Il Turco - Nutrimenti

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Il Turco - Nutrimenti
Tom Standage
Il Turco
La vita e l’epoca del famoso automa
giocatore di scacchi del Diciottesimo secolo
Traduzione di Dora Di Marco
Con
Il giocatore di scacchi di Maelzel di Edgar Allan Poe
nella traduzione di Filippo Tuena
e con un contributo di Giorgio Pressburger
Per Ella
Titolo originale: The Turk. The Life and Times of the Famous
Eighteenth-Century Chess-Playing Machine
Copyright © 2002 by Tom Standage
All rights reserved
© 2011 Nutrimenti srl
Prima edizione marzo 2011
www.nutrimenti.net
via Marco Aurelio, 44 – 00184 Roma
Traduzione dall’inglese di Dora Di Marco
Art director: Ada Carpi
ISBN 978-88-6594-007-5
ISBN 978-88-6594-062-4 (ePub)
ISBN 978-88-6594-063-1 (MobiPocket)
Indice
Prefazione
Capitolo uno. Il gambetto di regina accettato
Capitolo due. La mossa di apertura del Turco
Capitolo tre. Un congegno estremamente affascinante
Capitolo quattro. Congegni geniali, potere nascosto
Capitolo cinque. Sognando la parola e la ragione
Capitolo sei. Avventure dell’immaginazione
Capitolo sette. L’imperatore e il principe
Capitolo otto. Il campo dell’intelletto
Capitolo nove. Il guerriero di legno in America
Capitolo dieci. Finale di partita
Capitolo undici. I segreti del Turco
Capitolo dodici. Il Turco contro Deep Blue
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Appendice
Il giocatore di scacchi di Maelzel di Edgar A. Poe
La macchina e l’inganno di Giorgio Pressburger
Indice delle immagini
Note
Bibliografia
Indice dei nomi
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Prefazione
Automa: macchina che si muove da sola, o in cui la forza
motrice è insita nel meccanismo stesso. Secondo questa descrizione, gli orologi, da muro o da polso, e tutte le macchine di questo tipo sono automi, ma la parola viene in genere
applicata ai congegni che simulano per un certo tempo i movimenti della vita animale.
Encyclopædia Britannica, undicesima edizione (1911)
Un giorno d’autunno nel 1769, Wolfgang von Kempelen, funzionario pubblico ungherese di trentacinque anni, fu chiamato alla corte viennese da Maria Teresa, imperatrice austroungarica, per assistere allo spettacolo di un prestigiatore
giunto dalla Francia. Kempelen si intendeva di fisica, meccanica e idraulica, ed era un fidato servitore dell’imperatrice,
invitato per vedere che effetto facessero i trucchi del prestigiatore su un esperto di materie scientifiche. Quell’esibizione
avrebbe cambiato l’intero corso della sua vita, avviando una
catena di avvenimenti che lo avrebbero portato a costruire
una macchina straordinaria, un uomo meccanico, vestito
con un costume orientale, seduto dietro una cattedra, e capace di giocare a scacchi.
All’epoca, giocattoli meccanici assai complessi erano un
intrattenimento popolare nelle corti europee, anche se la tecnologia che vi stava dietro venne presto asservita a usi più
seri. Esattamente con questo spirito, Kempelen riteneva che
la macchina giocatrice di scacchi sarebbe servita solo a divertire la corte e a permettergli di fare carriera, grazie all’impressione che avrebbe suscitato nell’imperatrice. Invece l’automa
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Prefazione
continuò del tutto inaspettatamente a ottenere una grande
fama ovunque, in Europa e in America, portando il suo creatore al trionfo e alla disperazione. Durante una carriera di
ottantacinque anni, l’automa fu associato a un vasto numero di figure storiche, tra cui Benjamin Franklin, Caterina la
Grande, Napoleone Bonaparte, Charles Babbage e Edgar
Allan Poe. Fu oggetto di numerose storie e aneddoti, ispirò
molte leggende e delle pure e semplici invenzioni, a proposito
delle quali, in molti casi, non si conoscerà mai la verità. Il
giocatore di scacchi era, infatti, destinato a diventare l’automa più famoso della storia. E nel corso degli anni, l’opera di
Kempelen avrebbe involontariamente concorso allo sviluppo
del telaio meccanico, del telefono, del computer e delle storie
poliziesche.
Visto con occhi moderni, in un’era in cui per sconfiggere
il campione mondiale di scacchi occorre un supercomputer,
sembra ovvio che la macchina scacchista di Kempelen dovesse essere un imbroglio – non un vero automa, ma un congegno capace di muoversi solo sotto il controllo nascosto di un
manovratore umano, come un burattino che danzi attaccato
a un filo. D’altra parte, come sarebbe stato possibile costruire una vera macchina che giocasse a scacchi usando la tecnologia degli orologiai e la meccanica del Diciottesimo secolo?
Eppure a quel tempo diversi automi di straordinario ingegno vennero costruiti e mostrati in tutta Europa, compresa
l’anatra meccanica di Jacques de Vaucanson, il suonatore di
clavicembalo di Henri-Louis Jaquet-Droz, e la ballerina di
Jean-Joseph Merlin. I congegni meccanici oltrepassavano le
frontiere tecnologiche, sembravano non avere limiti, per cui
l’idea che la macchina di Kempelen potesse realmente giocare a scacchi non appariva del tutto fuori questione.
Anche tra le file degli scettici che insistevano nel sostenere che fosse un inganno, non si trovava un accordo su come
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dovesse funzionare l’automa, con una coda di affermazioni
e smentite. Si basava su un trucco meccanico, sul magnetismo o sull’abilità manuale? C’era un nano, un bambino o un
uomo senza gambe nascosto al suo interno? Era controllato
da un manovratore in un’altra stanza o nascosto sotto il pavimento? Nessuna delle molte spiegazioni avanzate nel corso
degli anni riuscì a smascherare appieno il segreto di Kempelen: l’unico risultato che ottenevano era quello di indebolirsi
vicendevolmente. Effettivamente, è stato solo di recente, grazie alla costruzione di una copia dell’automa, che il segreto
del funzionamento è stato completamente svelato.
Scegliendo di costruire una macchina che giocasse a scacchi, un congegno apparentemente capace di ragionare, Kempelen provocò un acceso dibattito tra quanti si chiedevano
fino a che punto le macchine avrebbero potuto emulare o
replicare le facoltà umane. L’esordio del Turco coincise con
l’inizio della Rivoluzione industriale, quando le macchine
cominciavano a prendere il posto degli operai umani, e la
relazione tra esse e gli uomini veniva ridisegnata. Il giocatore
di scacchi costituì una sfida per tutti quanti si rifugiassero
nell’idea che le macchine avrebbero potuto essere in grado di
superare le prestazioni fisiche umane, ma non sarebbero mai
riuscite a fare lo stesso con quelle mentali. Di conseguenza
suscitò le stesse reazioni che avrebbero suscitato i computer
oltre duecento anni più tardi. La curiosa storia dell’automa,
parallela alla preistoria dell’informatica, con cui venne anche
a contatto in alcuni punti chiave, ha ora assunto un nuovo
significato; nel frattempo, scienziati e filosofi continuano a
dibattere la possibilità di creare una macchina intelligente.
Kempelen non diede mai un nome all’automa, il cui costume distintamente orientale, però, diede subito origine a un
soprannome arrivato fino a oggi: il Turco. Questa è la storia
della sua sfavillante carriera sulla scacchiera.
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Capitolo uno
Il gambetto di regina accettato
Il gambetto di regina (d4, d5; c4): un’apertura in cui il bianco
tenta di sacrificare il pedone dell’alfiere di regina per accelerare la sua avanzata. Il nero accetta il gambetto mangiando
il pedone offerto.
Cerca la conoscenza e la saggezza, come un tempo feci io; e
spero vivamente che la gratificazione dei tuoi desideri non
sia per te una serpe velenosa, come è accaduto a me.
Mary Shelley, Frankenstein (1818)
Le origini delle macchine moderne, dai computer ai lettori
cd, dalle locomotive ai robot, possono essere rintracciate negli elaborati giocattoli meccanici fioriti nel Diciottesimo secolo, gli automi, progenitori dimenticati di quasi tutta la moderna tecnologia; si tratta delle prime macchine complesse
create dall’uomo, e hanno rappresentato un banco di prova
per ogni ritrovato tecnico-scientifico che in seguito sarebbe
stato sfruttato nella Rivoluzione industriale. Gli automi sono
i progenitori dimenticati di quasi tutta la moderna tecnologia. Eppure i loro usi in origine erano decisamente meno pratici: balocchi per i sovrani, intrattenimenti nei palazzi e nelle
corti di tutta Europa, doni che le famiglie reali si inviavano
l’un l’altra. Oltre a rappresentare una fonte di divertimento,
gli automi fornivano ai vari Stati l’occasione di mostrare il
livello di conoscenza scientifica raggiunto, in quanto prova
tangibile del limite ultimo delle nuove tecnologie di quel tempo. Di conseguenza, gli automi hanno un’importanza sociale
e culturale di gran lunga maggiore rispetto a quanto potrebbe suggerire la loro apparenza di semplici giocattoli.
I primi automi erano essenzialmente versioni in scala ridotta
dei complessi orologi meccanici che adornavano le cattedrali
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europee fin dal Medioevo. Oltre a indicare l’ora, questi orologi spesso fornivano anche informazioni astronomiche (come
la fase lunare) e, in alcuni casi, racchiudevano interi teatri
meccanici, che improvvisamente prendevano vita in particolari occasioni. Una configurazione tipica prevedeva la presenza
di statuine che rappresentavano la Madonna e il Bambino, e
che dovevano uscire da una porta in alcune festività prefissate al momento in cui l’orologio batteva un’ora precisa. Al
loro seguito sarebbero apparse altre statue: i re magi, i pastori
e così via, e tutti questi personaggi si inchinavano di fronte
alla Madonna, porgendole dei doni, per poi sparire attraverso un’altra porta, come accade ancora oggi sul campanile di
San Marco, a Venezia. In seguito gli orologi municipali nelle
piazze delle città riadattarono questa formula, sostituendo le
figure religiose con quelle di re, cavalieri, trombettieri, uccelli
e altri animali. Questi orologi furono fonte d’ispirazione per
automi più piccoli e sempre più sofisticati, che gli orologiai
vendevano ai clienti più ricchi. Più complicati diventavano i
congegni, meno importante risultava la loro funzione di indicare l’ora, finendo per trasformarsi anzitutto in divertimenti
meccanici, di solito teatrini automatici o scene in movimento.
Un esempio piuttosto popolare era il quadro meccanico,
con elementi liberi mossi da un raffinato meccanismo a orologeria, nascosto dietro la cornice, o all’interno di essa. Un
altro tipo di automa, una sorta di intrattenimento da salotto,
aveva la forma di un ornamento da tavolo: simili congegni
potevano contenere posate, tovaglioli e spezie, avevano dei
rubinetti da cui usciva vino o acqua, erano decorati con immagini di persone o animali in movimento, e spesso comprendevano anche un orologio. Oggi è possibile ammirare
al British Museum un esemplare particolarmente curato, costruito per l’imperatore Rodolfo II da Hans Schlottheim, un
costruttore di automi tedesco.
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I progetti erano spesso influenzati anche dall’antica tradizione di costruire animali meccanici imitando la natura.
Leonardo da Vinci, per esempio, aveva progettato una macchina volante ispirata agli uccelli, e si dice che avesse costrui­
to un leone meccanico. Sempre nel Quindicesimo secolo, il
suo contemporaneo tedesco Johann Müller, conosciuto come
il ‘Regiomontano’, fece dono all’imperatore Massimiliano
di una mosca di ferro e di un’aquila meccanica, che si crede abbia accompagnato l’imperatore alle porte della città di
Norimberga, sebbene sfugge come abbia fatto. Ancor meno
plausibile è la mosca di ottone costruita dal vescovo Virgilio
di Napoli: secondo la leggenda avrebbe cacciato dalla città
tutte le mosche vere, che non sarebbero riapparse per otto
anni.
Ispirati da tali racconti, i costruttori di automi raccolsero
con piacere la sfida di creare macchine capaci di muoversi
come fossero animate di vita propria; c’erano carillon e tabacchiere da cui apparivano uccelli canterini o statuette danzanti, e un numero infinito di animali meccanici. Un progettista inglese, James Cox, costruì un elefante meccanico alto
due metri e mezzo, sul cui corpo erano incastonati diamanti,
rubini, smeraldi e perle. Cox era famoso per gli automi e per
gli orologi meccanici, molti dei quali venduti o inviati in dono
alla Cina dalla Compagnia delle Indie orientali. Tra le sue
altre creazioni, una tigre meccanica, un pavone e un cigno.
Talvolta gli automi imitavano gli esseri viventi fin troppo bene, come accadde alla corte francese di Luigi XV negli
anni Trenta del Diciottesimo secolo: un presunto automa clavicembalista incantò gli ascoltatori con la sua abilità musicale. Il re insisté perché fosse mostrato il meccanismo in grado
di suonare in modo così affascinante e quasi umano, finché
non si scoprì che c’era una bambina di cinque anni nascosta
all’interno.
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Il gambetto di regina accettato
Tra gli altri automi famosi (e veri) va ricordato quello costruito da Henri-Louis Jaquet-Droz, membro di una famiglia
di orologiai svizzeri: era in grado di scrivere, disegnare e suonare il clavicembalo, con movimenti programmati utilizzando dischi dalla forma irregolare, chiamati camme, sistemati
su un fuso; con la rotazione del fuso, alcune leve caricate a
molla e poggiate sulle camme si muovevano in alto e in basso, e controllavano il movimento delle singole parti dell’automa, spingendo e tirando delle stecche che ne collegavano il
corpo al meccanismo. Grazie a una meticolosa attenzione nel
progettare la forma di ogni camma, era possibile programmare l’automa per fargli compiere gesti coordinati, simili a
quelli di un essere vivente e dotati di grazia e delicatezza straordinarie. Altri automi simili, capaci di scrivere, furono costruiti negli anni Cinquanta del Diciottesimo secolo per l’imperatrice Maria Teresa d’Austria da Friedrich von Knauss,
inventore austriaco cui è attribuita anche l’invenzione della
macchina per scrivere.
Dal momento che solo le famiglie molto ricche potevano
permettersi di comprare questi aggeggi stravaganti, gli inventori si aggiravano nei circoli elitari delle classi elevate e
spesso finivano per essere assunti direttamente da re, regine e
imperatori. Di conseguenza, costruire automi costituiva per
orologiai, ingegneri o scienziati che avessero intenzione di
applicarsi seriamente, e alla ricerca di un mecenate, una buona occasione per dimostrare le loro abilità e ottenere una certa reputazione; armeggiare con giocattoli meccanici poteva
condurre alla fama e alla fortuna. Probabilmente l’esempio
più significativo viene dal francese Jacques de Vaucanson, le
cui invenzioni stupirono l’Europa verso la metà del Diciottesimo secolo, e la cui reputazione di costruttore di automi gli
permise di frequentare a piacimento i mondi dell’intrattenimento, dell’industria e della scienza.
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Vaucanson era nato nel 1709, ultimo di dieci figli, e aveva
studiato Teologia al collegio gesuita di Grenoble con l’intenzione di prendere i voti; presto però scoprì che l’attività di costruttore di giocattoli meccanici, cui si dedicava con piacere,
non era compatibile con la vocazione religiosa. Secondo una
versione dei fatti, il giovane costruì dei piccoli giocattoli volanti, cui aveva dato forma di angioletti, che fecero infuriare
i suoi superiori; stando a un altro racconto fu un automa da
tavolo a mettere Vaucanson nei guai con un eminente rappresentante del suo ordine religioso. Ad ogni modo, costretto a
scegliere tra la vocazione religiosa e l’entusiasmo per i meccanismi complessi, abbandonò la vita monastica e decise di
dedicarsi interamente alla costruzione di automi.
Come altri costruttori, Vaucanson era particolarmente interessato alle macchine capaci d’imitare i processi naturali
degli esseri viventi, compresa la respirazione, la digestione e
la circolazione del sangue. Il suo ultimo obiettivo era quello di costruire un uomo artificiale, ma presto capì che per
raggiungerlo doveva prima asservire il suo talento a finalità
più commerciali, per ottenere del denaro “creando delle macchine che riuscissero a risvegliare la curiosità della gente”.
Le esibizioni pubbliche di automi diventavano sempre più
popolari a Parigi e a Londra, dove offrivano al pubblico la
possibilità di vedere con i propri occhi diversi congegni che
non avrebbero mai potuto permettersi di acquistare.
L’invenzione che per prima portò Vaucanson all’attenzione del pubblico era un suonatore di flauto: un giorno nel
1735, mentre passeggiava in un giardino pubblico a Parigi,
Vaucanson vide una scultura raffigurante un ragazzo con un
flauto sulle labbra, traendone l’ispirazione per costruire una
statua semovente, che potesse effettivamente suonare melodie. Per Vaucanson il progetto aveva lo scopo principale di
permettergli di studiare il sistema respiratorio umano, e a tal
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Il gambetto di regina accettato
fine dotò il congegno di polmoni, di trachea e di una bocca,
sulla quale poggiava il flauto. I polmoni erano costituiti da
tre serie di mantici, spinti da una manovella girevole, che assicurava un flusso costante d’aria, con una pressione bassa,
media o forte. Una serie di valvole regolava la quantità d’aria
in base alla pressione che la trachea poteva tollerare, e un’altra valvola controllava il soffio, coprendo di fatto le funzioni
della lingua. Il movimento di tali valvole, combinato a quello
delle dita e delle labbra, era controllato a sua volta da una
serie di leve caricate a molla, le cui estremità posavano sulla
superficie di un tamburo rotante, coperta da piccole borchie:
quando le leve passavano su di esse, salivano e scendevano,
facendo sì che l’automa muovesse le dita e le labbra. Dunque,
ogni singolo aspetto delle complesse operazioni dell’automa
poteva essere programmato in anticipo, inserendo una configurazione di borchie adatta sul piano del tamburo. Pertanto
era possibile far sì che l’automa suonasse intricate melodie
imitando quasi perfettamente ogni minimo particolare del
respiro e dell’espressione musicale di un flautista umano.
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Vaucanson mostrò il suo flautista in pubblico a Parigi,
nell’ottobre del 1737, e fu un successo immediato. Memore
del falso automa che aveva ingannato la corte di Lugi XV,
l’inventore permise ai membri dell’Accademia delle Scienze di
Parigi, una delle società scientifiche più accreditate al mondo,
di ispezionare accuratamente il meccanismo che aveva creato,
in modo da fugare ogni possibile dubbio di frode. Juvigny, politico francese, scrisse un resoconto dell’evento, in cui annotò:
“All’inizio molti non riuscivano a credere che i suoni fossero
effettivamente prodotti dal flauto tenuto dall’automa: erano
convinti che le melodie dovessero provenire da un organo
nascosto all’interno del corpo. Anche i più scettici, comunque, dovettero presto convincersi che il flautista meccanico
soffiava di fatto nello strumento: l’aria che usciva dalle labbra
lo faceva suonare, mentre il movimento delle dita determinava le singole note. La macchina fu sottoposta agli esami più
scrupolosi che si potessero fare, e alle verifiche più rigide: agli
spettatori fu concesso di vedere anche le molle più interne, e
di seguire ogni loro movimento”. Infine fu comprovato che il
flautista era un vero automa sotto ogni aspetto: quello che il
falso clavicembalista aveva ottenuto con la frode, fu raggiunto da Vaucanson grazie all’ingegno e alla felice combinazione
delle ultime novità in fatto di tecnologia meccanica.
Nel giro di pochi mesi, Vaucanson aveva completato un
secondo automa, un ragazzo che suonava un piffero con una
mano e un tamburo con l’altra. Essendo disponibile una
sola mano per il flauto a tre buchi, il suono prodotto dallo
strumento dipendeva molto di più dalla pressione dell’aria,
dal movimento della lingua e dalla posizione delle dita del
flautista, e rappresentava dunque una sfida ancora più ardua
per l’abilità di Vaucanson nell’imitazione dei complessi movimenti umani. Ma fu il terzo automa a diventare la sua opera
più famosa: un modello dell’apparato digerente. E piuttosto
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