9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative di Mauro Ferrari

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9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative di Mauro Ferrari
9. Pratiche lavorative, pratiche organizzative
di Mauro Ferrari
1. Lavori, organizzazioni
Primavera 2007: le cronache italiane riportano quotidianamente notizie di incidenti
mortali sul lavoro: nell’Italia del XXI secolo la storia del lavoro è (ancora) storia di
corpi consumati, amputati, maciullati. Una questione drammatica, contestuale,
apparentemente altra rispetto all’approccio relazionale che contraddistingue il presente
volume. Come lucidamente ricorda Gallino, invece, i due temi sono intrinsecamente
connessi:
La sicurezza fisica trova una componente essenziale nella conoscenza, da parte di
tutti coloro che si ritrovano in quell’ambiente, del modo in cui si muovono le
persone e le cose, in primo luogo le macchine. Quando ci si sbaglia nel prevedere
come si muove una macchina, è probabile che qualcuno si faccia male, o resti
ucciso. (Gallino, 2007, p. 40)
Ma la conoscenza non può essere il risultato di un mero apprendimento iniziale:
Al fine di completarla e mantenerla giorno per giorno è determinante la
compresenza, il dialogo, la frequentazione reciproca dello stesso gruppo di persone
nello stesso ambiente lavorativo. (Id.)
Ed ecco dove le due dimensioni si riagganciano:
È questa continuità di compresenza e dialogo che è venuta meno, in molti luoghi di
lavoro, a causa della moltiplicazione dei contratti di lavoro di breve durata, sia del
diffuso ricorso a forme di esternalizzazione e internalizzazione di segmenti del
processo produttivo [...]. Il risultato è che in un medesimo luogo di produzione si
incontrano lavoratori e macchine che per quanto siano perfetti i primi, ed efficienti
le seconde, non si conoscono tra loro, ossia non sanno né possono prevedere come
uomini e macchine in quell’ambiente si muovono e agiscono. (Id.)
In realtà occorrono alcune precisazioni, che costituiscono altrettante introduzioni ai temi
che incontreremo nel corso dell’articolo1. Innanzitutto le dimensioni dell’azienda
influiscono sui processi lavorativi, così che negli stabilimenti medio-grandi
l’organizzazione è maggiormente strutturata (addestramento iniziale, mansionario per
ciascun addetto, definizione di spazi e percorsi interni), mentre in quelle di piccole
dimensioni viene lasciata maggiore libertà di iniziativa ai singoli; ma almeno tre
caratteristiche valgono in entrambi i casi: innanzitutto gli incidenti (i “pezzi di corpo”
che si rompono) fanno parte del panorama lavorativo, rappresentano un’eccezione
contemplata, al punto che vine considerato “normale” un’assenza anche prolungata per
infortunio; così come le “ragioni pratiche” di chi lavora finiscono per portare ad
adattamenti (a “sconfinamenti”) rispetto alle traiettorie predefinite, a dimostrazione di
come anche la macchina apparentemente più prevedibile necessiti di aggiustamenti da
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Inseriamo alcune considerazioni tratte da un’intervista a Leonida Bertozzi nel giugno 2007;
operaio in alcune aziende metalmeccaniche, Leonida è il nipote di quel “Bertòs, uomo sapiente” (Attilio
Bertozzi), contadino, cacciatore, pescatore e narratore, che Gianni Bosio intervistò a metà degli anni
Sessanta del secolo scorso per conoscerne il “senso della vita” (Bosio, 1981).
1
parte di chi la manipoli (vedremo più avanti la differenza tra “macchine” e “organismi”
nella storia degli studi organizzativi); infine, il tema della frequentazione quotidiana,
che porta da un lato ad un processo continuo di apprendimento, cioè ad “accumulare
sapere”(torneremo fra poco su questo tema centrale), ma dall’altra ad una familiarità
pericolosa con le macchine, le attrezzature, i mezzi mobili, che tra le sue conseguenze
può annoverare una sottovalutazione del pericolo: succede così che gi addetti ad un
tornio tolgano, per comodità di utilizzo, lo schermo protettivo forzando il
funzionamento della macchina e aumentandone la pericolosità2.
Come che sia, dall’attualità narrata da un sociologo e da un operaio sono riporta te al
centro delle riflessioni sul lavoro questioni che finora sembravano sfuggire
all’approccio tradizionale della sociologia del lavoro e ritenute di competenza
dell’approccio interazionista; utilizzando categorie ricorrenti nei diversi saggi che
compongono questo volume potremmo dire che la discontinuità introdotta dalle nuove
forme, flessibili, del lavoro, interrompe o addirittura impedisce il crearsi di una “catena
di rituali di interazione” (Collins, 1988, 2004). E’ quel che già Sennett (1998)
denunciava come una “corrosione del carattere”3, laddove la flessibilità – intesa come
capacità di adattamento continuo alle mutevoli condizioni di vita e di lavoro - lascia il
posto ad una più realistica definizione di “precarietà”, caratterizzata da instabilità e da
carenza di prospettive. Dunque, discutere di temi quali la relazione lavorativa fra
soggetti (le “comunità di pratiche”), fra i soggetti e la conoscenza (gli apprendimenti
individuali ed organizzativi), fra i soggetti e gli ambienti interni ed esterni (le
organizzazioni ed i loro confini), come proveremo a fare in questo articolo, significa
contribuire a ridefinire l’oggetto “lavoro” secondo una prospettiva che punta a
ricomporre i saperi, le esperienze, gli ambienti con i quali e nei quali il lavoro si svolge.
Significa toccare questioni che tagliano trasversalmente le diverse cornici istituzionali
in cui il lavoro si colloca, che accomunano tanto il settore pubblico quanto quello
privato, che connettono la dimensione del lavoro con quelle delle relazioni, della
quotidianità e dei contesti in cui questa si sviluppa. Questa affermazione è vera nelle
situazioni di lavoro in cui i soggetti operano a stretto contatto fisico - come è per le
fabbriche o per gli uffici, dove l’applicazione delle procedure routinarie e le
elaborazioni vengono compiute in presenza di colleghi; oppure in cui il ritmo di lavoro
del gruppo viene negoziato tra datore di lavoro e colleghi in modo che nessuno dei
partecipanti produca al ritmo più veloce possibile, ma funziona anche se applicata ad
altri esempi di figure professionali ispirate alla competitività o all’isolamento,
apparentemente sganciate da appartenenze di tipo collettivo; potremmo utilizzare il
riferimento a figure professionali fortemente individualizzate, quali nel primo caso gli
agenti di commercio, o gli imprenditori, e nel secondo caso gli scrittori. Gli agenti di
commercio hanno in comune la formazione, l’elaborazione di stili di vendita, spesso
adattabili sulla base delle relazioni con i singoli clienti, il disporre di ditte fornitrici, il
ritrovarsi in determinati momenti: i pranzi di lavoro, le convention dei fornitori nelle
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Il nostro interlocutore tiene a precisare la funzione fondamentale del sindacato, fornendone un
quadro interpretativo interessante: insieme alla tutela, egli vede nella funzione sindacale un processo di
“crescita dell’appartenenza”, di protagonismo e di rappresentanza che incrementa la soggettività degli
individui, non più “numeri” o “ingranaggi” ma “co-protagonisti” della propria carriera lavorativa;
sollecita, cioè, il formarsi di una consapevole “comunità di pratiche”. Anche se, nota non senza stupore, il
logo della federazione metalmeccanici della CGIL, di gran lunga la più importante per numero di iscritti,
è tuttora un grande ingranaggio...
3
Il titolo originale del testo recita “La corrosione del carattere”, tradotto invece in italiano con
“L’uomo flessibile”.
2
quali vengono premiati i venditori di maggior successo, il partecipare ad istanze
collettive, quali il lavoro di lobby relativo a questioni fiscali. Lo stesso vale per gli
imprenditori, i quali, insieme ad una vocazione competitiva particolarmente spinta,
riescono a trovare unità d’intenti o quanto meno alleanze temporanee entro associazioni
di categoria - si pensi alla Confindustria – con le quali rivolgersi ad interlocutori esterni
- quali ad esempio il governo - in quanto categoria. Ma questo riguarda anche gli
scrittori (o i pittori, i poeti, gli artisti in generale), i quali per definizione “creano in
solitudine” ma non disdegnano di partecipare da un lato ad una comunità allargata – la
comunità intellettuale, con cui si confrontano, elaborano “scuole di pensiero” e correnti
stilistiche – e dall’altra a momenti collettivi quali trasmissioni televisive, presentazioni,
festivals, momenti ai quali intervengono in quanto appartenenti ad una categoria
socialmente riconosciuta. Dunque, dall’ufficio alla fabbrica fino alla produzione
intellettuale, passando per le varie componenti della società industriale e dei servizi, il
tema delle “comunità di pratiche” non può essere eluso.
Un tema questo che non era sfuggito a Weber (1922), il quale proponeva in prima
battuta una distinzione di tipo “tecnico” tra le diverse forme in cui un gruppo di uomini
e donne compiono un lavoro; pur rimanendo nel campo di un “agire sociale orientato
economicamente” (il riferimento dell’epoca non era certo alla produzione di beni
immateriali), è la connessione tra soggetti e mezzi di produzione al fine di ottenere
prestazioni comuni che ne determina la realizzazione: il lavoro si definisce
a seconda del modo in cui, per la realizzazione tecnica di misure produttive, le
prestazioni di vari individui cooperanti sono reciprocamente divise, e connesse tra
loro e con i mezzi materiali di produzione. (Weber, 1922, pp. 110-111)
E’ una riflessione che rimanda anche alla questione del potere (cfr. sez. due, 3) e che
parzialmente vedremo fra poco nella versione della leadership (o direzione, o
management) ma soprattutto, per quel che qui ci riguarda, propone una dimensione di
analisi che dalla ricerca di definizione di “cos’è il lavoro” si sposta verso la questione
del “come si lavora”, al modo in cui si realizzano la “cooperazione”, la “divisione” e la
“connessione” tra individui e mezzi negli ambienti di lavoro. In altre parole, possiamo
pensare e discutere di lavoro come di una “attività situata”, “che ha luogo in un contesto
in cui persone e tecnologie collaborano e confliggono e che si realizza grazie ad un
insieme di pratiche discorsive” (Bruni, Gherardi, 2007, p. 11).
È la ripresa del programma della fenomenologia schutziana (cfr, sez. uno, III), del
lavoro come “attività finalizzata verso il mondo” (Schutz, 1962), che
contemporaneamente dipende dal contesto entro cui è collocata e contribuisce a
costituire quello stesso contesto. Il “fare” del lavoro diventa così un “farsi” progressivo,
un processo e al tempo stesso un esito, parziale e provvisorio, in continua ridefinizione,
di quel processo; i protagonisti sono gli attori sociali, individui organizzati e collocati
entro sistemi organizzativi nei quali vengono quotidianamente messe in scena le
performances lavorative (cfr. sez. tre, c), durante e attraverso le quali vengono elaborati
significati (Weick, 1995). D’altro canto, è sufficiente osservare un gruppo di persone al
lavoro, che si tratti di addetti al rifacimento del manto stradale, oppure di insegnanti in
una scuola dell’infanzia, per notare come essi sviluppino linguaggi, gesti, modalità di
relazione con il pubblico esterno e con i propri utenti che non sono altro che il frutto di
un’esperienza sedimentata, condivisa, appresa e ridefinita volta per volta, in una
costante oscillazione tra routines (sulla strada il controllo del traffico: bandiera rossa =
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traffico fermo, bandiera verde = traffico in movimento; a scuola l’alternarsi di
accoglienza, giochi, mensa, ora del sonno) e capacità di adattarsi a situazioni insolite
(sulla strada la pioggia che blocca i lavori, un automobilista che non rispetta le
disposizioni; a scuola un bambino che esce dal perimetro scolastico). Ciascuno degli
attori si muove cioè nella scena lavorativa come su di un palcoscenico, nel quale la
partitura è definita per linee generali - le competenze, le procedure apprese così come la
posizione da occupare sul palco - che viene però messa a punto al momento, sulla base
delle relazioni e delle reazioni dei propri colleghi e del pubblico in quel momento. Sono
questi i motivi che ci spingono a considerare esplicitamente le pratiche lavorative come
pratiche organizzate, contestualizzate; essi, inoltre, ci portano a considerare le pratiche
organizzative, vale a dire i modi con i quali le organizzazioni producono e riproducono
gli attori sociali e se stesse, come elementi centrali della nostra riflessione. Possiamo
rappresentarle drammaturgicamente, come processi permanenti che coinvolgono sia i
soggetti (gli individui nei diversi ruoli) che le risorse strumentali (sedi, arredi, divise;
telefoni, computers, badili).
Allora potremo considerare le organizzazioni come contenitori, frames, che collocano,
incorniciano, le azioni degli individui. E insisteremo su come esse non siano che l’esito
di un “processo di creazione collettiva di soggetti-membri che apprendono insieme”
(Crozier, Frieberg, 1977, p. 21); un “sistema di azione concreto” (Id., p. 167), nel quale
si condensano e si concentrano – ripetiamo, anche in assenza di compresenza fisica – le
azioni dei soggetti. Nell’organizzazione (in qualsiasi organizzazione) avvengono
interazioni significative tra i soggetti; essa viene orientata dagli attori e insieme ne
orienta le costruzioni di significati, attraverso le pratiche che in esse vengono agite.
Definita come elemento ordinativo, cioè come
un insieme di persone e di gruppi associati che mettono in comune risorse e
strumenti per realizzare obiettivi di produzione di beni o servizi o per perseguire
finalità di tipo culturale (religioso, educativo...); (Lèvy, 2002, p. 209)
l’organizzazione, insomma, è “una forma di azione collettiva basata su processi di
differenziazione e di integrazione tendenzialmente stabili e intenzionali” (Ferrante, Zan,
1994, p. 31), dove per differenziazione si intende un’ articolazione delle competenze,
assegnate a strutture e a ruoli diversi, e per integrazione il coordinamento tra queste
diverse attribuzioni; le organizzazioni, però, sono anche luoghi di riparo dal disordine e
di produzione di significati, o altrimenti “reti di azioni collettive intraprese nello sforzo
di dare forma al mondo e alle vite umane” (Czarniawska, 1998, p. 60).
Possiamo, dunque, per ora considerare la dimensione organizzativa come una
dimensione “meso”, una “terra di mezzo”,
un tipo sociale intermedio tra individui e gruppi ristretti d’appartenenza da un lato,
e società globale dall’altro. (Lèvy, 2005, p. 210)
Qui conviene introdurre una precisazione, relativa al concetto di “agire strategico”: se
riteniamo fondata la centralità dell’interazione (tra attori, tra questi ed il contesto) non
dobbiamo pensare ad una organizzazione come ad una entità monolitica, omogenea,
all’interno della quale tutti i soggetti condividono le medesime aspettative e si adeguano
passivamente, o come un unico corpo, comportandosi di conseguenza come una sorta di
massa indifferenziata. Se la analizziamo dal punto di vista dell’agire strategico degli
attori, o altrimenti dell’interazione strategica goffmaniana, possiamo anzi leggere
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l’organizzazione come “un insieme di giochi strutturati” (Crozier, Frieberg, 1977, p.
196), nel quale ciascun attore, oltre ad agire - almeno apparentemente - secondo un fine
condiviso, può perseguire pervicacemente il proprio, utilizzando le risorse disponibili a
questo scopo. Si pensi, ad esempio, a quante trame possono essere tessute anche entro
uno stesso gruppo di lavoro: il (o la) collega ambizioso (a) che cercherà di migliorare la
propria posizione anche a scapito degli altri, chi tenderà a compiere il minimo sforzo
possibile, a costo di pregiudicare le prestazioni complessive della squadra. C’è anche
chi, partecipando ad una squadra, agisce in realtà per accumulare informazioni e
competenze che utilizzerà altrimenti, ad esempio “mettendosi in proprio” in un settore
di attività simile, o cedendo informazioni ad una ditta concorrente dietro un qualche tipo
di ricompensa. Insomma, non possiamo pensare, nei contesti lavorativi, al momento
organizzativo come ad una sintesi armoniosa e mai conflittuale tra attori; occorre invece
tenere presente come questo “doppio movimento” che si svolge continuamente nella
vita lavorativa, tra un contesto condizionante le mosse degli attori e nel contempo di
condizionamento del contesto da parte degli attori stessi, sia il fondamento, o forse
l’unico prodotto comune, per ogni organizzazione.
Utilizzando la metafora teatrale possiamo considerare l’organizzazione come la scena
sulla quale i diversi attori mettono in atto il dramma delle proprie pratiche, con le stesse
dinamiche che portano una compagnia teatrale a mettere in scena uno spettacolo.
Mangham e Overington (1987), rifacendosi a Goffman ed ai rituali di interazione,
enfatizzano come nelle organizzazioni e nel teatro troviamo prassi rituali, cioè il
“risultato di soluzioni stabili e riuscite ai problemi provocati da circostanze ripetitive”
(Mangham, Overington, 1987, p. 69); vale a dire una certa stabilità, una continuità
organizzativa, che si mostra nella erogazione dei servizi, nella produzione di oggetti
“nonostante” conflitti o incidenti che possono essere avvenuti dietro le quinte, perché
aldilà degli attori, “lo spettacolo deve continuare” (Id., p. 148).
Alla messa in scena contribuiscono senza dubbio gli allestimenti, ovvero i luoghi e le
scenografie, poiché “l’apparato scenico non è separato dall’azione, ma ne è parte
integrante” (Id., p. 170). Così i costumi o le divise indossate dagli attori ne marcheranno
(o meno) l’appartenenza; gli arredi e le attrezzature segnaleranno gli investimenti che su
quel luogo sono stati realizzati, contrassegnandone la centralità o viceversa l’abbandono
(con tutte le conseguenze del caso, sia per chi vi opera, cioè utilizza le attrezzature per
produrre, che per chi vi accede come utente). Se pensiamo alla magnificenza di alcuni
luoghi - quali palazzi storici, come sedi di rappresentanza di enti o ditte prestigiose - o
viceversa alle sedi di servizi sociali periferici, spesso collocati in luoghi riadattati e con
arredi di risulta, ne ricaveremo decisamente impressioni differenti, come diversa sarà di
riflesso l’impressione (talvolta la reputazione) che ne ricaveranno lavoratori ed utenti.
2. Equipes
Per rimanere nella metafora teatrale, ci soffermeremo sull’attenzione al processo, allo
sforzo creativo, costituito dalle prove che i gruppi di lavoratori sostengono prima e dopo
la messa in scena; stiamo parlando del lavoro di équipe. Le équipes costituiscono
incontri di lavoro a cui possono partecipare solo determinate categorie di colleghi; che
l’oggetto degli incontri riguardi la messa a punto di strategie aziendali finalizzate ad
incrementare le vendite di un prodotto, o che si tratti di un “collegio docenti” in una
scuola, le équipes si caratterizzano per essere momenti in cui la ribalta – sia essa la
relazione con gli utenti, la relazione con i decisori politici, o comunque con altri
soggetti del sistema organizzativo – è sospesa, è lasciata fuori. Siamo, cioè, decisamente
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in un retroscena goffmaniano (Goffman, 1959), nella cucina del ristorante messa al
riparo dallo sguardo dei consumatori di pasti, in cui, nella fattispecie, ci si sottrae
all’obbligo dell’ascolto, ci si ripara dall’accesso incondizionato, ed in cui agli utenti che
bussano alla porta della sala riunioni per accedere al servizio viene detto che “oggi non
si può”. La prima funzione delle équipes è, quindi, quella di poter fermare,
letteralmente, l’accesso, alzare la soglia solitamente accessibile, e rifugiarsi tra pari per
aprire un confronto ed uno scambio finalmente, in quel momento e in quel luogo,
possibili. Per dirla con Goffman, l’équipe
può essere trattata come fatto a sé stante, come qualcosa che si trova ad un terzo
livello fra la rappresentazione individuale, da un lato, e il complesso delle
interazioni dei partecipanti, dall’altro. (Goffman, 1959, p. 98)
Un livello intermedio, vale a dire che essa stessa è
una unità di organizzazione sociale in cui si verifica l’interazione focalizzata,
riunione focalizzata, o incontro, o sistema situato di attività. (Goffman, 1961b, p.
22)
In altre parole, si tratta di una “situazione sociale”, un rituale di interazione che si
svolge grazie all’impegno dei membri, che avviene quando
un gruppo di due o più soggetti, i cui membri sono tutti e soltanto coloro che in un
determinato momento sono alla presenza l’uno dell’altro. (Goffman, 1967, p. 160)
Quel che qui ci preme sottolineare è come attraverso la costituzione di un momento
separato fisicamente, la “comunità di pratiche” ha la possibilità di ritrovarsi,
abbandonare la maschera della rappresentazione in pubblico, senza che questo
pregiudichi la coerenza della messa in scena; anzi, questo rinforza la propria capacità di
mettere in scena nuove rappresentazioni in virtù della “ricarica” ottenuta attraverso il
confronto con i pari durante l’équipe, che potremmo considerare, dunque, come una
vera e propria “batteria sociale”.
Risulta, quindi, ancora più evidente come si riveli necessario per un’organizzazione
creare dei momenti – delle “regioni fisiche separate”, direbbe Goffman – nei quali
verificare i testi, i copioni, vale a dire la coerenza tra le disposizioni messe in atto e le
procedure organizzative; in cui confrontare le possibili risposte e le esperienze dei
colleghi; dove procurarsi elementi di aggiornamento (attraverso scambi, confronti), in
cui allenarsi alla difficile arte della gestione di relazioni complesse combinando valori,
norme, bagagli professionali ed emozioni. Si tratta di un tempo e di uno spazio nel quale
poter ammettere i propri, o della propria organizzazione, errori, esplicitare critiche,
accogliere suggerimenti; al riparo dagli sguardi del pubblico, prima del confronto con il
pubblico, ed in cui tornare dopo, per verificare con i propri pari gli esiti della relazione.
L’ “équipe di rappresentazione” è qualcosa di simile al carattere di una società segreta,
un insieme di individui che debbono collaborare per il mantenimento di una certa
definizione della situazione, (Goffman, 1959, p. 122)
i cui membri condividono vincoli di interdipendenza reciproca (ciascun membro può far
fallire la messa in scena) e di familiarità (ciascuno viene messo a parte di segreti che
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non possono venire raccontati in pubblico), fino al punto che alcuni partecipanti
dipendono da questo momento particolare di incontro (di allenamento, di messa a
punto) per poter mantenere una particolare definizione della situazione. Ma le équipes
svolgono anche un’altra funzione fondamentale; esse sono anche un momento
importante rispetto all’asse del “dare e ricevere ordini”, cioè alla collocazione del
gruppo all’interno dell’organizzazione, anzi alla riproduzione sia del gruppo che
dell’organizzazione, attraverso la costruzione di posizionamenti, di strategie, siano
queste strategie difensive, oppositive, propositive. L’incontro di équipe
è un rituale durkheimiano: la riunione del gruppo e l’esecuzione di determinate
attività che focalizzano momentaneamente l’attenzione e lo stato d’animo, creano
[...] una realtà simbolica condivisa. La realtà in questo caso è la stessa
organizzazione. Anche se i capi non necessariamente riescono a controllare molto
efficacemente gli operai, il ruolo del dare e ricevere ordini è nondimeno cruciale al
fine di mettere in atto l’esistenza dell’organizzazione e mantenerla come una realtà
nella mente delle persone. (Collins, 1988, p. 259)
Il riferimento è ai gruppi di lavoro in fabbrica, i quali si presume dispongano di scarsa
discrezionalità, mentre i “capi” qui sono altresì intesi come appartenenti non tanto al
gruppo ma all’organizzazione; una definizione che non ne considera la collocazione
ambivalente, di “cerniera”, su cui torneremo fra poco, discutendo di leadership. Quel
che qui ci preme sottolineare è come l’équipe si può presentare, all’interno delle
dinamiche organizzative, come un elemento costituivo di una “catena di rituali di
interazione”; un’ équipe esiste quando risponde a quattro caratteristiche:
1. Due o più persone sono riunite fisicamente in uno stesso spazio, così che
possono influenzarsi reciprocamente grazie alla presenza corporea, che questa
sia o meno oggetto di attenzione cosciente.
2. Ci sono confini rispetto agli estranei, così che i partecipanti abbiano il senso di
chi stia prendendo parte e di chi sia escluso.
3. L’attenzione dei membri è su un oggetto o un’attività comune, e attraverso la
comunicazione di questo focus ciascuno diventi mutualmente consapevole
dell’attenzione al focus di ciascuno.
4. Essi condividono un modo comune o un’esperienza emotiva. (Collins, 2004, p.
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Così facendo, che si tratti di un collegio docenti, di un incontro sindacale, di una
riunione dei vertici aziendali, i membri dell’équipe contribuiscono a creare una catena
significativa di rituali di interazione, con ciò stesso riproducendosi (in quanto forza
lavoro, vale a dire come gruppo che si predispone ad agire) e riproducendo
l’organizzazione.
Rispetto all’équipe possiamo, infine, aggiungere che si tratta di una sorta di “intervallo
fra palcoscenico e vita quotidiana (in cui) gli attori sono sospesi fra mondi diversi”
(Mangham e Overington, 1987, p. 132). Un momento liminare (Turner, 1986), quindi
almeno potenzialmente
un atto creativo di retrospezione, nel quale agli eventi e alle parti dell’esperienza
viene attribuito un “significato”. (Turner, 1986, p. 43)
Aldilà della distinzione che l’Autore precisa tra situazioni liminali e limnoidi (le prime
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riferite al modello della solidarietà meccanica durkheimiana, quindi pressoché
“automatiche”, le seconde alla solidarietà organica, quindi scelte, volute dai
partecipanti, legati da un vincolo contrattuale) ci sembra interessante il considerarle
come
i contesti in cui sorgono nuovi modelli, simboli, paradigmi, ecc., cioè come il vero
e proprio vivaio della creatività culturale. Questi nuovi simboli e costruzioni
retroagiscono poi sui settori e sui conflitti economici e politico-legali “centrali”,
fornendo loro mete, aspirazioni, incentivi, modelli strutturali e raison d’être. (Id., p.
61).
Sinteticamente definiremo dunque quella della équipe come una potenziale attività di
“messa a punto” della “messa in scena”, cruciale tanto per gli attori quanto per
l’organizzazione. Un’occasione per incentivare riflessività negli uni e nell’altra.
3. Leaderships
Il tema delle équipes ci rimanda direttamente al ruolo e alla funzione della leadership,
cui in questa sede accenneremo per le sue caratteristiche di “mediatore
dell’organizzazione” (cfr. sez. uno, 6; sez. due, 3).
Goffman, orientato a considerare il lavoro di équipe come finalizzato ad una costruzione
di rappresentazioni condivise, collega la figura del leader a quella del regista, o
dell’”allenatore” (Goffman non distingue fra tipologie di leader, limitandosi a
contrapporre leadership espressiva a leadership di regia), cui “può essere affidato il
compito di ‘rimettere al suo posto’ qualsiasi membro dell’équipe la cui rappresentazione
diventi sconveniente (Goffman, 1959, p. 116). Più che a reprimere condotte incoerenti
egli sarà attento a stimolare una dimostrazione di impegno appropriato, cioè nello stesso
tempo a curare la coerenza tra “le parti nella rappresentazione e la facciata individuale
richiesta per ogni parte” (Id., p. 117).
Goffman riconosce nel ruolo del leader un ruolo ibrido, “mezzo dentro e mezzo fuori”,
poiché partecipa alle équipes ma non alla pari con gli altri membri. Da parte loro i
membri del gruppo avranno con lui (lei) un atteggiamento diverso da quello assunto
verso gli altri partecipanti; un’ affermazione questa su cui convergono anche Mangham
e Overington (1987), secondo i quali
il dirigente funziona come agente per lo sforzo collettivo. Se non riuscirà a mettere
in chiaro ogni cosa, tutti ne subiranno le conseguenze. (Mangham, Overington,
1987, p. 236)
Rimanendo su alcune delle caratteristiche relative alla funzione interna del leader,
possiamo precisare che il suo è un importante presidio dei confini relativi ai compiti del
gruppo: egli
non ha funzione solo di preparare il back office e di fissare gli standard di
prestazione, ma di definire e proteggere i confini della prestazione offrendo i
supporti necessari e generando il “senso” del servizio. (Butera, 1990, p. 147)
In definitiva spetta al leader restituire ordine; o, meglio, secondo Czarniawska, il suo
compito è di presidiare dal pericolo del disordine:
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il ruolo dei leader è dare al resto del cast e del pubblico l’illusione di controllabilità
[...]. Essi sono ricompensati perché, grazie a loro, possiamo smettere di aver paura
del disordine. (Czarniawska, 1998, p. 56)
Tutore dell’ordine simbolico, guardiano dei confini, il leader si configura dunque in
questa chiave di lettura come un elemento indispensabile al funzionamento del gruppo,
garante della sua sopravvivenza e del suo funzionamento, e al tempo stesso garante del
buon funzionamento organizzativo. Le rappresentazioni, per poter essere condivise,
hanno in primo luogo la necessità di poter essere espresse, riordinate, il gruppo va
difeso dal caos (la turbolenza) esterno, sia che questo provenga dall’organizzazione
(come accade nel caso di riorganizzazioni, o di nuove procedure) che dalla realtà sociale
più ampia (come può accadere per l’approvazione di nuove normative, o come nel caso
di richieste complesse provenienti da utenze particolari).
Non possiamo però dimenticare almeno altre tre funzioni, tra quelle attribuite ad un
leader:
- quella del controllo sui propri collaboratori – controllo che può essere esercitato ad
esempio in via autoritaria (ispezioni, provvedimenti disciplinari), mediante
ricompense simboliche (assegnazione di incarichi) o materiali (promozione, aumento
di stipendio). Una funzione, questa, che sicuramente ha conseguenze anche sulle
modalità di svolgimento della équipe, dato che può contribuire a creare
disuguaglianze e tensioni nel gruppo, anche in virtù della differente distribuzione
delle risorse;
- quella del reclutamento, cioè dell’inclusione di nuovi soggetti all’interno della
cornice organizzativa; non ci addentreremo in questo tema, che ci limitiamo qui a
segnalare come si tratti di un indicatore di innovazione (così che ad esempio verranno
reclutati soggetti sconosciuti, sulla base dei curricula e delle competenze, magari
mediante bandi sovranazionali), o viceversa della riproduzione degli assetti, e quindi
verrà prestata attenzione alle affinità, alle conoscenze dirette, alla vera o presunta
“fedeltà”:
all’interno della Corbe [una ditta emiliana] si parlano molte lingue straniere, ma
soprattutto il “corbese”, cioè il linguaggio nostro. Quindi durante la selezione
ricerchiamo i personaggi che abbiano le qualità per parlare questa lingua; (La
Mendola, 1995, p. 80)
-
quella della funzione di “manutenzione della ribalta”: spetta, cioè, a coloro che
occupano posizioni di vertice sovrintendere, se non addirittura presenziare
direttamente, a tutti quei momenti che rappresentano l’organizzazione verso l’esterno:
che si tratti di meetings internazionali, di convegni, di visite di delegazioni, oppure di
mantenere le relazioni con le altre organizzazioni presenti nella scena locale e
sovralocale, sarà il leader a rispondere delle prestazioni, sarà lui (lei) a ricevere il
plauso per un servizio o una manifestazione riuscita, o viceversa a pagarne le
conseguenze in caso di insuccesso (salvo poi, in un caso come nell’altro, rivalersi sui
membri del gruppo di lavoro).
4. Macchine e organismi
Certo, con le riflessioni fin qui presentate ci siamo addentrati da subito nelle
organizzazioni che sono presenti nella scena contemporanea, quella che viene definita la
“società dei servizi”, nella quale ampio spazio è dato alla messa in scena di
9
rappresentazioni condivise, del “senso dell’organizzazione”; compiamo, a questo punto,
un passo indietro, e riprendiamo una storica dicotomia.
Ci appoggeremo ai due pilastri portanti della storia delle organizzazioni, vale a dire alle
due metafore della macchina (o del castello, o dell’orologio), che vede gli individui
come ingranaggi, o pezzi di ricambio, oppure dell’organismo, dinamico, interattivo,
processuale, nel quale i soggetti diventano cellule, corpi vivi all’interno di un altro
corpo.
Ma procediamo con ordine.
Dobbiamo a Weber (1922) e ai suoi studi sulla burocrazia l’elaborazione di una teoria
che definisce il modello razional-strumentale dell’organizzazione, caratterizzata da
conformità alle regole (corpus di regole formalizzate), divisione specializzata delle
competenze, gerarchia d’ufficio, ed i cui addetti sono chiamati a rispondere ai principi
della impersonalità e della competenza, cioè a prestazioni standardizzate e specializzate.
Una proposta ripresa da Taylor (1911), il quale la situava nel più ampio paradigma della
organizzazione scientifica del lavoro, stavolta mutuato dall’esperienza della fabbrica: lì
la divisione è innanzitutto orizzontale, poiché la standardizzazione delle procedure
produttive implica il segmentare il lavoro in reparti, in “pezzi” (pezzi di organizzazione
che producono pezzi, oggetti, beni materiali, o documenti); al tempo stesso verticale,
poiché la progettazione andava separata dall’attività esecutiva; ed infine temporale, dato
che tutto è calcolabile in anticipo, prevedibile. Agli addetti alla produzione, esecutori di
procedure, non viene richiesta alcuna capacità di interpretazione, adattamento,
progettazione, ma semplicemente di eseguire ordini, e comportarsi come “incapaci
addestrati”4 (il termine è di Merton, 1949). Sia pure in un ambiente esterno
relativamente stabile (vedremo fra poco l’importanza delle relazioni tra organizzazione
e ambiente) il buon funzionamento della macchina rimane, però, un miraggio. Eccesso
di regolamentazione, deresponsabilizzazione e frammentazione rappresentano i limiti di
un modello i cui ingranaggi stentano a funzionare come dovrebbero. Tra loro, i più
distanti dai processi decisionali sono portati talvolta ad attuare strategie di trasgressione,
a manifestarsi reattivamente come soggetti, quasi a prendersi una rivincita
sull’organizzazione-macchina. E’ lo stesso criterio della razionalità a manifestare i
propri limiti: si mettono in luce sempre più frequentemente incertezze (le decisioni
vanno assunte sulla base di informazioni limitate, i contesti sociale, economico, politico
sono in continua trasformazione) e ambiguità (i problemi vanno interpretati, elaborati;
non c’è mai “one best way”, una unica soluzione ottimale, ma si tratta di dover scegliere
fra diverse traiettorie assumendo il rischio della decisione tra molte opzioni possibili).
Bisognerà attendere il consolidamento di un approccio processuale, riflessivo perchè gli
elementi di imprevedibilità, interazionalità, flessibilità, adattamento trovino spazio nella
elaborazione del pensiero organizzativo. Questo affinché i soggetti, dapprima relegati al
rango di esecutori, acquistino considerazione. La macchina, per funzionare, ha bisogno
di qualcuno che la progetti, la guidi, la curi, come abbiamo visto nell’introduzione. Ma
4
Sulle conseguenze devastanti della specializzazione, della divisione dei compiti e della “mera
esecuzione degli ordini” nel caso del nazismo si veda Bauman (1989); le tre condizioni che consentirono
agli addetti al genocidio di operare un “crimine di massa” furono la disciplina organizzativa (obbedire ai
comandi superiori escludendo ogni altra motivazione, e l’ “onore del pubblico impiegato” sostituivo della
responsabilità morale); la routinizzazione (al pari degli addetti alla produzione di strumenti di sterminio,
per i burocrati coinvolti si trattava di stilare promemoria, redigere progetti, senza partecipare direttamente
all’omicidio di massa); la divisione del lavoro (che “annulla il significato morale dell’azione”); la
disumanizzazione delle vittime, che vengono equiparate a parassiti, e dopo essere state allontanate nella
catena produttiva vengono anche rese socialmente invisibili agli attori, divenuti “ufficiali sanitari”.
10
questo qualcuno – l’individuo che lavora con altri individui nell’organizzazione - non
può più comparire solamente come ingranaggio o “organo”, dato che nel suo contributo
al funzionamento mette in gioco il proprio patrimonio di competenze, di esperienze. Si
tratta, in altre parole, del suo “sapere situato”. Questo è il programma di lavoro della
etnografia organizzativa, finalizzato a
scoprire e spiegare i modi in cui gli individui inseriti in specifici ambienti di lavoro
arrivano a comprendere, a spiegare, a influenzare e comunque a gestire le
situazioni quotidiane in cui sono immersi. (Van Maanen, 1979, p. 36)
I soggetti, collocati in contesti organizzativi, contribuiscono, dunque, al generarsi
ininterrotto dell’organizzazione, e così facendo elaborano “cultura”, significati
condivisi; agiscono cioè sia riguardo alla produzione (di beni, di servizi) che riguardo al
modo di produrre. Producono e riproducono contemporaneamente esiti e processi
organizzativi, oscillando tra adesione al mandato (esecuzione di norme e regolamenti) e
capacità autonoma di interpretazione e rielaborazione. Dunque
l’organizzazione come fenomeno sociologico è [...] un costrutto culturale grazie al
quale gli uomini pervengono ad orientare i loro comportamenti in modo da ottenere
un minimo di cooperazione, pur mantenendo la loro autonomia di agenti liberi.
(Crozier, Friedberg, 1977, p. 160)
Possiamo fare nostra, allora, la proposta di Schein (1988) che parla di una vera e propria
“cultura organizzativa”, come di un insieme coerente di assunti fondamentali che un
dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi
di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza
bene da poter essere considerati validi e perciò tali da essere insegnati ai nuovi membri
come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi.
Ecco che ritroviamo, nell’evolversi degli studi organizzativi, un’attenzione particolare
alle interazioni dentro e intorno alle organizzazioni. Secondo Gagliardi (1995) sono
quattro i filoni di studi cui riferirsi per studiare le organizzazioni come “culture”: la
sociologia fenomenologica (cfr. sez. uno, III), l’interazionismo simbolico (cfr. sez. uno,
II), l’etnometodologia, (cfr. sez. uno, III) la tradizione etnografica. Dalla delusione per
l’approccio quantitativo, a causa dell’eccesso di distanza tra spiegazioni teoriche e
fenomeni sociali locali, a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso si
sviluppano parallelamente le riflessioni sul metodo della ricerca e le elaborazioni sulla
natura del fenomeno organizzativo. La svolta avviene, secondo Piccardo e Benozzo
(1996) sui diversi livelli: ontologico (la natura della realtà, cosa può essere conosciuto),
epistemologico (la relazione tra chi ricerca e ciò che può essere conosciuto),
metodologico (quali metodi sono più adatti a questo nuovo programma). Si tratta di
analizzare e descrivere ciò che succede a partire dalle manifestazioni della cultura,
piuttosto che di raccogliere le opinioni attraverso risposte razionalizzate: le “teorie-inuso” piuttosto che le “teorie esposte” (Argirys, Schön, 1996).
Se dovessimo provare a riassumere questo passaggio cruciale potremmo utilizzare
quello che negli studi organizzativi viene rappresentato come il passaggio quasi
durkheimiano da un modello meccanico, del “castello”, inteso metaforicamente come
emblema di autosufficienza e direttività, finalizzato alla produzione di oggetti materiali,
ad un modello organico - o “a rete” - che Butera definisce come caratterizzato da tre
processi: la nascita di una economia della flessibilità, che vede lo svilupparsi di aziende
11
che hanno come compito primario la fornitura di servizi e non più di soli prodotti; la
terziarizzazione, con la crescita di occupazione nel settore terziario ed il calo
contemporaneo nei settori agricolo ed industriale, con l’aumento di importanza dei
“beni immateriali”, così che
in un numero crescente di casi il prodotto non è più una merce ma è rappresentato
da un servizio immateriale ad “alta tecnologia intellettuale”. (Butera, 1990, p. 27)
Basterebbe fare riferimento a tutte quelle campagne di “fidelizzazione del cliente”
promosse da catene di supermercati e centri commerciali, o ai “servizi post-vendita”
offerti da molte case automobilistiche per comprendere quanto sia diffuso questo
fenomeno.
Abbiamo, infine, il terzo processo, rappresentato dalle tecnologie informatiche, che
cambiano il modo di produrre e facilitano l’integrazione fra settori (ad esempio nelle
aziende fra produzione e controllo, o nella facilità di circolazione di informazioni tra i
membri) e fra prodotti. Lavoro e organizzazione si definiscono congiuntamente, si
pongono come indicatori dei passaggi epocali, così che nella società contemporanea il
modello meccanico di organizzazione del lavoro – analizzato da Taylor per le sue
caratteristiche di ripetitività, per il suo essere standardizzato e standardizzante - viene
sostituito da un modello organico, flessibile, soggettivizzato, aperto agli imprevisti.
La “società dei servizi” insomma esporta la relazione - che abbiamo visto imperare al
suo interno - verso i fruitori esterni, facendone il proprio “core business”; se questo è
vero per i settori che producono beni materiali (automobili o spazzolini da denti; catene
di supermercati) è ovviamente ancora più vero per quelle organizzazioni che producono
esplicitamente beni immateriali: scuole (cfr. sez. tre, b), servizi sociali (cfr. sez. tre, d),
servizi psichiatrici (cfr. sez. tre, e), i regni del “lavoro relazionale”, il cui prodotto
coincide con l’interazione fra addetti interni e pubblico esterno (insegnanti e studenti,
operatori e utenti).
Vorremmo citare, alla fine di questo excursus due grandi Autori cinematografici che
hanno narrato le ambivalenze del processo di modernizzazione in due momenti storici
differenti: stiamo parlando del Charlie Chaplin di “Tempi moderni” (1936), nel quale
l’operaio addetto alla catena di montaggio (il modello taylorista) finisce per ripeterne
compulsivamente i movimenti, per venire infine letteralmente inghiottito dagli
ingranaggi della macchina, per diventare egli stesso parte della macchina; e, trent’anni
più tardi, del JacquesTati di “Playtime” (1967), che col suo sguardo surreale e le sue
azioni stralunate provoca umoristicamente la messa in gioco degli assetti organizzativi
“dati per scontati”, introducendo il tema della solitudine dell’uomo moderno e dei suoi
inciampi di fronte a tutta una serie di automatismi, luci e soluzioni tecnologiche - dagli
ascensori alle automobili pluriaccessoriate, dagli uffici “open space” alle abitazioni
piene di telecomandi che si disturbano reciprocamente - destinate ad incepparsi. Due
esempi di come da un lato le organizzazioni tendano a produrre routines ed i soggetti ad
eseguirle, e dall’altro di come la soggettività, stranita, degli attori sociali sia
incomprimibile, e metta in discussione gli assetti dati-per-scontati, in entrambi i casi
grazie ad uno sguardo “alieno” (che oggi chiameremmo etnografico) capace di leggere
tra le trame relazionali e organizzative.
Riprendendo la proposta di Butera, ritroviamo nello schema che segue (schema 1) una
distinzione nitida tra i due momenti cruciali della vita organizzativa: il primo riprende
l’idealtipo del castello e della produzione lineare, con gli attori sociali considerati
12
semplicemente, come è per Chaplin, dei componenti del grande ingranaggio che deve
solo essere manutenuto; il secondo, invece, ci restituisce l’idea di un sistema aperto,
dinamico, in relazione continua con il proprio interno – per esempio con il confronto
che poco sopra abbiamo visto essere un elemento peculiare delle équipes oltre che una
funzione dei leaders – e con l’ambiente esterno, stavolta non più stabile, definito una
volta per tutte, ma in continua trasformazione. Se pensiamo ad esempio alla velocità con
cui vengono introdotte nuove tecnologie – i processori dei computer, ad esempio – ci
rendiamo immediatamente conto di come ogni unità produttiva debba adeguarsi
velocemente all’innovazione, confidando su professionalità capaci di adattarsi con
altrettanta rapidità. La stessa cosa avviene nel mondo dei servizi alla persona, nelle
scuole o negli ospedali, dove ad esempio l’ingresso di utenti migranti comporta il dover
modificare il proprio modo di relazionarsi al nuovo pubblico, adattando linguaggio,
competenze, soluzioni organizzative (cfr. sez. due, 5). La figura 1 sintetizza la
questione.
Fig. 1. I due modelli di organizzazione del lavoro (Adattato da Butera, 1990)
•
•
•
•
Modello meccanico
burocrazia gerarchica
divisione del lavoro spinta
•
•
•
risorse umane come pezzi di
ricambio (pezzi)
cultura della dipendenza e
dell’esecuzione in un ambiente
placido
•
Modello organico
rete di sistemi autoregolati
ruoli professionali basati sulla
minima specificazione critica
risorse umane come componenti
del sistema (cellule)
cultura dell’integrazione e della
soluzione
in
un
ambiente
turbolento
Posto che lo schema sopra riportato dicotomizza, cioè esaspera, le differenze, e che non
sempre ci troveremo in presenza dell’uno o dell’altro modello ma di ibridi fra i due,
potremo utilizzarlo come riferimento ogni volta che cercheremo di collocare
un’organizzazione.
Per comprendere quale sia lo stato dell’arte dell’organizzazione e del lavoro che vi si
svolge occorre, secondo Morgan (1986, pp.82 e segg.), rispondere a cinque domande:
•
Di quale natura è l’ambiente dell’organizzazione? Semplice, stabile, o
turbolento? Quali cambiamenti sono in corso, sui piani economico, tecnologico,
politico?
•
Quale è la strategia impiegata? Adattamento progressivo, difesa di una nicchia,
analisi continua dell’ambiente esterno per cogliere segnali?
•
Che tipo di tecnologia viene impiegata? Meccanicistica o non-meccanicistica?
•
Quali sono le caratteristiche dei dipendenti, quale è la cultura
dell’organizzazione? Forti motivazioni, identificazione con l’azienda, oppure
passività e attesa dello stipendio?
•
Quale è la struttura dell’organizzazione e quali sono gli stili direzionali
prevalenti? Lo stile prevalente è autoritario e si basa sul controllo, oppure è
democratico e incoraggia le iniziative e lo spirito di intraprendenza? Si orienta
su approcci consolidati e sicuri o è innovativo e accetta i rischi?
Sempre più, quindi, nel passaggio dal primo al secondo modello, con tutte le transizioni
e le compresenze dell’uno nell’altro, gli individui divengono parte consapevole e attiva
13
nello svolgersi del lavoro; sempre più i temi delle capacità individuali, della
relazionalità, dello “spirito di gruppo” e del coinvolgimento dei soggetti nella “mission
organizzativa” affollano il paesaggio degli ecosistemi organizzativi. Il lavoro, da
ingranaggio-che-appartiene-ad-una-macchina diventa ora una appendice viva, dotata di
relativa autonomia, componente di un organismo vivo anch’esso. Le organizzazioni si
mostrano, infine, con le loro trame sottese, come “reticoli di relazioni”. Se questa
impostazione ci pare convincente, allora potremo recuperare, adattandola, la proposta di
Williamson (1975) e Ouchi (1980), che prevede una tripartizione di forme organizzative
sulla base dei “costi di transazione”: in condizioni di relativa stabilità risulterà, secondo
gli Autori, più “conveniente”, o più efficiente, la forma organizzativa burocratica, per le
sue caratteristiche di accettazione di un impiego in cambio di uno stipendio, e la relativa
facilità di un controllo delle prestazioni; mentre all’estremo opposto troveremo il
mercato, connotato da forte instabilità e ambivalenza nelle relazioni contrattuali e nel
conseguimento degli obiettivi, ed infine, con una collocazione intermedia, la forma del
clan, che l’Autore associa ad una sorta di aggregazione orizzontale tra soggetti con
interessi in comune (come può essere per una coalizione, il sindacato, una categoria
professionale, e così via). Ora, insieme alle mutate condizioni storiche e sociali che
vedono sempre più convivere nelle stesse strutture organizzative forme di burocrazia e
di mercato (si pensi all’introduzione di logiche manageriali nelle pubbliche
amministrazioni, oppure al mercato, o quasi-mercato, presente nel panorama dei servizi
sociali e sanitari, un tempo esclusivamente pubblici) ci sembra che questa tripartizione
possa venire reinterpretata alla luce dell’approccio relazionale, e generare una serie di
soluzioni ibride. Così ci risulta difficile pensare (e trovare) un’organizzazione
burocratica (un Comune, un Ospedale, una scuola) i cui membri non sviluppino forme
clanizzate di relazione interna, magari perché iscritti ad un sindacato, o in quanto
appartenenti alla stessa categoria professionale (medici, psicologi, insegnanti versus
infermieri o “bidelli”); od esterna, così che il frequentare gli stessi gruppi – partiti,
associazioni di volontariato, rotary club, palestre – creerà alleanze, o addirittura
fratellanze trasversali, rispetto sia alle appartenenze interne (i colleghi) sia rispetto alla
stessa “mission organizzativa”. Ma, insieme a queste due componenti, spesso però
compare, contemporaneamente, la terza, il mercato, che a sua volta crea altri tipi di
relazioni significative dentro e fuori l’organizzazione. Basti pensare al tema del “doppio
lavoro”, per cui alcuni individui operano entro un apparato ma contemporaneamente
svolgono attività professionale autonoma all’esterno di questi (il caso dei medici
ospedalieri è al riguardo emblematico; ma lo stesso, sia pure su tutt’altra scala, vale per
gli insegnanti che danno lezioni al pomeriggio per consentire agli studenti di recuperare
i ritardi negli apprendimenti del mattino). Insomma, l’intreccio tra le tre dimensioni
sembra tutt’altro che semplice, e anzi la sua ricostruzione tra le diverse forme presenti
simultaneamente entro e intorno ad un’organizzazione può portare ad una interessante
ricostruzione “reticolare” delle interazioni organizzative, senza che necessariamente i
tre livelli debbano essere compressi in una logica di evoluzione lineare.
Ci sembra fondamentale a questo punto introdurre altre due categorie, che abbiamo
finora solo accennato, e che meritano un approfondimento particolare, dato che
contribuiscono a definire tanto gli attori sociali – i soggetti che lavorano – quanto le
organizzazioni – i sistemi in cui (con cui) lavorano. Discuteremo dunque di ambienti e
di apprendimenti.
14
5. Ambienti
La prima dimensione riguarda la relazione tra organizzazione ed ambienti. Secondo
Morgan (1986, pp. 87 e segg.) è possibile utilizzare la metafora dell’ambiente (o della
“ecologia organizzativa”) per spiegare le organizzazioni, qualora le si considerino come
organismi adattabili, interattivi, aperti, “strutture in evoluzione”. Se è innegabile che
ogni organizzazione è in qualche misura sovraordinata dall’ambiente in cui è immersa
(basti pensare all’insieme di leggi – dai piani regolatori che stabiliscono dove
un’azienda può insediarsi, alle norme contrattuali che definiscono l’inquadramento dei
lavoratori), è altrettanto vero che a sua volta questa agisce attivandosi nei confronti
dell’ambiente esterno. Riprendiamo da Weick il significato istitutivo, di attivazione, o
di enactment, secondo il quale individui e organizzazioni, interagendo, contribuiscono
ad istituire l’ambiente nel quale operano: “nella vita organizzativa le persone [...]
producono parte dell’ambiente che affrontano” (Weick, 1995, p. 31).
Se questo è vero, e abbiamo visto poco sopra come la stabilità, o viceversa la
turbolenza, dell’ambiente in cui l’organizzazione vive sia effettivamente una variabile
fondamentale per il suo sviluppo, o addirittura per la sua sopravvivenza, allora
possiamo aggiungere due considerazioni:
- la prima relativa ai processi di attivazione dell’ambiente: ogni organizzazione
interagisce con il proprio ambiente, essendone condizionata e a sua volta
contribuendo a definirlo con il suo sistema di relazioni, con i suoi processi ed i suoi
prodotti; l’organizzazione cioè contribuisce ad “istituire l’ambiente” (Weick, 1995);
l’esempio più evidente è proprio quello ecologico: una ditta inquinante modifica
l’ecosistema (e molte ditte inquinanti provocano il collasso planetario), ma se
rimaniamo nella prospettiva relazionale possiamo invece pensare a come un’azienda
gestisca relazioni con altre organizzazioni simili entro lo stesso contesto locale;
stabilendo alleanze, scatenando concorrenze; intessendo relazioni con gli enti locali
per ottenere sgravi fiscali o per contribuire all’assetto viabilistico, assumendo o
licenziando personale, delocalizzando la propria produzione o mantenendola in loco:
l’ambiente, inteso come ecosistema relazionale, non può non risentirne;
- la seconda riflessione riguarda la necessità, per ogni organizzazione, di dotarsi di un
corpo specializzato nelle transazioni con l’ambiente, capace di gestire questa
permanenza di relazioni. Attori sociali, questi, capaci di “leggere” le trasformazioni
sociali ed economiche, di individuare e trasmettere soluzioni nuove. Essi diventano
figure strategiche per lo sviluppo, talvolta per la sua stessa sopravvivenza. Ci
soffermeremo su questo punto.
Riguardo a come un’organizzazione “organizzi” i suoi rapporti con l’ambiente
mutuiamo da Crozier, Friedberg (1977) il concetto di “relé”5. Se la “rete”, che dovrebbe
aver sostituito il “castello”, è composta dai nodi (che per un ente pubblico possono
riguardare gruppi di lavoro, gruppi professionali), cioè da entità orientate ai risultati
relativamente autoregolate capaci di cooperare con gli altri e di interpretare gli eventi
esterni, ogni organizzazione dovrebbe metterli in condizione di “emettere segnali” verso
l’interno, cioè di leggere i messaggi che provengono dall’esterno e rielaborarli. È
5
Il nome relé deriva dal francese relais che indicava ognuna delle stazioni di posta dove i messi
postali, durante il loro itinerario, potevano cambiare i cavalli in modo da svolgere più celermente il loro
servizio. Per analogia, ai primordi della telegrafia si usò il termine relè nell’indicare i dispositivi grazie ai
quali si trasferiva un messaggio in codice Morse da una stazione di partenza a una stazione di arrivo,
come se un virtuale messo postale si servisse di tali dispositivi per arrivare finalmente alla meta (da
www.wykipedia.org).
15
questa, dunque, la funzione dei “ relé”, servizi specializzati il cui compito è prendere
contatti con il segmento di ambiente con cui sono in contatto, e di trasmettere
all’organizzazione le informazioni e gli scambi intervenuti. I relé sono, quindi,
rappresentanti del segmento di ambiente cui si rivolge l’intera organizzazione [...].
Vengono scelti per informare l’organizzazione della situazione che caratterizza i
loro segmenti rispettivi e delle conseguenze che derivano da essa [...]
rappresentanti dell’organizzazione e dei suoi interessi presso i loro segmenti di
ambiente. (Crozier, Friedberg, 1977, pp. 113-114)
Inevitabilmente, “lavorando sui confini dell’organizzazione”, il loro compito è difficile,
perché “costituiscono al contempo gli emissari dell’ambiente presso l’organizzazione e
gli agenti di quest’ultima presso l’ambiente (Id.), il che ne determina l’ambivalenza. Il
loro ruolo è però cruciale, poiché se è vero che dipendono dall’organizzazione, è
altrettanto vero che ne diventano, in quanto collocati su presidi strategici, “di frontiera”,
“dei riduttori di incertezza indispensabili” (Id., p. 114),
che l’organizzazione può utilizzare per meglio relazionarsi all’ambiente, e che, dunque,
possono influenzare le decisioni che l’organizzazione è chiamata ad assumere.
6. Apprendimenti
L’attenzione ai “ruoli di confine” ci introduce alla seconda dimensione che vorremmo
affrontare, quella dell’apprendimento. Diventa infatti fondamentale, per ogni
organizzazione che vive di processi, innescare dinamiche di apprendimento continuo,
curando sia le relazioni con l’ambiente esterno sia il rapporto con gli attori sociali
interni. Se è vero che un’organizzazione apprende quando accetta di modificare i suoi
repertori di competenze, relativi a conoscenze, modelli di azione, strategie, procedure
operative (Bifulco, 2002) è altrettanto vero che diversi sono i modi attraverso cui questo
processo si compie. Per esemplificare quello che fra poco descriveremo in maniera più
analitica faremo riferimento a due film di animazione. Nel primo, A Bugs’ life, del
1995, si sperimenta la rottura della routine ed una risposta meccanica, in cui
l’apprendimento si evidenzia come la semplice risistemazione dell’esistente, la
ricucitura di uno strappo. Una colonna di formiche è intenta a trasportare cibo lungo un
sentiero consolidato e rassicurante (la scia odorosa che consente alle formiche di
incolonnarsi senza perdersi), quando una foglia cade sul percorso, e questo episodio
traumatico interrompe la trama, getta nel panico la colonna. Intervengono gli specialisti
(specialisti nel relazionarsi all’ambiente), che rassicurano rispetto al da farsi,
rispondono al trauma facendo compiere una leggera deviazione al gruppo ed il cammino
riprende. La routine, insomma, riprende velocemente una volta che si è fatto fronte
all’imprevisto. Ma è pronta a ripresentarsi in qualsiasi momento, dato che nessun
apprendimento, nessuna modifica nelle strategie organizzative è stata introdotta. Nel
secondo film, Monsters’& Co. del 2001, protagonisti sono dei mostri di peluche, il cui
mestiere è di terrorizzare i bambini: le grida di paura che questi emettono vengono
trasformate in energia che permette alla città dei mostri di funzionare. Ma i due mondi,
dei mostri e dei bambini, vengono tenuti rigorosamente separati, anzi i primi temono
fortemente la contaminazione da parte dei secondi. Ad un certo punto, per motivi
casuali (le incertezze dell’ambiente) avviene l’incontro tra due mostri e una bambina,
che si intrufola tra di loro. Superata la paura di essere scoperti come trasgressori, i due
protagonisti “adottano” la bimba e la portano con sé (travestita da mostro, così che non
possa essere riconosciuta). Il paradigma della paura, fondamento dell’organizzazione,
16
comincia a scricchiolare, perché i nostri sono davvero contenti di questa adozione
imprevista. Ma c’è di più: per caso (come avviene per le scoperte migliori – un caso di
serendipity, direbbe Merton, Fallocco, 2004), i nostri scoprono che “far ridere” produce
più energia che “impaurire”. Da quel punto in avanti la linea produttiva di energia viene
modificata, ed i mostri si specializzano nel far divertire i bambini. Il mostro che ha
avuto l’idea innovativa diventa responsabile del reparto. Da un cambiamento nella
relazione tra i soggetti avviene un cambiamento di paradigma che si traduce anche in un
cambiamento organizzativo. Siamo in presenza cioè di un apprendimento di secondo
livello, che porta a riconsiderare le norme operative, le strategie, gli assetti
organizzativi. Il film in realtà non spinge fino in fondo le considerazioni che ha svelato,
non approda al deutero apprendimento; non sviluppa il tema della “contaminazione”,
che a noi sembra la vera chiave di volta dell’intera trama (ma anche questo, forse, fa
parte dell’organizzazione. Che si ri-forma, non si tras-forma).
Ora proveremo ad analizzare analiticamente alcune forme di apprendimento, cercando
di tenere presente che queste possano essere riferite tanto al singolo attore quanto
all’organizzazione nel suo complesso.
Ne isoliamo alcuni:
● Single loop or double loop, deutero-learning. Prototipo del modello linearemeccanico, l’apprendimento di tipo single loop, o circuito singolo (Bateson,
1972), comporta un semplice aggiustamento, una correzione degli errori (la
sostituzione di un pezzo difettoso della macchina, le formiche che ritrovano la
strada dopo una breve interruzione) che non coinvolge l’assetto organizzativo; le
premesse organizzative sono, invece, messe in discussione nel caso
dell’apprendimento a circuito doppio, durante il quale si sperimentano modi di
fare “alternativi e inediti”. E’ quello che Morgan (1986, p. 120) definisce come
il passaggio da “subroutine singola” (il sistema corregge ogni errore sulla base
di norme operative predefinite) a “subroutine doppia”, attraverso cui il sistema
riconsidera la situazione mettendo in discussione le norme operative, come ne
caso dei mostri del secondo film); Bateson propone un apprendimento di terzo
livello, che implica invece “l’apprendere ad apprendere”, cioè la capacità di
modificare i modi in cui si apprende e di promuovere attivamente processi e
occasioni di cambiamento, l’accettare il rischio del cambiamento senza porsi il
problema di aver pre-definito una meta da raggiungere, facendo proprio “il
godimento ambiguo dell’acrobata, sia dell’eccitazione del rischio sia del proprio
virtuosismo nell’evitare la catastrofe” (Bateson, 1972, p. 215).
● Problem solving or problem setting. Concentrare le risorse per risolvere i
problemi che si hanno davanti è intuitivamente il modo più sbrigativo per
risolverli; spesso, però, rimangono insoluti alcuni nodi di fondo, insiti nelle
premesse così come nelle procedure consolidate. Attivare la “capacità negativa”
(Lanzara, 1993), cioè sospendere la tensione volta al conseguimento di una
soluzione rapida e porsi il dilemma della “configurazione dei problemi”, invece
che della loro soluzione, significa aprire al nuovo, poter prendere in
considerazione anche soluzioni non abituali. Questo dilemma è centrale
nell’epoca contemporanea, dato che l’ambiente in cui si muovono le
organizzazioni è instabile e soggetto a numerose sollecitazioni, e la fretta
nell’individuare soluzioni può essere fuorviante, può portare a riprodurre
pratiche consolidate.
● Lonely or shared. Qualsiasi apprendimento in ambito organizzativo ha bisogno
17
●
di essere condiviso, pena l’isolamento; nonostante nell’arena politica
organizzativa non tutte le voci abbiano pari accesso al discorso organizzativo, e
alcune, specie quelle degli “esploratori”, rischino di rimanere inascoltate,
l’apprendimento è possibile solo se cessano di essere “volatili”, se escono cioè
dall’appannaggio dei singoli. La condivisione dell’apprendimento è, quindi, da
intendere come il risultato di un processo che vede al centro le relazioni e i
legami tra gli attori. Un tema cruciale, da cui possono dipendere le sorti di un
settore organizzativo: può accadere che in un’organizzazione un gruppo di
persone si lanci in avventure sperimentali, innovative, ma rimanga isolato dal
resto dell’apparato, in questo caso correndo il pericolo di trovarsi in una
condizione di reciproca inadeguatezza.
Learning by doing or learning after doing. Quando è il tempo
dell’apprendimento (cfr. sez. due, 2)? Intanto che si compie l’azione, o subito
dopo, quando può entrare in gioco una sospensione dell’azione? Se è vero che la
capacità retrospettiva può togliere opacità alle azioni alimentando la riflessività,
è anche vero che questa rischia di essere appannaggio dello studioso, dato che le
persone sono quotidianamente “gettate nell’azione” (Weick, 1995, p. 53),
impossibilitate a prevedere gli effetti delle proprie azioni, portate a creare
significato partendo da ciò che è già avvenuto. L’indagine retrospettiva sembra
diventare una delle poche chances a disposizione degli attori sociali, se è vero
che “per apprendere occorre agire senza conoscere” (Crozier, Friedberg, 1977, p.
220).
La stessa cosa vale per le organizzazioni, che reinterpretando il proprio agire
passato riproducono e reinterpretano la memoria assegnando senso alla propria
collocazione e progettando, quindi, le proprie traiettorie future. È quello che altri
definiscono come “learning-in-organizing” (Gherardi, Nicolini, 2004), processo
continuo di apprendimento.
Ma se accettiamo la soluzione del dilemma in una prospettiva di “life long
learning” (Balbo, 1995), o, come potremmo affermare con un neologismo, di
“work long learning” (Ferrari, 2007), allora a fare la differenza tra le diverse
opzioni diventa la “disponibilità ad apprendere” in continuo da parte degli attori
e delle organizzazioni; vale a dire se, e quanto e come, le organizzazioni
tendono a riprodurre un atteggiamento difensivo rispetto ai cambiamenti, oppure
quando invece per sviluppare una logica di apprendimento e divenire “learning
organizations” decidono di accettare il “rischio di innovare” che viene portato
quasi sempre “dalla periferia” (Morgan, 2002, p. 132); devono saper sviluppare
mappe capaci di render conto del passato, del presente, e dei possibili futuri
realizzabili, comportarsi, dice Morgan, come “un cervello”, favorendo
batesonianamente “una cultura che premi il cambiamento ed il rischio”.
(Morgan, 1986, p. 129)
Insomma, la lettura processuale delle organizzazioni incrina i modelli
razional/strumentali, “si alimenta di anomalie”, degli errori, delle ambiguità. Purché
venga riconosciuta ed assegnata agli attori “la capacità di rischiare” (Bifulco, 1996), di
esplorare, di apprendere. Non sempre, però, le organizzazioni accettano di imparare.
Tanto meno sono propense ad ammettere correzioni di rotta. In altre parole, nonostante
le istituzioni “pensino”, non a prescindere ma grazie ai soggetti che le compongono
(Douglas, 1986), non sempre comunicazioni e apprendimenti viaggiano con criteri di
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reciprocità (verticale e orizzontale), così che i processi decisionali appaiono ancora
legati ad imperativi apparentemente razionali, che inibiscono il pensiero riflessivo
(Gherardi, 1994). Come a dire che ci sono pochi avventurosi acrobati organizzativi.
In conclusione, speriamo di avere a questo punto presentato, sia pure per sommi capi,
come il lavoro, pressoché qualsiasi lavoro, possa essere inteso come una “pratica
relazionale contestualizzata” (Ferrari, 2007), con riguardo:
•
sia all’ambiente interno (in orizzontale - colleghi, reparti; in verticale - rapporti
gerarchici) che agli ambienti esterni (altre organizzazioni simili – come può
essere per imprese concorrenti – altri soggetti che possono in qualche misura
influire sui processi lavorativi e sui loro esiti);
•
tanto per il singolo soggetto quanto per l’organizzazione entro cui il lavoro si
svolge, data la natura processuale delle singole pratiche lavorative e degli assetti
organizzativi.
E, allo stesso tempo, riteniamo di aver sia pure velocemente incontrato categorie
teoriche ed analitiche che accomunano, sia pure con le differenze del caso, soggetti
privati e pubblici: comuni, prefetture, aziende ospedaliere, aziende (cfr. sez, tre, f),
cooperative. Ma se questo è vero, se cioè il lavoro è lavoro relazionale, generatore di
senso; se le pratiche lavorative non possono essere considerate scisse dalle pratiche
organizzative; se, in definitiva, chi lavora mette in campo un “sapere pratico”, vale a
dire un set di competenze pragmatiche, temporali, ancorate alla materialità, inseriti
entro pratiche discorsive ed entro contesti storico-culturali definiti (Bruni, Gherardi,
2007, p. 42)6; allora occorrerà, anche nella ricerca e nelle riflessioni sul lavoro, tenere
conto dei contributi offerti dall’etnografia, vale a dire di apparati teorico-metodologici e
di tecniche di ricerca che sollecitino l’attenzione intorno alla costruzione di significati,
alle “teorie in uso” (Argirys, Schôn, 1996), che consentano di ricostruire le pratiche
lavorative, organizzative e discorsive.
Volti a scoprire, riconoscere e re-istituire la relazione, anzi l’insieme delle relazioni che
“tengono insieme le organizzazioni”; ovvero i significati, le frequentazioni, la
“confidenza”, come ci ricordavano Gallino e Bertozzi in apertura, fra uomini e
macchine, fra lavoro e organizzazione. Tutto questo nella consapevolezza che
l’espandersi della dimensione della precarietà nei rapporti di lavoro, o di una
“flessibilità subìta”, corrode i corpi, i caratteri, le conoscenze; inibisce l’interazione tra
attori sociali e organizzazioni; impedisce a esseri viventi e (quindi) al sistema sociale di
comprendere, apprendere, progettare e progettarsi.
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Anche se ci piacerebbe proporre una inversione non solo simbolica dei termini e parlare, invece
che di “sapere pratico”, di “pratiche sapienti”, binomio riordinato che restituisce valore alle competenze
agite e situate.
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