9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative di Mauro Ferrari
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9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative di Mauro Ferrari
9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative di Mauro Ferrari 1. Lavori, organizzazioni Primavera 2007: le cronache italiane riportano quotidianamente notizie di incidenti mortali sul lavoro: nell’Italia del XXI secolo la storia del lavoro è (ancora) storia di corpi consumati, amputati, maciullati. Una questione drammatica, contestuale, apparentemente altra rispetto all’approccio relazionale che contraddistingue il presente volume. Come lucidamente ricorda Gallino, invece, i due temi sono intrinsecamente connessi: La sicurezza fisica trova una componente essenziale nella conoscenza, da parte di tutti coloro che si ritrovano in quell’ambiente, del modo in cui si muovono le persone e le cose, in primo luogo le macchine. Quando ci si sbaglia nel prevedere come si muove una macchina, è probabile che qualcuno si faccia male, o resti ucciso. (Gallino, 2007, p. 40) Ma la conoscenza non può essere il risultato di un mero apprendimento iniziale: Al fine di completarla e mantenerla giorno per giorno è determinante la compresenza, il dialogo, la frequentazione reciproca dello stesso gruppo di persone nello stesso ambiente lavorativo. (Id.) Ed ecco dove le due dimensioni si riagganciano: È questa continuità di compresenza e dialogo che è venuta meno, in molti luoghi di lavoro, a causa della moltiplicazione dei contratti di lavoro di breve durata, sia del diffuso ricorso a forme di esternalizzazione e internalizzazione di segmenti del processo produttivo [...]. Il risultato è che in un medesimo luogo di produzione si incontrano lavoratori e macchine che per quanto siano perfetti i primi, ed efficienti le seconde, non si conoscono tra loro, ossia non sanno né possono prevedere come uomini e macchine in quell’ambiente si muovono e agiscono. (Id.) In realtà occorrono alcune precisazioni, che costituiscono altrettante introduzioni ai temi che incontreremo nel corso dell’articolo1. Innanzitutto le dimensioni dell’azienda influiscono sui processi lavorativi, così che negli stabilimenti medio-grandi l’organizzazione è maggiormente strutturata (addestramento iniziale, mansionario per ciascun addetto, definizione di spazi e percorsi interni), mentre in quelle di piccole dimensioni viene lasciata maggiore libertà di iniziativa ai singoli; ma almeno tre caratteristiche valgono in entrambi i casi: innanzitutto gli incidenti (i “pezzi di corpo” che si rompono) fanno parte del panorama lavorativo, rappresentano un’eccezione contemplata, al punto che vine considerato “normale” un’assenza anche prolungata per infortunio; così come le “ragioni pratiche” di chi lavora finiscono per portare ad adattamenti (a “sconfinamenti”) rispetto alle traiettorie predefinite, a dimostrazione di come anche la macchina apparentemente più prevedibile necessiti di aggiustamenti da 1 Inseriamo alcune considerazioni tratte da un’intervista a Leonida Bertozzi nel giugno 2007; operaio in alcune aziende metalmeccaniche, Leonida è il nipote di quel “Bertòs, uomo sapiente” (Attilio Bertozzi), contadino, cacciatore, pescatore e narratore, che Gianni Bosio intervistò a metà degli anni Sessanta del secolo scorso per conoscerne il “senso della vita” (Bosio, 1981). 1 parte di chi la manipoli (vedremo più avanti la differenza tra “macchine” e “organismi” nella storia degli studi organizzativi); infine, il tema della frequentazione quotidiana, che porta da un lato ad un processo continuo di apprendimento, cioè ad “accumulare sapere”(torneremo fra poco su questo tema centrale), ma dall’altra ad una familiarità pericolosa con le macchine, le attrezzature, i mezzi mobili, che tra le sue conseguenze può annoverare una sottovalutazione del pericolo: succede così che gi addetti ad un tornio tolgano, per comodità di utilizzo, lo schermo protettivo forzando il funzionamento della macchina e aumentandone la pericolosità2. Come che sia, dall’attualità narrata da un sociologo e da un operaio sono riporta te al centro delle riflessioni sul lavoro questioni che finora sembravano sfuggire all’approccio tradizionale della sociologia del lavoro e ritenute di competenza dell’approccio interazionista; utilizzando categorie ricorrenti nei diversi saggi che compongono questo volume potremmo dire che la discontinuità introdotta dalle nuove forme, flessibili, del lavoro, interrompe o addirittura impedisce il crearsi di una “catena di rituali di interazione” (Collins, 1988, 2004). E’ quel che già Sennett (1998) denunciava come una “corrosione del carattere”3, laddove la flessibilità – intesa come capacità di adattamento continuo alle mutevoli condizioni di vita e di lavoro - lascia il posto ad una più realistica definizione di “precarietà”, caratterizzata da instabilità e da carenza di prospettive. Dunque, discutere di temi quali la relazione lavorativa fra soggetti (le “comunità di pratiche”), fra i soggetti e la conoscenza (gli apprendimenti individuali ed organizzativi), fra i soggetti e gli ambienti interni ed esterni (le organizzazioni ed i loro confini), come proveremo a fare in questo articolo, significa contribuire a ridefinire l’oggetto “lavoro” secondo una prospettiva che punta a ricomporre i saperi, le esperienze, gli ambienti con i quali e nei quali il lavoro si svolge. Significa toccare questioni che tagliano trasversalmente le diverse cornici istituzionali in cui il lavoro si colloca, che accomunano tanto il settore pubblico quanto quello privato, che connettono la dimensione del lavoro con quelle delle relazioni, della quotidianità e dei contesti in cui questa si sviluppa. Questa affermazione è vera nelle situazioni di lavoro in cui i soggetti operano a stretto contatto fisico - come è per le fabbriche o per gli uffici, dove l’applicazione delle procedure routinarie e le elaborazioni vengono compiute in presenza di colleghi; oppure in cui il ritmo di lavoro del gruppo viene negoziato tra datore di lavoro e colleghi in modo che nessuno dei partecipanti produca al ritmo più veloce possibile, ma funziona anche se applicata ad altri esempi di figure professionali ispirate alla competitività o all’isolamento, apparentemente sganciate da appartenenze di tipo collettivo; potremmo utilizzare il riferimento a figure professionali fortemente individualizzate, quali nel primo caso gli agenti di commercio, o gli imprenditori, e nel secondo caso gli scrittori. Gli agenti di commercio hanno in comune la formazione, l’elaborazione di stili di vendita, spesso adattabili sulla base delle relazioni con i singoli clienti, il disporre di ditte fornitrici, il ritrovarsi in determinati momenti: i pranzi di lavoro, le convention dei fornitori nelle 2 Il nostro interlocutore tiene a precisare la funzione fondamentale del sindacato, fornendone un quadro interpretativo interessante: insieme alla tutela, egli vede nella funzione sindacale un processo di “crescita dell’appartenenza”, di protagonismo e di rappresentanza che incrementa la soggettività degli individui, non più “numeri” o “ingranaggi” ma “co-protagonisti” della propria carriera lavorativa; sollecita, cioè, il formarsi di una consapevole “comunità di pratiche”. Anche se, nota non senza stupore, il logo della federazione metalmeccanici della CGIL, di gran lunga la più importante per numero di iscritti, è tuttora un grande ingranaggio... 3 Il titolo originale del testo recita “La corrosione del carattere”, tradotto invece in italiano con “L’uomo flessibile”. 2 quali vengono premiati i venditori di maggior successo, il partecipare ad istanze collettive, quali il lavoro di lobby relativo a questioni fiscali. Lo stesso vale per gli imprenditori, i quali, insieme ad una vocazione competitiva particolarmente spinta, riescono a trovare unità d’intenti o quanto meno alleanze temporanee entro associazioni di categoria - si pensi alla Confindustria – con le quali rivolgersi ad interlocutori esterni - quali ad esempio il governo - in quanto categoria. Ma questo riguarda anche gli scrittori (o i pittori, i poeti, gli artisti in generale), i quali per definizione “creano in solitudine” ma non disdegnano di partecipare da un lato ad una comunità allargata – la comunità intellettuale, con cui si confrontano, elaborano “scuole di pensiero” e correnti stilistiche – e dall’altra a momenti collettivi quali trasmissioni televisive, presentazioni, festivals, momenti ai quali intervengono in quanto appartenenti ad una categoria socialmente riconosciuta. Dunque, dall’ufficio alla fabbrica fino alla produzione intellettuale, passando per le varie componenti della società industriale e dei servizi, il tema delle “comunità di pratiche” non può essere eluso. Un tema questo che non era sfuggito a Weber (1922), il quale proponeva in prima battuta una distinzione di tipo “tecnico” tra le diverse forme in cui un gruppo di uomini e donne compiono un lavoro; pur rimanendo nel campo di un “agire sociale orientato economicamente” (il riferimento dell’epoca non era certo alla produzione di beni immateriali), è la connessione tra soggetti e mezzi di produzione al fine di ottenere prestazioni comuni che ne determina la realizzazione: il lavoro si definisce a seconda del modo in cui, per la realizzazione tecnica di misure produttive, le prestazioni di vari individui cooperanti sono reciprocamente divise, e connesse tra loro e con i mezzi materiali di produzione. (Weber, 1922, pp. 110-111) E’ una riflessione che rimanda anche alla questione del potere (cfr. sez. due, 3) e che parzialmente vedremo fra poco nella versione della leadership (o direzione, o management) ma soprattutto, per quel che qui ci riguarda, propone una dimensione di analisi che dalla ricerca di definizione di “cos’è il lavoro” si sposta verso la questione del “come si lavora”, al modo in cui si realizzano la “cooperazione”, la “divisione” e la “connessione” tra individui e mezzi negli ambienti di lavoro. In altre parole, possiamo pensare e discutere di lavoro come di una “attività situata”, “che ha luogo in un contesto in cui persone e tecnologie collaborano e confliggono e che si realizza grazie ad un insieme di pratiche discorsive” (Bruni, Gherardi, 2007, p. 11). È la ripresa del programma della fenomenologia schutziana (cfr, sez. uno, III), del lavoro come “attività finalizzata verso il mondo” (Schutz, 1962), che contemporaneamente dipende dal contesto entro cui è collocata e contribuisce a costituire quello stesso contesto. Il “fare” del lavoro diventa così un “farsi” progressivo, un processo e al tempo stesso un esito, parziale e provvisorio, in continua ridefinizione, di quel processo; i protagonisti sono gli attori sociali, individui organizzati e collocati entro sistemi organizzativi nei quali vengono quotidianamente messe in scena le performances lavorative (cfr. sez. tre, c), durante e attraverso le quali vengono elaborati significati (Weick, 1995). D’altro canto, è sufficiente osservare un gruppo di persone al lavoro, che si tratti di addetti al rifacimento del manto stradale, oppure di insegnanti in una scuola dell’infanzia, per notare come essi sviluppino linguaggi, gesti, modalità di relazione con il pubblico esterno e con i propri utenti che non sono altro che il frutto di un’esperienza sedimentata, condivisa, appresa e ridefinita volta per volta, in una costante oscillazione tra routines (sulla strada il controllo del traffico: bandiera rossa = 3 traffico fermo, bandiera verde = traffico in movimento; a scuola l’alternarsi di accoglienza, giochi, mensa, ora del sonno) e capacità di adattarsi a situazioni insolite (sulla strada la pioggia che blocca i lavori, un automobilista che non rispetta le disposizioni; a scuola un bambino che esce dal perimetro scolastico). Ciascuno degli attori si muove cioè nella scena lavorativa come su di un palcoscenico, nel quale la partitura è definita per linee generali - le competenze, le procedure apprese così come la posizione da occupare sul palco - che viene però messa a punto al momento, sulla base delle relazioni e delle reazioni dei propri colleghi e del pubblico in quel momento. Sono questi i motivi che ci spingono a considerare esplicitamente le pratiche lavorative come pratiche organizzate, contestualizzate; essi, inoltre, ci portano a considerare le pratiche organizzative, vale a dire i modi con i quali le organizzazioni producono e riproducono gli attori sociali e se stesse, come elementi centrali della nostra riflessione. Possiamo rappresentarle drammaturgicamente, come processi permanenti che coinvolgono sia i soggetti (gli individui nei diversi ruoli) che le risorse strumentali (sedi, arredi, divise; telefoni, computers, badili). Allora potremo considerare le organizzazioni come contenitori, frames, che collocano, incorniciano, le azioni degli individui. E insisteremo su come esse non siano che l’esito di un “processo di creazione collettiva di soggetti-membri che apprendono insieme” (Crozier, Frieberg, 1977, p. 21); un “sistema di azione concreto” (Id., p. 167), nel quale si condensano e si concentrano – ripetiamo, anche in assenza di compresenza fisica – le azioni dei soggetti. Nell’organizzazione (in qualsiasi organizzazione) avvengono interazioni significative tra i soggetti; essa viene orientata dagli attori e insieme ne orienta le costruzioni di significati, attraverso le pratiche che in esse vengono agite. Definita come elemento ordinativo, cioè come un insieme di persone e di gruppi associati che mettono in comune risorse e strumenti per realizzare obiettivi di produzione di beni o servizi o per perseguire finalità di tipo culturale (religioso, educativo...); (Lèvy, 2002, p. 209) l’organizzazione, insomma, è “una forma di azione collettiva basata su processi di differenziazione e di integrazione tendenzialmente stabili e intenzionali” (Ferrante, Zan, 1994, p. 31), dove per differenziazione si intende un’ articolazione delle competenze, assegnate a strutture e a ruoli diversi, e per integrazione il coordinamento tra queste diverse attribuzioni; le organizzazioni, però, sono anche luoghi di riparo dal disordine e di produzione di significati, o altrimenti “reti di azioni collettive intraprese nello sforzo di dare forma al mondo e alle vite umane” (Czarniawska, 1998, p. 60). Possiamo, dunque, per ora considerare la dimensione organizzativa come una dimensione “meso”, una “terra di mezzo”, un tipo sociale intermedio tra individui e gruppi ristretti d’appartenenza da un lato, e società globale dall’altro. (Lèvy, 2005, p. 210) Qui conviene introdurre una precisazione, relativa al concetto di “agire strategico”: se riteniamo fondata la centralità dell’interazione (tra attori, tra questi ed il contesto) non dobbiamo pensare ad una organizzazione come ad una entità monolitica, omogenea, all’interno della quale tutti i soggetti condividono le medesime aspettative e si adeguano passivamente, o come un unico corpo, comportandosi di conseguenza come una sorta di massa indifferenziata. Se la analizziamo dal punto di vista dell’agire strategico degli attori, o altrimenti dell’interazione strategica goffmaniana, possiamo anzi leggere 4 l’organizzazione come “un insieme di giochi strutturati” (Crozier, Frieberg, 1977, p. 196), nel quale ciascun attore, oltre ad agire - almeno apparentemente - secondo un fine condiviso, può perseguire pervicacemente il proprio, utilizzando le risorse disponibili a questo scopo. Si pensi, ad esempio, a quante trame possono essere tessute anche entro uno stesso gruppo di lavoro: il (o la) collega ambizioso (a) che cercherà di migliorare la propria posizione anche a scapito degli altri, chi tenderà a compiere il minimo sforzo possibile, a costo di pregiudicare le prestazioni complessive della squadra. C’è anche chi, partecipando ad una squadra, agisce in realtà per accumulare informazioni e competenze che utilizzerà altrimenti, ad esempio “mettendosi in proprio” in un settore di attività simile, o cedendo informazioni ad una ditta concorrente dietro un qualche tipo di ricompensa. Insomma, non possiamo pensare, nei contesti lavorativi, al momento organizzativo come ad una sintesi armoniosa e mai conflittuale tra attori; occorre invece tenere presente come questo “doppio movimento” che si svolge continuamente nella vita lavorativa, tra un contesto condizionante le mosse degli attori e nel contempo di condizionamento del contesto da parte degli attori stessi, sia il fondamento, o forse l’unico prodotto comune, per ogni organizzazione. Utilizzando la metafora teatrale possiamo considerare l’organizzazione come la scena sulla quale i diversi attori mettono in atto il dramma delle proprie pratiche, con le stesse dinamiche che portano una compagnia teatrale a mettere in scena uno spettacolo. Mangham e Overington (1987), rifacendosi a Goffman ed ai rituali di interazione, enfatizzano come nelle organizzazioni e nel teatro troviamo prassi rituali, cioè il “risultato di soluzioni stabili e riuscite ai problemi provocati da circostanze ripetitive” (Mangham, Overington, 1987, p. 69); vale a dire una certa stabilità, una continuità organizzativa, che si mostra nella erogazione dei servizi, nella produzione di oggetti “nonostante” conflitti o incidenti che possono essere avvenuti dietro le quinte, perché aldilà degli attori, “lo spettacolo deve continuare” (Id., p. 148). Alla messa in scena contribuiscono senza dubbio gli allestimenti, ovvero i luoghi e le scenografie, poiché “l’apparato scenico non è separato dall’azione, ma ne è parte integrante” (Id., p. 170). Così i costumi o le divise indossate dagli attori ne marcheranno (o meno) l’appartenenza; gli arredi e le attrezzature segnaleranno gli investimenti che su quel luogo sono stati realizzati, contrassegnandone la centralità o viceversa l’abbandono (con tutte le conseguenze del caso, sia per chi vi opera, cioè utilizza le attrezzature per produrre, che per chi vi accede come utente). Se pensiamo alla magnificenza di alcuni luoghi - quali palazzi storici, come sedi di rappresentanza di enti o ditte prestigiose - o viceversa alle sedi di servizi sociali periferici, spesso collocati in luoghi riadattati e con arredi di risulta, ne ricaveremo decisamente impressioni differenti, come diversa sarà di riflesso l’impressione (talvolta la reputazione) che ne ricaveranno lavoratori ed utenti. 2. Equipes Per rimanere nella metafora teatrale, ci soffermeremo sull’attenzione al processo, allo sforzo creativo, costituito dalle prove che i gruppi di lavoratori sostengono prima e dopo la messa in scena; stiamo parlando del lavoro di équipe. Le équipes costituiscono incontri di lavoro a cui possono partecipare solo determinate categorie di colleghi; che l’oggetto degli incontri riguardi la messa a punto di strategie aziendali finalizzate ad incrementare le vendite di un prodotto, o che si tratti di un “collegio docenti” in una scuola, le équipes si caratterizzano per essere momenti in cui la ribalta – sia essa la relazione con gli utenti, la relazione con i decisori politici, o comunque con altri soggetti del sistema organizzativo – è sospesa, è lasciata fuori. Siamo, cioè, decisamente 5 in un retroscena goffmaniano (Goffman, 1959), nella cucina del ristorante messa al riparo dallo sguardo dei consumatori di pasti, in cui, nella fattispecie, ci si sottrae all’obbligo dell’ascolto, ci si ripara dall’accesso incondizionato, ed in cui agli utenti che bussano alla porta della sala riunioni per accedere al servizio viene detto che “oggi non si può”. La prima funzione delle équipes è, quindi, quella di poter fermare, letteralmente, l’accesso, alzare la soglia solitamente accessibile, e rifugiarsi tra pari per aprire un confronto ed uno scambio finalmente, in quel momento e in quel luogo, possibili. Per dirla con Goffman, l’équipe può essere trattata come fatto a sé stante, come qualcosa che si trova ad un terzo livello fra la rappresentazione individuale, da un lato, e il complesso delle interazioni dei partecipanti, dall’altro. (Goffman, 1959, p. 98) Un livello intermedio, vale a dire che essa stessa è una unità di organizzazione sociale in cui si verifica l’interazione focalizzata, riunione focalizzata, o incontro, o sistema situato di attività. (Goffman, 1961b, p. 22) In altre parole, si tratta di una “situazione sociale”, un rituale di interazione che si svolge grazie all’impegno dei membri, che avviene quando un gruppo di due o più soggetti, i cui membri sono tutti e soltanto coloro che in un determinato momento sono alla presenza l’uno dell’altro. (Goffman, 1967, p. 160) Quel che qui ci preme sottolineare è come attraverso la costituzione di un momento separato fisicamente, la “comunità di pratiche” ha la possibilità di ritrovarsi, abbandonare la maschera della rappresentazione in pubblico, senza che questo pregiudichi la coerenza della messa in scena; anzi, questo rinforza la propria capacità di mettere in scena nuove rappresentazioni in virtù della “ricarica” ottenuta attraverso il confronto con i pari durante l’équipe, che potremmo considerare, dunque, come una vera e propria “batteria sociale”. Risulta, quindi, ancora più evidente come si riveli necessario per un’organizzazione creare dei momenti – delle “regioni fisiche separate”, direbbe Goffman – nei quali verificare i testi, i copioni, vale a dire la coerenza tra le disposizioni messe in atto e le procedure organizzative; in cui confrontare le possibili risposte e le esperienze dei colleghi; dove procurarsi elementi di aggiornamento (attraverso scambi, confronti), in cui allenarsi alla difficile arte della gestione di relazioni complesse combinando valori, norme, bagagli professionali ed emozioni. Si tratta di un tempo e di uno spazio nel quale poter ammettere i propri, o della propria organizzazione, errori, esplicitare critiche, accogliere suggerimenti; al riparo dagli sguardi del pubblico, prima del confronto con il pubblico, ed in cui tornare dopo, per verificare con i propri pari gli esiti della relazione. L’ “équipe di rappresentazione” è qualcosa di simile al carattere di una società segreta, un insieme di individui che debbono collaborare per il mantenimento di una certa definizione della situazione, (Goffman, 1959, p. 122) i cui membri condividono vincoli di interdipendenza reciproca (ciascun membro può far fallire la messa in scena) e di familiarità (ciascuno viene messo a parte di segreti che 6 non possono venire raccontati in pubblico), fino al punto che alcuni partecipanti dipendono da questo momento particolare di incontro (di allenamento, di messa a punto) per poter mantenere una particolare definizione della situazione. Ma le équipes svolgono anche un’altra funzione fondamentale; esse sono anche un momento importante rispetto all’asse del “dare e ricevere ordini”, cioè alla collocazione del gruppo all’interno dell’organizzazione, anzi alla riproduzione sia del gruppo che dell’organizzazione, attraverso la costruzione di posizionamenti, di strategie, siano queste strategie difensive, oppositive, propositive. L’incontro di équipe è un rituale durkheimiano: la riunione del gruppo e l’esecuzione di determinate attività che focalizzano momentaneamente l’attenzione e lo stato d’animo, creano [...] una realtà simbolica condivisa. La realtà in questo caso è la stessa organizzazione. Anche se i capi non necessariamente riescono a controllare molto efficacemente gli operai, il ruolo del dare e ricevere ordini è nondimeno cruciale al fine di mettere in atto l’esistenza dell’organizzazione e mantenerla come una realtà nella mente delle persone. (Collins, 1988, p. 259) Il riferimento è ai gruppi di lavoro in fabbrica, i quali si presume dispongano di scarsa discrezionalità, mentre i “capi” qui sono altresì intesi come appartenenti non tanto al gruppo ma all’organizzazione; una definizione che non ne considera la collocazione ambivalente, di “cerniera”, su cui torneremo fra poco, discutendo di leadership. Quel che qui ci preme sottolineare è come l’équipe si può presentare, all’interno delle dinamiche organizzative, come un elemento costituivo di una “catena di rituali di interazione”; un’ équipe esiste quando risponde a quattro caratteristiche: 1. Due o più persone sono riunite fisicamente in uno stesso spazio, così che possono influenzarsi reciprocamente grazie alla presenza corporea, che questa sia o meno oggetto di attenzione cosciente. 2. Ci sono confini rispetto agli estranei, così che i partecipanti abbiano il senso di chi stia prendendo parte e di chi sia escluso. 3. L’attenzione dei membri è su un oggetto o un’attività comune, e attraverso la comunicazione di questo focus ciascuno diventi mutualmente consapevole dell’attenzione al focus di ciascuno. 4. Essi condividono un modo comune o un’esperienza emotiva. (Collins, 2004, p. 48) Così facendo, che si tratti di un collegio docenti, di un incontro sindacale, di una riunione dei vertici aziendali, i membri dell’équipe contribuiscono a creare una catena significativa di rituali di interazione, con ciò stesso riproducendosi (in quanto forza lavoro, vale a dire come gruppo che si predispone ad agire) e riproducendo l’organizzazione. Rispetto all’équipe possiamo, infine, aggiungere che si tratta di una sorta di “intervallo fra palcoscenico e vita quotidiana (in cui) gli attori sono sospesi fra mondi diversi” (Mangham e Overington, 1987, p. 132). Un momento liminare (Turner, 1986), quindi almeno potenzialmente un atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell’esperienza viene attribuito un “significato”. (Turner, 1986, p. 43) Aldilà della distinzione che l’Autore precisa tra situazioni liminali e limnoidi (le prime 7 riferite al modello della solidarietà meccanica durkheimiana, quindi pressoché “automatiche”, le seconde alla solidarietà organica, quindi scelte, volute dai partecipanti, legati da un vincolo contrattuale) ci sembra interessante il considerarle come i contesti in cui sorgono nuovi modelli, simboli, paradigmi, ecc., cioè come il vero e proprio vivaio della creatività culturale. Questi nuovi simboli e costruzioni retroagiscono poi sui settori e sui conflitti economici e politico-legali “centrali”, fornendo loro mete, aspirazioni, incentivi, modelli strutturali e raison d’être. (Id., p. 61). Sinteticamente definiremo dunque quella della équipe come una potenziale attività di “messa a punto” della “messa in scena”, cruciale tanto per gli attori quanto per l’organizzazione. Un’occasione per incentivare riflessività negli uni e nell’altra. 3. Leaderships Il tema delle équipes ci rimanda direttamente al ruolo e alla funzione della leadership, cui in questa sede accenneremo per le sue caratteristiche di “mediatore dell’organizzazione” (cfr. sez. uno, 6; sez. due, 3). Goffman, orientato a considerare il lavoro di équipe come finalizzato ad una costruzione di rappresentazioni condivise, collega la figura del leader a quella del regista, o dell’”allenatore” (Goffman non distingue fra tipologie di leader, limitandosi a contrapporre leadership espressiva a leadership di regia), cui “può essere affidato il compito di ‘rimettere al suo posto’ qualsiasi membro dell’équipe la cui rappresentazione diventi sconveniente (Goffman, 1959, p. 116). Più che a reprimere condotte incoerenti egli sarà attento a stimolare una dimostrazione di impegno appropriato, cioè nello stesso tempo a curare la coerenza tra “le parti nella rappresentazione e la facciata individuale richiesta per ogni parte” (Id., p. 117). Goffman riconosce nel ruolo del leader un ruolo ibrido, “mezzo dentro e mezzo fuori”, poiché partecipa alle équipes ma non alla pari con gli altri membri. Da parte loro i membri del gruppo avranno con lui (lei) un atteggiamento diverso da quello assunto verso gli altri partecipanti; un’ affermazione questa su cui convergono anche Mangham e Overington (1987), secondo i quali il dirigente funziona come agente per lo sforzo collettivo. Se non riuscirà a mettere in chiaro ogni cosa, tutti ne subiranno le conseguenze. (Mangham, Overington, 1987, p. 236) Rimanendo su alcune delle caratteristiche relative alla funzione interna del leader, possiamo precisare che il suo è un importante presidio dei confini relativi ai compiti del gruppo: egli non ha funzione solo di preparare il back office e di fissare gli standard di prestazione, ma di definire e proteggere i confini della prestazione offrendo i supporti necessari e generando il “senso” del servizio. (Butera, 1990, p. 147) In definitiva spetta al leader restituire ordine; o, meglio, secondo Czarniawska, il suo compito è di presidiare dal pericolo del disordine: 8 il ruolo dei leader è dare al resto del cast e del pubblico l’illusione di controllabilità [...]. Essi sono ricompensati perché, grazie a loro, possiamo smettere di aver paura del disordine. (Czarniawska, 1998, p. 56) Tutore dell’ordine simbolico, guardiano dei confini, il leader si configura dunque in questa chiave di lettura come un elemento indispensabile al funzionamento del gruppo, garante della sua sopravvivenza e del suo funzionamento, e al tempo stesso garante del buon funzionamento organizzativo. Le rappresentazioni, per poter essere condivise, hanno in primo luogo la necessità di poter essere espresse, riordinate, il gruppo va difeso dal caos (la turbolenza) esterno, sia che questo provenga dall’organizzazione (come accade nel caso di riorganizzazioni, o di nuove procedure) che dalla realtà sociale più ampia (come può accadere per l’approvazione di nuove normative, o come nel caso di richieste complesse provenienti da utenze particolari). Non possiamo però dimenticare almeno altre tre funzioni, tra quelle attribuite ad un leader: - quella del controllo sui propri collaboratori – controllo che può essere esercitato ad esempio in via autoritaria (ispezioni, provvedimenti disciplinari), mediante ricompense simboliche (assegnazione di incarichi) o materiali (promozione, aumento di stipendio). Una funzione, questa, che sicuramente ha conseguenze anche sulle modalità di svolgimento della équipe, dato che può contribuire a creare disuguaglianze e tensioni nel gruppo, anche in virtù della differente distribuzione delle risorse; - quella del reclutamento, cioè dell’inclusione di nuovi soggetti all’interno della cornice organizzativa; non ci addentreremo in questo tema, che ci limitiamo qui a segnalare come si tratti di un indicatore di innovazione (così che ad esempio verranno reclutati soggetti sconosciuti, sulla base dei curricula e delle competenze, magari mediante bandi sovranazionali), o viceversa della riproduzione degli assetti, e quindi verrà prestata attenzione alle affinità, alle conoscenze dirette, alla vera o presunta “fedeltà”: all’interno della Corbe [una ditta emiliana] si parlano molte lingue straniere, ma soprattutto il “corbese”, cioè il linguaggio nostro. Quindi durante la selezione ricerchiamo i personaggi che abbiano le qualità per parlare questa lingua; (La Mendola, 1995, p. 80) - quella della funzione di “manutenzione della ribalta”: spetta, cioè, a coloro che occupano posizioni di vertice sovrintendere, se non addirittura presenziare direttamente, a tutti quei momenti che rappresentano l’organizzazione verso l’esterno: che si tratti di meetings internazionali, di convegni, di visite di delegazioni, oppure di mantenere le relazioni con le altre organizzazioni presenti nella scena locale e sovralocale, sarà il leader a rispondere delle prestazioni, sarà lui (lei) a ricevere il plauso per un servizio o una manifestazione riuscita, o viceversa a pagarne le conseguenze in caso di insuccesso (salvo poi, in un caso come nell’altro, rivalersi sui membri del gruppo di lavoro). 4. Macchine e organismi Certo, con le riflessioni fin qui presentate ci siamo addentrati da subito nelle organizzazioni che sono presenti nella scena contemporanea, quella che viene definita la “società dei servizi”, nella quale ampio spazio è dato alla messa in scena di 9 rappresentazioni condivise, del “senso dell’organizzazione”; compiamo, a questo punto, un passo indietro, e riprendiamo una storica dicotomia. Ci appoggeremo ai due pilastri portanti della storia delle organizzazioni, vale a dire alle due metafore della macchina (o del castello, o dell’orologio), che vede gli individui come ingranaggi, o pezzi di ricambio, oppure dell’organismo, dinamico, interattivo, processuale, nel quale i soggetti diventano cellule, corpi vivi all’interno di un altro corpo. Ma procediamo con ordine. Dobbiamo a Weber (1922) e ai suoi studi sulla burocrazia l’elaborazione di una teoria che definisce il modello razional-strumentale dell’organizzazione, caratterizzata da conformità alle regole (corpus di regole formalizzate), divisione specializzata delle competenze, gerarchia d’ufficio, ed i cui addetti sono chiamati a rispondere ai principi della impersonalità e della competenza, cioè a prestazioni standardizzate e specializzate. Una proposta ripresa da Taylor (1911), il quale la situava nel più ampio paradigma della organizzazione scientifica del lavoro, stavolta mutuato dall’esperienza della fabbrica: lì la divisione è innanzitutto orizzontale, poiché la standardizzazione delle procedure produttive implica il segmentare il lavoro in reparti, in “pezzi” (pezzi di organizzazione che producono pezzi, oggetti, beni materiali, o documenti); al tempo stesso verticale, poiché la progettazione andava separata dall’attività esecutiva; ed infine temporale, dato che tutto è calcolabile in anticipo, prevedibile. Agli addetti alla produzione, esecutori di procedure, non viene richiesta alcuna capacità di interpretazione, adattamento, progettazione, ma semplicemente di eseguire ordini, e comportarsi come “incapaci addestrati”4 (il termine è di Merton, 1949). Sia pure in un ambiente esterno relativamente stabile (vedremo fra poco l’importanza delle relazioni tra organizzazione e ambiente) il buon funzionamento della macchina rimane, però, un miraggio. Eccesso di regolamentazione, deresponsabilizzazione e frammentazione rappresentano i limiti di un modello i cui ingranaggi stentano a funzionare come dovrebbero. Tra loro, i più distanti dai processi decisionali sono portati talvolta ad attuare strategie di trasgressione, a manifestarsi reattivamente come soggetti, quasi a prendersi una rivincita sull’organizzazione-macchina. E’ lo stesso criterio della razionalità a manifestare i propri limiti: si mettono in luce sempre più frequentemente incertezze (le decisioni vanno assunte sulla base di informazioni limitate, i contesti sociale, economico, politico sono in continua trasformazione) e ambiguità (i problemi vanno interpretati, elaborati; non c’è mai “one best way”, una unica soluzione ottimale, ma si tratta di dover scegliere fra diverse traiettorie assumendo il rischio della decisione tra molte opzioni possibili). Bisognerà attendere il consolidamento di un approccio processuale, riflessivo perchè gli elementi di imprevedibilità, interazionalità, flessibilità, adattamento trovino spazio nella elaborazione del pensiero organizzativo. Questo affinché i soggetti, dapprima relegati al rango di esecutori, acquistino considerazione. La macchina, per funzionare, ha bisogno di qualcuno che la progetti, la guidi, la curi, come abbiamo visto nell’introduzione. Ma 4 Sulle conseguenze devastanti della specializzazione, della divisione dei compiti e della “mera esecuzione degli ordini” nel caso del nazismo si veda Bauman (1989); le tre condizioni che consentirono agli addetti al genocidio di operare un “crimine di massa” furono la disciplina organizzativa (obbedire ai comandi superiori escludendo ogni altra motivazione, e l’ “onore del pubblico impiegato” sostituivo della responsabilità morale); la routinizzazione (al pari degli addetti alla produzione di strumenti di sterminio, per i burocrati coinvolti si trattava di stilare promemoria, redigere progetti, senza partecipare direttamente all’omicidio di massa); la divisione del lavoro (che “annulla il significato morale dell’azione”); la disumanizzazione delle vittime, che vengono equiparate a parassiti, e dopo essere state allontanate nella catena produttiva vengono anche rese socialmente invisibili agli attori, divenuti “ufficiali sanitari”. 10 questo qualcuno – l’individuo che lavora con altri individui nell’organizzazione - non può più comparire solamente come ingranaggio o “organo”, dato che nel suo contributo al funzionamento mette in gioco il proprio patrimonio di competenze, di esperienze. Si tratta, in altre parole, del suo “sapere situato”. Questo è il programma di lavoro della etnografia organizzativa, finalizzato a scoprire e spiegare i modi in cui gli individui inseriti in specifici ambienti di lavoro arrivano a comprendere, a spiegare, a influenzare e comunque a gestire le situazioni quotidiane in cui sono immersi. (Van Maanen, 1979, p. 36) I soggetti, collocati in contesti organizzativi, contribuiscono, dunque, al generarsi ininterrotto dell’organizzazione, e così facendo elaborano “cultura”, significati condivisi; agiscono cioè sia riguardo alla produzione (di beni, di servizi) che riguardo al modo di produrre. Producono e riproducono contemporaneamente esiti e processi organizzativi, oscillando tra adesione al mandato (esecuzione di norme e regolamenti) e capacità autonoma di interpretazione e rielaborazione. Dunque l’organizzazione come fenomeno sociologico è [...] un costrutto culturale grazie al quale gli uomini pervengono ad orientare i loro comportamenti in modo da ottenere un minimo di cooperazione, pur mantenendo la loro autonomia di agenti liberi. (Crozier, Friedberg, 1977, p. 160) Possiamo fare nostra, allora, la proposta di Schein (1988) che parla di una vera e propria “cultura organizzativa”, come di un insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi. Ecco che ritroviamo, nell’evolversi degli studi organizzativi, un’attenzione particolare alle interazioni dentro e intorno alle organizzazioni. Secondo Gagliardi (1995) sono quattro i filoni di studi cui riferirsi per studiare le organizzazioni come “culture”: la sociologia fenomenologica (cfr. sez. uno, III), l’interazionismo simbolico (cfr. sez. uno, II), l’etnometodologia, (cfr. sez. uno, III) la tradizione etnografica. Dalla delusione per l’approccio quantitativo, a causa dell’eccesso di distanza tra spiegazioni teoriche e fenomeni sociali locali, a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso si sviluppano parallelamente le riflessioni sul metodo della ricerca e le elaborazioni sulla natura del fenomeno organizzativo. La svolta avviene, secondo Piccardo e Benozzo (1996) sui diversi livelli: ontologico (la natura della realtà, cosa può essere conosciuto), epistemologico (la relazione tra chi ricerca e ciò che può essere conosciuto), metodologico (quali metodi sono più adatti a questo nuovo programma). Si tratta di analizzare e descrivere ciò che succede a partire dalle manifestazioni della cultura, piuttosto che di raccogliere le opinioni attraverso risposte razionalizzate: le “teorie-inuso” piuttosto che le “teorie esposte” (Argirys, Schön, 1996). Se dovessimo provare a riassumere questo passaggio cruciale potremmo utilizzare quello che negli studi organizzativi viene rappresentato come il passaggio quasi durkheimiano da un modello meccanico, del “castello”, inteso metaforicamente come emblema di autosufficienza e direttività, finalizzato alla produzione di oggetti materiali, ad un modello organico - o “a rete” - che Butera definisce come caratterizzato da tre processi: la nascita di una economia della flessibilità, che vede lo svilupparsi di aziende 11 che hanno come compito primario la fornitura di servizi e non più di soli prodotti; la terziarizzazione, con la crescita di occupazione nel settore terziario ed il calo contemporaneo nei settori agricolo ed industriale, con l’aumento di importanza dei “beni immateriali”, così che in un numero crescente di casi il prodotto non è più una merce ma è rappresentato da un servizio immateriale ad “alta tecnologia intellettuale”. (Butera, 1990, p. 27) Basterebbe fare riferimento a tutte quelle campagne di “fidelizzazione del cliente” promosse da catene di supermercati e centri commerciali, o ai “servizi post-vendita” offerti da molte case automobilistiche per comprendere quanto sia diffuso questo fenomeno. Abbiamo, infine, il terzo processo, rappresentato dalle tecnologie informatiche, che cambiano il modo di produrre e facilitano l’integrazione fra settori (ad esempio nelle aziende fra produzione e controllo, o nella facilità di circolazione di informazioni tra i membri) e fra prodotti. Lavoro e organizzazione si definiscono congiuntamente, si pongono come indicatori dei passaggi epocali, così che nella società contemporanea il modello meccanico di organizzazione del lavoro – analizzato da Taylor per le sue caratteristiche di ripetitività, per il suo essere standardizzato e standardizzante - viene sostituito da un modello organico, flessibile, soggettivizzato, aperto agli imprevisti. La “società dei servizi” insomma esporta la relazione - che abbiamo visto imperare al suo interno - verso i fruitori esterni, facendone il proprio “core business”; se questo è vero per i settori che producono beni materiali (automobili o spazzolini da denti; catene di supermercati) è ovviamente ancora più vero per quelle organizzazioni che producono esplicitamente beni immateriali: scuole (cfr. sez. tre, b), servizi sociali (cfr. sez. tre, d), servizi psichiatrici (cfr. sez. tre, e), i regni del “lavoro relazionale”, il cui prodotto coincide con l’interazione fra addetti interni e pubblico esterno (insegnanti e studenti, operatori e utenti). Vorremmo citare, alla fine di questo excursus due grandi Autori cinematografici che hanno narrato le ambivalenze del processo di modernizzazione in due momenti storici differenti: stiamo parlando del Charlie Chaplin di “Tempi moderni” (1936), nel quale l’operaio addetto alla catena di montaggio (il modello taylorista) finisce per ripeterne compulsivamente i movimenti, per venire infine letteralmente inghiottito dagli ingranaggi della macchina, per diventare egli stesso parte della macchina; e, trent’anni più tardi, del JacquesTati di “Playtime” (1967), che col suo sguardo surreale e le sue azioni stralunate provoca umoristicamente la messa in gioco degli assetti organizzativi “dati per scontati”, introducendo il tema della solitudine dell’uomo moderno e dei suoi inciampi di fronte a tutta una serie di automatismi, luci e soluzioni tecnologiche - dagli ascensori alle automobili pluriaccessoriate, dagli uffici “open space” alle abitazioni piene di telecomandi che si disturbano reciprocamente - destinate ad incepparsi. Due esempi di come da un lato le organizzazioni tendano a produrre routines ed i soggetti ad eseguirle, e dall’altro di come la soggettività, stranita, degli attori sociali sia incomprimibile, e metta in discussione gli assetti dati-per-scontati, in entrambi i casi grazie ad uno sguardo “alieno” (che oggi chiameremmo etnografico) capace di leggere tra le trame relazionali e organizzative. Riprendendo la proposta di Butera, ritroviamo nello schema che segue (schema 1) una distinzione nitida tra i due momenti cruciali della vita organizzativa: il primo riprende l’idealtipo del castello e della produzione lineare, con gli attori sociali considerati 12 semplicemente, come è per Chaplin, dei componenti del grande ingranaggio che deve solo essere manutenuto; il secondo, invece, ci restituisce l’idea di un sistema aperto, dinamico, in relazione continua con il proprio interno – per esempio con il confronto che poco sopra abbiamo visto essere un elemento peculiare delle équipes oltre che una funzione dei leaders – e con l’ambiente esterno, stavolta non più stabile, definito una volta per tutte, ma in continua trasformazione. Se pensiamo ad esempio alla velocità con cui vengono introdotte nuove tecnologie – i processori dei computer, ad esempio – ci rendiamo immediatamente conto di come ogni unità produttiva debba adeguarsi velocemente all’innovazione, confidando su professionalità capaci di adattarsi con altrettanta rapidità. La stessa cosa avviene nel mondo dei servizi alla persona, nelle scuole o negli ospedali, dove ad esempio l’ingresso di utenti migranti comporta il dover modificare il proprio modo di relazionarsi al nuovo pubblico, adattando linguaggio, competenze, soluzioni organizzative (cfr. sez. due, 5). La figura 1 sintetizza la questione. Fig. 1. I due modelli di organizzazione del lavoro (Adattato da Butera, 1990) • • • • Modello meccanico burocrazia gerarchica divisione del lavoro spinta • • • risorse umane come pezzi di ricambio (pezzi) cultura della dipendenza e dell’esecuzione in un ambiente placido • Modello organico rete di sistemi autoregolati ruoli professionali basati sulla minima specificazione critica risorse umane come componenti del sistema (cellule) cultura dell’integrazione e della soluzione in un ambiente turbolento Posto che lo schema sopra riportato dicotomizza, cioè esaspera, le differenze, e che non sempre ci troveremo in presenza dell’uno o dell’altro modello ma di ibridi fra i due, potremo utilizzarlo come riferimento ogni volta che cercheremo di collocare un’organizzazione. Per comprendere quale sia lo stato dell’arte dell’organizzazione e del lavoro che vi si svolge occorre, secondo Morgan (1986, pp.82 e segg.), rispondere a cinque domande: • Di quale natura è l’ambiente dell’organizzazione? Semplice, stabile, o turbolento? Quali cambiamenti sono in corso, sui piani economico, tecnologico, politico? • Quale è la strategia impiegata? Adattamento progressivo, difesa di una nicchia, analisi continua dell’ambiente esterno per cogliere segnali? • Che tipo di tecnologia viene impiegata? Meccanicistica o non-meccanicistica? • Quali sono le caratteristiche dei dipendenti, quale è la cultura dell’organizzazione? Forti motivazioni, identificazione con l’azienda, oppure passività e attesa dello stipendio? • Quale è la struttura dell’organizzazione e quali sono gli stili direzionali prevalenti? Lo stile prevalente è autoritario e si basa sul controllo, oppure è democratico e incoraggia le iniziative e lo spirito di intraprendenza? Si orienta su approcci consolidati e sicuri o è innovativo e accetta i rischi? Sempre più, quindi, nel passaggio dal primo al secondo modello, con tutte le transizioni e le compresenze dell’uno nell’altro, gli individui divengono parte consapevole e attiva 13 nello svolgersi del lavoro; sempre più i temi delle capacità individuali, della relazionalità, dello “spirito di gruppo” e del coinvolgimento dei soggetti nella “mission organizzativa” affollano il paesaggio degli ecosistemi organizzativi. Il lavoro, da ingranaggio-che-appartiene-ad-una-macchina diventa ora una appendice viva, dotata di relativa autonomia, componente di un organismo vivo anch’esso. Le organizzazioni si mostrano, infine, con le loro trame sottese, come “reticoli di relazioni”. Se questa impostazione ci pare convincente, allora potremo recuperare, adattandola, la proposta di Williamson (1975) e Ouchi (1980), che prevede una tripartizione di forme organizzative sulla base dei “costi di transazione”: in condizioni di relativa stabilità risulterà, secondo gli Autori, più “conveniente”, o più efficiente, la forma organizzativa burocratica, per le sue caratteristiche di accettazione di un impiego in cambio di uno stipendio, e la relativa facilità di un controllo delle prestazioni; mentre all’estremo opposto troveremo il mercato, connotato da forte instabilità e ambivalenza nelle relazioni contrattuali e nel conseguimento degli obiettivi, ed infine, con una collocazione intermedia, la forma del clan, che l’Autore associa ad una sorta di aggregazione orizzontale tra soggetti con interessi in comune (come può essere per una coalizione, il sindacato, una categoria professionale, e così via). Ora, insieme alle mutate condizioni storiche e sociali che vedono sempre più convivere nelle stesse strutture organizzative forme di burocrazia e di mercato (si pensi all’introduzione di logiche manageriali nelle pubbliche amministrazioni, oppure al mercato, o quasi-mercato, presente nel panorama dei servizi sociali e sanitari, un tempo esclusivamente pubblici) ci sembra che questa tripartizione possa venire reinterpretata alla luce dell’approccio relazionale, e generare una serie di soluzioni ibride. Così ci risulta difficile pensare (e trovare) un’organizzazione burocratica (un Comune, un Ospedale, una scuola) i cui membri non sviluppino forme clanizzate di relazione interna, magari perché iscritti ad un sindacato, o in quanto appartenenti alla stessa categoria professionale (medici, psicologi, insegnanti versus infermieri o “bidelli”); od esterna, così che il frequentare gli stessi gruppi – partiti, associazioni di volontariato, rotary club, palestre – creerà alleanze, o addirittura fratellanze trasversali, rispetto sia alle appartenenze interne (i colleghi) sia rispetto alla stessa “mission organizzativa”. Ma, insieme a queste due componenti, spesso però compare, contemporaneamente, la terza, il mercato, che a sua volta crea altri tipi di relazioni significative dentro e fuori l’organizzazione. Basti pensare al tema del “doppio lavoro”, per cui alcuni individui operano entro un apparato ma contemporaneamente svolgono attività professionale autonoma all’esterno di questi (il caso dei medici ospedalieri è al riguardo emblematico; ma lo stesso, sia pure su tutt’altra scala, vale per gli insegnanti che danno lezioni al pomeriggio per consentire agli studenti di recuperare i ritardi negli apprendimenti del mattino). Insomma, l’intreccio tra le tre dimensioni sembra tutt’altro che semplice, e anzi la sua ricostruzione tra le diverse forme presenti simultaneamente entro e intorno ad un’organizzazione può portare ad una interessante ricostruzione “reticolare” delle interazioni organizzative, senza che necessariamente i tre livelli debbano essere compressi in una logica di evoluzione lineare. Ci sembra fondamentale a questo punto introdurre altre due categorie, che abbiamo finora solo accennato, e che meritano un approfondimento particolare, dato che contribuiscono a definire tanto gli attori sociali – i soggetti che lavorano – quanto le organizzazioni – i sistemi in cui (con cui) lavorano. Discuteremo dunque di ambienti e di apprendimenti. 14 5. Ambienti La prima dimensione riguarda la relazione tra organizzazione ed ambienti. Secondo Morgan (1986, pp. 87 e segg.) è possibile utilizzare la metafora dell’ambiente (o della “ecologia organizzativa”) per spiegare le organizzazioni, qualora le si considerino come organismi adattabili, interattivi, aperti, “strutture in evoluzione”. Se è innegabile che ogni organizzazione è in qualche misura sovraordinata dall’ambiente in cui è immersa (basti pensare all’insieme di leggi – dai piani regolatori che stabiliscono dove un’azienda può insediarsi, alle norme contrattuali che definiscono l’inquadramento dei lavoratori), è altrettanto vero che a sua volta questa agisce attivandosi nei confronti dell’ambiente esterno. Riprendiamo da Weick il significato istitutivo, di attivazione, o di enactment, secondo il quale individui e organizzazioni, interagendo, contribuiscono ad istituire l’ambiente nel quale operano: “nella vita organizzativa le persone [...] producono parte dell’ambiente che affrontano” (Weick, 1995, p. 31). Se questo è vero, e abbiamo visto poco sopra come la stabilità, o viceversa la turbolenza, dell’ambiente in cui l’organizzazione vive sia effettivamente una variabile fondamentale per il suo sviluppo, o addirittura per la sua sopravvivenza, allora possiamo aggiungere due considerazioni: - la prima relativa ai processi di attivazione dell’ambiente: ogni organizzazione interagisce con il proprio ambiente, essendone condizionata e a sua volta contribuendo a definirlo con il suo sistema di relazioni, con i suoi processi ed i suoi prodotti; l’organizzazione cioè contribuisce ad “istituire l’ambiente” (Weick, 1995); l’esempio più evidente è proprio quello ecologico: una ditta inquinante modifica l’ecosistema (e molte ditte inquinanti provocano il collasso planetario), ma se rimaniamo nella prospettiva relazionale possiamo invece pensare a come un’azienda gestisca relazioni con altre organizzazioni simili entro lo stesso contesto locale; stabilendo alleanze, scatenando concorrenze; intessendo relazioni con gli enti locali per ottenere sgravi fiscali o per contribuire all’assetto viabilistico, assumendo o licenziando personale, delocalizzando la propria produzione o mantenendola in loco: l’ambiente, inteso come ecosistema relazionale, non può non risentirne; - la seconda riflessione riguarda la necessità, per ogni organizzazione, di dotarsi di un corpo specializzato nelle transazioni con l’ambiente, capace di gestire questa permanenza di relazioni. Attori sociali, questi, capaci di “leggere” le trasformazioni sociali ed economiche, di individuare e trasmettere soluzioni nuove. Essi diventano figure strategiche per lo sviluppo, talvolta per la sua stessa sopravvivenza. Ci soffermeremo su questo punto. Riguardo a come un’organizzazione “organizzi” i suoi rapporti con l’ambiente mutuiamo da Crozier, Friedberg (1977) il concetto di “relé”5. Se la “rete”, che dovrebbe aver sostituito il “castello”, è composta dai nodi (che per un ente pubblico possono riguardare gruppi di lavoro, gruppi professionali), cioè da entità orientate ai risultati relativamente autoregolate capaci di cooperare con gli altri e di interpretare gli eventi esterni, ogni organizzazione dovrebbe metterli in condizione di “emettere segnali” verso l’interno, cioè di leggere i messaggi che provengono dall’esterno e rielaborarli. È 5 Il nome relé deriva dal francese relais che indicava ognuna delle stazioni di posta dove i messi postali, durante il loro itinerario, potevano cambiare i cavalli in modo da svolgere più celermente il loro servizio. Per analogia, ai primordi della telegrafia si usò il termine relè nell’indicare i dispositivi grazie ai quali si trasferiva un messaggio in codice Morse da una stazione di partenza a una stazione di arrivo, come se un virtuale messo postale si servisse di tali dispositivi per arrivare finalmente alla meta (da www.wykipedia.org). 15 questa, dunque, la funzione dei “ relé”, servizi specializzati il cui compito è prendere contatti con il segmento di ambiente con cui sono in contatto, e di trasmettere all’organizzazione le informazioni e gli scambi intervenuti. I relé sono, quindi, rappresentanti del segmento di ambiente cui si rivolge l’intera organizzazione [...]. Vengono scelti per informare l’organizzazione della situazione che caratterizza i loro segmenti rispettivi e delle conseguenze che derivano da essa [...] rappresentanti dell’organizzazione e dei suoi interessi presso i loro segmenti di ambiente. (Crozier, Friedberg, 1977, pp. 113-114) Inevitabilmente, “lavorando sui confini dell’organizzazione”, il loro compito è difficile, perché “costituiscono al contempo gli emissari dell’ambiente presso l’organizzazione e gli agenti di quest’ultima presso l’ambiente (Id.), il che ne determina l’ambivalenza. Il loro ruolo è però cruciale, poiché se è vero che dipendono dall’organizzazione, è altrettanto vero che ne diventano, in quanto collocati su presidi strategici, “di frontiera”, “dei riduttori di incertezza indispensabili” (Id., p. 114), che l’organizzazione può utilizzare per meglio relazionarsi all’ambiente, e che, dunque, possono influenzare le decisioni che l’organizzazione è chiamata ad assumere. 6. Apprendimenti L’attenzione ai “ruoli di confine” ci introduce alla seconda dimensione che vorremmo affrontare, quella dell’apprendimento. Diventa infatti fondamentale, per ogni organizzazione che vive di processi, innescare dinamiche di apprendimento continuo, curando sia le relazioni con l’ambiente esterno sia il rapporto con gli attori sociali interni. Se è vero che un’organizzazione apprende quando accetta di modificare i suoi repertori di competenze, relativi a conoscenze, modelli di azione, strategie, procedure operative (Bifulco, 2002) è altrettanto vero che diversi sono i modi attraverso cui questo processo si compie. Per esemplificare quello che fra poco descriveremo in maniera più analitica faremo riferimento a due film di animazione. Nel primo, A Bugs’ life, del 1995, si sperimenta la rottura della routine ed una risposta meccanica, in cui l’apprendimento si evidenzia come la semplice risistemazione dell’esistente, la ricucitura di uno strappo. Una colonna di formiche è intenta a trasportare cibo lungo un sentiero consolidato e rassicurante (la scia odorosa che consente alle formiche di incolonnarsi senza perdersi), quando una foglia cade sul percorso, e questo episodio traumatico interrompe la trama, getta nel panico la colonna. Intervengono gli specialisti (specialisti nel relazionarsi all’ambiente), che rassicurano rispetto al da farsi, rispondono al trauma facendo compiere una leggera deviazione al gruppo ed il cammino riprende. La routine, insomma, riprende velocemente una volta che si è fatto fronte all’imprevisto. Ma è pronta a ripresentarsi in qualsiasi momento, dato che nessun apprendimento, nessuna modifica nelle strategie organizzative è stata introdotta. Nel secondo film, Monsters’& Co. del 2001, protagonisti sono dei mostri di peluche, il cui mestiere è di terrorizzare i bambini: le grida di paura che questi emettono vengono trasformate in energia che permette alla città dei mostri di funzionare. Ma i due mondi, dei mostri e dei bambini, vengono tenuti rigorosamente separati, anzi i primi temono fortemente la contaminazione da parte dei secondi. Ad un certo punto, per motivi casuali (le incertezze dell’ambiente) avviene l’incontro tra due mostri e una bambina, che si intrufola tra di loro. Superata la paura di essere scoperti come trasgressori, i due protagonisti “adottano” la bimba e la portano con sé (travestita da mostro, così che non possa essere riconosciuta). Il paradigma della paura, fondamento dell’organizzazione, 16 comincia a scricchiolare, perché i nostri sono davvero contenti di questa adozione imprevista. Ma c’è di più: per caso (come avviene per le scoperte migliori – un caso di serendipity, direbbe Merton, Fallocco, 2004), i nostri scoprono che “far ridere” produce più energia che “impaurire”. Da quel punto in avanti la linea produttiva di energia viene modificata, ed i mostri si specializzano nel far divertire i bambini. Il mostro che ha avuto l’idea innovativa diventa responsabile del reparto. Da un cambiamento nella relazione tra i soggetti avviene un cambiamento di paradigma che si traduce anche in un cambiamento organizzativo. Siamo in presenza cioè di un apprendimento di secondo livello, che porta a riconsiderare le norme operative, le strategie, gli assetti organizzativi. Il film in realtà non spinge fino in fondo le considerazioni che ha svelato, non approda al deutero apprendimento; non sviluppa il tema della “contaminazione”, che a noi sembra la vera chiave di volta dell’intera trama (ma anche questo, forse, fa parte dell’organizzazione. Che si ri-forma, non si tras-forma). Ora proveremo ad analizzare analiticamente alcune forme di apprendimento, cercando di tenere presente che queste possano essere riferite tanto al singolo attore quanto all’organizzazione nel suo complesso. Ne isoliamo alcuni: ● Single loop or double loop, deutero-learning. Prototipo del modello linearemeccanico, l’apprendimento di tipo single loop, o circuito singolo (Bateson, 1972), comporta un semplice aggiustamento, una correzione degli errori (la sostituzione di un pezzo difettoso della macchina, le formiche che ritrovano la strada dopo una breve interruzione) che non coinvolge l’assetto organizzativo; le premesse organizzative sono, invece, messe in discussione nel caso dell’apprendimento a circuito doppio, durante il quale si sperimentano modi di fare “alternativi e inediti”. E’ quello che Morgan (1986, p. 120) definisce come il passaggio da “subroutine singola” (il sistema corregge ogni errore sulla base di norme operative predefinite) a “subroutine doppia”, attraverso cui il sistema riconsidera la situazione mettendo in discussione le norme operative, come ne caso dei mostri del secondo film); Bateson propone un apprendimento di terzo livello, che implica invece “l’apprendere ad apprendere”, cioè la capacità di modificare i modi in cui si apprende e di promuovere attivamente processi e occasioni di cambiamento, l’accettare il rischio del cambiamento senza porsi il problema di aver pre-definito una meta da raggiungere, facendo proprio “il godimento ambiguo dell’acrobata, sia dell’eccitazione del rischio sia del proprio virtuosismo nell’evitare la catastrofe” (Bateson, 1972, p. 215). ● Problem solving or problem setting. Concentrare le risorse per risolvere i problemi che si hanno davanti è intuitivamente il modo più sbrigativo per risolverli; spesso, però, rimangono insoluti alcuni nodi di fondo, insiti nelle premesse così come nelle procedure consolidate. Attivare la “capacità negativa” (Lanzara, 1993), cioè sospendere la tensione volta al conseguimento di una soluzione rapida e porsi il dilemma della “configurazione dei problemi”, invece che della loro soluzione, significa aprire al nuovo, poter prendere in considerazione anche soluzioni non abituali. Questo dilemma è centrale nell’epoca contemporanea, dato che l’ambiente in cui si muovono le organizzazioni è instabile e soggetto a numerose sollecitazioni, e la fretta nell’individuare soluzioni può essere fuorviante, può portare a riprodurre pratiche consolidate. ● Lonely or shared. Qualsiasi apprendimento in ambito organizzativo ha bisogno 17 ● di essere condiviso, pena l’isolamento; nonostante nell’arena politica organizzativa non tutte le voci abbiano pari accesso al discorso organizzativo, e alcune, specie quelle degli “esploratori”, rischino di rimanere inascoltate, l’apprendimento è possibile solo se cessano di essere “volatili”, se escono cioè dall’appannaggio dei singoli. La condivisione dell’apprendimento è, quindi, da intendere come il risultato di un processo che vede al centro le relazioni e i legami tra gli attori. Un tema cruciale, da cui possono dipendere le sorti di un settore organizzativo: può accadere che in un’organizzazione un gruppo di persone si lanci in avventure sperimentali, innovative, ma rimanga isolato dal resto dell’apparato, in questo caso correndo il pericolo di trovarsi in una condizione di reciproca inadeguatezza. Learning by doing or learning after doing. Quando è il tempo dell’apprendimento (cfr. sez. due, 2)? Intanto che si compie l’azione, o subito dopo, quando può entrare in gioco una sospensione dell’azione? Se è vero che la capacità retrospettiva può togliere opacità alle azioni alimentando la riflessività, è anche vero che questa rischia di essere appannaggio dello studioso, dato che le persone sono quotidianamente “gettate nell’azione” (Weick, 1995, p. 53), impossibilitate a prevedere gli effetti delle proprie azioni, portate a creare significato partendo da ciò che è già avvenuto. L’indagine retrospettiva sembra diventare una delle poche chances a disposizione degli attori sociali, se è vero che “per apprendere occorre agire senza conoscere” (Crozier, Friedberg, 1977, p. 220). La stessa cosa vale per le organizzazioni, che reinterpretando il proprio agire passato riproducono e reinterpretano la memoria assegnando senso alla propria collocazione e progettando, quindi, le proprie traiettorie future. È quello che altri definiscono come “learning-in-organizing” (Gherardi, Nicolini, 2004), processo continuo di apprendimento. Ma se accettiamo la soluzione del dilemma in una prospettiva di “life long learning” (Balbo, 1995), o, come potremmo affermare con un neologismo, di “work long learning” (Ferrari, 2007), allora a fare la differenza tra le diverse opzioni diventa la “disponibilità ad apprendere” in continuo da parte degli attori e delle organizzazioni; vale a dire se, e quanto e come, le organizzazioni tendono a riprodurre un atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti, oppure quando invece per sviluppare una logica di apprendimento e divenire “learning organizations” decidono di accettare il “rischio di innovare” che viene portato quasi sempre “dalla periferia” (Morgan, 2002, p. 132); devono saper sviluppare mappe capaci di render conto del passato, del presente, e dei possibili futuri realizzabili, comportarsi, dice Morgan, come “un cervello”, favorendo batesonianamente “una cultura che premi il cambiamento ed il rischio”. (Morgan, 1986, p. 129) Insomma, la lettura processuale delle organizzazioni incrina i modelli razional/strumentali, “si alimenta di anomalie”, degli errori, delle ambiguità. Purché venga riconosciuta ed assegnata agli attori “la capacità di rischiare” (Bifulco, 1996), di esplorare, di apprendere. Non sempre, però, le organizzazioni accettano di imparare. Tanto meno sono propense ad ammettere correzioni di rotta. In altre parole, nonostante le istituzioni “pensino”, non a prescindere ma grazie ai soggetti che le compongono (Douglas, 1986), non sempre comunicazioni e apprendimenti viaggiano con criteri di 18 reciprocità (verticale e orizzontale), così che i processi decisionali appaiono ancora legati ad imperativi apparentemente razionali, che inibiscono il pensiero riflessivo (Gherardi, 1994). Come a dire che ci sono pochi avventurosi acrobati organizzativi. In conclusione, speriamo di avere a questo punto presentato, sia pure per sommi capi, come il lavoro, pressoché qualsiasi lavoro, possa essere inteso come una “pratica relazionale contestualizzata” (Ferrari, 2007), con riguardo: • sia all’ambiente interno (in orizzontale - colleghi, reparti; in verticale - rapporti gerarchici) che agli ambienti esterni (altre organizzazioni simili – come può essere per imprese concorrenti – altri soggetti che possono in qualche misura influire sui processi lavorativi e sui loro esiti); • tanto per il singolo soggetto quanto per l’organizzazione entro cui il lavoro si svolge, data la natura processuale delle singole pratiche lavorative e degli assetti organizzativi. E, allo stesso tempo, riteniamo di aver sia pure velocemente incontrato categorie teoriche ed analitiche che accomunano, sia pure con le differenze del caso, soggetti privati e pubblici: comuni, prefetture, aziende ospedaliere, aziende (cfr. sez, tre, f), cooperative. Ma se questo è vero, se cioè il lavoro è lavoro relazionale, generatore di senso; se le pratiche lavorative non possono essere considerate scisse dalle pratiche organizzative; se, in definitiva, chi lavora mette in campo un “sapere pratico”, vale a dire un set di competenze pragmatiche, temporali, ancorate alla materialità, inseriti entro pratiche discorsive ed entro contesti storico-culturali definiti (Bruni, Gherardi, 2007, p. 42)6; allora occorrerà, anche nella ricerca e nelle riflessioni sul lavoro, tenere conto dei contributi offerti dall’etnografia, vale a dire di apparati teorico-metodologici e di tecniche di ricerca che sollecitino l’attenzione intorno alla costruzione di significati, alle “teorie in uso” (Argirys, Schôn, 1996), che consentano di ricostruire le pratiche lavorative, organizzative e discorsive. Volti a scoprire, riconoscere e re-istituire la relazione, anzi l’insieme delle relazioni che “tengono insieme le organizzazioni”; ovvero i significati, le frequentazioni, la “confidenza”, come ci ricordavano Gallino e Bertozzi in apertura, fra uomini e macchine, fra lavoro e organizzazione. Tutto questo nella consapevolezza che l’espandersi della dimensione della precarietà nei rapporti di lavoro, o di una “flessibilità subìta”, corrode i corpi, i caratteri, le conoscenze; inibisce l’interazione tra attori sociali e organizzazioni; impedisce a esseri viventi e (quindi) al sistema sociale di comprendere, apprendere, progettare e progettarsi. 6 Anche se ci piacerebbe proporre una inversione non solo simbolica dei termini e parlare, invece che di “sapere pratico”, di “pratiche sapienti”, binomio riordinato che restituisce valore alle competenze agite e situate. 19