è familiare, quindi più la natura ed il paesaggio sono primordiali – egli stesso usa sovente l‟aggettivo primitivo – tanto più cresce in lui l‟attrazione verso di essi. Nel caso dell‟alterità a suscitare il desiderio era il bisogno di perdere i propri riferimenti culturali, abbandonandosi al diverso; nel caso del paesaggio sarà la sensazione di trovarsi in un luogo dalle caratteristiche primigenie che gli susciterà il desiderio di abbandono. Nell‟Africa che gli procura la sensazione di primordialità, Moravia trova il suo inconnu: quello di un continente dalle caratteristiche preistoriche, in cui uomo e natura vivono in atavica, ma non idealizzata, comunione. 6. L’Africa ed il primitivo: l’esperienza dell’indicibile L‟analisi dei testi di Moravia vuole esaminare quale sia la relazione che egli stabilisce con il noto, ovvero la propria cultura, e l‟ignoto, rappresentato quest‟ultimo dal nuovo che incontra in viaggio. Il compito è in parte facilitato dallo scrittore stesso che, come visto nella sezione sul rapporto con l‟alterità, 104 afferma che lo scopo dei suoi viaggi è di cercare: “L‟accoppiamento dello sconosciuto con il nuovo” (Vita 96). Vale la pena ribadire che questa affermazione evidenzia insieme la disponibilità ed il limite con cui Moravia si pone nei confronti del viaggio, in quanto egli vuole trovare il nuovo, vuole cercare il diverso. La sua apertura verso ciò che non conosce, atteggiamento certamente positivo, è controbilanciato in negativo dal fatto che si tratta di un‟intenzione quasi imposta a priori. Benché la meta nel suo caso sia diversa, inconsapevolmente mette in atto lo stesso meccanismo dei turisti che si muovono con le gite organizzate. I turisti cercano l‟esotismo, l‟avventura, il selvaggio; Moravia cerca l‟autenticità. Autentico, per Moravia è tutto ciò che sente come troppo lontano per essere compreso nella sua totalità e che proprio per questo fa nascere in lui l‟interesse ed il desiderio di abbandonarsi all‟esperienza del nuovo. Rispetto all‟Africa che si sta modernizzando, si è visto, egli ha la stessa indifferenza che prova nei confronti degli africani che si sono conformati all‟occidente. La citazione di Beaudelaire chiarisce allora anche perché avesse un atteggiamento così incurante nei confronti dell‟Africa consumata e consumistica. Accra, o Timbuctù non hanno per lui nessun interesse perché non sono veramente sconosciute, e soprattutto non sono la sua vera Africa. Quello che Moravia considera come elemento veramente autentico, ed in cui identifica la novità dell‟esperienza in Africa, è la natura, il paesaggio, soprattutto quello delle regioni sub-sahariane. Sempre in Vita di Moravia, afferma: “Ho pubblicato tre libri sull‟Africa con uno slogan: il maggiore e più nobile monumento che la natura abbia eretto a se stessa. E ancora: in Europa la natura è più debole dell‟uomo; in Africa è più forte” (212). La successione cronologica dei tre libri, che si riferiscono a viaggi fatti in periodi diversi, riflette una crescente conoscenza e familiarità con l‟Africa. Ciononostante, alcune riflessioni nate durante il primo viaggio resteranno praticamente immutate. Jorn Moestrup, a proposito di A quale tribù appartieni? rileva giustamente che: “alcune osservazioni fondamentali resteranno come punti fermi nel sempre più viscerale rapporto soprattutto con il paesaggio africano” (40). Fin dal primo momento, l‟Africa è per Moravia il 105 continente del primitivo, a molti livelli, ma a suscitare questa sensazione è in primo luogo il paesaggio: Così un viaggio in Africa, quando non è una scorribanda insipida per i grandi alberghi che gli occidentali hanno disseminato sul continente nero, è un tuffo nella preistoria. Ma cos‟è questa preistoria che tanto affascina gli europei? Prima di tutto, diremmo, la conformazione stessa del paesaggio africano. [...] è più simile al volto della terra nella preistoria, quando non c‟erano stagioni e l‟umanità non era ancora comparsa, che al volto della terra oggi, con le innumerevoli modificazioni apportate così dal tempo come dall‟uomo. (14) L‟impressione di essere in un luogo preistorico, che si riscontra fin dalle prime pagine del primo libro scritto sull‟Africa, si rinnoverà nei successivi. Passeggiate africane, l‟ultimo dei libri in cui racconta i suoi viaggi, si apre con il capitolo “In un‟aria di preistoria ritrovo il cuore della mia Africa,” ed in uno dei capitoli successivi, a proposito dell‟interno del Gabon scrive: “Altro che Capodanno! Per quanto ne sappiamo, tra quegli sterminati arruffii vegetali, siamo ancora alla preistoria, poco dopo i dinosauri, poco prima dell‟homo abilis” (71). Questa affermazione verrà ripresa quasi in toto nel romanzo La donna leopardo, quasi a confermare l‟intensità con cui Moravia viveva l‟esperienza del paesaggio africano, sentito in modo tanto viscerale da diventare parte di un lessico personale. Riflessioni di questo tipo sono innumerevoli, in tutti e tre i volumi, la prima percezione, quindi, non cambierà. A cambiare sarà, invece, il suo modo muoversi in Africa. Nel primo libro si trovano di sovente riferimenti ad alberghi e luoghi creati artificialmente per turisti e uomini d‟affari occidentali, nei libri successivi, invece, questi luoghi verranno frequentati solo in mancanza di alternative e ad essi preferirà soggiorni itineranti. Moravia, dopo il primo viaggio, capisce dove vada cercato il nuovo: nelle foreste, nelle savane, nei deserti; i luoghi, cioè, in cui non sono riconoscibili segni lasciati dagli esseri umani. Questi enormi paesaggi vuoti sembrano difficilmente offrire qualche cosa di nuovo, ma per lo scrittore è proprio quest‟assenza di 106 “cose” ad avere significato perché gli suggerisce la possibilità di viaggiare: “fuori del tempo o meglio in un tempo astorico, di tipo religioso. In altri termini e a dirla in breve, quello del Sahara è uno spazio metafisico” (LS 68). Il viaggio in Africa riempie un vuoto esperienziale rendendo possibile uno spostamento al di fuori del tempo. Gli altri viaggi erano sempre collegati, per motivi storico-culturali, ad altre epoche: Parigi e Londra all‟Ottocento, la Russia all‟epoca liberty (LS 12) e via dicendo. L‟Africa, invece, è il continente senza epoche perché mancano le tracce della storia dell‟uomo. Quest‟assenza corrisponde ad un‟impossibile percezione, ad una rivelazione metafisica, ovvero l‟intuizione di come, forse, è stata la terra prima che l‟uomo l‟abitasse e la modificasse. È l‟esperienza dell‟indicibile, appunto, sensazione solo metafisica perché di fatto irrealizzabile; l‟essere umano infatti non può fare l‟esperienza della preistoria a cui si riferisce Moravia, ovvero l‟esperienza di un tempo in cui l‟uomo stesso non era ancora presente sulla terra. Si tratta, quindi, di una sovrapposizione culturale, i paesaggi africani sono percepiti come primordiali perché la natura non modificata dall‟uomo è l‟immagine più frequentemente associata alla preistoria. Moravia sembra rifarsi al più datato, e forse più difficile da estirpare, stereotipo sull‟Africa, quello relativo alla sua primitività. L‟atteggiamento “quasi rousseauviano” a cui fa riferimento Moestrup trova forse proprio in queste pagine la sua massima applicazione. Non mancano, soprattutto nel primo libro, alcuni slittamenti verso una idealizzazione del rapporto uomo-natura, che in generale, però, non sono mai riferiti esclusivamente al paesaggio africano, ma piuttosto a coloro che lo abitano. Tuttavia anche in questo caso si tratta di un‟opinione che verrà successivamente modificata. È vero che l‟Africa rappresenta per Moravia il continente ancora incontaminato, ma la sua presa di conoscenza di quella realtà, selettiva ed anche elitaria per certi aspetti, non è mai ingenua. Recarsi in Africa e trovare uno stato di natura in cui l‟uomo vive in “perfetta armonia” con l‟ambiente, sarebbe stato piuttosto banale. In riferimento al paesaggio africano, vale la pena riprendere quanto scritto da Mary Louise Pratt, che in Imperial Eyes offre un‟interpretazione solo parzialmente esatta della produzione moraviana rispetto all‟Africa. Riferendosi esclusivamente a A quale tribù appartieni, la 107 studiosa evidenzia come lo sguardo ancora europocentrico di Moravia si deducibile da due elementi: il fatto che egli ammiri l‟Africa dai balconi di qualche hotel di lusso, e la sua esaltazione per il primitivismo del paesaggio africano. Sullo sguardo turistico di Moravia non vale la pena soffermarsi in quanto nel complesso i suoi libri dimostrano come egli cerchi di evitare proprio tutte le situazioni tipiche del turismo capitalistico occidentale. Più stimolante invece è la riflessione della Pratt in relazione al paesaggio. Riferendosi agli scritti di Theroux e Moravia la Pratt scrive: “The accounts of both the South American [il riferimento è a Theroux] and African countryside complain of a kind of esthetic and semantic underdevelopment which both writers, in pure Euroimperial fashion, connect with the prehistoric” (218). È vero, almeno per Moravia, che la sensazione estetica che il paesaggio gli suscita è quella che rimanda alla preistoria, ed è certamente corretta anche l‟osservazione che “There is never an excuse for this dehumanizing western habit of representing other parts of the world as having no history” (219). Tuttavia, vale la pena riflettere su questo atteggiamento di Moravia secondo una prospettiva un po‟ più ampia. Senza cercare giustificazioni nel relativismo culturale, va tuttavia tenuto conto che negli anni sessanta e settanta, l‟approccio all‟altro non poteva essere guidato dai principi a cui facciamo riferimento oggi. Come affermato nell‟introduzione, usare la critica post-colonial per fare della dietrologia non ha molta utilità. È più interessante usare quegli stessi strumenti per cercare di capire quali siano gli sviluppi positivi del desiderio di trovarsi nell‟altrove e di avere una relazione con l‟altro. Questo bisogno non si giustifica semplicemente con la necessità di ribadire la propria superiorità culturale. La Pratt assimila la sensazione estetica che il paesaggio suscita in Moravia alla percezione tipicamente occidentale, che vede l‟Africa come una specie di Eden. La rappresentazione narrativa che ne consegue è, secondo la studiosa, un tipico esempio di retorica europocentrica. Uno dei maggiori problemi nel leggere i testi di viaggio consiste nel dover confrontarsi con affermazioni quali, ad esempio, “assenza di civiltà”; questa espressione non sempre è caricata di valore negativo. Assenza di civiltà per Moravia significa quasi sempre mancanza di presenza umana, non mancanza di civiltà occidentale. 108 L‟ottica europea è immanente ed inevitabile, ma le considerazioni relative alla natura si riferiscono al suo aspetto, e non vogliono designarne una caratteristica intrinseca e certo non vogliono rappresentare l‟Africa come un paradiso terrestre. Effettivamente, questi luoghi sono oggi nel mondo la cosa più somigliante [...] al vecchio Eden biblico. Ma da questo Eden, Adamo non è mai stato scacciato; oppure vi è rientrato in forza dopo un breve esilio, e vi si è impiantato questa volta con tutte le comodità moderne. Adamo è francese o tedesco o magari milanese; è banchiere industriale, rentier. (LD 13) Si è affermato che lo scrittore, pur amando il continente, non cede alla facile esaltazione di esso; la natura africana è suggestiva di altre epoche, ma la realtà si impone su qualsiasi possibile idealizzazione alla Rousseau. L‟impressione estetica si sviluppa in una riflessione più ampia, considerando a cosa corrisponda sul piano pratico questa primordialità e le conclusioni a cui giunge sono tutt‟altro che ideali. Se, parafrasando quanto afferma in “Edoardo, Alberto, Rodolfo, Vittoria,” la storia è prodotto umano in relazione alla propria misura del tempo, allora: “la preistoria è eternità” (AQ 184). Quest‟ultima, però, è tutt‟altro che desiderabile perché: “L‟eternità in Africa è l‟assenza di strade, di coltivazioni, di centri abitati. [...] Sono infine le malattie, dalla bilarzia alla mosca tze tze, dalla malaria alla dissenteria. Insomma l‟eternità è squallida”(AQ 184). Ma se a questa assenza di civiltà non corrisponde un ideale positivo, è allora lecito chiedersi perché Moravia ne subisca così fortemente il fascino. Lo scrittore è attratto in primo luogo dall‟esperienza che questa assenza gli consente di fare. Si tratta di un‟esperienza sia intellettuale che fisica: l‟Africa nera è l‟unico contesto in cui l‟uomo non abbia ancora completamente dominato la natura e questo fa sorgere, nella mente del turista Moravia, la sensazione di fare un viaggio nel tempo oltre che nello spazio. L‟interno del continente africano, è l‟unico ad offrirgli una realtà davvero nuova, non paragonabile a niente di simile visto in altri paesi, e non riconducibile a nessun paradigma culturale noto, se non, appunto, quello della preistoria. Il viaggio è al di “fuori del tempo” perché nella preistoria, la sistemazione umana degli eventi nel tempo, la storia appunto, non 109 era ancora cominciata. Il protagonista degli altri viaggi era stato l‟essere umano attraverso la sua storia, passata e contemporanea, e le diverse forme di civiltà che ha saputo sviluppare; in Africa invece è la natura a porsi in primo piano. Quest‟ultima, non è semplicemente la natura che l‟uomo non ha ancora trasformato, come potrebbe essere, ad esempio, una qualsiasi vallata alpina in cui non sia sorto un villaggio, ma grazie alla propria conformazione dà l‟impressione di tornare indietro di millenni. La monotonia del paesaggio, inoltre, elemento su cui Moravia ritorna molto spesso, rafforza la sensazione di essere in un luogo dalla dimensione astorica. In questo caso non si tratta di una sovrapposizione culturale, ma di una vera e propria sensazione fisica dovuta al fatto che pur spostandosi il paesaggio non cambia. La mancata percezione del movimento nello spazio, fa venir meno anche la percezione dello scorrere del tempo. Il paesaggio africano lo affascina esteticamente perché gli permette di percepire l‟autenticità di una natura a cui l‟uomo non ha imposto ancora nessun limite. Questa primitività ambientale lo attrae perché gli dà l‟illusione di avere accesso ad epoche remote; si tratta, quindi, di un viaggio che va oltre il normale spostamento nello spazio, in quanto allude anche ad un'altra dimensione, quella del tempo. Nell‟Africa nera Moravia ha l‟impressione di trovarsi in un pianeta in cui l‟umanità non si è ancora sviluppata. La dimensione metafisica in cui Moravia percepisce di muoversi quando si trova nell‟interno dell‟Africa, lo spinge a fare riflessioni più articolate, che vanno oltre la semplice impressione estetica. La seconda sezione di Lettere dal Sahara, quella che dà anche il titolo al libro, benché non sia stata scritta al termine dei suoi viaggi, contiene numerose riflessioni che si possono considerare come essenziali e risolutive del rapporto di Moravia con l‟Africa nera. In esse, gli spazi africani divengono l‟occasione per metafore esistenziali e considerazioni sulla condizione dell‟uomo. Nella prima lettera, ad esempio, la pista nel deserto è metafora della vita umana, mentre nella seconda è il valore simbolico del miraggio ad essere oggetto delle meditazioni dello scrittore. La distanza fra il disperato che cerca rifugio ed il miraggio, conducono ad una riflessione non solo sulla vita nel deserto, ma sulla vita in generale. L‟attrazione che questi luoghi 110 esercitano sullo scrittore, quindi, è dovuta anche alla loro dimensione allusiva di realtà non tangibili e per questo riconducibili a condizioni universali. La mancanza di “cose” consente di sviluppare relazioni simboliche molto vaste, perché i segni lasciati dall‟uomo non impongono limiti ai campi di riferimento. In altre parole, al vuoto umano delle savane e dei deserti, corrisponde la completa libertà intellettuale, che dà l‟illusione di poter ripartire da zero. Questa possibilità viene riconosciuta dallo stesso autore che conclude “Oasi come isole,” la quarta delle lettere, scrivendo: “Così il mondo del Sahara, così morto, così inumano, così nudo nella realtà quotidiana, si rivela invece, attraverso la storia, come il luogo privilegiato dell‟immaginazione dello spirito” (LS 95). Il viaggio è percepito come movimento in luoghi metafisici, che divengono lo spunto per riflessioni intellettuali: “Oltre alle tracce che l‟esperienza del deserto ha lasciato nel nostro linguaggio quotidiano […], lo dimostrano soprattutto i continui, irresistibili slittamenti della nostra mente nella dimensione simbolica, mentre lo attraversiamo” (LS 68-69). Si può affermare che, nonostante la dichiarazione iniziale in relazione all‟abbandono e alla scoperta, Moravia non si è mai completamente abbandonato aprendosi a tutte le diverse sfaccettature dell‟Africa, allo stesso modo non si lascia andare nemmeno di fronte al nuovo. Inizialmente aveva paragonato il proprio modo di viaggiare ad un sogno, ma i sogni sono frutto di un‟attività mentale irrazionale, mentre lo scrittore ha sempre esercitato un forte controllo intellettuale sulle proprie esperienze di viaggio, che non si sono mai risolte in una semplice percezione impressionistica. Le sensazioni suscitate dai luoghi sono state fatte oggetto di riflessione ed astrazione, ed i luoghi stessi sono divenuti, in ultima analisi, simboli di una dimensione che non è esclusivamente la loro. La mediazione messa in atto fra noto ed ignoto è complessa. Moravia si è aperto al nuovo, cercando il veramente diverso, ma nel momento in cui si è confrontato con esso, lo ha reso astratto, facendone il mezzo attraverso il quale cercare le “idee strutturali profonde” che sono proprie dell‟essere umano in generale, non solo in Africa. Il paesaggio, così come l‟alterità, è cercato e desiderato, ma vissuto in modo contradditorio. Ritorna ancora una volta la dicotomia fisicità/intellettualità. 111 Al desiderio fisico, che lo spinge ad andare in Africa e a restarci per lunghi periodi, fa da controparte un forte bisogno di razionalizzare, intellettualizzare ciò che vive. Questo evidenzia il limite dello scrittore, ovvero la sua incapacità di superare le barriere che la storia aveva frapposto fra Africa ed Europa. Va ricordato che il principale motivo per cui l‟incontro/scontro di Moravia con l‟altro resta per alcuni aspetti sterile è il suo timore di invadere la cultura africana. Tuttavia, benché vi sia questo limite, è più interessante sottolineare la volontà da parte dello scrittore di andare oltre i luoghi comuni dell‟Africa e di cercare di conoscerla veramente, direttamente. 7. Alberto Moravia e la sua narrativa africana L‟ambiguità del rapporto di Moravia con l‟Africa, di cui si è fin qui scritto, ovvero la sua scelta di mantenere una distanza fra sé e una cultura che vuole mantenere fondamentalmente inconoscibile, si riflette anche nel suo ultimo romanzo, pubblicato postumo, e l‟unico ad essere ambientato in Africa. La donna leopardo riprende uno dei temi prediletti di Moravia, quello del rapporto coniugale. Enzo Siciliano, nella postfazione al romanzo nell‟edizione di Bompiani del 1991, scrive che questo testo: “Anzi, potrebbe apparire una ripresa e variazione di quest‟ultimo [L’amore coniugale] spostando l‟asse verso una sfera di maggiore, inquieta e lirica, enigmaticità” (171). Siciliano coglie appieno l‟atmosfera che il romanzo comunica, quella di un enigma che nemmeno nelle ultime pagine del romanzo verrà risolto. Siciliano continua, infatti, mettendo l‟accento sull‟atipica conclusione di La donna leopardo: “ed è strano in un narratore come Moravia, che ha sempre tenuto ad un explicit dei suoi romanzi quanto mai luminoso, di una luce cioè che chiarisse in ogni particolare quanto la vicenda poteva avere accumulato di ombra e di dubbio” (171). Di fatto la vicenda accumula, nel suo svolgimento, numerose zone d‟ombra dai contorni morbosi, benché sia, nelle sue linee generali, piuttosto semplice. Nora e Lorenzo si recano Gabon per un viaggio di vacanza-lavoro con il proprietario del giornale per cui lavora Lorenzo, Flavio Colli, e sua moglie Ada. Fra Nora e Colli, nasce una simpatia che si manifesta ancor prima che i quattro 112 partano, ma che raggiunge un livello platealmente esplicito solo in Africa. Se fra i due vi sia una relazione che va al di là della complicità e della simpatia e ci sia anche una relazione amorosa non è mai esplicitato e i due rispettivi coniugi non sapranno mai la verità, così come non la saprà mai nemmeno il lettore. La vicenda si concluderà in modo tragico, con la morte per annegamento di Colli in circostanze ambigue: sua moglie Ada, vedendo che la barca in cui si trovano sta per affondare si aggrappa a lui facendolo cadere in acqua e causandone la morte. L‟episodio conclusivo è raccontato in pochissime righe, quasi si trattasse di una sbrigativa sintesi, e non chiarisce se si sia trattato veramente solo di un incidente.39 La scelta dell‟Africa per ambientare una vicenda dai contorni così volutamente non chiari è evidentemente non casuale. L‟Africa non svolge solo la funzione di scenario, come si intuisce in parte già dal titolo, ma si identifica con il mistero stesso. Si tratta di un mistero presente fin dal principio, che viene immediatamente associato al continente ed è potenziato dal fatto che da subito acquisisce caratteristiche indecifrabili, quasi metafisiche. Nelle prime pagine del libro Lorenzo cerca di convincere Nora a prendere una decisione definitiva: andare o no in Africa con lui; ma lei non può decidere a causa del “presentimento che succederà qualche cosa” (8). Lorenzo cerca di esplicitare questo presentimento, ma Nora, mettendo subito in evidenza la caratteristica dominante del suo rapporto con il marito, rimarrà evasiva, riuscendo solo a dire che “succederà qualche cosa „a causa‟ dell‟Africa” (9), e che “ho il presentimento che l‟Africa in questo momento, per me avrebbe un‟importanza particolare. Non sarebbe un viaggio come un altro, ecco” (9). La discussione fra i due continua ed infine lei ammette che in quel momento della sua vita: “Sento [...] che potrei fare qualsiasi cosa. E l‟Africa è il luogo appunto in cui me la sentirei di fare qualsiasi cosa” (9), proseguendo poi con l‟affermazione: “Ma non è la noia che magari mi 39 I critici che si sono occupati di quest‟ultimo romanzo non rilevano nessuna particolare ambiguità nella morte di Colli. A mio avviso, invece, resta anch‟essa oscura perché Ada, essendo sua moglie dovrebbe essere a conoscenza del fatto che lui non sa nuotare ma, nonostante questo, si aggrappa a lui. Questo dubbio sull‟intenzionalità è supportato anche dalle caratteristiche stesse del rapporto dei due coniugi; Ada prova una morbosa gelosia nei confronti del marito, prova a lasciarlo ma non ci riesce, ritrovandosi così ad essere vittima consenziente ma infelice di un rapporto estremamente complesso. 113 farà fare qualsiasi cosa. Insomma sarà l‟Africa ecco, non la noia” (10). Solo al termine del suo lungo atto d‟accusa nei confronti dell‟Africa, e solo dopo aver creato attorno ad essa un strano alone di indecifrabile “qualche cosa,” Nora ammette che il presentimento riguarda lei e la “simpatia” (11) che sente potrebbe nascere con Colli. Ancor prima che i protagonisti ci arrivino e ne facciano l‟esperienza, l‟Africa viene identificata come il luogo dell‟anarchia comportamentale, in cui si può fare “qualsiasi cosa,” in cui tutto è concesso. Nora sembra aver paura che in Africa i suoi istinti, così come accade agli animali, prevalgano sulla sua razionalità. La lunga discussione fra Nora e Lorenzo ha un‟ulteriore funzione: stabilire quella che Giuseppe Stellardi, nel suo articolo „L‟Africa come metafora del femminile (e viceversa) ne La donna leopardo di Alberto Moravia,‟ chiama la “metafora reciproca.” Egli applica questo concetto al rapporto di significati che si instaura fra Nora e l‟Africa stessa.40 Attraverso una precisissima analisi del testo, Stellardi dimostra come l‟Africa e Nora siano descritte da aggettivi comuni ed abbiano addirittura uno sviluppo identico. Entrambe inizialmente conosciute e quasi familiari, si riveleranno poco a poco sempre più enigmatiche e difficili da definire, in una parola indecifrabili. L‟avvicinamento dei protagonisti al continente nero assume le caratteristiche di un vero e proprio percorso simbolico: dal noto all‟ignoto. Essi si sistemano inizialmente in un albergo dalle caratteristiche europee, ma man mano che si spingono verso l‟interno del Gabon il viaggio diventa sempre più difficile, l‟Africa diventa sempre meno nota e quasi ostile. Allo stesso modo, durante il viaggio, crescerà la distanza fra Nora e Lorenzo, benché alla fine i due sembrino essere ricongiunti. L‟analogia fra la donna e l‟Africa, già di origine freudiana, viene resa più complessa in questo romanzo dalla constatazione che essa non si applica solo ai due termini “donna” e “Africa” ma è riferibile ad un terzo elemento, quello dell‟alterità. La donna è il simbolo dell‟alterità assoluta tanto quanto lo è l‟Africa, 40 Stellardi elabora la sua “metafora reciproca” sulla base di una riflessione di Derrida su Heiddeger. All‟interno dello stesso articolo, infatti, Stellardi chiarisce che la sua metafora reciproca non è dissimile da quella che Derrida: “indica talvolta con l‟appellativo (un po‟ terroristico) di „metafora catastrofica‟” (74). 114 ed è necessario quindi che esse diventino sempre più misteriose, indecifrabili e distanti da coloro che invece rimangono ancorati alle proprie strutture culturali. La metafora reciproca si applica anche all‟alterità: l‟altro è inconoscibile in quanto “altro” ed è tale proprio perché è inconoscibile. Le costanti dell‟approccio di Moravia si riflettono anche nel romanzo, l‟incapacità di decifrare i comportamenti e la distanza, costituiscono il perno su cui egli costruisce tutta la misteriosa atmosfera in cui la vicenda si sviluppa. Nora diventa sempre più sfuggente ed i suoi comportamenti sono sempre meno coerenti agli occhi di Lorenzo, man mano che il loro viaggio verso l‟interno del Gabon prosegue. L‟Africa, che si presenta inizialmente come rassicurante e seducente, diviene poi minacciosa e pericolosa, fino ad essere, per Colli, mortale. Ma l‟Africa non è costituita solo da natura; un aspetto interessante, proprio in relazione all‟indeterminatezza, è dato dalla funzione degli autoctoni nel romanzo. La loro presenza è molto limitata, e quando Moravia dà loro voce, stranamente, li rappresenta come incredibilmente vaghi ed ambigui nelle loro affermazioni. Non c‟è, in tutto il romanzo, un‟asserzione certa da parte di un africano. Un dialogo fra Nora, Colli e il ragazzo africano alla guida della barca che li deve portare al lebbrosario, è particolarmente esemplificativo: “Ci sono molti lebbrosi?” Domandò Nora incuriosita. Il ragazzo rispose con sicurezza: “Sì molti.” “Quanti.” “Più di cento.” “Cento lebbrosi in un edificio così piccolo?” “Oppure dieci.” Colli si inalberò: “O cento o dieci, bisogna scegliere. Vogliamo dire una ventina?” Il ragazzo approvò con fervore: “Sì, ecco, una ventina.” (150-51) L‟africano è certo di quanto afferma ma al contempo è disposto a ritrattare immediatamente, come se l‟affermazione precedente non avesse alcuna validità, come se fosse al contempo vera e falsa. Questo crea un senso di irrequietezza e quasi insofferenza, sia nel lettore, sia, soprattutto in Colli, il quale invece ha 115 bisogno di certezze. Ma le sicurezze, che nel caso di Colli sono quelle di un uomo di successo occidentale, non sembrano poter far parte dell‟esperienza africana; l‟Africa restituisce solo enigmi. D‟altra parte decifrare Nora, l‟Africa, l‟alterità, significherebbe eliminarle, come fin qui dimostrato per Moravia è invece fondamentale mantenere la lontananza perché questa possa mantenere la diversità. Il libro nasce da un‟esperienza autobiografica, Moravia aveva festeggiato in Africa il capodanno del 1984, come testimoniato dal “Ho incominciato l‟anno in un supermercato all‟Equatore” (PA 71), e alcune delle situazioni vissute dai protagonisti del romanzo, per esempio il pic-nic di mezzanotte, sono situazioni che lo scrittore aveva vissuto in prima persona. Stupisce quindi che Moravia decida di far pronunciare a Colli alcune riflessioni sull‟Africa che gli appartengono. La sorpresa è dovuta al fatto che senza dubbio Colli, fra i quattro, è il personaggio per il quale si è meno propensi a provare empatia. Egli è un uomo di successo ma senza scrupoli e senza una gran coscienza sociale; i suoi interessi in Gabon riguardano la costruzione di una strada a causa della quale deve essere abbattuta parte di una foresta, ma questo non lo disturba affatto. In effetti Colli incarna piuttosto bene il tipo del colonizzatore, con commenti a sfondo razzista sugli africani e sul loro modo di lavorare, e la sua convinzione sulla necessità di portare la civiltà in Africa. Egli sembra essere il meno interessato al luogo e ai suoi abitanti, nonostante questo, però, è il più ricettivo di quegli elementi che avevano colpito Moravia, tanto che lo scrittore lo usa come veicolo per le proprie riflessioni. La notte prima di morire, Colli spiega a Lorenzo che in Europa si sente protetto dalla storia mentre: “in Africa c‟è il vuoto” (145). Lorenzo non capisce esattamente a cosa si riferisca Colli e allora quest‟ultimo chiarisce: “In Africa si vive nel presente, momento per momento, oppure si precipita giù giù, vertiginosamente fino alla preistoria” (146). La situazione è contraddittoria, colui che sembra meno disposto ad aprirsi, è quello scelto dall‟autore per dare voce ai propri pensieri. Forse, però, si tratta di una contraddizione solo apparente. Benché alcune delle dichiarazioni dell‟imprenditore siano discutibili, egli è l‟unico a vedere veramente l‟Africa, è il solo che, pur mantenendo la distanza necessaria, sia veramente curioso. 116 Conclusioni In questo capitolo, attraverso gli scritti africani di Moravia, si è analizzato un diverso momento del rapporto con l‟altro, quello immediatamente successivo alla decolonizzazione. Si è aperto il capitolo sottolineando l‟importanza della mutata situazione socio-politica africana. Si è voluto mettere l‟accento su questo punto soprattutto per segnalare la diversa posizione di Moravia rispetto a Casati. Quest‟ultimo aveva fatto un passo importante verso l‟altro, in primo luogo scoprendolo e poi instaurando con esso un rapporto positivo, dinamico, fatto di scambio e non di prevaricazione. Data la rigida struttura ideologica che caratterizzava il panorama intellettuale di quel periodo, era relativamente semplice individuare i caratteri di novità nel rapporto con l‟altro che emergono dal testo di Casati. Con Moravia, invece, ci si trova in una condizione tutt‟altro che semplice per quanto riguarda la comprensione delle dinamiche dei rapporti fra etnie diverse. La fine dell‟imperialismo aveva lasciato vacante il ruolo di dominazione culturale occupato fino a quel momento dall‟ideologia colonialista e, fra le diverse teorie che cercavano di trovare soluzioni per la nuova situazione in cui l‟Africa si veniva a trovare, nessuna fu sufficientemente forte da prevalere. Alberto Moravia, oltre ad essere un esperto viaggiatore era un attento osservatore degli uomini, ed un intellettuale partecipe delle vicende politiche della sua epoca, era consapevole delle diverse dinamiche che si stavano sviluppando nell‟Africa post-coloniale. Egli prova un profondo interesse per quei luoghi e quelle popolazioni, perché gli suggeriscono l‟idea di primordiale. L‟Africa di cui Moravia si innamora, infatti, è quella che risveglia in lui la meraviglia estetica per la bellezza dell‟Africa che non può essere spiegata in alcun modo. All‟impossibilità di capire e spiegare si rifà anche il rapporto con l‟altro africano, che Moravia preferisce mantenere su un piano di contatto solo fisico. Il rapporto è vissuto principalmente sul piano viscerale, in relazione alle emozioni e alle sensazioni che il continente africano e i suoi abitanti gli trasmettono. Vi è il desiderio del contatto ma quando esso avviene Moravia si blocca per discrezione e per non intaccare una cultura che non è la sua. 117 Questo desiderio deriva in primo luogo dal suo bisogno di incontrare la vera alterità, che sa riconoscere perché sente essere indecifrabile. Per lo scrittore l‟Africa e gli africani sono l‟assolutamente altro, e per restare tali è necessario che non vi sia uno scambio con essi. L‟unica forma di conoscenza che egli si concede è proprio la presa di contatto fisica che però non vuole sviluppare in nessun modo, ma che poi verrà metabolizzata in quelle riflessioni estremamente astratte e metafisiche sulla condizione umana provocate dal paesaggio africano. Terzo capitolo Per un verso si respira dunque la grande identità dell‟avventura terrena, per un altro si capisce come sia legittimo vedere cose e vita con occhi del tutto diversi dai nostri. Percezioni ambedue importanti, ora che il mondo sta diventando sempre più piccolo di spazi, sempre più vasto di popolo. (Fosco Maraini, “Prefazione,” Ore giapponesi) Gli ultimi trenta anni del Novecento, in Italia, hanno visto lo sviluppo di un importante fenomeno economico e culturale: il turismo. Da nazione percorsa in ogni direzione da visitatori provenienti da tutto il mondo, l‟Italia diviene paese esportatore di turisti. Come è oramai noto, l‟aumentata disponibilità economica e la facilità degli spostamenti ha consentito agli italiani di raggiungere luoghi sempre più lontani, tanto che, alla fine del Novecento fare vacanze anche in luoghi esotici è diventata esperienza piuttosto normale. Proprio la ricerca di esotismo, sul quale si avrà modo di ritornare più diffusamente verso la fine di questo capitolo, ha reso l‟Africa una delle mete imprescindibili. Alla fine del XX secolo la presenza italiana in Africa si intensifica raggiungendo destinazioni sempre più diversificate41 ma muovendosi secondo modalità che sono, invece, sempre più uniformate: quelle del turismo di massa. A suscitare l‟interesse e la curiosità dei turisti per l‟Africa, sono la magnificenza dei suoi siti archeologici, la bellezza della natura e il fascino di culture che vengono percepite come ancora per buona parte sconosciute.42 Inoltre, le si attribuisce tuttora un‟atmosfera da “mondo incontaminato,” benché non sia più tale ormai da molti anni. Nel passato il viaggio nel continente africano aveva rappresentato un‟esperienza esclusiva, le 41 Benché a titolo solo indicativo va segnalato che fra il 2003 ed il 2006 nella sola Africa settentrionale la presenza di turisti italiani è aumentata del 20%. La meta prediletta da questi ultimi resta il Mar Rosso, ma anche l‟Africa occidentale, ed in particolare il Marocco, sono state fra le destinazioni scelte più frequentate. 42 Va ricordata la precisazione terminologica operata nell‟introduzione: Africa designa un continente, quindi un insieme eterogeneo di luoghi, culture, situazioni sociali e politiche. Parlare di Africa, come se si trattasse di un concetto unitario è certamente riduttivo. Tuttavia si tratta di una semplificazione necessaria: la frammentarietà che contraddistingue l‟Africa non consente una facile resa delle realtà che la compongono. Inoltre, questo studio si occupa dell‟incontro e della relazione con l‟altro. Questo‟ultimo è inteso come il diverso da sé, quindi ha una connotazione ampia che non si rivolge solo ad una specifica etnia o gruppo. 119 cui caratteristiche, come era stato per Gaetano Casati, potevano rimandare direttamente alla tradizione dei viaggi d‟esplorazione. Verso la metà del Novecento l‟Africa diviene meta turistica, ma si tratta, anche in questo caso, di un viaggio elitario, un tipo di turismo non facilmente accessibile. I viaggi di Alberto Moravia, per esempio, non solo prevedevano, a volte, dei compagni d‟eccezione, come era stato nel caso di Pier Paolo Pasolini e Maria Callas, ma si svolgevano con modalità tali da rendere il viaggio stesso un momento eccezionale. Come visto nel secondo capitolo, lo scrittore si muoveva autonomamente scegliendo tempi e modi del proprio itinerario, perché questa indipendenza gli permetteva di vivere il viaggio come un‟esperienza culturalmente significativa. Lo scrittore, inoltre, sceglie di muoversi indipendentemente per evitare le gite organizzate e i bus turistici, situazione che egli non a torto considera come fenomeno tipicamente consumistico. Già con Moravia, quindi, si hanno i primi segnali di un turismo organizzato in Africa, ma solo alla fine del secolo questo fenomeno assumerà dimensioni veramente importanti. Fra la fine del Novecento e l‟inizio del Duemila, benché la motivazione del viaggio resti praticamente immutata rispetto agli anni sessanta e settanta, viene meno proprio l‟esclusività che aveva, fino a quel momento, caratterizzato gli spostamenti verso il continente africano. Il viaggio in Africa non è più percepito come eccezionale, ma, al contrario, è diventato un‟esperienza piuttosto comune. Fra i turisti recatisi in vacanza in Africa c‟è anche lo scrittore Gianni Celati, che nel 1997 accompagnò il regista francese Jean Talon in Mauritania, Senegal e Mali durante un sopraluogo per un documentario sui metodi di guarigione dei Dogon.43 Sul piano narrativo, nel passato scrivere dell‟Africa significava anche descrivere l‟ignoto, il luogo in cui si trovavano gli animali più mostruosi e gli esseri umani più strani, in altre parole l‟Africa era il continente misterioso per antonomasia. Se nella tradizione letteraria le meraviglie descritte dai viaggiatori 43 Si erano già trovati numerosi riferimenti a questa tribù nei libri di Alberto Moravia; quest'ultimo è affascinato dalla particolare cosmogonia che i Dogon erano riusciti a concettualizzare. Celati, invece, che almeno in apparenza è molto meno interessato di Moravia alle sistemazioni, non si sofferma a lungo su essa, ma vi accenna solo indirettamente ed in riferimento ad un libro dell'antropologo Marcel Griaule. 120 medioevali erano a poco a poco sfumate lungo i secoli, e l‟oriente aveva acquisito connotazioni più realistiche, l‟Africa, invece, rimane sempre caratterizzata da un alone di mistero che la fa percepire come inconoscibile. In epoca moderna e contemporanea si assiste però ad una inversione di tendenza. Le relazioni dei viaggi in quelle zone, fra cui ritroviamo anche Dieci anni in Equatoria, erano servite anche a demolire gli stereotipi negativi che venivano associati a quei luoghi, e che vedevano nel cannibalismo e nella magia nera i loro maggiori punti di forza. Contemporaneamente, quei testi facevano filtrare, anche se con i limiti ideologici del caso, notizie ed informazioni sulle civiltà che vivevano in quei luoghi e, fermo restando la loro diversità rispetto alla cultura europea, esse cominciavano ad assumere caratteristiche meno spaventose. Al tradizionale hic sunt leones si sostituisce una più precisa e approfondita mappa dei luoghi, a cui corrisponde anche una aumentata conoscenza delle popolazioni e dei loro usi e costumi. Il processo che porterà ad un approccio meno diffidente nei confronti della cultura africana sarà molto lungo e per alcuni versi non è ancora stato completato.44 Ciononostante si può affermare che nel Novecento, soprattutto nella sua seconda metà, si dipana l‟alone di mistero attorno all‟Africa. La sua geografia è ormai completamente nota, le sue culture sono state, e sono tuttora, oggetto di studio e approfondimento, ma soprattutto le sue relazioni con altri paesi sono ormai parte della quotidianità. In questo quadro si inserisce il testo di Gianni Celati, il reciproco avvicinamento ha raggiunto un livello tale che oggi la distanza fra le culture africane e quella occidentale, sembra ridotta al punto che, per alcuni aspetti, è lecito dubitare che esistano ancora delle differenze. Come affermato nel capitolo precedente, per Moravia individuare l‟alterità era necessario per poter confermare la possibilità della diversità. Quest‟ultima aveva valore per il fatto stesso di essere tale; spiegarla, decodificarla, ma anche avvicinarsi eccessivamente ad essa, avrebbe costituito un‟appropriazione culturale e quindi indirettamente anche un atto di limitazione, se non addirittura di negazione, della cultura locale. Di seguito 44 Peter Pels, in The Magic of Africa: Reflections on a Western Commonplace, ad esempio, dimostra che sono ancora ampiamente diffusi nella mentalità occidentale i luoghi comuni specificatamente legati alla magia africana. 121 si vedrà come alla fine del XX secolo, invece, il confine fra ciò che si percepisce come proprio e ciò che si considera diverso, sia sempre più labile. Avventure in Africa di Gianni Celati prosegue e conclude il discorso sulla relazione con l‟alterità africana che è stato fin qui esaminato attraverso i testi di Gaetano Casati, Riccardo Bacchelli e Alberto Moravia. In particolare, in questo capitolo si vedrà come in epoca contemporanea il rapporto con l‟altro sia investito di caratteristiche quasi paradossali. In Africa Celati si trova immerso in un mondo in cui risulta più facile riconoscere comportamenti e strutture tipicamente occidentali, piuttosto che trovare la reale diversità. La consapevolezza di una distanza è ovvia, ma essa non è più così immediata o scontata come lo era in precedenza. L‟approccio si sviluppa quindi in relazione alla volontà di comprendere in primo luogo a quale livello si manifesti la reale diversità dell‟altro in un mondo che, almeno in alcune delle sue strutture più superficiali, sembra annullare le differenze. La percezione di uno scarto culturale che si va riducendo sempre più è, per Celati, motivo sufficiente per voler capire dove è situata la differenza, al di là delle strutture omogeneizzanti della società contemporanea. 1. Gianni Celati Gianni Celati ha spesso utilizzato le proprie esperienze autobiografiche come spunto narrativo. Era stato così fin dai primi romanzi, Lunario del paradiso e Le avventure di Guizzardi,45 ma nel caso del suo recente libro di viaggio, Avventure in Africa, l‟esperienza personale non è solo lo spunto, ma l‟oggetto stesso della narrazione.46 In questa sede ci si occuperà specificatamente di quest‟ultimo volume, pubblicato nel 1997 in seguito ad un viaggio fatto nell‟Africa orientale con Jean Talon. Il volume riproduce i taccuini compilati dallo scrittore in Africa. Pur dandoli alle stampe, Celati non riorganizza gli scritti in capitoli o in sezioni, e precisa: “Pubblico i diari di viaggio come li ho scritti per strada, con revisioni e adattamenti per renderli leggibili” (5). È lecito dedurre, 45 Su questo punto vedi anche Rebecca West, The Craft of Everyday Storytelling (221). Lo stesso avviene in Verso la foce volume pubblicato nel 1989, in cui l'autore racconta un viaggio da lui veramente compiuto nelle campagne della valle padana. A mia conoscenza questi sono gli unici volumi in cui l'autore racconta direttamente, ovvero senza romanzarla, la propria esperienza di viaggio. 46 122 quindi, che quanto si legge nel libro è espressione quasi diretta di ciò che l‟autore ha visto, pensato e fatto durante il viaggio. I suoi taccuini seguono scrupolosamente l‟itinerario seguito durante la vacanza africana e registrano, con uno stile apparentemente semplice, le avventure, le disavventure e le impressioni di un turista atipico. Avventure in Africa si inserisce agevolmente in questo contesto, non solo per uniformità tematica, ma per l‟originalità di prospettiva che anche Celati, come i due autori precedentemente trattati, dimostra in relazione alla descrizione della realtà africana di cui ha fatto l‟esperienza in prima persona. Lo scrittore, fin dalle primissime prove narrative, aveva dimostrato di amare la sperimentazione stilistica e linguistica, che non era mai fine a se stessa perché vi era, a determinarla, la volontà di raccontare il mondo in modo inconsueto, a volte addirittura grottesco. Robert Lumely, in “Gianni Celati. Fiction to Believe in.” evidenzia il suo “engagement with non-literary language. Much of his writing is unusual for its extraordinary closeness to form of spoken Italian” (44). In Avventure in Africa non si trova nessun particolare sperimentalismo, ma la lingua è certo quella della quotidianità, spesso utilizzando proprio forme che sono vicine al parlato: “si sbudellavano di ilarità gli indigeni a sentire il bianco balengo che vuole andare a piedi attraverso la brousse” (119). A rafforzare questa scelta linguistica è, anche in questo caso, una prospettiva, un‟angolatura dello sguardo sulla realtà, che resta insolita ed originale. La sua prosa è perciò ingannevolmente semplice, in quanto alla leggerezza e alla fluidità della lingua fa da contropartita una densità del contenuto che spesso sfora nelle considerazioni filosofeggianti. Ma queste ultime restano sempre nell‟ambito di una riflessione personale, anche quando ad esserne l‟oggetto sono la povertà degli africani o la perdita della loro cultura a favore di quella (pseudo)-americana. Se, come ha scritto Silvana Tamiozzo Goldmann, Avventure in Africa è “un romanzo filosofico,” quelli di Celati non sono mai tentativi di sistemazione teorica sulla generale condizione dell‟Africa post-coloniale.47 Si tratta, piuttosto, di osservazioni personali anche nel senso letterale dell‟espressione, in quanto scaturiscono proprio dal vedere 47 Silvana Tamiozzo Goldmann, “Scrittori contemporanei, interviste a Sandra Petrignani, Giovanni Roboni, Gianni Celati,” Leggiadre donne: Novella e racconto breve in Italia (Venezia: Marsilio, 2000) 319. 123 persone e situazioni sulle quali egli elabora le proprie considerazioni. Il romanzo si sviluppa in modo quasi impressionistico, in cui la trascrizione delle cose viste e vissute non deriva necessariamente da una presa di posizione ideologica. Secondo Charles Klopp, lo scrittore non solo non prende posizione, ma evita addirittura di sbilanciarsi esprimendo opinioni personali: “he tells us nothing about whatever feelings he may have for the way they make a living in these circumstances of post-colonialism” (340).48 Si concorda solo parzialmente con quanto affermato da Klopp, in quanto quello che Celati riesce ad evitare sono i giudizi morali, ma non la rielaborazione personale di ciò che vede e vive. Perciò, se davanti ad una scena stranamente frequente, visto che si trova in Africa, si limita a trascrivere: “la musica del registratore francamente fastidiosa. I giovani rapati come i ragazzi del ghetto americano, uno con le trecce da rasta, stavano lì svaccati sui panchetti” (60); egli non evita però di trasmettere tutta la drammaticità della situazione del Ruanda quando, attraverso uno schermo televisivo, assiste alla “mancata civilizzazione delle tenebre africane” (15). Anche con Avventure in Africa, quindi, si è applicato il criterio che aveva portato a scegliere i libri di Casati e Moravia, optando anche in questo caso per un testo che restituisce un‟immagine dell‟Africa che non è mai banale o stereotipata e in cui l‟incontro con l‟altro è un momento fondamentale all‟interno della più ampia esperienza del viaggio. Si è voluto inserire Celati in questo studio soprattutto in funzione della sua particolare sensibilità, per l‟inusuale punto di vista sulla realtà e sulla quotidianità africana che il suo libro riesce a trasmettere. Interessa rilevare, in relazione allo svolgimento della problematica dell‟alterità, quella che è probabilmente una della cause determinanti della sua originale rappresentazione dell‟Africa, ovvero il fatto che la sua prospettiva culturale non è legata esclusivamente all‟Italia. Lo scrittore, infatti, ha vissuto per alcuni anni negli Stati Uniti e, a giudicare da quanto scrive proprio in Avventure in Africa, ha vissuto in Gran Bretagna abbastanza a lungo da sentire quei luoghi come suoi. Parlando di una guida, infatti, egli scrive “mi piacerebbe che venisse in Inghilterra per portarlo a camminare nei miei posti” (84) (corsivo mio). Celati non si 48 Charles Klopp, Buster Keaton Goes to Africa. 124 riconosce in un unico paese, ma è legato ad una realtà vasta e dai confini non bene definibili, realtà più facilmente identificabile come occidentale piuttosto che unicamente italiana. In questo senso, da un lato egli perpetra l‟immagine tradizionale dell‟uomo di cultura in Italia, il quale fin dall‟umanesimo è stato caratterizzato dal fatto di sentirsi più europeo che esclusivamente italiano; dall‟altro rappresenta pienamente la figura dell‟intellettuale contemporaneo, che, in virtù delle caratteristiche multi-etniche che la società occidentale ha acquisito, deve adottare un‟ottica cosmopolita. Questa prospettiva molto ampia, di scrittore abituato a vivere e a relazionarsi con realtà dissimili, è importante perché anche in questo caso a guidare la discussione sarà l‟analisi di come viene vissuto, descritto ed elaborato l‟incontro con l‟altro. Non si guarderà alla biografia dell‟autore o alle sue esperienze personali in funzione di Avventure in Africa, ad esse si è fatto riferimento solo in quanto costitutive della sua forma mentis, e perciò presupposti importanti nel determinare l‟approccio all‟alterità. Nel caso di Celati, infatti, il rapporto con culture diverse dalla propria non avviene solo in circostanze eccezionali, come poteva essere stato per Casati o Moravia, che dovevano uscire dai confini nazionali per trovare una cultura diversa. In parte grazie alle sue esperienze fuori Italia, in parte per i recenti flussi migratori, la convivenza con altre forme di civiltà, è diventata parte della sua quotidianità. La diversità, quindi, non è più una scoperta da fare, ma è qualche cosa di immanente da comprendere. Nel paragrafo precedente si è spesso, e volutamente, fatto uso del verbo “dovere” in riferimento al rapporto con la diversità, per due motivi, uno oggettivo o derivato da un dato di fatto, l‟altro più astrattamente filosofico e che rimanda ai criteri su cui si costruisce la relazione con l‟alterità. Anthony Appiah in Cosmopolitanism prende cura di giustificare la necessità di fare dell‟ottica cosmopolita un valore positivo. L‟introduzione, tuttavia, conferisce a tutto il saggio un‟impronta di concretezza, in quanto si conclude con una presa d‟atto tanto pragmatica quanto inesorabile: “The world is getting more crowded: in the next half a century the population of our once foraging species will approach nine billion. Depending on the circumstances, conversation across boundaries can be delightful, or just vexing: what they mainly are, though, is inevitable” (xxi) 125 (corsivo mio). La società attuale ma ancora di più quella di un futuro prossimo, non consente un approccio che perpetri chiusure. Il confronto con culture diverse non solo è auspicabile, come giustamente dimostra Appiah, ma è anche, e soprattutto, inevitabile. In particolare, in riferimento alla società italiana,49 negli ultimi decenni la popolazione si è arricchita di diverse etnie, tanto che oggi è normale riferirsi ad essa come ad una società multietnica. In una collettività con tali caratteristiche è di fatto inevitabile il rapporto quotidiano con l‟alterità. L‟incontro con l‟altro in questo contesto, ovvero in una relazione che si svolge nel “giorno per giorno” necessariamente assume una dimensione etica. Questo rimanda al secondo motivo per cui si è fatto uso del concetto di „dovere‟ quando si prenda in considerazione il rapporto con l‟altro. L‟argomentazione teorica completa le ragioni per cui l‟approccio cosmopolita sta diventando sempre più un‟esigenza piuttosto che una scelta. Filosofi quali Lévinas e Ricoeur hanno elaborato un‟etica che si fonda proprio sulla relazione con l‟alterità. In particolare per Lévinas la soggettività si scopre proprio grazie al rapporto con l‟altro, benché questo confermi l‟inacessibilità dell‟alterità. Uno dei motivi guida dell‟etica di Lévinas, è proprio la necessità di una relazione in cui viene mantenuta la differenza, ma in cui si vuole ridurre la distanza rispetto all‟altro da sé. L‟utilizzo del verbo dovere, si legittima quindi perché nella contemporaneità non si può escludersi dalla relazione con il diverso; inoltre, è proprio anche grazie a questo incontro che il soggetto si definisce. Su questi concetti si avrà modo di ritornare fra non molto, quando si guarderà più da vicino alla relazione di Celati con l‟altro africano. Come si vedrà, la consapevolezza, in Celati, che il rapporto con la diversità sta diventando uno dei tratti costitutivi delle società occidentali, e contemporaneamente la sua esperienza di vita vissuta in società multiculturali, avrà una grande influenza nel definire le modalità con cui avviene l‟avvicinamento alla cultura africana. 49 Si è voluto fare riferimento alla crescente componente multietnica in particolare in Italia solo in quanto l‟autore trattato è italiano; lo stesso fenomeno, però, pertiene alla maggior parte delle società occidentali. 126 2. Un’importante distinzione Prima di affrontare la tematica dell‟alterità in Avventure in Africa, occorre fare una precisazione sul piano terminologico, distinguendo fra „viaggiatore‟ e „turista.‟ Essendo il turismo uno dei principali cardini tematici attorno ai quali si svolge il libro di Celati, è utile soffermarcisi brevemente per chiarire alcune caratteristiche di un fenomeno al quale si farà spesso riferimento nel corso della discussione. Inoltre, questa distinzione segna una continuità rispetto ai capitoli precedenti in quanto riprende il distinguo fatto in relazione ai modi in cui il viaggio può essere intrapreso, modalità che risultano determinanti nell‟atteggiamento mentale verso ciò che è sconosciuto. La distinzione fra turista e viaggiatore è un‟ulteriore declinazione del paradigma istituito inizialmente e che si è ripreso poi lungo i diversi capitoli attraverso le figure di Marco Polo e Cristoforo Colombo, l‟opposizione fra viaggiare verso o attraverso, viaggiare o spostarsi. Qui la stessa antitesi si ripresenta; Celati usa termini diversi, più adatti alla situazione contemporanea, ma il concetto di base rimane invariato. Etimologicamente, il turista è colui che fa un tour, un giro. Nel concetto di tour è strutturale l‟idea del ritorno; il giro, infatti, è un movimento circolare che prevede un‟andata ed un ritorno. Ancora oggi un turista è colui che si reca in un luogo per un periodo di tempo limitato, sapendo fin dal giorno della partenza che al termine del viaggio ritornerà a casa. Storicamente il turismo è una pratica dalla valenza eminentemente culturale. Il gran tour, antesignano dell‟attuale turismo, aveva un ruolo molto importante nell‟educazione dei giovani europei di estrazione aristocratica o alto-borghese del XVIII secolo, di conseguenza le mete non erano casuali, ma si trattava di nazioni considerate particolarmente ricche sul piano artistico e culturale quali, ad esempio, l‟Italia, la Grecia e la Francia. Il turismo era quindi inteso come un momento formativo ed educativo della persona. In epoca contemporanea, invece, il termine ha assunto una connotazione diversa, identificandosi più semplicemente con un periodo di vacanza, indipendentemente dal luogo in cui si decida di trascorrerla. Che nella contemporaneità sia venuto meno l‟aspetto intellettualmente formativo di questa attività, è reso palese anche dal fatto che il “turismo culturale” è solo una delle sottocategorie in cui sono 127 organizzati i tipi di vacanza praticabili. La connotazione parzialmente negativa che si vede a volte associata al termine, deriva in primo luogo dalla perdita della componente culturale che in precedenza era costitutiva del viaggio, ma in parte anche dal fatto che il turismo è diventato un normale bene di consumo. Nelle modalità in cui si svolge oggi, quindi, non è più necessariamente un momento di crescita culturale, ed essendo divenuto fenomeno tipico della società consumistica, è spesso considerato interessante più per i suoi risvolti economici che per quelli culturali. Concettualizzare la differenza fra viaggiatore e turista è piuttosto complesso, essendo difficile dare un‟univoca definizione delle categorie. Risulta più agevole descriverle che definirle. Alessandro Villamira, studioso del fenomeno del turismo, in Psicologia del viaggio e del turismo afferma che la distinzione avviene principalmente in base ad elementi estrinsechi, ovvero che non pertengono al viaggio in senso pratico; fra essi, ad essere determinante è soprattutto l‟atteggiamento mentale nei confronti del luogo e delle popolazioni visitate. Più precisamente al viaggiatore, a differenza del turista, si riconosce un approccio più interessato ed aperto. Chi viaggia, quindi, vuole soprattutto conoscere, non solo vedere, come se si trattasse di uno spettacolo da subire passivamente. Inoltre il viaggiatore, pur avendo un itinerario, non ha percorsi fissi, come accade spesso nel caso dei turisti, ma si sposta in modo elastico, essendo disposto a fare cambiamenti o deroghe. Un‟ulteriore prerogativa del viaggiatore, direttamente collegata all‟elasticità dei movimenti, è quella di muoversi preferibilmente in gruppi molto ristretti, in genere con persone abituate a viaggiare. Il viaggiatore odierno è certamente l‟ideale discendente di chi faceva il gran tour nel 1700, cercando nel viaggio soprattutto la realizzazione delle proprie aspettative culturali. Un altro fattore importante nel determinare la differenza fra turista e viaggiatore è il tempo, mentre il primo si sposta generalmente per periodi piuttosto brevi, il viaggiatore in genere si muove su un lasso di tempo abbastanza lungo. Questa preferenza è chiaramente motivata dallo stesso principio che anima il tour, spostarsi per una settimana o due permette di vedere, ma non consente di approfondire la conoscenza. Per concludere si può 128 dire che, in generale, il viaggiatore è visto come colui che è in grado di instaurare una relazione più profonda con il luogo visitato e le persone incontrate. La breve distinzione qui proposta non vuole essere definiva né esaustiva, non essendo questo uno studio sociologico, essa vuole rispondere essenzialmente al bisogno di segnalare almeno alcune delle basilari differenze fra le due figure. Inoltre, queste due categorie non sono inderogabili; ci sono sovrapposizioni e commistioni, un turista può diventare un viaggiatore, e viceversa un viaggiatore può concedersi momenti di turismo. La distinzione fra viaggiatore e turista, inoltre, permette di riprendere quello schema teorico che ha fin qui guidato la discussione, e che è stato esemplificato, di volta in volta, con termini diversi: viaggiare verso o attraverso, spostarsi o viaggiare. Nel primo capitolo si era affermato che uno degli aspetti più interessanti della letteratura di viaggio, è dato dal fatto che può essere letta nella prospettiva di una ridefinizione delle strutture intellettuali di chi compie il viaggio. Mutuando un‟espressione di Trinh T. Minh-ha, si affermava che ogni spostamento comporta dei mutamenti nelle “linee di confine” culturali del viaggiatore. Quest‟ultimo, si era affermato, trovandosi di fronte a realtà nuove, deve attuare una mediazione, che è in prima istanza di carattere cognitivo. Quando il nuovo incontrato durante il viaggio è veramente tale, infatti, diventa parte del bagaglio esperienziale e cognitivo del viaggiatore, ridefinendo la sua percezione del reale. Era stato così per tutti i viaggiatori fin qui incontrati, anche se con esiti diversi. Basandosi sulle esperienze di Marco Polo e Cristoforo Colombo, che si considerano gli archetipi di due opposti modi di concepire il viaggio e di porsi di fronte al nuovo, si era guardato a come Casati e Moravia avessero viaggiato e si fossero relazionati all‟ignoto incontrato durante i loro spostamenti. Per Casati la diversità culturale era diventata parte integrante della sua esplorazione dell‟Africa e aveva imparato a convivere con la cultura africana e per alcuni aspetti l‟aveva fatta propria. Moravia si accontentava invece di poter riconoscere la differenza, identificandola come ancora possibile, astenendosi però dal cercare una relazione più profonda per non correre il rischio di eliminare lo scarto culturale. In entrambi i casi a guidare i due uomini era stato l‟interesse di 129 fronte ad una forma di civiltà molto diversa dalla propria. Nel caso di Celati la mediazione fra noto ed ignoto, ovvero fra una cultura che si considera propria e una civiltà diversa, sembra ridursi ad uno scarto minimo. L‟Africa che si presenta al visitatore è già nota sotto alcuni aspetti, in parte perché era stata studiata prima di partire, in parte, cosa più rilevante, perché vi si possono riconoscere alcuni modelli culturali occidentali. Gli effetti della globalizzazione, che produce una cultura che sembra divenire monocorde, avranno un posto rilevante nel libro di Celati, nel quale non mancheranno anche alcune delusioni dovute proprio alla mancanza di differenze. Come ha notato anche Charles Klopp in Buster Keaton Goes to Africa, ancor prima di andare nel continente africano e scrivere Avventure in Africa, Celati aveva dimostrato interesse per il fenomeno del turismo. La sua attenzione era rivolta agli italiani che vanno all‟estero, ma anche ai turisti stranieri che vengono in Italia. Egli evidenziava le potenzialità del turismo proprio sul piano della comunicazione, caratterizzandolo, in ultima analisi, come un momento positivo. In Quattro novelle sulla apparenze, per esempio, il protagonista Baratto alienato e svuotato dalla vita che conduce decide di non parlare più. Durante un viaggio in moto, egli è incuriosito da un gruppo di turisti giapponesi e americani, prima li segue, poi si fa fotografare con loro ed infine sarà proprio con queste persone sconosciute che parlano lingue completamente diverse dalla sua che riuscirà ad avere una comunicazione. Baratto finisce per sentirsi completamente a suo agio: “Si direbbe che lui abbia finalmente trovato il suo popolo, e che si senta simile a quegli stranieri condotti in giro a branchi […], persi nel grande mistero turistico del mondo” (27). Dopo qualche giorno dal rientro dal viaggio, durante il sonno, il protagonista ricomincerà a parlare.50 Nella novella il turismo è uno spettacolo a cui si può assistere; Baratto non segue la comitiva per vedere luoghi o monumenti, ma per visitare una strana meta, i turisti stessi. Questi ultimi sono tutt‟altro che restii di fronte alla curiosità del protagonista, e dimostrando una grande apertura nei suoi confronti, dopo averlo invitato ad unirsi a loro, saranno 50 La novella „Baratto‟ meriterebbe una trattazione a sé. Qui, tuttavia, si vuole semplicemente sottolineare la presenza della tematica del turismo senza offrire interpretazioni o soffermarsi su altre problematiche. 130 di fatto gli unici a cercare un mezzo per comunicare con lui. I turisti insomma si trovano in una condizione anomala ma positiva, fuori dalla propria patria e dalla propria quotidianità riescono ad instaurare rapporti con altre persone che in una condizione normale non si attuerebbero. Il turismo, almeno in questo caso, offre una possibilità di comunicazione e scambio, di apertura e conoscenza dell‟altro. Lo stesso interesse nei confronti del fenomeno turistico, è presente anche in Avventure in Africa, dove il protagonista, che come vedremo, sarà in alcuni casi turista suo malgrado, osserva sé e quelli che si trovano nella sua stessa condizione con uno sguardo curioso ma anche estremamente ironico. Anche per Celati viaggiatore, quindi, il turismo è un fenomeno da osservare e studiare. 3. Gianni Celati e l’Africa contemporanea: l’esperienza della complessità Nei due capitoli precedenti le esperienze di Gaetano Casati e Alberto Moravia, avevano offerto lo spunto per fare indirettamente luce anche sui cambiamenti avvenuti nella realtà africana. Alla fine del XIX secolo il continente africano era un territorio ancora in parte inesplorato, sede di guerre per il possesso territoriale da parte degli europei e le cui forme di civiltà e cultura erano ancora oscure. Queste ultime saranno pian piano rese note solo più tardi; come visto nel capitolo su Gaetano Casati, infatti, erano in pieno sviluppo in quegli anni i field work degli antropologi e degli etnografi in quelle zone. Nella metà del XX secolo, quando lo scrittore Alberto Moravia vi si reca, l‟Africa stata vivendo il processo di decolonizzazione politica. Se geograficamente il continente era oramai noto, sul piano culturale restava il luogo in cui era ancora possibile trovare il primitivo e poter essere testimoni di un mondo diverso da quello occidentale. Gianni Celati chiude idealmente questo percorso raccontando l‟Africa contemporanea. L‟Africa che Celati conoscerà non è molto diversa da quella che aveva visto Moravia, ma, benché anche lui ritrovi le contraddizioni legate alla decolonizzazione, si aggiungono, nel suo caso, le anomalie economiche dovute alla globalizzazione. Il sostantivo globalizzazione, pur nella consapevolezza di quanto sia oggi abusato, viene utilizzato in questa sede nella sua accezione più comune, non facendo perciò riferimento unicamente alla strategia economica originariamente indicata 131 con questo nome. Con esso si intende piuttosto il processo di uniformazione economica e culturale che caratterizza, almeno ad un livello superficiale, le società contemporanee. Celati assiste alla paradossale situazione dell‟Africa, la quale si sta occidentalizzando sempre più, mantenendo però una situazione economica di estrema indigenza. Moravia aveva ipotizzato per il continente africano un futuro di prosperità economica grazie alla tecnologia, ma la realtà a cui Celati assiste in Mauritania, nel Mali o in Senegal, dimostra che né la decolonizzazione né la tecnologia hanno apportato il benessere auspicato. Il libro di Celati sull‟Africa si inserisce in un contesto ideologico che per alcuni versi è simile a quello di Moravia. Manca, anche nel suo caso, un discorso univoco sull‟Africa, quindi il suo testo non può essere letto nell‟ottica di adeguamento o allontanamento rispetto ad un‟ideologia egemone. Il contesto storico in cui si inserisce Avventure in Africa fornisce però alcuni elementi inderogabili in ogni discorso sull‟Africa: la situazione economica dei paesi del “Terzo Mondo,” e la progressiva occidentalizzazione della cultura. A questi due importanti temi lo scrittore farà spesso riferimento in modo anche polemico. Celati non prende spunto dalla realtà africana per trarne considerazioni politiche o generalizzazioni culturali; egli non si sofferma troppo sulla presenza di contrasti economici i quali, a ben vedere, non aggiungono niente di veramente nuovo alla sua esperienza di viaggio: “Che qui non esista più un regime coloniale forse è solo un‟astrazione come tante altre, che comunque poco conta nella vicenda tra visitatori bianchi e popolazione nera” (19). Nel suo caso, quindi, il prendere coscienza delle particolari dinamiche economiche del paese visitato non costituisce un momento significativo, soprattutto in questo caso, dove esse ricalcano realtà ormai molto ben conosciute, che sono sia quella coloniale del passato, ma anche quella occidentale che sta sempre più prendendo piede in Africa. Gli sembrano molto più rilevanti, invece, le conseguenze di tali disparità e contraddizioni sulla vita quotidiana delle popolazioni del luogo. La complessità dell‟Africa contemporanea è ben riassunta in un breve colpo d‟occhio dalla spiaggia: 132 un quadro della situazione da questa parti ci sta bene. Il turista rosso come un gambero di sole africano va a vedere il museo degli schiavi sull‟isola di Gorée, magari è anche contento che non esista più la tratta degli schiavi, ma poi uscendo incontra uno come Zorro che lo intontisce con la sua tiritera fissa finché non gli cava due palanche di tasca, mentre qui sulla spiaggia i bianchi si comprano i neri, e vedi lo sciancato con il negretto, l‟anziana europea col giovane africano, tutte le promiscuità a pagamento in pronta offerta. Niente scappa al traffico di carne umana tra bianchi e neri, ma io sono rimasto a corto di giudizi morali. (139) Di fronte ad un contesto che presenta questo tipo di complessità, lo scrittore non può che limitarsi a descriverla. Celati restituisce un‟immagine dell‟Africa e degli africani, che è multi sfaccettata e che di conseguenza rifiuta qualsiasi semplificazione. L‟interesse del suo testo deriva proprio da questo, perché evita banalizzazioni culturali, luoghi comuni e non nasconde le contraddizioni con cui il viaggiatore contemporaneo si deve confrontare. Ad esempio, dopo aver assistito al raggiro da parte di una guida africana ai danni di un collega, costretto così a perdere l‟intero guadagno della giornata, scrive: Mi vengono pensieri così poco edificanti, che sgonfierebbero anche il celebre scrittore che cercava l‟ispirazione politica nel terzo mondo. Il bianco è un mammifero destinato all‟incessante assalto di piccole menadi nere, ma spesso vuole credersi un uomo giusto e caritatevole, proprio per mettersi al di sopra di questa nemesi della giustizia distributiva. Inutili pensieri, li lascio allo scrittore di grande impegno sociale, che spiega l‟Africa con infinito paternalismo a forza di concetti generali. (160) L‟allusione allo scrittore impegnato potrebbe riferirsi sia a Moravia che a Pasolini, quest‟ultimo in particolare era stato un fautore del terzomondismo.51 Al 51 Secondo Klopp è probabile che il riferimento sia a Moravia. Non va tralasciato però che proprio Pasolini, oltre ad essere stato un sostenitore del Terzomondismo, aveva scritto il celebre poemetto, 133 di là di chi possa essere il destinatario dell‟accenno polemico, però, va rilevato che ritorna ancora una volta l‟idea di una giustizia distributiva. Si era incontrata questa problematica anche in precedenza, quando, all‟inizio del viaggio, lo scrittore aveva affermato che i turisti bianchi sono visti come uomini da sfruttare economicamente “per un senso di giustizia naturale” (21). Dai comportamenti messi in atto dagli africani nei confronti degli europei emerge, attraverso le parole di Celati, un dato interessante: l‟acquisizione, da parte delle popolazioni del luogo, di una mentalità che in ambito economico si rifà all‟occidente, e non è forse esagerato indicare il modello capitalistico come il principale punto di riferimento. Per Casati e Moravia le condizioni ed i presupposti del rapporto con le persone del luogo erano stati molto diversi, la loro esperienza non è così direttamente e marcatamente segnata dal criterio economico. 52 Benché siano presenti, soprattutto nei testi di Moravia, riflessioni sull‟economia, non è il principio economico quello che guida i rapporti fra lo scrittore e gli indigeni, come accade invece per Celati. I riflessi di un‟economia di tipo occidentale sulla quotidianità degli africani sono molto interessanti, se non per lo scrittore, che è spesso costretto, suo malgrado, a riconoscere piuttosto che a conoscere, per il lettore che si confronta con Avventure in Africa. Quello che è straordinario, infatti, è che il rapporto fra bianchi e neri è lo specchio di quanto il modello economico occidentale abbia pervaso, se non la società africana, almeno i modelli comportamentali che gli africani adottano nei confronti dei bianchi. Va precisato che non sorprende che le popolazioni del luogo vogliano trarre guadagno dalla presenza dei turisti, evidentemente si tratta di un settore economico in crescita che viene giustamente sfruttato. Quello che si vuole sottolineare, è che il modo in cui i rapporti economici, fra africani e bianchi, si sviluppano nella quotidianità, sembra riproporre il modello occidentale piuttosto che uno autoctono. A scanso di contenuto in La religione del mio tempo, intitolato “Africa mia ultima speranza” in cui il continente sembra essere davvero l'ispiratore di una speranza di realizzazione politica. 52 È innegabile che una forma di interesse economico fosse all'origine del viaggio di Gaetano Casati in Equatoria. Nel suo caso però, erano gli europei a cercare possibilità di guadagno in Africa. Per Celati, invece la situazione si presenta come ribaltata, perché ora, nel contesto dell‟industria turistica, sono gli africani a vedere negli europei una fonte di denaro. 134 equivoci si deve inoltre chiarire che si è consapevoli del pericolo di leggere il comportamento degli africani attraverso strutture di pensiero che sono occidentali. Quanto affermato, però, è sostenuto e giustificato dal fatto che questo tipo di dinamica si realizza solo nei confronti dei bianchi, perché, da quanto si intuisce dal testo, i criteri che guidano le relazioni economiche fra africani sono diversi. Il fatto risulta ancora più straordinario perché sono gli indigeni stessi ad imporre questo tipo di rapporto. Al turista, infatti, non viene lasciata molta libertà d‟azione o di scelta, in quanto, indipendentemente da quali siano i suoi programmi, c‟è sempre qualcuno disposto ad aiutarlo nella realizzazione di essi. Appena arrivati in Africa, ad esempio, Celati e Jean Talon vengono avvicinati da Moussah, il quale li prende sotto la sua ala protettiva e li conduce ad un albergo. Nei giorni successivi Celati dovrà liquidare Moussah, nel vero senso del termine: “sono riuscito a licenziarlo col pagamento di 200 CFA a titolo di liquidazione” (12). Ma Moussah, che non demorde facilmente, gli manda al suo posto un‟altra banda di ragazzini, capeggiati da Mohammed, ed estremamente ben preparati a svolgere il loro compito: “sapendo già la nostra idea di andare nel paese dei Dogon si è presentato subito come un autentico dogon” (12). Mohammed è estremamente sollecito: “Di sicuro non è timido, ad ogni mia occhiata vagante coglie l‟occasione per offrirmi un servizio, sicché camminando per strada devo cercare di guardarmi in giro meno che posso” (12). Non è molto diversa la condizione in cui si trovano quando vanno a visitare il centro di Medicina Tradizionale Dogon. Amadou, il principale collaboratore del Dott. Coppo, il gestore del Centro, si prende cura di loro in tutto e per tutto, tanto che, come visto precedentemente i due viaggiatori si sentono prigionieri di un bunker: “Amadou ci tiene qui reclusi con le sue arti da incantatore, perché ogni momento ne inventa una, e con lui non ci si annoia mai, nel bene e nel male” (63). Quello che preme evidenziare è che non solo gli africani sono organizzati per rispondere alla domanda dei turisti bianchi che arrivano, ma in pieno stile occidentale, dato che hanno capito le tipologie della domanda, sono pronti anche a creare l‟offerta adeguata. Esempi in questo senso saranno offerti a Celati durante tutto il viaggio. Data la brevità del suo soggiorno, egli non potrà creare rapporti duraturi; come si vedrà 135 nel prossimo paragrafo sono poche le persone con le quali riesce ad instaurare relazioni significative. Come era accaduto anche per Moravia, i suoi contatti sono spesso funzionali al viaggio stesso, in quanto incontra guide, personale d‟albergo ecc. Da Avventure in Africa emerge però una categoria nuova, che nei capitoli precedenti compariva solo sullo sfondo, e non era ancora organizzata e quasi istituzionalizzata, come lo è invece alla fine del XX secolo: quella dei neri che “lavorano con i bianchi.” Si tratta di una professione molto ambita ed importante, oltre che varia e, ovviamente, rispondente al criterio fin qui descritto, quello di trarre profitto dai turisti: Questo è anche il senso della sua autopresentazione come uno che “ha lavorato molto con i bianchi” (stesso vanto di Amadou), perché è implicito per lui che cercare quel libro vuol dire entrare nell‟esercizio d‟una specifica professione chiamata “lavorare con i bianchi.” Professione che va dal servizio di interprete per gli antropologi e quello di guida per i turisti ma di mezzo c‟è di tutto, compreso trovare una bicicletta per Jean, portare il bianco al mercato, e forse trovargli anche una donna, chissà. Comunque se qui dici: “voglio, vorrei, mi piacerebbe,” dopo non puoi considerare la cosa che hai detto secondo i tuoi estri di europeo distratto. (62) Lo scrittore precisa che non si tratta di un semplice compito temporaneo, ma di una vera e propria categoria lavorativa, benché essa non corrisponda ad un compito definito ma piuttosto ad un insieme di attività che mirano a far diventare il soggiorno dei bianchi il più piacevole possibile. “Lavorare con i bianchi” significa aiutarli in tutti quei processi che potrebbero rivelarsi difficili se non impossibili: andare a fare le spese, ottenere i documenti che sono stati illegalmente sottratti, attraversare la brousse. Questa professione è la naturale risposta ad una situazione di fatto, ovvero la crescente presenza di turisti che necessitano di strutture e personale per i loro soggiorni. Non stupisce quindi che si sviluppi il settore turistico, cosa in fondo più che normale. Lascia sorpresi, piuttosto, che all‟ambito del “lavorare coi bianchi” sembrano appartenere quasi tutte le persone da loro incontrate durante il viaggio. Sorprende anche che le 136 relazioni che gli africani instaurano, siano quasi tutte regolate dal regime domanda-offerta, perché ognuno di loro cerca, in qualche modo, di cavare “due palanche di tasca” (139) ai bianchi, dimostrando che i paradigmi dell‟economia occidentale si sono imposti come principio guida dei rapporti fra autoctoni e turisti. L‟unica ad essere palesemente fuori da questo schema, è Sarr Batouly, la ragazza incontrata in treno e con la quale Celati e Talon svilupperanno un rapporto d‟amicizia dal quale sono esclusi interessi di tipo economico. 4. Il turista Gianni Celati ed il suo rapporto con l’alterità La distinzione terminologica operata in relazione a „turista‟ o „viaggiatore‟ ha un riflesso importante in Avventure in Africa, perché Celati in questo libro sembra voler raccontare proprio le sue avventure in quanto turista. Il protagonista non si definisce immediatamente come turista, ma è la situazione in cui si trova a definirlo tale. È importante notare fin da ora che la sua esperienza africana sarà continuamente caratterizzata dalla tensione fra il voler fare un viaggio e l‟essere un turista bianco che visita l‟Africa. Questa stessa tensione caratterizzerà molto spesso anche i suoi rapporti con le persone del luogo, che in lui non vedranno solo un uomo bianco, ma un bianco in vacanza e quindi una fonte di denaro. L‟impressione di non poter essere un normale viaggiatore è immediata, poco dopo essere arrivato in albergo infatti scrive: Ma più di tutto ci prende alla sprovvista il fatto d‟essere bianchi. Perché siamo qui a rappresentare non quello che siamo o crediamo d‟essere, ma quello che dovremmo essere in quanto bianchi (ricchi, potenti, moderni, compratori di tutto). E portiamo in giro questa rappresentazione come uno scafandro, ognuno nel suo scafandro che lo isola dal mondo esterno. A Jean è venuta quasi una fissazione, e appena vede dei turisti comincia a ripetermi una parola che s‟è inventata: “Guarda i „pingoni‟ bianchi, noi siamo così. (11) La spiacevole sensazione di essere un pingone, ovvero un bianco che in quanto tale è anche ricco e quindi disposto a comperare qualsiasi cosa, si accompagna alla consapevolezza di essere costretto in una situazione che non ha scelto, e dalla 137 quale non sarebbe riuscito facilmente a liberarsi: “Comunque al ritiro dei bagagli e poi quando il ragazzo Moussah ci spingeva sulla corriera del vecchio grigio, ho capito che eravamo legati a lui quasi per la vita” (9). Alla fine del XX secolo, a precedere i viaggiatori che vanno a visitare l‟Africa, è lo stereotipo che è stato assegnato loro dalle popolazioni del luogo e che li vede semplicemente come appartenenti ad un mondo più ricco e di conseguenza pronti a spendere. La “recita” (45, 96, 132), come la definisce Celati stesso con eco quasi pirandelliana, affidata loro dal meccanismo del turismo dei bianchi in vacanza in Africa, non lascia molto spazio per interpretazioni personali. Sembra impossibile potersi muovere al di fuori di predefinite strutture comportamentali imposte a priori, e che derivano e rispondono in primo luogo ad esigenze di tipo economico: “Il bianco viene offerto sul mercato interno come uno che compra automaticamente statuette tribali, così come automaticamente ingurgita colossali colazioni al mattino” (19). Allo stesso modo, la “recita” si svolge in luoghi appositamente creati per adempiere a questa funzione: “Albergo coloniale che all‟interno sembra una nave. Come in tutte le situazioni coloniali, si vive nel ghetto dei bianchi” (149). Il rapporto con l‟altro sembra essere impostato in negativo, ovvero in modo da non lasciare grandi possibilità di incontrare il diverso da sé: per gli europei l‟Africa non è più una meta sconosciuta da esplorare, perché il turista arriva a destinazione con un considerevole bagaglio di informazioni sui luoghi che visiterà. A questo si deve aggiungere inoltre che molto spesso i luoghi in cui i turisti europei risiedono sono essi stessi occidentalizzati per meglio accogliere gli ospiti. Gli africani, dal canto loro, conoscono ormai la tipologia del turista bianco e si comportano di conseguenza. La relazione si svolge, almeno ad un primo livello, secondo modelli comportamentali che si accordano con i ruoli che ognuno svolge in Africa, ruoli che riflettono direttamente una situazione economica più ampia. Riprendendo le parole di Celati, gli europei sono il simbolo del benessere economico, e gli africani si comportano come coloro che, in quella situazione, hanno la possibilità di beneficiarne. Si viene a creare uno strano paradosso: l‟aumentata possibilità di spostamento e la frequenza degli scambi anziché 138 agevolare la conoscenza ha contribuito alla creazione ed al perpetuarsi di tipologie e stereotipi. Più specificatamente la relazione è ostacolata perché all‟esperienza reale si frappone il presupposto di conoscere già alcune caratteristiche fondamentali dell‟altro. Inoltre, in Avventure in Africa diviene palese un fenomeno le cui dimensioni hanno acquisito, negli ultimi anni, una crescente importanza: gli europei divengono oggetto di semplificazione culturale. Non si tratta di un fenomeno nuovo, quanto invece del segno di un‟evoluzione nei rapporti fra culture diverse. La strada aperta da Said con il suo Orientalism ha dato vita ad un vigoroso confronto culturale; il riconoscimento di un vero e proprio „discorso‟ sull‟oriente ha infatti innescato un meccanismo di ampia portata. Gli studi che ne sono scaturiti, da un lato hanno consentito di individuare alcune categorie e meccanismi culturali che appartengono specificatamente all‟occidente, dall‟altro hanno dimostrato che anche presso le civiltà non europee sono diffusi stereotipi nei confronti degli occidentali. Quest‟ultimo caso lo si incontra meno frequentemente, anche in virtù della nostra stessa ubicazione, ma è ben esemplificato in Avventure in Africa. Va precisato, che non è improbabile che anche nel caso di Casati o Moravia, gli indigeni abbiano sovrapposto loro un modello percepito come europeo; in entrambi i casi, però, il fenomeno non aveva raggiunto le dimensioni che ha invece alla fine del XX secolo, per cui chi si reca nel continente “nero” è manifestamente ricondotto alla tipologia specifica del “turista bianco.” La studiosa Elizabeth Hallam ha notato che, rispetto alla cultura africana, gli occidentali hanno sempre effettuato delle semplificazioni, ma nel caso di Avventure in Africa ci si trova di fronte al caso contrario, in quanto è l‟autore ad essere oggetto dell‟immagine distorta che gli africani hanno della società di cui fa parte.53 In Celati e compagno, così come in tutti gli altri bianchi, gli indigeni vedono in primo luogo una possibilità di guadagno: “Noi turisti bianchi siamo come delle vacche da mungere per un senso di giustizia naturale, e tutto il gioco 53 Vedi capitolo 1, pag. 46. 139 di mungitura del turista somiglia a quello delle colonie di parassiti che si attaccano al corpo di qualche grande animale pieno di sangue” (21). Il vocabolario usato, operando una scelta semantica molto cruda, descrive in modo volutamente cinico il tipo di relazione che si instaura automaticamente fra europei ed africani. L‟inusuale scelta di vocaboli è una costante di Avventure in Africa, dove la descrizione degli europei in vacanza è resa attraverso espressioni che rimandano quasi sempre ad una situazione bellica. L‟autore non sembra disposto a fare nessuna concessione, né ai turisti, né agli indigeni, che egli vede come fattivamente complici di una vera e propria guerra. Si aggiunge quindi un ulteriore meccanismo a regolare il ruolo del turista in Africa, quello bellico. Ancora una volta la comprensione di tale meccanismo da parte dell‟autore è immediata. Appena giunto in albergo afferma di essere: “[…] temporaneamente dislocato in un campo di concentramento per turisti” (10); poco dopo chiarisce ulteriormente i termini del soggiorno di questi ultimi: “i turisti qui sequestrati” (10), ammettendo però che nel loro caso: “all‟origine della nostra cattura c‟è la mia maldestrezza” (14). È evidente che non si tratta di un vero e proprio sequestro, e che i turisti sono tutti lì di loro spontanea volontà, questo però non cambia la sensazione di trovarsi in una condizione che di fatto è percepita come ostile. All‟interno della “trincea coloniale” (19) le prostitute non cercano di sedurli, ma tendono loro un “assedio” (23), ed il solo spostarsi con un autobus può diventare un‟avventura particolarmente insidiosa: “Il problema dei bianchi è che stimolano l‟istinto della caccia, forse a causa del loro pallore, e tu diventi preda come le gazzelle nel deserto” (49). Negli ultimi due esempi citati, lo scrittore utilizza una metafora, quella della caccia cha ha una pregnanza particolare e che si rifà ad uno dei topoi africani per eccellenza. L‟Africa ha avuto nel XX secolo un ruolo di primo piano per quanto concerne la caccia, ed è significativo che Celati abbia scelto questo ambito per descrivere la situazione in cui si trova. La caccia, inoltre rimanda ad una situazione coloniale: basta pensare, ad esempio, al più classico e noto fra i cacciatori bianchi in Africa – Ernest Hemingway – per capire il contesto in cui si svolgevano le battute e le prerogative che venivano assegnate ai loro protagonisti. Sia in Green Hills of Africa, che in The Snows of 140 Kilimanjaro, il cacciatore bianco, oltre ad appartenere ad una cultura più forte, si trova in una posizione che è dominante rispetto alle guide del luogo, il cui ruolo è solo funzionale ai bisogni dell‟uomo bianco. La situazione coloniale in Celati, è però doppiamente ribaltata: in primo luogo i due turisti, come era stato nel passato per i colonizzati, sono costretti a subire situazioni che non hanno scelto, secondariamente benché siano bianchi, anzi proprio a causa del loro „pallore,‟ anziché essere predatori sono in balia di coloro che li circondano. Benché Celati e Talon dopo qualche tempo escano dai percorsi tradizionali dei turisti, le condizioni non cambiano in quanto la villa vicina al Centro di Medicina Tradizionale Dogon, in cui sono ospitati viene ben presto definita un “bunker isolato dal mondo” (54), oppure, con leggera variazione “comodo bunker coloniale” (64). I turisti sono insomma poco più che prigionieri trattati con particolare cura. I paragoni con la guerra e la prigionia ritornano costantemente lungo il testo, sia che si tratti di una “prigionia” positiva, come accade al Centro di Medicina Tradizionale, sia nel caso contrario, quando devono proteggersi degli “assedi” tesi loro dai vari venditori, sia, infine, nella “prigionia” scelta degli hotel in cui soggiornano. La sensazione di essere protagonisti di una strana guerra non verrà mai meno, ma grazie alla maggior familiarità con luoghi e persone, subentra l‟accettazione delle dinamiche che li coinvolgono: “All‟arrivo ci assaltano tutti come al solito, tirandoci in diverse direzioni, finché prevale un gruppetto più forte che si impossessa di noi” (140) (corsivo mio). L‟incontro con l‟altro, nel caso di Celati è quasi uno scontro fisico, e si combina alla perfezione con la sensazione di essere un “prodotto da offrire su mercato interno” (19). Mentre si trova ancora all‟aeroporto di Bamako registra: La confusione è cominciata appena siamo usciti dalle mani dei doganieri. Un vecchio con lunga zimarra azzurra, berretto copto, corpo secco, colore della pelle grigio perla, m‟ha agganciato al varco. Parlava di una navetta, la corriera per andare a Bamako. Intorno c‟erano ragazzi che mi tiravano per le braccia, altri che mi chiedevano come mi chiamo. (9) 141 Il contatto fisico sarà la caratteristica dominante nelle relazioni con gli africani, ma anche se ad un europeo questo tipo di approccio potrebbe sembrare spiacevole, Celati si sentirà veramente aggredito solo in un‟occasione. La prossimità fisica d‟altra parte, non è un sintomo significativo di una maggiore vicinanza all‟alterità perché non indica nessuna particolare comunanza fra le persone coinvolte. Il contatto fisico, in altre parole non è ancora quell‟intimità che Celati riuscirà a creare solo con alcune delle persone incontrate durante il suo viaggio. Lo stesso tipo di approccio, infatti, Celati lo ritroverà quasi ogniqualvolta esce dall‟albergo, e alla fine si limiterà semplicemente a registrare queste presenze alle quali pian piano si abitua. I turisti sono trattati alla stregua di “vacche da mungere” (21) anche a causa della transitorietà della loro presenza, che non consente di creare legami duraturi e quindi più profondi. Si potrebbe supporre che le cose vadano diversamente per chi invece decide di trasferirsi a vivere in Africa scegliendo la strada dell‟integrazione. L‟incontro con Michel Grandet, un francese mussulmano che si è trasferito in Africa dove è diventato un commerciante, mostra che benché la sua situazione sia molto diversa, egli è lontano dal sentirsi completamente integrato nella società africana. Quando gli chiedono per quale motivo abbia deciso di trasferirsi in Mauritania: “Lui ha detto che possiamo scrivergli all‟Hôtel Résidence, il suo punto di riferimento più sicuro perché è amico del padrone. S‟è fatto mussulmano, ha sposato una wolof, studia il Corano, ma il suo punto di riferimento più sicuro è ancora il ghetto dei bianchi, come per noi turisti” (169). Se il francese è evasivo sulle motivazioni, non riesce però a nascondere un aspetto molto importante della sua esperienza d‟immigrato. Il commento di Celati sembra confermare che il sentimento di estraneità resta immutato e quasi insormontabile anche nei confronti di un paese che, benché sia stato scelto, non è quello in cui si è cresciuti e ci è si formati. L‟esperienza vissuta da Celati e fin qui descritta, sembrerebbe essere suscettibile di una lettura sartriana dei rapporti umani. Il filosofo francese in L’être et le neant postulava il presupposto di ogni relazione come antagonistico. Lo sguardo dell‟altro definisce e dà un ruolo, quindi definisce e circoscrive: 142 Il suffit qu‟autrui me regarde pour que je sois ce que je suis. Non pour moi-même, certes: je ne parviendrai jamais à réaliser cet être-assis que je saisis dans le regard d‟autrui, je demeurerai toujours conscience; mais pour l‟autre. […] une fois de plus cette métamorphose s‟opère à distance: pour l‟autre je suis assis comme cet encrier est sur la table […]. (320) In questa particolare sezione, dedicata allo sguardo, Sartre esamina questo sentimento come presa di coscienza di sé che avviene attraverso la consapevolezza di essere osservati da altri. Al soggetto osservato viene conferita una „oggettificazione‟ in quanto dato di fatto, che acquisisce concretezza attraverso altri. L‟essere del soggetto è possibile perché esso è osservato, e questo basta a dargli coscienza di sé. Senza necessariamente limitarne la libertà fondamentale o trasformarlo in un oggetto, al soggetto perviene un‟identificazione dall‟esterno. Questa stessa esteriorità, afferma Sartre, rappresenta però anche un pericolo per il soggetto stesso perché ne limita le possibilità. Lo stesso tipo di rapporto sembra applicarsi al caso di Celati giustificando i termini in cui lo scrittore protagonista del viaggio descrive la situazione, se stesso, gli altri turisti bianchi e le persone del luogo. Il bianco in vacanza viene „oggettificato‟ nel suo atto di essere turista, gli viene imposta un‟identificazione dall‟esterno, in questo caso dalla società africana che lo riceve. Ad un primo livello, il libro sembra volto alla dimostrazione di come sia impossibile instaurare un significativo rapporto con l‟altro in Africa a causa dei ruoli imposti a priori. Con l‟aggettivo “significativo” si intende indicare una relazione i cui termini siano in grado di relazionarsi con una modalità costruttiva, ovvero che consente di instaurare un dialogo che riesca a superare i limiti delle idee generalizzanti; una relazione, quindi, che tenda alla vera conoscenza e non alla riconferma di opinioni preesistenti l‟incontro. In altre parole, sembra impossibile che si possa realizzare la relazione postulata da Lévinas, il quale, invece, propone un approccio tutt‟altro che antagonistico al diverso da sé. Se la relazione con l‟alterità si sviluppasse esclusivamente nei termini fin qui descritti, sarebbe lecito chiedersi perché si sia deciso di inserire Avventure in 143 Africa in questo studio il cui fine è invece dimostrare come il viaggio sia ancora un momento nel quale, al contatto con civiltà diverse, consegue una ridefinizione delle strutture culturali dell‟individuo, nella prospettiva però di un ampliamento e non di una chiusura. L‟incontro con la diversità culturale non solo permette di scoprire l‟altro, ma consente anche di scoprire sé stessi in rapporto ad esso. Su questo punto è necessario fare una precisazione perché questa è una delle maggiori problematiche discusse dalla critica post-colonial. Molto spesso all‟incontro con il diverso da sé è data un‟interpretazione individualista, considerandolo in chiave funzionale all‟autodefinizione. Questa componente, che è senza dubbio presente, può rappresentare un limite se la si intende come emblematica dell‟esperienza del viaggio. Essa, tuttavia, può fungere da stimolo se la nuova percezione di sé che il viaggiatore acquisisce è considerata come uno degli elementi costitutivi del rapporto che si può instaurare con la diversità. Questa tesi propone di leggere l‟incontro con l‟altro come momento dialettico, quindi dinamico, in cui non ci sono risposte pre-definite ed in cui i soggetti protagonisti dell‟incontro vivono in modo tendenzialmente positivo la tensione che si viene a creare nell‟incontro-scontro fra culture diverse. Il libro di Celati è coerente all‟approccio teorico fin qui adottato perché nonostante le premesse sembrino impedire qualsiasi impulso allo sviluppo di un rapporto con le persone del luogo, l‟autore riesce comunque a creare relazioni che vanno oltre i limiti del suo ruolo di turista in Africa. Rimane intatta, quindi, una delle caratteristiche essenziali del viaggio, quella di essere un‟esperienza cognitiva. Si vedrà, e questo è l‟aspetto più importante del libro di Celati, che essa si realizza in primis come cognizione emozionale, relegando in secondo piano l‟aspetto culturale. Bisogna fare attenzione su questo punto per non rischiare di leggere il libro di Celati come se si trattasse di una narrazione introspettiva. Rebecca West, in Gianni Celati: The Craft of Everyday Storytelling, asserisce che Avventure in Africa non è semplicemente il racconto della propria visione dell‟Africa da parte dello scrittore, né è un percorso teso ad indicare come la 144 scoperta di quella realtà lo abbia cambiato (249).54 Nel testo manca quell‟approccio egocentrico ed europocentrico, che ha caratterizzato invece tanta narrativa di viaggio ed in cui l‟altrove è solo uno spazio in cui proiettare le vicende di un percorso personale. Avventure in Africa, racconta piuttosto di come, nonostante nella contemporaneità tutto si assomigli, sia ancora possibile trovare nell‟altrove la diversità e stabilire con essa una relazione significativa. Nel caso di Celati, è proprio il fastidio per questa superficiale somiglianza a scatenare la volontà di capire che cosa si possa imparare da un viaggio come quello che sta compiendo. Fin qui si sono visti gli elementi esterni al soggetto che ostacolano l‟incontro con una cultura diversa; si è ritenuto importante segnalarli perché essi sono costitutivi di una situazione dalla quale Celati non potrà prescindere, ma che anzi dovrà superare per poter stabilire un contatto con gli indigeni. Nel contesto generale di questo studio, inoltre, le circostanze in cui si svolge il viaggio vanno sottolineate perché costituiscono una importante novità rispetto alle esperienze narrate dagli scrittori visti in precedenza, per i quali la differenza culturale era ancora oggettivamente evidente. 5. Percorsi di avvicinamento Che gli incontri fatti non siano interpretabili solo in chiave antagonistica, d‟altra parte, è reso manifesto fin dalle prime pagine, in cui l‟autore dedica il libro: “agli amici che vogliono sapere dove siamo stati, e a quelli che abbiamo incontrato” (5). È interessante che Celati definisca “amici” le persone che ha incontrato durante il viaggio, utilizzando un sostantivo comune, ma solo apparentemente facile. È infatti piuttosto complesso darne una definizione; si considerano amici, in genere, persone che si sentono particolarmente vicine perché si hanno in comune valori, esperienze, o più in generale una determinata sensibilità. Le ragioni che portano a considerare una persona come amica, però sono sempre molto soggettive e difficilmente definibili. Un elemento 54 Silvana Tamiozzo Goldmann, nella premessa ad un'intervista fatta allo scrittore nel 2000, contenuta in Leggiadre donne: Novella e racconto breve in Italia, ribadisce questo importante aspetto della scrittura di Celati affermando che “Ha sempre negato la validità del rispecchiamento compiaciuto.” 145 ineliminabile nel sentimento dell‟amicizia, però, è la condivisione, di opinioni, di situazioni, ecc. Condivisione, è proprio la chiave di lettura del rapporto che Celati instaura con l‟altro in Africa. Il desiderio di essere partecipe, o di rendere partecipi, è infatti la modalità secondo cui si sviluppa la relazione con alcune delle persone incontrate in Africa; relazione che, seppur breve, è sentita come significativa. Si comprende quindi perché lo scrittore abbia scelto il termine “amici” anche per indicare coloro che ha conosciuto durante il viaggio. Se, come si è fatto in precedenza, la relazione con l‟altro viene esaminata nei termini in cui è stata teorizzata da Emmanuel Lévinas, la volontà di condividere diventa importante anche ad un altro livello, perché è un momento di avvicinamento all‟altro. L‟importanza del discorso di Lévinas consiste proprio nel concepire la „relazione etica,‟ ovvero il rapporto con il diverso da sé, come il momento stesso in cui si definiscono i criteri della relazione con l‟altro. Anziché fornire conferme, l‟incontro/scontro porta ad una messa in discussione dei parametri entro i quali ci si deve muovere nel relazionarsi all‟altro. Ciò significa che i termini della relazione si elaborano solo nel momento dell‟incontro/scontro, attraverso una dinamica in cui si deduce quale sia il rapporto che si può mettere in atto. Quest‟ultimo, quindi, non si sviluppa sulla base di principi pre-esistenti, ma è il frutto dell‟incontro. Nell‟alterità il filosofo francese non identifica solo il diverso da sé, ma l‟assolutamente altro, che viene indicato anche con la grafia Altro. Senza voler in questa sede proporre una dettagliata esegesi di Lévinas, vale però la pena riprendere brevemente quanto affermato da Davis, che in Lévinas: An Introduction, fornisce alcuni importanti chiarimenti. Ciò che Lévinas definisce Altro, è derivato dal concetto di “infinito” espresso nelle meditazioni di Descartes. L‟idea dell‟infinito cartesiano contiene la possibilità della relazione con qualche cosa che manterrà sempre la propria esteriorità rispetto all‟essere umano, il quale, in quanto essere finito, lo può solo intuire. Allo stesso modo l‟Altro di Lévinas rimane sempre esterno al soggetto, in una distanza che il filosofo ha definito irriducibile. La difficoltà nel descriverla è dovuta all‟impossibilità di ridurre tale distanza in quanto ciò comporterebbe 146 un‟eliminazione o una riduzione dell‟altro al Sé. L‟Altro è trascendente la fisicità, non identificabile in ciò che circonda il Sé, né semplicemente opponibile ad esso. Riassumendo brevemente, quella delineata dal filosofo è un‟alterità sentita in modo viscerale, per la quale, pur nella consapevolezza della separazione, resta il desiderio metafisico.55 È all‟interno di questa dinamica che si inserisce anche la relazione con l‟altro, inteso come il diverso da sé. Come postulato in Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità (29), il desiderio si manifesta anche attraverso la tensione all‟avvicinamento; la distanza assoluta separante il Sé e l‟Altro, infatti, dà vita ad una relazione che si sviluppa anche come accostamento reciproco all‟interno di una distanza che resta comunque incolmabile. In Entre nous: Essai sur le penser-à-l’autre egli enfaticamente afferma: “La totalité, dans la mesure où elle implique multiplicité, ne s‟institue pas entre raisons, mais entre êtres substantiels, susceptibles d‟entretenir des rapports” (56). Si ribadisce la necessità di un approccio fenomenologico, sono gli esseri umani che definiscono la molteplicità e i rapporti che possono scaturire all‟interno di essa. La diversità rispetto alla cultura africana, per Celati, non è più una scoperta da fare, in parte per il processo di occidentalizzazione dell‟Africa, in parte perché antropologi ed etnografi hanno descritto dettagliatamente quelle popolazioni. Ciononostante anche Celati, come Moravia, percepisce una lontananza, difficile da indicare e che lui stesso non definisce perché, nel suo caso, non c‟è un elemento preciso ad individuarla.56 La distanza che Celati avverte fra sé e le persone del luogo non è resa manifesta da particolari segni esteriori, abitudini inconsuete o particolari atteggiamenti. Si tratta piuttosto di una sensazione, rafforzata, ma solo in alcuni casi, da comportamenti che gli risultano indecifrabili, e che anche se è percepita in modo altalenante, non è mai strutturata in base all‟opposizione qui/lì ovvero Africa/occidente. È una lontananza che sente in modo incostante e con qualche contraddizione perché in alcuni momenti sembra 55 Davis non paragona direttamente la cartesiana intuizione dell'infinito, al desiderio metafisico di cui parla Lévinas; tuttavia, visto gli elementi in comune fra questi due concetti, in questa sede si vuole suggerire una loro possibile vicinanza. La questione meriterebbe, comunque, uno studio a sé. 56 Diversa è invece la condizione di Moravia che in „L'abisso dei secoli‟ prende spunto proprio dall'abbigliamento e dalle decorazioni del corpo per rendere la vastità della lontananza. 147 non capire nulla, mentre in altri le situazioni gli sembrano fin troppo note. Perciò se lungo tutto il testo si trovano considerazioni quali: “ho smesso di capire che cosa stava succedendo” (9), “mi sono rassegnato a non capire molto di questi posti” (86), “ho visto poco e ho capito ancora meno” (149), non va dimenticato che esse sono intervallate da affermazioni di una comprensione che sembra essere addirittura globale: “Più resto qui e più mi sembra di vedere dappertutto ruoli che conosco, comportamenti che mi ricordano qualcosa. È come se tutti i segreti degli uomini fossero esposti là fuori, nel funzionamento generale alla luce del giorno, nelle recite che ognuno deve fare per essere quello che è” (70). Se, come in quest‟ultimo caso, l‟altrove e l‟alterità forniscono lo spunto per una considerazione dal sapore filosofico sulla condizione umana, lo si deve in parte al fatto che la realtà africana è costituita anche da elementi che sono decifrabili e dai quali ci si sente coinvolti. Senza necessariamente leggere le situazioni secondo gli schemi culturali che gli sono propri, Celati riconosce una comunanza di fondo. La distanza che egli percepisce è caratterizzata proprio da questo andirivieni fra incomprensione e chiarezza, nell‟intuizione dell‟assoluta diversità che si alterna alle riflessioni sulle affinità della condizione umana. In altre parole, l‟alterità degli africani non è ascrivibile semplicemente alla sfera della diversità culturale, e di conseguenza non può essere semplicisticamente risolta tramite il riconoscimento di modi e situazioni comuni fra gli uomini, o, per contro, attraverso l‟apprendimento degli elementi che li rendono diversi. La percezione di questa lontananza fa sviluppare, come accade nel caso di Celati, l‟interesse e la volontà di ridurre la distanza. Una delle modalità con cui l‟avvicinamento si realizza, è la condivisione fisica di momenti che appartengono alla vita dell‟altro. Il corpo diviene perciò centrale nel relazionarsi all‟altro. In Avventure in Africa, è proprio questo il mezzo che consente allo scrittore di avvicinarsi maggiormente all‟altro africano. L‟incontro con l‟alterità è vissuto, e di conseguenza descritto, ad un livello che in passato era scarsamente preso in considerazione perché veniva messa in risalto in primo luogo la sua dimensione culturale. Il testo di Celati presenta perciò un importante cambiamento nella concezione stessa dell‟incontro, perché quest‟ultimo è in primo luogo 148 un‟esperienza reale, fisica, che in quanto tale arricchisce l‟ambito emozionale. La condivisione va dunque intesa come percorso di avvicinamento e non strumento di appropriazione culturale che, vale la pena sottolinearlo, nel caso specifico sarebbe reciproca. Il corpo assume in questo contesto una dimensione centrale. Esso è il luogo dell‟esperienza. La dimensione fisica non va considerata in contrapposizione ad una concezione razionale della conoscenza, ma piuttosto come all‟origine di essa. L‟incontro è un momento cognitivamente significativo, perché è esperito fisicamente. Maurice Merlau-Ponty dedica a questo principio il suo Phénoménologie de la perception. Il fenomenologo francese considera la conoscenza come tale proprio perché nata dal corpo, definita da esso. La percezione fisica è l‟esperienza essenziale da cui nasce la conoscenza: La perception n‟est pas une science du monde, ce n‟est pas même un acte, une prise de position déliberée, elle est le fond sur le quel tous les actes se détachent et elle est présupposée par eux. Le monde n‟est pas un objet dont je possède par-devers moi la loi de constitution, il est le milieu naturel et le champ de toutes mes pensées et de toutes mes perceptions explicites. […] l‟homme est au monde, c‟est dans le monde qu‟il se connaît. (v) È perciò attraverso il proprio muoversi nel mondo che il soggetto acquisisce consapevolezza; ed è proprio perché esso è fisicamente attivo (nel mondo) che l‟incontro è possibile. La relazione con l‟altro non è basata sulla lotta, come nella filosofia di Sartre, ma sulla concreta partecipazione al mondo. Da quest‟ultima scaturisce una condivisione, un‟implicazione con e verso l‟altro che è il punto di partenza e non quello di arrivo nel rapporto. Quest‟ultimo è essenzialmente ambiguo, l‟esito non può mai essere individuato a priori, perché l‟esperienza concreta è il solo mezzo che può determinarne il significato. Si è detto nel secondo capitolo che per Moravia era sufficiente prendere atto fisicamente della presenza dell‟altro in quanto gli confermava la possibilità dell‟alterità. Lo scrittore non voleva ridurre quella distanza per non intaccare la diversità, per non corromperla con un contatto che per quanto ben intenzionato sarebbe comunque 149 risultato invasivo. La consapevolezza dello scrittore dei rapporti di potere fra Africa ed occidente costituisce in definitiva un ostacolo alla relazione stessa. Il corpo è il luogo dell‟incontro, il luogo in cui l‟altro si manifesta, ma con Moravia tende a rimanere pura apparizione, senza cercare ulteriori sviluppi. Il corpo è un luogo cognitivo, ma una conoscenza introiettata e vissuta come momento personale e non di condivisione. Gianni Celati riesce invece ad aprirsi ad una dinamica di scambio. La presa di coscienza fisica non è più un punto d‟arrivo, ma il momento in cui si cominciano ad elaborare i criteri su cui si fonderà il rapporto con l‟altro. Anche in Celati, l‟esperienza fisica dell‟Africa e dell‟altro africano fanno sorgere la consapevolezza della distanza che lo separa da essi. L‟altalenante sensazione di comprendere tutto o nulla, si muta nella volontà di avvicinarsi per capire meglio. Uno scambio, non troppo riuscito dal punto di vista comunicativo, con una signora nera a proposito di fotografie e scrittura, ne fornisce un autoironico esempio: In momenti del genere uno intravede cosa avrebbe potuto essere, quali belle figure avrebbe potuto fare nella vita, se non gli fosse toccato d‟essere quello che è. Per un attimo barbaglia un lucore felice, esposto al benevolo sguardo d‟un altro umano, così nascono fantasie ed il viaggio diventa più vario. Poi naturalmente ti accorgi che sei nato da un‟altra parte, la simpatia umana ha i suoi confini, e le parole sono i panni al vento che perdono facilmente il loro colore. (37) Il fatto che la loro comunicazione non abbia avuto esito positivo, perché la signora “non aveva il tempo di ascoltare le mie elucubrazioni da scrittore in vacanza” (37) non gli preclude la possibilità di immaginarsi in un contesto di vita diverso, immaginazione che funziona solo per un attimo in cui la distanza si riduce per poi ritornare, perché in fondo ognuno, scrive Celati, è quello che è, e la lontananza ritorna ad essere irriducibile. I due protagonisti di questo breve episodio, condividono per un attimo uno spazio ideale in cui “il benevolo sguardo di un altro essere umano” fa intuire la possibilità di una comunanza che la quotidianità impedisce. La proiezione di vite possibili ritorna anche 150 successivamente, dove la domanda: “E se mi fermassi ad abitare a Bandiagara?” (68), prelude ad una immaginaria giornata vissuta in quella cittadina. La distanza si riduce anche in questo caso, Bandiagara gli è nota tanto da potersi immaginare immerso nei ritmi e nella vita del luogo; ma anche in questo caso si tratta di un momento limitato nel tempo, di un gioco, ma un “gioco” che conta, un gioco importante ad immaginarsi nell‟altrove. Una maggiore concretezza riesce invece a raggiungerla con Boubacar Ouoleghem, la guida che li deve accompagnare ai villaggi Dogon. Boubacar è una celebrità del luogo, perché “è citato nella guida mondiale Lonely Planet” (71), ma ad attirare la simpatia di Celati sono soprattutto la sua serietà ed il suo modo di camminare. In particolare quest‟ultimo gli suscita una vera e propria ammirazione quasi estetica “quel suo passo come un metronomo, mai un‟accelerazione o un movimento brusco, uno spettacolo che mi prende ancora più del paesaggio” (79). Boubacar, oltre all‟ammirazione, riesce a suscitare anche un profondo senso di simpatia nello scrittore, che instaura con lui uno dei rapporti più interessanti fra quelli vissuti in Africa. Prima che il viaggio finisca Celati gli parla della possibilità di andare in Inghilterra “per portarlo a camminare nei miei posti” (84). In questo caso, il desiderio di condivisione assume un risvolto molto più pratico rispetto alle fantasie o alle intuizioni di cui si è parlato in precedenza. Dopo aver camminato lungo i sentieri sui quali Boubacar si spostava in modo particolarmente agevole “come se li conoscesse a uno a uno” (75), Celati vorrebbe poter fare con lui la stessa cosa in un luogo che gli è familiare. In questo caso il desiderio di condivisione non si attua attraverso il meccanismo della proiezione di sé in un altrove o in una possibilità di vita con altre persone, ma, al contrario, attraverso il desiderio di condividere ciò che è proprio. È da notare che, anche in questo caso, la compartecipazione non riguarda tanto l‟ambito culturale, ma quello esperienziale. A questo desiderio va attribuito un valore profondo, non è circoscritto allo scambio di informazioni, ma mira a divenire parte attiva della vita dell‟altro grazie ad una conoscenza reciproca che si sviluppa in primo luogo attraverso un‟esperienza fisica, sensibile. Il desiderio di condivisione è un motivo del rapporto con l‟altro che in precedenza non si era mai incontrato. 151 L‟interesse di Gaetano Casati per gli africani, anche in conseguenza del periodo storico, si esprimeva più sul piano culturale o della civiltà, che in relazione all‟esperienza. Alberto Moravia, pur essendo fortemente attratto dall‟alterità, evitava volutamente le relazioni troppo contigue con le persone del luogo per timore di risultare culturalmente invasivo. Per Celati, invece, tali relazioni non rappresentano un pericolo per chi vi è coinvolto, ma, al contrario, un‟opportunità. Vale la pena ribadire quindi che, nel caso di Celati, non si tratta di una condivisione culturale, quasi fosse una sorta di scambio improntato all‟acquisizione di informazioni su una civiltà diversa, ma di una vera e propria partecipazione attiva. Ancora una volta si supera la posizione sartriana di oggettificazione reciproca fra soggetti. Il corpo vive ed è partecipe della relazione con l‟altro, non la subisce, piuttosto contribuisce crearla. Grazie a questa interazione, quasi una positiva complicità con l‟altro vissuta sul proprio corpo, il soggetto si apre alle diverse possibilità che da questa relazione possono scaturire. Il rapporto con l‟altro resta essenzialmente un momento ambiguo, esso può rivelarsi positivo o negativo. A prescindere dalla conclusione, il soggetto è pronto a mettersi fisicamente in gioco, ad aprirsi all‟esperienza. L‟incontro più proficuo in questo senso è quello con Sarr Batouly, donna africana conosciuta nel treno che li portava da Bamako a Dakar. Sarr Batouly incuriosisce Celati il quale, a sua volta, suscita l‟interesse della donna per il fatto di essere uno scrittore. L‟incontro con Batouly è un po‟ atipico perché quando si conoscono, anche lei è in viaggio per tornare a Dakar, la città in cui normalmente vive. La transitoria condizione di viaggiatori, li accomuna in qualche modo e Batouly parla volentieri con i due europei, arrivando anche ad affermare che con loro “si sente in famiglia” (117). La donna si interessa in modo molto attivo alle disavventure riguardanti i loro passaporti, e Celati riconosce: “ci ha preso sotto la sua protezione fin dal treno, bisogna ascoltarla” (132). La ragazza diventa un punto di riferimento al quale i due viaggiatori, Celati in particolare, si affidano volentieri. Diversamente da quanto era accaduto fino a quel momento, una persona del luogo cerca di aiutarli a risolvere un problema senza averne un ritorno economico. 152 Qualche tempo dopo i tre si rivedono a Dakar, ma in questa occasione la donna sembra loro molto diversa “Ma sul treno eravamo così amici! Certo, ma là nessuno di noi era sul proprio territorio, qui tutto cambia” (129). La sensazione di non poter comunicare con una persona del luogo, se non in condizioni eccezionali verrà smentita poco dopo, perché si recheranno in visita a casa di Batouly. La curiosità, e la voglia di capirsi un po‟ di più è probabilmente all‟origine dell‟invito, arrivato dopo una serata poco riuscita: “Non so perché era così cupa al Fouquest, forse perché noi stavamo lì a ciondolare con i nostri pensieri, Jean cercando spiegazioni culturali, io con la testa da un‟altra parte. Forse lei non si raccapezza: che tipi siamo? Qui c‟è da imparare…” (131). Il rapporto altalenate con Batouly, rispecchia in fondo le difficoltà di comprensione che possono sorgere nel relazionarsi con culture diverse, e dimostra come l‟avvicinamento all‟altro non sia mai facile o immediato. L‟invito della donna consente loro di avvicinarsi alla realtà africana con modalità diverse da quelle turistiche, introducendoli nella dimensione familiare della vita della donna. Celati e Talon hanno quindi, per la prima volta, la possibilità di stabilire con i locali, un contatto che esuli dal loro ruolo di turisti bianchi. La visita alla casa di Batouly non rientra, ovviamente, in un itinerario, e i due viaggiatori la vivono come un‟esperienza sospesa fra la normale visita ad un conoscente e un‟eccezionale occasione per vedere un‟Africa meno turistica e perciò più reale, ma anche più lontana da quanto hanno visto fino a quel momento. La sensazione di entrare in un mondo sconosciuto, è rafforzata dalle difficoltà logistiche: “La casa di Batouly si trova in un dedalo di stradine senza nome, nel quartiere Sicap, oltre la Medina, inaccessibile senza guida” (134). L‟arrivo dei due viaggiatori, come forse accade in tutte le piccole comunità, attira l‟attenzione del vicinato, e poco dopo i due europei sono già meta di visita da parte dei vicini. Ma il via vai di gente fa parte dell‟inserimento nella vita del cortile nel quartiere Sicap, è quasi un rituale che permette loro di vivere e quindi condividere, anche se per un tempo limitato, la quotidianità di Batouly. In quell‟occasione la ragazza sancisce una volta per tutte la loro amicizia: “Batouly ci ha mostrato le fotografie – segno di accoglimento in famiglia” (138). 153 Nonostante questo, un ingiustificato scatto d‟ira da parte della ragazza fa dire a Celati: “Davanti a simili casi il turista europeo si smarrisce, come in stato d‟assedio dietro il suo vetro protettivo” (138). Nonostante tutto, la distanza da colmare rimane ancora molta, e le incomprensioni riportano il turista nel suo usuale stato di “assedio,” ma questo non impedisce che vi sia comunque fra loro una relazione sorta grazie al reciproco interesse. Quello con Batouly è certamente il legame più profondo fra quelli stabiliti in Africa, benché come si è visto, non sia stato semplice gestirlo, né per i due viaggiatori, né, si può immaginare, per la ragazza. 6. La cultura mussulmana Prima di concludere il discorso relativo all‟alterità, vale la pena soffermarsi sugli accenni fatti anche da Celati sulla cultura mussulmana. Attraverso i due autori trattati precedentemente, si era visto come, pur all‟interno di un generale interesse per l‟Africa e per le sue forme di civiltà, la cultura mussulmana fosse considerata come lontana, oscura, e, nel caso di Casati, addirittura ostile e pericolosa. Per quest‟ultimo chi era di religione mussulmana era, di fatto, un nemico. Anche Moravia, ovviamente con toni meno faziosi, segnala la difficoltà di comprendere la cultura islamica. Celati su questo punto non fa eccezione, ma sono necessarie delle precisazioni. Egli non pone molta attenzione alle questioni religiose, come dimostra il fatto che non senta il bisogno di segnalarle. Nel suo caso le differenze di fede non rappresentano certamente un problema nel rapporto che egli instaura con alcuni di coloro che incontra. È probabile, infatti, che alcune delle persone da lui frequentate siano state di religione mussulmana, ma questo non ha rappresentato un ostacolo. Tuttavia, in Avventure in Africa, ci sono alcuni veloci accenni alla presenza della fede mussulmana, in due episodi molto simili. Nel primo caso, egli è costretto a sentire un personaggio religioso: Un altoparlante dalla vicina moschea ha trasmesso la voce d‟un personaggio religioso, che non so chi fosse. Una voce furibonda, rancorosa, sapeva di Guerra Santa, di richiami ad un Corano della 154 Vendetta, spandendosi nell‟aria per quattro ore. Non si riusciva neanche a parlare, per quegli urli stizzosi in nome di Allah che arrivavano dentro le orecchie. (106) Ibrahima, la guida che in quel momento li accompagna, gli spiega che l‟uomo parla di quello che è bene e quello che è male; Celati commenta: “In Europa non c‟è bisogno di tutto questo baccano sul Bene e sul Male: da noi quella minaccia ti arriva addosso silenziosamente, quando cominci a sentir la solitudine, con l‟assenza di risposte fuori dal generale consenso” (106). Benché il tono sia polemico, non si vuole in questa sede discutere se sia peggiore l‟adeguamento morale dovuto al bisogno di appartenenza e riconoscimento, a dispetto anche delle proprie personali convinzioni, o l‟adeguamento a ciò che viene imposto da un capo religioso. Colpisce di più, invece, anche alla luce del fatto che verrà ribadito in seguito, che Celati sottolinei la rabbia con cui il discorso viene pronunciato. Poco tempo dopo lo scrittore si troverà a vivere una situazione simile ma in questo caso non avrà bisogno di Ibrahima a fargli da traduttore. Alla radio stanno trasmettendo: “l‟intervista a un uomo anziano con la voce rabbiosa, un capo religioso furibondo” (142) il cui discorso sembra a favore della monogamia: “ma lo dice con tanta rabbia che sembra gli dispiaccia” (142). Negli unici due casi in cui la religione mussulmana è chiamata direttamente in causa, essa viene associata alla rabbia. Come già chiarito, non si tratta di una intolleranza generalizzata nei confronti della religione islamica; in questo caso a rappresentare un disturbo sono specificatamente le modalità della predicazione, i cui toni comunicano collera più che sentimenti religiosi. Questi due brevi accenni riportano alla distanza percepita anche da Casati e Moravia rispetto all‟islam. Ancora una vota per gli europei il mussulmano è l‟altro, non ostile o nemico in questo caso, ma, come per Moravia, rappresentante di una cultura che riesce ancora, per alcuni tratti, incomprensibile. Il codice culturale utilizzato nella predicazione, infatti, indipendentemente da quale fosse il contenuto del discorso, non viene riconosciuto dallo scrittore, al quale resta solo l‟impressione di aver sentito parole piene di rabbia. 155 7. Ma quale altro? All‟interno della trattazione della problematica dell‟alterità, merita un discorso a sé la figura del turista in Africa. Nel paragrafo in cui si operava la distinzione fra turisti e viaggiatori, si è detto di quanto Celati, anche in altre occasioni, abbia dimostrato un notevole interesse per il fenomeno del turismo. Avventure in Africa non fa eccezione; trattandosi di un viaggio, inoltre, la tematica è amplificata tanto da divenire uno dei più importanti temi del romanzo. Rappresentare i turisti è interessante per diversi motivi. In primo luogo si descrive un momento eccezionale, perché se da un lato essere turista è fatto normale, o comunque diffuso, dall‟altro è un‟esperienza che pone l‟individuo in una situazione al di fuori delle normali strutture di vita quotidiana. In secondo luogo, in Avventure in Africa, il turismo diventa simbolico di alcuni particolari tic, o manie, della cultura occidentale. Infine il turismo è anche una blanda forma di colonizzazione, aspetto quest‟ultimo, che Celati ha individuato fin da subito: “Che qui non esista più un regime coloniale forse è solo un‟astrazione come tante altre” (19), ed ha evidenziato tutto lungo il testo: “Come in tutte le situazioni coloniali, si vive nel ghetto dei bianchi” (149). La principale motivazione del viaggio di Celati e Talon non è propriamente turistica in quanto i due vanno in Mali, Mauritania e Senegal per fare dei sopraluoghi per un documentario. Questo, però, offre loro anche l‟occasione di fare una vacanza. La condizione di turista non è vissuta bene dai protagonisti che fin dai primi giorni non esitano a definirsi dei “pingoni,” ovvero turisti bianchi e quindi persone che, come già ampiamente visto, è lecito sfruttare economicamente. Nel momento in cui scoprono di essere due pingoni, Celati e Talon scoprono anche “che la regola dei pingoni è far finta di non vedersi quando si incrociano per strada, precisamente come fanno i clienti nell‟hôtel de l‟Amitié” (11). L‟auto-isolamento volontario che ogni gruppo di turisti si impone, frena le relazioni fra bianchi che, paradossalmente, pur trovandosi nella stessa condizione rifiutano di riconoscerlo e, in parte, di riconoscersi per ciò che sono: Guardo per strada i turisti come me: hanno una divisa comune, con la borsetta porta-documenti in cintura […]. Ma soprattutto in comune 156 hanno questo che evitano di guardarsi l‟un con l‟altro, quasi si vergognassero di riconoscersi. Ognuno di noi si muove in due metri cubi di vuoto spinto, fuori dalla sostanza dei commerci quotidiani, destinato a guardare tutto come da dietro un vetro. Ognuno è tra i muri della sua privacy che si è portato dietro da casa, ha raggiunto il suo fine, ma forse ha già perso per strada il resto. (22) In questo paragrafo più che altrove Celati riesce a rendere l‟idea dell‟aridità che può caratterizzare il turista, che si chiude quasi sottovuoto. La metafora del vetro, è particolarmente bella perché trasmette molto chiaramente l‟idea del turista che pur essendo fisicamente presente, è lontano e quasi intoccabile. Il vetro dietro cui si schierano i bianchi in Africa, ha infatti la funzione di non lasciar passare nulla – eccetto la luce, le immagini – né in una direzione né nell‟altra, per cui la vacanza si trasforma in un semplice dislocamento fisico. Questo punto ricorda la distinzione operata da Moravia fra spostarsi e viaggiare. I turisti dietro ai vetri si sono semplicemente spostati, portandosi dietro addirittura la loro privacy, ma soprattutto non aprendosi al nuovo che si può incontrare in viaggio. Pur riconoscendolo e criticandolo, Celati, forse involontariamente, mette in atto lo stesso comportamento, evitando i bianchi ed ironizzando sulla condizione dei pingoni. L‟esperienza personale sembra contraddire in parte quanto Celati aveva scritto nei suoi libri precedenti. Nella novella “Baratto” in particolare il turismo è un importante momento di comunicazione, che nemmeno le incomprensioni linguistiche avevano potuto limitare. Ma vedremo che anche in Africa, Celati ritrova quello che in “Baratto” aveva definito “il popolo dei turisti” (Quattro novelle 27), i cui connotati non sono sempre negativi, e a cui appartengono una svariata moltitudine di individui. A partire dal terzo taccuino lo scrittore comincia ad elencare i “casi esemplari di turismo africano” (72), fra questi, sorprendentemente, inserisce anche gli studiosi, gli psichiatri, i funzionari, insomma, tutti coloro che “arrivano qui prendono su qualche cosa, fanno buoni guadagni e tornano a casa” (72). Fra i casi esemplari rientra anche quello di un medico parigino che dopo aver studiato i metodi di guarigione Dogon, è tornato a Parigi, dove li ha applicati per guarire le 157 malattie mentali, e ne ha avuto un tale successo che ne faranno anche un film: “roba da vergognarsi per l‟eternità” (72), commenta Celati. Come si può notare, l‟elenco dei casi esemplari è inizialmente caratterizzato da un certo cinismo da parte dello scrittore, che sottolinea come per i bianchi l‟Africa sia ancora un luogo da sfruttare in qualche modo. I suoi continui riferimenti alla condizione dei turisti come ad una situazione coloniale, rafforzano la sensazione che il tipo di sfruttamento in atto da parte dei bianchi, oggi abbia assunto modalità diverse, ma non sia affatto venuto meno. Lungo il testo, però, questo atteggiamento si ammorbidisce, ed il suo sguardo verso i turisti sarà meno mordace, ma resterà sempre molto ironico. Non a caso, nonostante parli di “casi esemplari di turismo africano,” quello che Celati compila è un vero e proprio elenco non delle tipologie di turismo, ma di turisti, come se si trattasse di veri e propri tipi umani. Non sorprende, che Celati scelga un taglio di questo tipo per raccontare i turisti, dato che fin dalle prime pagine aveva presentato la vacanza come una rappresentazione a cui si prende parte ed in cui ognuno ha un ruolo da interpretare. Fra i tipi di turista che incontra ci sono “quattro canadesi cercatori d‟oro” (99). In effetti lavorano per conto per una ditta canadese che sovvenziona lo sfruttamento delle miniere del Mali. I quattro canadesi li invitano a bere, “primi bianchi in questo albergo che non sfuggono altri bianchi, bisogna aggiungere” (99). La conversazione non funziona, e quasi subito Celati e Talon si allontanano. Non vanno meglio le cose con una coppia di italiani che ispirano un altro caso esemplare “minimo, ma quasi toccante” (101). I due non guardano e non parlano a nessuno, occupati a programmare il pomeriggio. Poco dopo, Celati annota: Adesso non fanno niente e prendono il sole non lontano da me, sui bordi della piscina. […] L‟unica cosa da dire è venuta in mente al marito, poco fa, ed è questa: “Sai che Bucci è andato in vacanza con la ditta, per merito delle vendite?” La moglie non ha risposto il marito ha guardato da un‟altra parte, depresso, sospirando. (101) Si riconosce, nella triste scenetta raccontata dallo scrittore, l‟atteggiamento che Moravia aveva riassunto nell‟espressione “portarsi dietro il rapporto psicologico della vita quotidiana” (Vita 212). Il vetro, metafora dell‟incomunicabilità, non 158 lascia infatti filtrare nulla, ed il viaggio è solo un momento di una normale quotidianità vissuta, però, in un esotico altrove. Molto più originale è il caso esemplare incontrato poco dopo: un francese di Bordeaux, che ha fatto amicizia con Talon e che si muove come un turista d‟altri tempi: “questo è del genere più avventuroso all‟antica” (113). Il francese si mescola volentieri ai senegalesi, “poco fa mangiava con gli altri dallo stesso piatto, rideva e si leccava le dita di gusto” (113), ma frequenta anche i due europei. Fra quelli enumerati questo è il caso di turismo più interessante perché il francese è uno dei pochi a non ingabbiarsi dietro il vetro; ed in questo si riconosce l‟atteggiamento mentale del viaggiatore più che del turista. Infine, fra i casi esemplari, Celati inserisce anche se stesso e Talon: “Ritorno a Bandiagara nel primo pomeriggio, da iscrivere nell‟album dei casi esemplari di turismo africano” (91). Si sono voluti citare alcuni dei casi esemplari, perché fra gli incontri africani, questi rivestono un ruolo particolare, anche per l‟attenzione che l‟autore dedica loro, arrivando a dichiarare di essere più interessato ai turisti che al paesaggio. Il turista non rappresenta una figura completamente nuova in questo studio, già Moravia lamentava la presenza del turismo di massa in Africa. Con Celati tuttavia il fenomeno assume dimensioni molto più estese e il turista diviene una figura rilevante nella relazione con il diverso da sé. In primo luogo si è visto che gli africani incanalano Celati stesso nella tipologia del turista, senza lasciargli, almeno inizialmente, la possibilità di essere un viaggiatore. Gli africani sono molto ben disposti a relazionarsi con i turisti; i presupposti e i limiti di questo rapporto, tuttavia, sono già stati ampiamente descritti. La figura del turista diventa un ostacolo per coloro che cercano un‟esperienza che vada al di là della mera vacanza perché frappone, fra il viaggiatore e l‟altro, una soggettività che suo malgrado influenza l‟incontro/scontro fra l‟altro ed il viaggiatore. Il ruolo del turista è determinante perché sono gli africani stessi, che in questo caso rappresentano l‟altro, ad assumerlo come rappresentativo dell‟occidente, figura inclusiva e omologante di tutti coloro che si recano in Africa. Celati viaggiatore coglie gli aspetti contraddittori e anche conflittuali di questa tipologia, li percepisce come uomini e donne che si muovono in una specie di limbo, isolati 159 rispetto all‟esterno, soprattutto rispetto agli altri turisti bianchi, ma anche rispetto all‟Africa, dimostrando una sostanziale indifferenza nei confronti all‟alterità. Essi diventano un vero e proprio spettacolo. Mentre sta andando a vedere i villaggi Dogon, infatti, scrive: “Più che dalla marcia attraverso i villaggi, io sono incuriosito dai turisti belgi” (71). Per lo scrittore, il turista diventa a sua volta attrazione turistica, un fenomeno sociale che può essere guardato come fosse uno spettacolo a sé. Se mi si passa l‟espressione, quello di Celati è un meta-turismo, perché fa del turismo stesso la sua destinazione.57 Eric Leed in The Mind of the Traveler afferma che proprio perché il viaggio è un momento in cui ci si estrania rispetto alla normalità: “Travel is a primary source of the new in history. The displacement of the journey creates exotica (“matter out of place”) and rarities as well as generating that peculiar species of social being of unknown identities – the stranger” (15). Leed si richiama alla funzione cognitiva soprattutto in prospettiva storica, guardando ad esso come ad un momento più vasto, che agisce sulle strutture culturali degli individui. Benché lo studioso non riferisca la sua analisi distintamente al turismo, all‟interno di questo studio, è comunque interessante notare che anche una normale vacanza può agire sulle strutture comportamentali. In genere, il viaggio viene visto come momento positivo e la trasformazione costituisce un‟evoluzione; nel testo di Celati, però, i termini di questo cambiamento sono diversi. Anche nei turisti di Avventure in Africa, vi è una trasformazione rispetto alle abituali modalità di comportamento, ma essa va in una direzione di isolamento e chiusura piuttosto che di sviluppo del dialogo. La trasformazione di cui parla Leed, quindi, nel caso dei turisti di Celati, è presente, almeno ad un primo livello, come elemento negativo. I bianchi, infatti, si trovano in una condizione atipica, essendo tutti accomunati dal fatto di essere lontani dal proprio paese e dai propri luoghi abituali. Questa situazione, che in altre circostanze diventerebbe motivo di aggregazione, nel momento turistico dà esito contrario; il riconoscere di far parte della stessa temporanea comunità, basta a far sì che i turisti si evitino 57 Celati ricalca qui le orme del suo personaggio Baratto, per il quale, come visto in precedenza, i turisti sono uno spettacolo addirittura itinerante. 160 volutamente. Viene ad essere messo in luce, in questo modo, un aspetto paradossale dell‟essere un turista, perché se dà la possibilità di avvicinare il diverso da sé, allontana al contempo da chi è sentito come culturalmente noto. Dalla prospettiva con cui Celati guarda al suo viaggio, a divenire altro, per un tempo limitato, è proprio chiunque stia vivendo l‟esperienza del turista che allontana, e si allontana, da coloro che condividono la stessa condizione, rendendo più semplice avvicinare un africano piuttosto che un bianco in vacanza. Celati non è completamente esente dal vivere in prima persona questa contraddizione e solo verso la fine del viaggio riesce a trovare una soluzione, appoggiandosi proprio sul carattere eccezionale del momento turistico: “I due francesi, marito e moglie, vengono da un paese vicino a Sète, viaggiano come noi con mezzi indigeni e senza meta. Parlo con loro volentieri. Le mie prevenzioni contro gli altri turisti si sono smontate, da quando penso che ogni turista va nei posti dove vanno gli altri un po‟ simili a lui, e solo allora non si sente fuori posto” (159). Che sia accettato o meno, perciò, è indubbio che ormai i vacanzieri formano una comunità a sé, tanto che Celati arriva ironicamente ad auspicare una maggiore attenzione, da parte degli antropologi, nei loro confronti: Leggiamo molto, facciamo lunghe passeggiate e parliamo della filosofia di Spinoza. Io sono riuscito ad applicarla anche alla questione dei turisti, mentre camminavamo nella savana e abbiamo visto dei babbuini. A Jean è venuta l‟idea di fare un documentario sulla vita dei turisti. Rimuginiamo sul fatto che ormai gli antropologi non hanno più molto da fare con la popolazioni primitive, ridotte a sbandati straccioni o comparse esotiche. Qualche rara equipe insegue gli ultimi gruppi nelle foreste dell‟Amazzonia, ma se li trovano ancora nudi con arco e frecce, subito li contagiano col raffreddore o l‟influenza malattie per loro letali. Dunque perché non farla finita e scegliersi un oggetto di studio meno deperibile, come appunto sono i turisti? I turisti sono sani, parlano quasi tutti l‟inglese, sono un popolo in crescita vertiginosa. Inoltre hanno già elaborato un proprio sistema di credenze, una mitologia molto complessa, dei propri modi di vestire, mangiare, 161 viaggiare. La cosa più importante, dice Jean, è che sono ormai un vero popolo. Ed ecco improvvisamente un amore fraterno per tutti i turisti, perché forse è l‟unico popolo a cui si può appartenere ormai, in quanto viaggiatori o sbandati perpetui. (162-63) L‟ironia di Celati serve anche a mettere in evidenza come noto ed ignoto siano, in certi casi, strutture da ridefinire. Soprattutto mette in risalto come l‟ignoto sia ormai una categoria difficile da individuare. Una delle domande che guida questa discussione è come il viaggio possa modificare la percezione della realtà da parte del viaggiatore che si relaziona con culture diverse. L‟Africa contemporanea, per come è raccontata da Celati, non permette una facile risposta a questa domanda, perché una delle problematiche che emergono dal suo testo è che la differenza fra Africa ed occidente si assottiglia sempre più. L‟esperienza di Celati, a questo livello, è tutt‟altro che personale. Al contrario Curtis e Pajaczkowska in Getting There: Travel, Time and Narrative affermano che fra i viaggiatori contemporanei, questo è probabilmente il sentimento più diffuso: “Travelers and tourists seek places of „unspoilt‟ beauty. Among spoilers of beauty are popularity and progress. The unravaged haunts of beauty offer an experience of time before the vitiating effects of modernity and all the losses of innocence that it entails” (199). Gli effetti di questo stato di cose emergono anche nell‟ambito della relazione con l‟altro culturalmente diverso da sé, che però si presenta sempre meno come tale. La globalizzazione, se da un lato ha reso facili gli spostamenti e le comunicazioni, dall‟altro ha coperto tutto di un velo uniformante, lasciando al viaggiatore, almeno in apparenza, poco di nuovo da vedere ed imparare; e a questo punto è lecito chiedersi se l‟Africa possa ancora presentare aspetti sconosciuti. 7. Africa inconoscibile o troppo conosciuta? Tradizionalmente, nel pensiero occidentale, l‟Africa, ricopre un ruolo piuttosto ben definito. Già con Rousseau i luoghi “incontaminati” sono caricati di valenza positiva, e considerati come posti in cui l‟uomo può vivere in un ideale 162 stato di purezza originaria ormai perduta per sempre nel vecchio continente.58 Nel passato si è più volte guardato all‟Africa in questi termini, cercando in essa ciò che l‟Europa civilizzata non poteva più offrire. Le oggettive condizioni di vita delle popolazioni di quei luoghi, hanno spesso rafforzato tale ideale, suggerendo la concreta possibilità di ritornare ad uno stato di natura, in cui la vita dell‟uomo si svolge all‟interno di parametri dettati esclusivamente dalla natura. L‟esotismo si rifà proprio a questa concezione dell‟altrove, luogo più ideale che reale, che funge da correlativo oggettivo per la proiezione di una vita migliore. Nel Novecento, invece l‟Africa è sulla strada per diventare quello che l‟Europa è già da molto tempo. L‟analisi fin qui prodotta rispetto ad Avventure in Africa, ha dimostrato che una delle maggiori difficoltà che il viaggiatore contemporaneo incontra, è proprio la mancanza di diversità. Durante il viaggio, Celati è costretto a relazionarsi con una realtà che è ovunque sempre più uguale a se stessa. A ben vedere la consapevolezza che l‟Africa non sia più il continente misterioso e sconosciuto oggetto di tanta letteratura di viaggio, è già presente in uno degli inderogabili scrittori sull‟Africa, Joseph Conrad. Proprio quest‟ultimo, che nel 1899, in Heart of Darkness poteva ancora scrivere: “We were cut off from the comprehension of our surroundings. […] We could not understand because we were too far and could not remember, because we were travelling in the night of first ages” (110), solo qualche anno dopo sarà costretto a ritornare sulle proprie posizioni. Come ha notato Chris Bongie in Exotic Memories, una delle problematiche fondamentali in Conrad è quella di una “truly global modernity” (149).59 Nel 1922, nell‟introduzione ad un volume di viaggi di Richard Curle, Conrad in tono disilluso dà voce a questa inquietudine: “on this earth girt about with cables, with an atmosphere made restless by the waves of ether, lighted by that sun of the twentieth century under which there is nothing new left now, and but very little of what may still be called obscure” (88).60 Già nella prima metà del 58 Jean Jacques Rousseau, Discorse on Inequality (Oxford: Oxford UP, 1994). Più precisamente, la discussione di Bongie vuole dimostrare che in realtà fin dai primi testi lo scrittore inglese deve confrontarsi con la mancanza di diversità, e le narrazioni di Conrad derivano da “memorie esotiche” più che da un esotico veramente esperito. 60 La citazione è tratta dal volume Exotic Memories di Chris Bongie. Riporto la citazione indirettamente, in quanto non mi è stato possibile reperire il testo originale. 59 163 XX secolo quindi, la possibilità di un “altrove” ed il conseguente concetto di esotico, sembrano essere messi in discussione. Lo stesso Bongie, inserendosi nel discorso post-coloniale, afferma che nel XX secolo, le descrizioni dell‟altrove in letteratura sono frutto di idealizzate “memorie esotiche,” più che di una reale spinta positiva tendente ad una realtà diversa da quella di appartenenza. La tensione verso quest‟ultima, però, nella contemporaneità è divenuta sterile per la mancanza di quella diversità che costituiva la sua causa scatenante. L‟aggettivo esotico, quindi, è oggi svuotato perché è venuta meno la possibilità di una realtà diversa. La globalizzazione ha portato con sé una progressiva omologazione; se uno degli aspetti positivi è dato dalle diminuite semplificazioni culturali, che nel passato avevano ostacolato l‟avvicinamento alla diversità, dall‟altro tutto sta diventando più facilmente conoscibile perché è tutto già un po‟ conosciuto. Si è visto che questo avviene anche nel caso di Avventure in Africa, dove è difficile stabilire quale sia il significato ultimo dell‟esperienza africana di Celati. Per Casati era stato un momento di scoperta a tutti i livelli: geografica, culturale, personale; per Moravia, turista un po‟ di lusso, era stata la scoperta del preistorico e del diverso, che gli facevano ritrovare il fascino di culture lontanissime dalla sua. Per Celati il viaggio in Africa sembra essere inizialmente privo di possibilità conoscitive, ed “esotico” è solo un sostantivo indicante il simulacro di una differenza. Si è visto in precedenza che uno dei maggiori problemi con cui Celati si deve confrontare, è la progressiva diminuzione della diversità culturale: “Vieni fin qui e vedi che i ragazzi fanno le stesse cose dappertutto, se non possono mettersi in bande tribali e società segrete, stanno in un bar ad ascoltare musica americana a tutto volume” (51-52). Si deve ora aggiungere che, anche laddove la diversità è più palese, essa è talmente nota, che l‟esperienza diretta ne risulta svalutata. Ad esempio, alcuni degli aspetti più straordinari della cultura africana, quelli legati alla magia, non sono più una novità, e parlando con Ibrahima dello spostamento degli spiriti in diversi corpi, Celati annota: “Mi ha confermato tutto il magazzino di chiacchiere sulla magia africana che avevo in testa” (25). Non solo l‟Africa non è più misteriosa, ma si possiede già un repertorio di informazioni alle quali si può attingere. Allo stesso modo, la visita ai villaggi Dogon, non è vissuta 164 come momento di scoperta, ma di conferma. I due viaggiatori sono in cerca di materiale per il documentario, ma a Celati non “piace l‟idea di filmare i guaritori Dogon mentre fanno i loro riti curativi, e anche ammesso che accettino di farsi filmare, sarebbe una folkloristica svendita di segreti magici” (32). Lo stesso atteggiamento lo si era incontrato con Moravia, che considerava le riprese cinematografiche un‟intrusione in un mondo che doveva rimanere lontano. Ma, diversamente da Moravia, il rispetto di Celati nei confronti dei Dogon, non è manifestazione di un più profondo interesse per questa tribù che, al contrario, sarà addirittura deludente per lo scrittore. Celati parte informato, portandosi dietro un famosissimo libro di Marcel Griaule in cui viene spiegata la civiltà Dogon.61 Ad esso Celati farà costantemente riferimento per descrivere il luogo: “ha forma ovale e mi sembra coincida con la descrizione di Griaule, benché Boubacar dica che ormai ben pochi villaggi Dogon sono disposti come un corpo umano, con testa, gambe, braccia, sull‟asse nord-sud [descrizione di Griaule]” (76). Pur trovandosi nel luogo in prima persona, e pur avendo con sé i taccuini, Celati preferisce rifarsi alla descrizione topografica fornita dallo studioso francese. Lo stesso, più o meno, accade quando va a Tombouctou, dove il posto gli pare animato “di fantasmi” (163) perché tutta l‟esperienza è mediata dal testo di René Caillé, Voyage à Tombouctou che Celati legge mentre si trova lì. Questi sono gli esempi più manifesti di quanto i dettagli della lontananza culturale siano forniti in modo talmente ampio e dettagliato che vederli in prima persona risulta quasi inutile, perché si conoscono già i termini con cui la differenza si sviluppa, e l‟esperienza viene svuotata del suo valore cognitivo. Non solo, la conoscenza che precede influenza in questo caso l‟esperienza diretta dei luoghi. La delusione di Celati di fronte ad un luogo che non gli presenta nulla di nuovo raggiunge forse il suo culmine proprio mentre si trova nei villaggi Dogon: “Ma così poco esotico questo posto” (78) (corsivo mio). 61 Marcel Griaule è stato uno degli etnografi più importanti della prima metà del Novecento, ed uno dei maggiori fautori del field work. Benché oggi la metodologia antropologica ed etnografica sia cambiata, i suoi studi sui Dogon sono tuttora considerati come fondamentali. Griaule era stato un punto di riferimento anche per Moravia che, come si è visto nel secondo capitolo, cita più volte il volume Maschere Dogon. Nel caso specifico, Celati non precisa quale libro di Griaule abbia portato con sé, ma è probabile che il testo a cui fa riferimento sia proprio Maschere Dogon, o Le renard pâle, i due volumi ritenuti i suoi due capolavori. 165 Il concetto di esotico, si è detto, presuppone un altrove, condizionato però, dall‟esistenza di una realtà diversa. Altrove, infatti, non è semplicemente un luogo, ma un luogo caratterizzato da una “radically different culture” (Bongie 146). La proiezione verso l‟altrove della possibilità di una vita migliore, non solo non trova conferma nella realtà, ma viene delusa proprio dall‟altrove stesso: “da quando siamo a Bandiagara mi si sono sgonfiate le visioni” (54). Se gli indigeni sono ridotti a “comparse esotiche” (163), anche ciò che poteva essere autoctono viene ora ricostruito secondo parametri che sono in fondo occidentali. L‟architettura del centro di Medicina Tradizionale non è altro che “indiscriminato esotismo africano, calato nella dura realtà del mattone industriale di massa. Insomma una vera e propria USL della savana” (64-65); non stupisce allora che Celati riporti che: “ „Son Centre ça fait un monument touristique, mail la population ne bénéficie pas…‟ Sono scivolati nel borbottamento” (81). La delusione di fronte a luoghi troppo poco esotici, fa prendere coscienza che, anche rispetto all‟altrove, la diversità si sviluppa su di un livello diverso. Benché molto di quello che Celati incontra sembri pervaso dal processo uniformante che riporta tutto all‟occidente, il giorno prima della partenza, mentre si trova in hotel, una scatola di fiammiferi con scritto sopra „un passo in più verso occidente‟ (174) gli provoca la seguente riflessione: Ma gli africani andranno verso l‟occidente? Diventeranno scomposti, pedagogici, romantici, depressivi, maniaci del tutto sotto controllo? Crederanno nella privacy, nelle vacanze, nei progetti, nella testa proiettata nell‟avvenire e mai nel presente dov‟è? Si vergogneranno della deperibilità dei corpi, del vecchiume, degli scarti, del rimediato, dell‟aggiustato? Bandiranno il disordine naturale delle cose, il contatto non legalizzato dei corpi le mescolanze del nuovo e del vecchio, del fresco e del putrido? Meditazione notturna a Dakar… (174-75) Il presumere che il futuro possa portare con sé alcuni degli aspetti meno interessanti della civiltà occidentale, rende plausibile pensare che, attualmente, alcune differenze fra Africa e occidente, siano ancora presenti. Queste osservazioni ci riportano ancora una volta al problema centrale di Avventure in 166 Africa, quello di comprendere a che livello si sviluppi la diversità dato che essa non riguarda più tanto l‟ambito culturale e non si risolve con l‟accumulo di informazioni. La conoscenza che precede l‟esperienza colma solo un aspetto del viaggio, quello più cerebrale; ma anche in questo caso la risposta viene data dall‟esperienza emozionale, dal sentire: “Ronzio nelle orecchie, stanchezza e quieta esaltazione di essere qui” (90). Il viaggiatore Celati, preferisce muoversi senza avere una meta fissa, ed è contento: “di andare in giro a vanvera” (126), per avere la possibilità di sentire più che di capire: “La mia testa funziona a sbalzi, mi fa vedere tutto meraviglioso oppure tutto malefico. […] Situazione da viaggio in posti che disorientano. Si diventa turisti incantati anche senza volerlo” (46). È inevitabile un ritorno all‟intuizione di Moravia sull‟abbandonarsi al viaggio; in epoca contemporanea, questo diventa l‟unico modo per viverlo come esperienza che può ancora essere considerata cognitiva. Abbandonarsi significa muoversi senza avere percorsi troppo definiti, significa spostarsi senza aspettarsi nulla, ma lasciare che il nuovo provenga dall‟esterno, dai luoghi visti e dalle persone conosciute e soprattutto dalle esperienze fatte. Proprio a proposito dei villaggi Dogon, che insieme alla “USL della savana” è forse il luogo che maggiormente ha deluso Celati, emerge un elemento interessante. Benché non abbia imparato nulla, scrive: “Ma ho un‟assurda nostalgia di quei posti, e Jean con me” (99). Non è un caso che la nostalgia sia definita assurda. Quelli visitati non sono i suoi luoghi, e il tempo limitato che vi hanno trascorso sembrerebbe non consentire un sentimento quale, appunto, la nostalgia. Il viaggio non è servito a capire, ma a sperimentare, e ciò che resta nella mente e nel corpo del viaggiatore non sono le informazioni acquisite, ma il luogo stesso, che si è impresso a tal punto, da divenire importante per la sua assenza. I frammenti di queste esperienze vissute riemergono di tanto in tanto: “Mi torna in mente la bellezza dei campi di cipolle che abbiamo visto, verdissimi, […] l‟uomo che mi ha fatto gli auguri, il maialino, le galline, i bambini, la moglie sdentata sorridente, la birra di miglio bevuta con Boubacar” (85). Quella sperimentata da Celati in Africa è una cognizione emozionale che deriva dall‟esperienza fisica del viaggio. Riprendendo ancora una 167 volta quanto affermato da Merleau–Ponty, il corpo è il luogo della conoscenza, muoversi fisicamente nel mondo diventa una modalità attraverso cui sviluppare consapevolezza del sé e di quello che lo circonda. Se si dovesse ricapitolare che cosa egli abbia imparato da questo viaggio, si sarebbe costretti ad usare la risposta che lui stesso fornisce in chiusura di Avventure in Africa, e che ruota attorno ad un paradossale “niente,” che diviene anche il fulcro della sua scoperta: Andiamo in giro per Parigi e vediamo soltanto quest‟altro documentario del nuovo totale, senza più niente di precario, di povero, decaduto, rimediato, tarlato dal vento, scartato dal destino. È il documentario della simulazione globale, senza luogo, senza campo, che ci mostrano a titolo pubblicitario notte e giorno, dietro lo schermo di vetro che abbiamo in dotazione per vivere da queste parti. Ma poi si sa che quando uno è lasciato dietro un vetro, tende a sentire che gli manca qualche cosa, anche se ha tutto e non gli manca niente, e questa mancanza di niente forse conta qualcosa, perché uno potrebbe anche accorgersi di non aver bisogno davvero di niente, tranne del niente che gli manca davvero, del niente che non si può comprare, del niente che non corrisponde a niente, il niente del cielo e dell‟universo, o il niente che hanno gli altri che non hanno niente. (179) La separatezza rispetto all‟esterno che Celati aveva avvertito appena arrivato in Africa, non riguarda solo il rapporto con gli africani; lo stesso immaginario vetro protettivo, se lo ritrova addosso anche quando è a Parigi. Questa separatezza è diventata una condizione costituente dell‟uomo contemporaneo, indipendentemente dal luogo in cui trova. Il viaggio in Africa ha permesso a Celati di realizzare che ognuno può essere l‟altro, e che luoghi, etnie e cultura sono solo elementi che aiutano distinguere, ma non determinano l‟altro. Si realizza allora che il vetro, mentre era in Africa, aveva a ben vedere lasciato filtrare un importante niente. 168 Conclusioni Concludendo, in questo capitolo, in cui è stato analizzato Avventure in Africa, si è visto come alla fine del ventesimo secolo l‟incontro con l‟altro abbia assunto caratteristiche paradossali. La facilità e la frequenza con cui oggi le persone possono muoversi non garantiscono in realtà una maggiore facilità nella relazione con culture estranee alla propria. Nel caso specifico del viaggio in Africa di Gianni Celati, si è visto che di fatto proprio la numerosa affluenza di turisti in Africa, ha favorito lo sviluppo e la creazione di stereotipi sui bianchi da parte degli indigeni. Con questa tipificazione imposta a priori, si devono misurare anche Gianni Celati e Jean Talon, che si trovano loro malgrado, nella condizione di turisti. Questo aspetto è importante: i due europei si recano in Africa per girare un documentario, ma appena arrivano saranno gli africani ad imporre loro l‟identità del turista, e li tratteranno come tutti gli altri “bianchi in vacanza.” Al problema di essere percepiti attraverso degli stereotipi, si aggiunge una questione di tipo economico. I bianchi in Africa sono sfruttati economicamente, ma quello che stupisce non è che gli africani cerchino di trarre profitto da un settore in crescita, ma che lo facciano secondo i parametri dell‟economia occidentale. La situazione in cui Celati viene a trovarsi è quindi estremamente complessa, e ad un primo sguardo non presenta importanti elementi di novità, e di conseguenza potrebbe sembrare sterile anche sul piano della relazione con l‟altro. Questo aspetto è importante in questa sede, perché anche nel caso di Celati, il criterio discriminante è dato dal rapporto che descrive con l‟alterità. Nel suo caso, però, data la situazione oggettiva, il problema maggiore è capire a che livello si espleti la diversità, e come agire per ridurre la distanza che separa il sé dall‟altro. Avventure in Africa pone quindi un problema importante: l‟avvicinamento all‟alterità, in epoca contemporanea, deve confrontarsi con le conseguenze di una cultura, quella occidentale, così diffusa che sembra uniformare anche luoghi lontani ed un tempo molto diversi fra loro. L‟analisi sul testo di Celati ha evidenziato come l‟alterità africana oggi non sia riducibile semplicemente a fatto culturale. Nel corso del suo viaggio lo scrittore ha modo di incontrare numerose persone, e molte di queste gli danno 169 conferma di informazioni che egli aveva già acquisito prima di partire. Inoltre, se in alcuni casi non capisce nulla di quello che gli sta intorno, in altri momenti afferma che tutto gli sembra noto e riconducibile ad una situazione di tipo coloniale, ora però ricreata a beneficio di turisti. In un primo momento la relazione con gli africani sembra perciò svilupparsi in base a categorie negative quali ad esempio lo sfruttamento economico e la banalizzazione culturale. La diversità va quindi cercata altrove, e per Celati, il vero incontro si svilupperà più sul piano emozionale che su quello culturale. Il rapporto con il diverso da sé, sarà improntato proprio in questo senso, e la distanza che lo scrittore percepisce, e che di fatto non attribuisce mai ad un unico ambito, verrà ridotta grazie alla condivisione. Quest‟ultima diventa il motivo dominante della relazione che egli riesce ad instaurare con alcune delle persone incontrate, relazione che è stata definita significativa perché non si sviluppa come conferma di una presunta conoscenza, ma come compartecipazione volta alla scoperta dell‟altro. La condivisione temporanea di momenti e luoghi della vita di Batouly, ad esempio, gli dà la possibilità di fare l‟esperienza diretta di un mondo che altrimenti gli sarebbe rimasto estraneo. Questo avvicinamento alla diversità non gli permetterà di comprenderla in ogni suo aspetto, ma basterà a ridurre la distanza che lo separa da essa. Con la conclusione di questo capitolo si apre idealmente il campo ad una nuova problematica: se la funzione educativa del viaggio è messa in discussione, se le linee di confine culturali del viaggiatore, sono già state rielaborate ed in parte ridefinite prima della partenza, allora come deve essere vissuto il viaggio nel XXI secolo? Diventa un momento di arricchimento solo a livello emozionale? Il libro di Celati, quindi, pone un quesito ed una sfida, che è forse la sfida della letteratura di viaggio nel terzo millennio, quello di capire se e come è ancora possibile vivere il viaggio come un momento di sviluppo della conoscenza e mezzo di avvicinamento al diverso da sé. Conclusioni Il percorso di ricerca proposto in questo studio mira all‟analisi e alla comprensione delle modalità con cui è avvenuto l‟incontro con il diverso da sé in Africa, ed il tipo di rapporto che ne è scaturito. Questo secondo aspetto è il fulcro attorno al quale si è sviluppato il discorso, che mira ad indagare quali siano gli sviluppi, in particolare sul piano etico, che sono conseguiti all‟incontro con l‟altro. L‟analisi è stata svolta sulla base dei testi di viaggio di tre autori italiani, Gaetano Casati, Alberto Moravia e Gianni Celati. A questi è stato aggiunto anche Riccardo Bacchelli, che si è voluto trattare in ragione della sua riscrittura di Dieci anni in Equatoria e ritorno con Emin Pascià di Gaetano Casati. La discussione si è sviluppata principalmente su due piani: in primo luogo si è mirato a stabilire le modalità con cui è avvenuto l‟incontro, occupandosi nello specifico delle caratteristiche pratiche del viaggio. Sulla base di quanto emerso in relazione alle circostanze dell‟incontro, è stato successivamente esaminato il rapporto che i tre autori hanno stabilito con l‟alterità africana. 1. Scelte di metodo Casati, Moravia e Celati sono stati scelti per ragioni intrinseche, ovvero determinate dal contenuto della loro produzione letteraria sull‟Africa; sia per motivi estrinsechi, ovvero legati al momento storico in cui hanno vissuto e viaggiato. Per questa ricerca, la dimensione storica è risultata rilevante perché ognuno di questi autori è stato testimone di un importante momento della storia africana: la colonizzazione, l‟inizio del processo di de-colonizzazione, ed infine, in epoca contemporanea, il suo completamento e l‟inizio di una difficile autonomia e, in qualche caso, di un periodo di neo-colonialismo. Le motivazioni inerenti l‟aspetto prettamente letterario, e quelle che rimandano ad un prospettiva a più largo raggio storico e sociale si intersecano nei testi perché questi ultimi, pur trasmettendo il soggettivo punto di vista degli autori, sono anche lo specchio di una cambiata situazione politica ed economica in Africa. La contestualizzazione storica era inevitabile in questo studio in quanto le mutate condizioni politiche ed 171 economiche della realtà africana emergono dagli scritti stessi e benché indirettamente, sono un elemento di peso nel rapporto con l‟altro. I testi, infatti, mettono in evidenza quanto e come sia mutato, lungo il periodo esaminato, non solo il rapporto, ma il modo con cui ci si avvicina all‟alterità. Per quanto concerne le modalità dell‟incontro/scontro, le vicende di Casati, Moravia e Celati, sono state inserite all‟interno di un paradigma teorico che considera Marco Polo e Cristoforo Colombo quali modelli di due opposti modi di viaggiare e di affrontare il diverso incontrato in viaggio. Marco Polo, si è visto, rappresenta il viaggiatore curioso e aperto, che pur muovendosi per fini commerciali, vive il viaggio soprattutto come un momento di arricchimento culturale. Cristoforo Colombo, invece, è assorbito dai risvolti economici e dalle possibilità di dominio territoriale conseguenti alla sua scoperta, e questi divengono l‟unico parametro attraverso il quale egli legge ogni elemento di novità.62 Si sono considerati questi due viaggiatori, oltre che per il diverso atteggiamento con il quale si sono rapportati all‟altro, anche perché hanno definito le due opposte modalità del viaggio, ovvero quella del viaggio attraverso, come nel caso di Marco Polo, e quella del viaggio verso, come accade invece con Colombo. Questa fondamentale distinzione si è continuamente ripresentata nel corso della discussione anche se formulata attraverso i termini viaggiare o spostarsi, e viaggiatore o turista. A prescindere da come la distinzione venga enunciata, ad essere discriminante è l‟atteggiamento mentale di chi lascia il proprio paese, e con esso anche la propria cultura, per visitare luoghi e popolazioni che gli sono estranei. Si è detto che viaggiare, o essere un viaggiatore piuttosto che un turista, significa vivere il viaggio come un‟esperienza molto ampia, non limitata al luogo di destinazione e durante la quale si viene a creare una tensione fra le proprie strutture culturali e quelle che si incontrano nel paese in cui si viaggia. Il risultato di tale tensione, per essere interessante, deve avere segno positivo, ovvero ne deve conseguire un arricchimento cognitivo ed emotivo 62 Il paradigma proposto, come chiarito nel primo capitolo, vale solo a livello teorico, nel senso che si considerano i due viaggiatori solo come due figure modello, senza occuparsi delle questioni più prettamente letterarie o filologiche sollevate dai loro testi. 172 in chi compie il viaggio. I testi odeporici più riusciti, soprattutto in epoca contemporanea, sono quelli in cui il protagonista mette in gioco il proprio mondo per adeguarlo a quello che incontra durante il viaggio. Quanto avviene a livello emozionale, ovvero non intellettuale, è quindi altrettanto determinante, nella narrativa di viaggio, di quanto avviene nel mondo oggettivo in cui si compie lo spostamento fisico. Northrop Frye in Anatomy of Criticism, ha rilevato che il tema principale delle narrazioni di viaggio riguarda i limiti della coscienza, mentre passa da un mondo ad un‟altro, o mentre è contemporaneamente cosciente di questi due mondi. La dimensione cognitiva nelle narrazioni odeporiche si rivela essere una costante che si spiega solo se si considera il viaggio come momento dialettico, e non solo in relazione all‟aumento di informazioni che può fornire su un luogo. La presa di contatto con luoghi diversi non si risolve nell‟accumulo di dati, ma in una modificata percezione della realtà che è il risultato di un lavoro di mediazione fra il noto, la cultura a cui il viaggiatore sente di appartenere, e l‟ignoto, ovvero quello che incontra durante lo spostamento. Questo aspetto spiega perché il viaggio assuma facilmente un valore simbolico; non è un caso quindi che in letteratura sia questa la dimensione con cui ci si confronta più spesso. Proprio in relazione all‟ambito letterario, Marco Polo e Cristoforo Colombo si sono scelti oltre che per l‟eccezionalità della loro esperienza, anche perché sono i due rappresentanti più significativi della tradizione odeporica italiana, alla quale si ricollegano i testi degli autori qui trattati. Casati, Moravia e Celati hanno fatto in prima persona l‟esperienza dell‟Africa e della diversità che vi si può incontrare. I loro libri sono la resa testuale di un‟esperienza personale in cui la problematica della rappresentazione dell‟altro viene affrontata con modalità differenti. Casati, con la sua permanenza presso alcune tribù africane era stato involontariamente un antesignano del fieldwork, ma già Moravia percepisce tutta l‟intrusività e la soggettività delle metodologie degli antropologi contemporanei. Celati, infine, con scetticismo ed ironia chiude questo percorso ideale affermando che oggi gli antropologi dovrebbero farsi carico di studiare i turisti, in quanto sono divenuti una vera e propria popolazione con tanto di lingua, l‟inglese, ma soprattutto con i 173 “propri modi di vestire, mangiare, viaggiare” (Avventure in Africa 163). La sarcastica provocazione colpisce nel segno perché in effetti per gli antropologi è venuto meno il campo di studi inteso in senso tradizionale: le zone più isolate del pianeta, e con esse i loro abitanti, non sono più né sconosciute né irraggiungibili.63 Nel contesto di questa evoluzione, è stato quindi fondamentale riflettere su come siano cambiate le modalità con cui ogni autore si è spostato in Africa e si è rapportato alle popolazioni da lui incontrate. 2. L’incontro/scontro con l’alterità Gaetano Casati era andato in Africa nella seconda metà del 1800 per una missione esplorativa ed era stato fra gli ultimi a poter fare l‟esperienza di un‟Africa ancora sconosciuta. La morte di colui che doveva fargli da guida lo costrinse a muoversi nel Sudan meridionale in una condizione di quasi totale isolamento, obbligandolo a restare per lunghi periodi a diretto ed unico contatto con le tribù africane che incontrava. Questa situazione anziché scoraggiarlo fece scaturire in lui un vero e sincero interesse per il continente nero e i suoi abitanti. La convivenza con loro, unita all‟apertura e alla disponibilità verso ciò che non conosceva si tradussero presto in una progressiva comprensione delle culture africane di cui poté fare l‟esperienza diretta. Dieci anni in Equatoria è stato scelto anche perché l‟avventura di Casati è unica nel panorama italiano della letteratura odeporica. Il suo viaggio in Africa, le sue modalità di approccio al diverso e la relazione con l‟altro che riuscì a stabilire sono testimonianza di un interesse che soverchia tutti i dogmi e i pregiudizi sull‟Africa e sugli africani che in quegli anni animavano molti esploratori. Queste prerogative, si è detto nel primo capitolo, hanno reso Gaetano Casati una voce fuori dal coro. Della peculiarità ed unicità della sua testimonianza si accorse anche Riccardo Bacchelli che nella prima metà del Novecento si ispirò ad esso per scrivere Mal d’Africa. Il romanzo di Bacchelli 63 Questa problematica è uno dei principali spunti di riflessione del volume Routes di Clifford. In particolare egli considera come, con le società multietniche, stiano cambiando anche le metodologie antropologiche. Ad esempio, vanno ridefiniti i confini della zona considerata come fieldwork, perché in alcuni casi per svolgere l‟attività antropologica non serve cambiare continente, ma basta spostarsi di quartiere. Questa nuova realtà apre evidentemente il campo ad una vasta serie di problematiche, che non afferiscono unicamente all‟antropologia. 174 banalizza Dieci anni in Equatoria riducendolo a romanzo-stendardo di ideali nazionali se non propriamente fascisti. Quello che aveva reso Casati una voce singolare viene meno con Bacchelli che fa dell‟Africa solo uno specchio su cui proiettare una fittizia identità italiana. Alberto Moravia, di cui ci si occupa nel secondo capitolo è particolarmente sensibile a quest‟ultima problematica, ovvero ai presupposti ideologici e ai rapporti di potere fra Africa ed Europa. I suoi frequenti viaggi nel continente nero sono animati da un profondo interesse per l‟Africa ma anche dalla consapevolezza di quanto la cultura europea sia invasiva. Per questa ragione Moravia sceglie il criterio della distanza per relazionarsi all‟altro. La sua scelta, però, non è priva di contraddizioni in quanto viene da chiedersi in primo luogo se sia possibile una relazione laddove ci sia la distanza. Nel caso di Moravia questo problema è parzialmente risolto perché non si tratta tanto di mantenere una distanza fisica, quanto piuttosto di conservare una separatezza culturale ed intellettuale. Egli si abbandona al viaggio, ovvero sceglie di andare in Africa e di vivere sul proprio corpo tutte le esperienze che l‟Africa gli consente di fare. Benché non lo cerchi, non evita il contatto fisico con gli indigeni. Quello che Moravia sembra voler eludere è il dialogo con essi, ovvero una relazione che vada oltre la sfera della fisicità. Le problematiche che questo atteggiamento fa sorgere sono complesse, ed è certo opinabile il tipo di relazione da lui instaurato. Il suo modo di relazionarsi all‟altro si potrebbe certamente leggere in un‟ottica modernista: l‟uomo civilizzato va nel continente primitivo per esperire quello che l‟Europa non è più. In Moravia c‟è anche una componente di questo tipo, ma il principale motivo per cui egli sceglie di non relazionarsi in modo più profondo all‟altro è proprio la necessità di mantenere la distanza per non distruggere l‟alterità stessa. In altre parole egli preferisce guardare l‟altro restandogli lontano per avere la certezza che la diversità è ancora possibile, che l‟omologazione culturale e la massificazione non hanno intaccato ogni luogo. Con un‟Africa sempre più omologata si deve confrontare invece Gianni Celati, il cui Avventure in Africa è l‟oggetto di discussione nel terzo capitolo. La situazione che si trova a vivere Gianni Celati è completamente nuova e molto 175 diversa rispetto a quella degli scrittori trattati precedentemente. Egli non si deve confrontare con gli stereotipi culturali che gli europei hanno nei confronti africani, ma con la situazione inversa. Fin dal suo arrivo egli è catalogato in una tipologia umana, quella del turista, che gli africani sono abituati a riconoscere e sfruttare. Durante il suo viaggio nell‟Africa occidentale Celati si dovrà confrontare con un paese che assomiglia sempre di più all‟occidente e sempre meno all‟Africa idealizzata o primitiva tramandata da stereotipi e luoghi comuni. La relazione con l‟altro sembra essere irrimediabilmente compromessa perché più che conoscere l‟altro sembra resti solo la possibilità di ri-conoscerlo. Celati è il primo dei viaggiatori esaminati che si rende conto che l‟alterità va cercata ad un diverso livello. Il contatto è facilmente realizzabile, ma è difficile comprendere come si possa sviluppare la relazione con l‟altro. Lo scrittore intuisce che vi sia una distanza, che non è semplicemente culturale, benché non sappia individuare a quale campo appartenga. Uno dei modi di colmarla, almeno parzialmente, è quello della condivisione. Attraverso la partecipazione attiva, fisica, alla vita dell‟altro, Celati trova il modo di porre in essere una relazione significativa perché tesa a vivere direttamente momenti della vita dell‟altro. Senza cercare conferme rispetto alle sue precedenti conoscenze sull‟Africa, lascia che sia l‟esperienza diretta ad informare il suo rapporto con gli africani. Casati era stato un esploratore, quindi uno dei pochi europei dell‟epoca che aveva avuto la possibilità di vedere il continente nero. A prescindere dalle sue insolite vicende personali, perciò, tutto, nel suo caso, era stato straordinario. Prima con Moravia e poi con Celati, però, si è assistito ad una progressiva attenuazione della componente di esclusività. Questo elemento non pertiene più né alla destinazione, in quanto la geografia del continente africano è nota, né alle modalità del viaggio, probabilmente riconducibili a qualche tipologia di turismo, né, infine, al viaggiatore stesso, anch‟esso riconoscibile in qualche categoria turistica. Quanto accade ad Alberto Moravia prima e a Gianni Celati poi si può leggere proprio in questa ottica, ovvero come una progressiva definizione del viaggio come situazione tipicamente consumistica. Si è visto nel capitolo su Celati, infatti, che con il turismo di massa il viaggio non è più un momento in cui 176 il soggetto si apre alla conoscenza, rivolgendosi verso l‟esterno, ovvero verso l‟altrove e l‟altro, ma vive lo spostamento come un evento esclusivamente personale, trovando in esso la soddisfazione di un bisogno che spesso non ha nessuna diretta relazione con il luogo visitato. Rispetto al viaggio raccontato da Gaetano Casati, perciò i testi degli altri due autori testimoniano una progressiva difficoltà nel realizzare una relazione con gli africani. Moravia è consapevole che viaggiare è un‟arma a doppio taglio, perché la voglia di conoscere e vedere non è esente da una componente invasiva della quotidianità dell‟altro. Preferisce evitare ogni forma di comunicazione che non sia assolutamente necessaria, e anche quando ha la possibilità di instaurare un dialogo che vada oltre la mera funzionalità del momento, egli opta per il silenzio e la distanza. Si limita a guardare l‟altro e ascoltare le proprie sensazioni senza cercare di avvicinarsi per non corrompere la possibilità stessa della diversità. Nel corso del secondo capitolo, tuttavia, si è evidenziato che lo scrittore si recava in Africa almeno una volta all‟anno, frequenza che ipoteticamente avrebbe dovuto consentirgli una maggiore familiarità con luoghi e persone. Questo non avviene per esplicita volontà dello scrittore che vede nel distacco l‟unico mezzo per poter preservare l‟identità culturale di ognuno. La quasi eccessiva discrezione con cui Moravia si muove rispetto agli africani, è in parte anche frutto di un‟atmosfera culturale che cominciava a risentire delle conseguenze della postcolonizzazione e della ridefinizione dei rapporti di potere. Nel corso degli anni successivi si è venuta a creare una situazione paradossale, il cui apice è stato descritto in modo esemplare in Avventure in Africa. Il turista raccontato da Gianni Celati è suo malgrado costretto in un gioco delle parti che non gli permette di avere con gli autoctoni, un rapporto che non sia pregiudicato. Si instaura una dinamica di finto riconoscimento, sia da parte delle persone del luogo, che nei bianchi vedono solo una fonte di guadagno, sia da parte dei turisti che spesso, durante il viaggio, sono più interessati all‟esotismo che a un contatto diretto e vero con la cultura del luogo. Il viaggiatore che vuole veramente avvicinarsi all‟altro, deve perciò superare una barriera fatta di luoghi comuni e tipificazioni che gli presentano una finta diversità modellata ad uso e consumo del turista. 177 Per Moravia e Celati questo stato di cose si traduce in indifferenza o delusione. Moravia è palesemente disinteressato nei confronti della modernità africana, perché la riconosce come fenomeno di matrice europea. Tuttavia lo scrittore aveva incontrato in Africa ció che cercava: “Au fond de l‟inconnu chercher le nouveau.” Dopo il primo viaggio, è possibile riconoscere nell‟approccio di Moravia all‟Africa, una componente teleologica: la prima visita gli aveva fatto fare l‟esperienza del primitivo in una dimensione percepita come astorica, e i viaggi successivi sono intrapresi proprio nell‟ottica di ritrovare tali sensazioni. Questo però avviene a scapito della complessità culturale dell‟Africa stessa, argomento che, come si è visto, Moravia preferisce non affrontare. Negli ultimi anni, forse anche in conseguenza delle dimensione che il fenomeno ha assunto, il turismo è considerato come momento le cui possibilità vanno oltre le sue ovvie componenti sociali ed economiche. La dimensione culturale che ogni viaggio porta con sé è divenuta una variabile che, anche quando si tratti di turismo di massa, va presa in considerazione perché è comunque un momento in cui si crea un contatto con una cultura estranea. Gianni Celati si trova involontariamente coinvolto in questo tipo di dinamica. Va in Africa alla fine del secolo ed è costretto a confrontarsi con la delusione del turista contemporaneo ai cui occhi non si presenta niente di veramente nuovo. Al contrario la quotidianità africana gli sembra sempre più plasmata sul modello occidentale. In Celati questa mancanza di diversità provoca una frequente sensazione di delusione; al viaggiatore rimane solo la possibilità di fare l‟esperienza in prima persona di cose e situazioni di cui era già a conoscenza ancor prima di partire. L‟unica situazione ad essere davvero nuova e diversa, è proprio la condizione di turista che l‟autore si trova a vivere, e che proprio per queste caratteristiche di novità e diversità scatena l‟attenzione dello scrittore. Come detto proprio in relazione a Gianni Celati, lo spostamento verso l‟Africa non è più vissuto nella sua potenzialità di viaggio di scoperta, come invece era accaduto per Casati, ma come momento di conferma, durante il quale si ha solo la possibilità di riconoscere piuttosto che di conoscere. Il volume di Celati mette in luce un fenomeno tipicamente contemporaneo mostrando come la diversità si 178 sposti su un diverso livello dell‟esperienza. L‟altro deve essere percepito e in un certo senso “vissuto,” in quanto il semplice riconoscimento non basta a spiegare come essa in realtà si sviluppi. È utile, a questo punto, riprendere brevemente la precisazione che si è operata, a questo proposito, nell‟introduzione: la delusione del viaggiatore non è tanto dovuta al fatto di non trovare la diversità, ma piuttosto di non sapere come rapportarsi ad essa. Più precisamente, il disappunto è dovuto alla consapevolezza di essere di fronte ad una cultura diversa rispetto alla propria, alla quale però non si riesce ad accedere perché la diversità stessa tende a mascherarsi dietro una patina di occidentalizzazione o, peggio ancora, di spettacolarizzazione. Mancano i criteri per costruire un rapporto che elimini l‟esotismo dalla rappresentazione culturale e con esso annulli, o meglio, attenui, significativamente il ruolo di un‟ideologia dominante. Il vero problema consiste quindi nel trovare nuove modalità di approccio e nuovi criteri su cui basare la rappresentazione. Questa problematica introduce il secondo livello su cui si è sviluppata l‟analisi: quello relativo al tipo di rapporto che si è messo in atto con l‟alterità. 3. La relazione con l’alterità I libri di Casati, Moravia e Celati tracciano un percorso che ad un primo livello potrebbe essere considerato come evolutivo: da una minima conoscenza del territorio e dei suoi abitanti, ad un assiduo movimento di italiani che si recano in Africa per svariate ragioni. La quotidianità degli scambi potrebbe far pensare ad una maggiore conoscenza e quindi ad una migliorata relazione con l‟altro africano. Il percorso che si è venuto delineando, inoltre, potrebbe essere interpretato in senso evolutivo anche sul piano sociale. All‟ottica blandamente civilizzatrice di Casati si sostituiscono prima un interesse per la diversità vissuto attraverso il distacco, poi la volontà di divenire parte della vita dell‟altro e, viceversa, desiderare che l‟altro entri a far parte della propria esperienza di vita. Questo modo di guardare alla relazione con l‟altro, descritto nei testi considerati, non è completamente falsato, ma in realtà il percorso si è rivelato molto più complesso e ricco di sfumature di quanto non si potesse intuire ad una prima 179 considerazione; la qualità della relazione infatti non è direttamente proporzionale alla frequenza dei contatti fra europei ed africani, o all‟interesse dei primi nei confronti dei secondi. I testi, al contrario, hanno mostrato che le relazioni con gli autoctoni sono rese più intricate proprio dagli stereotipi culturali che la modernità ha contributo a diffondere. Va precisato che questo studio ha contribuito a mettere in luce solo alcune delle diverse possibilità di relazione che si possono creare durante il viaggio, ovvero quando si ha l‟occasione di rapportarsi ad una cultura più o meno lontana dalla propria. Gli esempi considerati non esauriscono le modalità con cui ci si può avvicinare all‟altro, ma è stato interessante trattare questi autori in quanto il loro atteggiamento nei confronti di ciò che hanno incontrato in Africa si è rivelato analogo, benché al momento della realizzazione del viaggio, e soprattutto della relazione con l‟altro, i risultati siano stati dissimili. Per quanto la discussione si sia focalizzata sugli aspetti etici del rapporto con l‟altro, e quindi abbia posto grande attenzione allo svolgersi pratico della relazione con gli africani descritta dai tre autori, ad essere risultato determinante in funzione stessa del rapporto, non è stato solamente il viaggio in sé, ma le modalità secondo cui si è svolto. In altre parole, non è stato che cosa hanno visto che ha dato luogo ad un preciso tipo di relazione, ma come lo hanno visto; Casati, Moravia e Celati sono accomunati dall‟interesse nei confronti delle popolazioni incontrate in viaggio, interesse che viene esplicitato chiaramente nei loro testi ma che è vissuto, sul piano pratico, in modo molto diverso. Ciononostante, all‟interno del quadro tracciato si riconoscono dei momenti in comune fra i tre autori, quasi un filo rosso che ha costituito un po‟ la traccia fondamentale della problematica posta alla base di questo studio, ovvero quale sia il rapporto instaurato con gli africani e in base a quale approccio. Si è visto che il loro avvicinamento all‟alterità, indipendentemente dalle modalità con cui si è realizzato e dagli esiti che ne sono conseguiti, è stato inserito in un‟ottica di arricchimento personale sul piano dell‟esperienza e su quello culturale. I tre autori hanno viaggiato in modi e con tempi molto diversi fra loro, visitando luoghi più o meno estesi, fermandosi per periodi di tempo diversi e acquisendo differenti 180 conoscenze dell‟Africa e dei suoi abitanti. Tutti e tre, però, si sono abbandonati al viaggio, vivendolo come un‟esperienza che si sviluppa dal momento stesso in cui si parte, che concerne ogni istante dello spostamento, non esaurendosi nella località di destinazione o nella modalità della vacanza esotica. Tutti, inoltre, anche se non sempre per scelta, si sono spostati attraverso l‟Africa con mezzi che hanno permesso loro un contatto diretto con la realtà visitata, optando per una modalità del viaggio che lasciasse spazio alle sensazioni e percezioni personali suscitate dai luoghi visitati. Il loro abbandonarsi al viaggio si è realizzato in primo luogo nell‟esperienza fisica dell‟Africa e dell‟altro africano. Il corpo diventa un luogo di produzione di conoscenza, il luogo in cui l‟esperienza si compie e fa diventare il viaggio un momento cognitivo. Un luogo attivo, quindi, non più ricettivo in senso passivo, ma aperto e pronto ad accogliere la diversità. Questo modo di viaggiare è quello che ha consentito, ad ognuno di loro in modo diverso, un approccio molto personale all‟alterità. Prima di concludere è doveroso accennare brevemente a quella che è percepita come la civiltà assolutamente “altra” rispetto all‟occidente, ovvero quella mussulmana. Non si tratta necessariamente di un‟impostazione preconcetta della relazione, e non è nemmeno un pregiudizio a priori basato su un‟idea di superiorità razziale o culturale. Nel caso di Gaetano Casati, a giustificare la distanza contribuiva soprattutto la rivalità per ottenete il dominio territoriale ed economico della zona attorno all‟Equatore. Per Moravia e Celati, invece, le questioni economiche e territoriali non operano nessun tipo di influenza sul piano della ricezione culturale. Come si è dimostrato nel corso della discussione, si tratta in entrambi i casi di intellettuali aperti e curiosi di fronte a ciò che non conoscono. Tuttavia, nel momento in cui si confrontano con la cultura e la religione mussulmana entrambi confessano la propria incapacità a comprendere. Quest‟ultima non viene motivata se non in forma tautologica, ovvero affermando che la cultura islamica è sentita come troppo diversa per essere compresa. 181 4. Il viaggio: crisi di un archetipo Nell‟introduzione ci si è soffermati sull‟archetipo del viaggio, sottolineando come la funzione di auto-definizione non sia meno importante di quella relativa alla scoperta;64 si è visto come queste due componenti si sovrappongano e si intersechino divenendo un elemento ineludibile dello spostamento, a prescindere da quando viene effettuato. In epoca contemporanea, tuttavia, si assiste ad una sostanziale e definitiva modifica in questo senso. Si è già detto che il viaggio non può più essere finalizzato alla scoperta geografica; oltre a questo, però, sembra venire meno anche qualsiasi possibilità legata al processo di ridefinizione di quelli che si considerano i propri parametri culturali. Il viaggio è diventato un‟esperienza comune, l‟altrove raramente è considerato un luogo sconosciuto e l‟altro è il rappresentante di una cultura che è quasi sempre già parzialmente nota prima di partire. Ciò avviene soprattutto in conseguenza della crescente globalizzazione, sostantivo che, come chiarito nel terzo capitolo, viene usato nella sua accezione più comune, ovvero intendendo la progressiva uniformazione culturale, oltre che economica. Agli occhi del viaggiatore non si presenta nulla di nuovo, perché ciò che non gli è direttamente familiare, gli è comunque noto grazie ai diversi mezzi di comunicazione, che, combinati con gli aumentati spostamenti, agevolano la diffusione di informazioni. Non è insolito, perciò, che alcune specifiche caratteristiche relative alla meta di un viaggio, siano già parzialmente note attraverso letture, la televisione o internet, e che quindi se ne faccia l‟esperienza sensibile solo in un secondo momento. Inoltre se i luoghi restano distinti da precise caratteristiche geografiche e territoriali, le peculiarità culturali che in passato li avevano contraddistinti sono indebolite e sembra si stiano progressivamente perdendo. Il venire meno della componente di eccezionalità del fare un viaggio ha conseguenze importanti soprattutto sul piano cognitivo, perché mette in discussione quali siano, oggi, le potenzialità del viaggio stesso in questo senso. 64 Solo a titolo informativo, vale la pena ricordare che Toni Maraini, nella bandella del suo ultimo libro Lettera da Benares, riporta l‟espressione usata da suo padre, Fosco Maraini, il quale diceva che durante i viaggi si esplorano “esocosmi ed endocosmi,” ovvero mondi che sono dentro e mondi che invece si trovano all‟esterno del viaggiatore. Purtroppo non sono riuscita a reperire l‟originale collocazione della citazione. 182 Lungo tutta la discussione si sono enfatizzate le possibilità di crescita personale e culturale, che da sempre sono associate allo spostamento. Si è sostenuto, in particolare, che il valore cognitivo del viaggio dipende in buona parte dal tipo di dinamica che il soggetto è disposto a mettere in atto con l‟altro che incontra. Nella contemporaneità, però la tensione fra noto e ignoto si è affievolita e il rapporto con il diverso da sé è caratterizzato da dinamiche dagli aspetti controversi. Rispetto ai viaggi medioevali e rinascimentali, il problema dell‟alterità oggi ha spostato il suo asse di interesse: non è più necessario conoscere o riconoscere la diversità, ma capire che tipo di rapporto si può, o si vuole, instaurare con essa. Per questo motivo, gli odierni studi che si occupano di letteratura di viaggio si sviluppano in particolare attorno ai problemi della rappresentazione culturale e delle conseguenze epistemologiche che derivano dagli spostamenti. Questo studio si è mosso precisamente in questa direzione. Gli scritti qui trattati hanno evidenziato un‟evoluzione nel concetto e nelle modalità del viaggio, soprattutto in relazione all‟atteggiamento con cui ci si rivolge a chi si percepisce come diverso. Si è detto della progressiva diminuzione dell‟eccezionalità dell‟esperienza del viaggio e dalla correlativa perdita del suo valore etico. Anthony Appiah evidenzia che comprendere non significa condividere il presupposto culturale determinante l‟azione, ma solo giustificare secondo i propri parametri culturali un comportamento che non si riconosce come proprio. Per non banalizzare e appiattire tutto sotto il cappello della dicitura “relativismo culturale,” quindi, va riconosciuto che si è oggi di fronte ad una situazione estremamente articolata e certamente ancora in progress. Azzardando un‟interpretazione di un passo di La persona di Paul Ricoeur, si può affermare che la società contemporanea si trova a vivere un momento di crisi. Si tratta però di un concetto, in questo caso, visto come momento positivo: “Percepire la mia situazione come crisi significa non sapere più qual è il mio posto nell‟universo. […] Vedersi come persona desituata [déplacée] è il primo momento costitutivo dell‟attitudine persona. Aggiungiamo anche questo: non so più quale gerarchia stabile di valori può guidare le mie preferenze” (29). 183 L‟uomo contemporaneo si deve confrontare proprio con una realtà che sta vivendo un processo di ridefinizione. I posti assegnati alle diverse realtà culturali nei secoli scorsi, non corrispondono più esclusivamente a luoghi geografici, vanno ridefinite le modalità dello scambio e vanno rivisti i criteri che regolano i rapporti culturali. Inoltre, continuando sulla linea di Ricoeur, vanno cambiate le gerarchie di valori che dovranno regolare i rapporti umani nella società che nascerà da questa crisi. In questo senso, particolarmente interessanti sono i taccuini di Celati, che aprono il campo ad un problema che si è presentato solo in tempi molto recenti e che riguarda il luogo dell‟incontro; quest‟ultimo, infatti, oggi non avviene più solamente nell‟altrove, ma anche nella quotidianità vissuta nel proprio paese di appartenenza. La condivisione, allora, non richiede necessariamente uno spostamento, al contrario può essere facilitata dai flussi migratori verso l‟Italia. Al contempo, però, questa situazione molto fluida per quanto concerne gli spostamenti, contribuisce a nutrire la sensazione di essere desituati rispetto al contesto; il senso di appartenenza ad una specifica comunità non si identifica più, con il concetto di nazione, e la diversità non si riferisce solo all‟altrove, ma anche alla realtà sociale e culturale di cui si è parte integrante.65 Questo studio ha messo in luce come siano cambiate le motivazioni e le modalità del viaggio e come, in parte in conseguenza di questo, sia cambiato il modo di vivere l‟incontro e la relazione con il diverso da sé. Più precisamente, si è riflettuto su come sia cambiato il rapporto con l‟alterità fra la fine del XIX e la fine del XX secolo. Si assiste, lungo questo esteso arco di tempo, ad una crescente complessità nell‟approccio, nel rapporto e nella descrizione. Nella prima metà del Novecento la trasmissione culturale era fondamentalmente monocorde, perché affidata in modo univoco all‟Europa; in seguito alla decolonizzazione e alle crescenti dimensioni della cultura di massa, le nazioni che in precedenza vivevano una colonizzazione anche sul piano culturale, hanno acquisito voce e potere di rappresentazione. In altre parole, i popoli che vivono nei territori un tempo 65 È opinabile del resto che comunità culturale e nazione si identifichino. In „What is a Nation‟ contenuto in Nation and Narration Ernest Renan prende in esame la complessità del concetto stesso di nazione prendendo in esame diverse componenti che si ritengono formative di una nazione. 184 colonizzati, che per anni erano stati raccontati solo in modo indiretto, ovvero da un‟altra cultura, dalla seconda metà del Novecento hanno cominciato a far sentire la loro voce, dando così inizio ad un processo culturale che ci vede tuttora protagonisti. 66 Questa non è una tesi sulla de-colonizzazione dell‟Africa, ma si è spesso fatto riferimento alla teoria post-colonial perché nel panorama culturale contemporaneo è inevitabile l‟influenza di tale approccio quando si trattino argomenti quali il viaggio e la relazione instaurata con chi appartiene ad una cultura diversa dalla propria. 5. Alcune domande ancora aperte In chiusura, conviene riprendere la domanda che aveva concluso l‟introduzione: il viaggio, nel XXI secolo, può essere ancora vissuto come un momento cognitivo? Nella contemporaneità è ancora possibile “scoprire” attraverso il viaggio, o si è piuttosto condannati ad andare verso un progressivo riconoscimento? Dato che la scoperta geografica non è più contemplabile di che natura sarà il “nuovo” che il viaggiatore potrà incontrare? Nella prospettiva del soggetto di questa ricerca, però, le domande poste servono solo a guidare la riflessione verso la problematica che maggiormente mi interessa: il viaggio sarà ancora il momento in cui si incontra l‟altro, ovvero chi è culturalmente diverso? Non basterà invece recarsi in uno dei tanti quartieri-ghetto per immigrati, che stanno diventando sempre più numerosi anche in Italia? La propria nazione può essere considerata alla pari dell‟altrove in cui avveniva l‟incontro nel passato? E in caso di risposta affermativa, quello che si incontrerà sarà davvero diverso, e con quali modalità? Come si può vedere il numero dei quesiti è potenzialmente infinito per le innumerevoli sfumature che caratterizzano la problematica qui discussa. Una risposta sicura o univoca non è quindi possibile, ma si possono proporre delle ipotesi. Il viaggio resterà una delle ineliminabili attività dell‟uomo, che sembra destinato a muoversi sempre di più e sempre più velocemente. Come cambierà la 66 Salman Rushdie in The Satanic Verses, significativamente uno dei libri più controversi del nostro secolo, scrive: “They describe us […]. They have the power of description, and we succumb to the pictures they construct” (168). 185 funzione del viaggio in questo contesto è difficile da anticipare, ma certamente si assisterà sia ad una ridefinizione concettuale del viaggio, sia delle modalità in cui esso viene vissuto. Resta augurabile, comunque, che una delle due funzioni archetipiche del viaggio, quella relativa all‟auto-determinazione, non venga meno e che esso mantenga tutte le sue potenzialità di definizione o ridefinizione della soggettività. Se si dovesse arrivare infatti ad una specie di stasi in cui viaggiare corrisponde semplicemente ad uno spostamento fisico che non ha nessuna rilevanza cognitiva, allora si sarebbe giunti ad un punto morto anche della storia dell‟uomo. Sul piano dell‟alterità, credo sia indubitabile ormai che ogni nazione è potenzialmente un luogo d‟incontro con la diversità culturale, ma lo sviluppo relazionale che scaturisce da questo incontro, e quindi anche i risvolti etici che ne conseguono, sono tutti da indagare. È auspicabile, riprendendo il cuore delle teorie di Lévinas e Ricoeur, che la scoperta dell‟altro, del diverso, diventi uno dei valori nuovi che emergono dallo stato di crisi in cui viviamo, e sui quali si fonderà la nostra prossima contemporaneità. 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