N°16/17 - Rivista Rocca - Pro Civitate Christiana
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N°16/17 - Rivista Rocca - Pro Civitate Christiana
Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi $# ANNO periodico quindicinale 15 agosto/1 settembre 2006 sped. in abbon. post. Art. 2 com. 20/C L. 662/96 filiale di Perugia e 2,00 Resistenza e pace: Dove sta l’errore L’indulto indulgente La grande manovra Il fascino del Partito Democratico Sviluppo sostenibile: Chi ci crede più? Migliori e più felici Scuola: Lo Stato e la Società civile. Dibattito sulla proposta del card. Scola Pluralismo religioso: Modelli a confronto Inserto: Bolivia una terra tra utopia e comunione NUMERO 16 17 da sognatori a consumatori TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X Rocca 4 7 sommario 11 13 14 16 18 21 occa allarga i tuoi orizzonti 22 25 26 29 15 agosto/ 1 settembre 2006 16 17 37 38 40 42 45 Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità Vignette Il meglio della quindicina 46 48 Raniero La Valle Resistenza e pace Dove sta l’errore 51 Luciano Bertozzi Liberia Legname e sangue 52 Filippo Gentiloni Politica italiana Il fascino del partito democratico 54 Roberta Carlini Economia La grande manovra 56 Romolo Menighetti Oltre la cronaca Indulto indulgente 57 Fiorella Farinelli Scuola Lo Stato e la società civile dibattito sulla proposta del card. Scola 58 Romolo Menighetti Parole chiave Privatizzazione 58 Pietro Greco Sviluppo sostenibile Chi ci crede più? 59 Testo di Maurizio Salvi fotografie di Martina Salvi Inserto Bolivia Una terra tra utopia e comunione Vincenzo Andraous Sbarre e dintorni Il mio primo carcere Claudio Cagnazzo Esiti del moderno Da sognatori a consumatori Manuel Tejera de Meer Io e gli altri Migliori e più felici Rosella De Leonibus Cose da grandi Questione di feeling Stefano Cazzato Lezione spezzata Tesine 59 60 60 61 62 63 Giuseppe Moscati Letteratura Dario Bellezza Versi figli di un cuore ossidato Lilia Sebastiani Il concreto dello spirito La parabola della fiducia creativa Enrico Peyretti Fatti e segni Luci e ombre Arturo Paoli Cercate ancora Alle radici della guerra Carlo Molari Teologia Pluralismo religioso: modelli a confronto Lidia Maggi Eva e le sue sorelle Dio, grande levatrice Giacomo Gambetti Cinema Passato e presente Radio America Roberto Carusi Teatro Impara l’arte… Mariano Apa Arte Bose Giuliano Della Pergola Mostre Dai bizantini a Cimabue Alberto Pellegrino Fotografia Illusione o rivelazione Enrico Romani Musica Il rap attuale Giovanni Ruggeri Siti Internet Pubblicità online Libri Carlo Timio Rocca schede Paesi in primo piano Mongolia Nello Giostra Fraternità quindicinale della Pro Civitate Christiana Numero 16-17 – 15 agosto-1 settembre 2006 $# ANNO Gruppo di redazione GINO BULLA CLAUDIA MAZZETTI ANNA PORTOGHESE il gruppo di redazione è collegialmente responsabile della direzione e gestione della rivista Progetto grafico CLAUDIO RONCHETTI Fotografie Andreozzi B., Ansa, Associated Press, Ballarini, Berengo Gardin P., Berti, Bulla, Carmagnini, Cantone, Caruso, Cascio, Ciol E., Cleto, Contrasto, D’Achille G.B., D’Amico, Dal Gal, De Toma, Di Ianni, Felici, Foto Express, Funaro, Garrubba, Giacomelli, Giannini G., Giordani, Grieco, Keystone, La Piccirella, Lucas, Luchetti, Martino, Merisio P., Migliorati, Oikoumene, Pino G., Riccardi, Raffini, Robino, Rocca, Rossi-Mori, Turillazzi, Samaritani, Sansone, Santo Piano, Scafidi, Scarpelloni, Scianna, Zizola F. Redazione-Amministrazione casella postale 94 - 06081 ASSISI tel. 075.813.641 e-mail redazione: [email protected] e-mail ufficio abbonamenti: [email protected] www.rocca.cittadella.org - www.cittadella.org http://procivitate.assisi.museum Telefax 075.812.855 conto corrente postale 15157068 Bonifico bancario: Banca Pop. di Spoleto – Assisi Cin: T – ccb n. 2250 – Abi 5704 – Cab 38270 IBAN: IT59T05704382700 0000 000 2250 BIC: BPSPIT3SXXX Quote abbonamento ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Annuale: Italia e 45,00 Annuale estero e 70,00 Sostenitore: e 100,00 Semestrale: per l’Italia e 26,00 una copia e 2,00 - numeri arretrati e 3,00 spese per spedizione in contrassegno e 5,00 Spedizione in abbonamento postale 50% Fotocomposizione e stampa: Futura s.n.c. Selci-Lama Sangiustino (Pg) Responsabile per la legge: Gesuino Bulla Registrazione del Tribunale di Spoleto n. 3 del 3/12/1948 Codice fiscale e P. Iva: 00164990541 Editore: Pro Civitate Christiana Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica sono riservati. Manoscritti e foto anche se non pubblicati non si restituiscono Questo numero è stato chiuso il 25/07/2006 e spedito da Città di Castello il 28/07/2006 4 Missione in Afghanistan Gli interventi qui pubblicati esprimono libere opinioni ed esperienze dei lettori. La redazione non si rende garante della verità dei fatti riportati né fa sue le tesi sostenute Avvertiamo l’urgenza e la necessità di costruire un percorso collettivo con un obiettivo semplice e preciso: il ritiro delle truppe militari italiane dall’Afghanistan, teatro di una guerra sanguinosa e potenzialmente infinita. Obiettivo indicato da tutto il movimento fin dal 2001 e ribadito dai Forum sociali mondiali di Bamakò e Caracas e dal Forum sociale europeo di Atene. Il decreto del governo per il rifinanziamento della missione italiana in Afghanistan introduce elementi di cosiddetta «riduzione del danno» ma non può essere certo considerato un risultato adeguato, infatti non parla di ritiro. D’altra parte il movimento per la pace attraversa un momento di affaticamento, e noi, che di questo movimento ci sentiamo parte, crediamo sia necessario investire al più presto ogni energia possibile per un suo rilancio, nell’autonomia che è elemento costitutivo della sua stessa esistenza. La pace e la guerra sono un terreno troppo importante perché su di esso si scatenino vecchie e nuove concorrenze fra componenti e anime della così detta sinistra «radicale», sia nelle aule parlamentari, sia nei movimenti sociali. Non è il momento di polemizzare con chi ci siede vicino ma di impegnarci per far sì che, dopo l’Iraq, il 2006 sia effettivamente l’anno della decisione sull’uscita delle nostre truppe dall’Afghanistan. In questi giorni molte voci chiedono di non mettere a rischio la tenuta del nuovo governo, e di subordinare a ciò il ritiro delle truppe dall’Afghanistan. Siamo quindi ben consapevoli della situazione di grande difficoltà nella quale si trovano i parlamentari pacifisti. Siamo certi che, se potesse pronunciarsi, gran parte del popolo dell’Unione, e non solo la «sinistra radicale», sceglierebbe ambedue gli obiettivi: la tenuta del governo e l’uscita dell’Italia dalla guerra afghana. Se potesse scegliere. Esiste infatti un problema di democrazia e partecipazione: perché non s’interpella direttamente il popolo dell’Unione sulla missione in Afghanistan? Quello stesso popolo che è sta- to chiamato a pronunciarsi sul leader. Scegliere se partecipare o meno ad una guerra è forse meno importante? Siamo certi che la risposta di pace sarebbe ancora una volta chiara. La scelta tra pace e guerra è per noi costitutiva del nostro modo d’intendere la politica, il terreno principale sul quale unità e radicalità si incontrano. Se è giusto non sottrarsi alle responsabilità di governo, e noi ne siamo convinti, è altrettanto necessario stare al governo in maniera differente. Partecipare al governo e partecipare ad una guerra non sono due scelte obbligatoriamente tra loro vincolate. Continuiamo ad impegnarci perché questo obiettivo possa essere raggiunto nei prossimi giorni, pur sapendo che oggi questo non dipende solo da noi, considerato l’alto grado di condivisione che tale obiettivo richiederebbe nella coalizione. Ma già da oggi possiamo scegliere di impegnarci per costruire mobilitazioni in grado, per dimensioni e qualità, di ottenere, il definitivo ritiro di tutte le truppe italiane dall’Afghanistan. Proponiamo ai movimenti, alle reti, alle associazioni democratiche, alle tante singole e singoli incontrati in questi anni di tornare a lavorare assieme nei prossimi mesi, attraverso tappe condivise, per costruire una mobilitazione la più ampia possibile capace di ottenere dal Parlamento entro il 2006 l’approvazione di una strategia di uscita dalla guerra. Antonio Bruno [email protected] Lo spirito della legge Bassanini Mi complimento con la redazione di Rocca, perché trovo sempre sulla vs. rivista articoli stimolanti sia per gli argomenti trattati sia per la scelta di introdurvi il lettore seguendo linee generali che meglio orientano sui problemi stessi. In particolare sul n. 11 ho apprezzato l’articolo di G. Piana sui temi della sussidiarietà e della solidarietà, che valgono per il settore politico in senso lato, quindi anche, pen- so, per chi svolge attività amministrativa. Su questa scia io sarei interessata all’approfondimento di un altro tassello, collaterale a questo, quello relativo alla legge Bassanini: ogni volta che, come capogruppo di minoranza in consiglio comunale di un piccolo paese, mi trovo nella situazione di partecipare ad un consiglio affrettato e sommario, la maggioranza giustifica questa modalità facendo riferimento, appunto, alla legge sopracitata, che avrebbe snaturato e tolto ogni respiro al consiglio comunale stesso. Mi chiedo allora quale sia lo spirito della legge, al di là dei contenuti, e mi chiedo se la posizione della maggioranza, in questo caso, sia strumentale alla volontà di negare spazio al dibattito oppure se sia in linea con l’intento di questa legge. Renata Abbiati Tresivio (So) Dal trionfo azzurro agli incubi calcistici di casa nostra Tutto era stato bellissimo, come in un sogno. Gli azzurri guidati da Marcello Lippi e capitan Cannavaro che trionfano sul mondo calcistico mondiale. Un viatico e un momento d’orgoglio nazionale. Vero e meritato. Un gruppo di ragazzi che, non curanti di ciò che si stava sgretolando all’interno del loro mondo, hanno fatto il loro dovere, compiendo un capolavoro. Le feste, i balli, i canti di giubilo, le bandiere al vento, addirittura un principio di concordia nazionale. Tutto è duranto lo spazio di 6 giorni. In una settimana tutto, è stato purtroppo archiviato, dimenticato, oscurato. Dal terremoto, dalla stangata storica e senza precedenti del mondo dello sport più popolare in Italia. Le sentenze di primo grado di calciopoli. È finito l’effetto Circo Massimo. Delle mille piazze italiane, dai grandi centri urbani ai piccoli paesi di provincia. La gioia per l’impresa della Nazionale nella finalissima di Berlino, gli abbracci di soddisfazione, persino il po-po-po tormentone estivo al pari del caso Zidane-Materazzi sembrano sbiadi- ti. Il verdetto di Cesare Ruperto, presidente della Caf – dopo sei giorni di Camera di Consiglio – riporta tutti quanti a terra. O meglio ci riconsegna al nostro «vecchio» calcio. Fatto di intercettazioni, griglie, pettegolezzi, campionario completo del ‘bar sport’. Disdegnato da illustri commentatori e addetti ai lavori, ma quanto mai reale. Purtroppo. La realtà del vivere, gioie e dolori del mondo (a partire dai venti di guerra in Israele e Libano che distrugge il cuore) sono passati in secondo piano. E sempre così, quando c’è il calcio. E il solo pensiero a ciò che avrebbe potuto succedere, senza la bella vittoria del quarto mondiale, dei 23 giovani azzurri, non lascia tranquilli al pensiero. Come dopo la vittoria mondiale del 1982, passata la festa, ognuno è con se stesso. Con i problemi, le difficoltà, le angustie, le prospettive, i programmi di prima e di sempre. Il gioco ci ha trastullati abbastanza. Anche un gioco è serio. Ma la vita non è un gioco. È più seria di qualsiasi gioco... anche del giuoco del calcio e delle sue glorie e miserie. Luca Rolandi Torino Israele e la Juventus gli intoccabili Calciopoli ed Israele. Cosa hanno in comune? A prima vista niente. Sembrerebbe addirittura di mischiare sacro e profano. Col rischio per giunta di non distinguere subito quale sia il sacro e quale il profano. Cosa c’è infatti nella società moderna di più sacro del gioco del calcio, di più rituale? Andare alla messa domenicale ed andare allo stadio (o guardare la partita alla tv, come d’altronde la messa) si sono perfettamente sovrapposti; riti con le loro regole e i loro divieti .... Ma torniamo ad Israele. Cosa c’entra con calciopoli? Se non fosse che lo stato israeliano avesse scatenato la sua ennesima guerra proprio mentre in Italia milioni di «fedeli» attendevano il responso della giustizia sportiva sul comportamen- to scorretto delle principali «parrocchie», probabilmente non ci avrei mai pensato. Ed invece ... è arrivato quel verdetto e il presidente della Juventus si è detto scandalizzato per il trattamento riservato alla sua squadra. Come si può osare tanto verso un club (leggi anche «chiesa»), che tanto ha dato al paese e al mondo: se abbiamo vinto la coppa del mondo non è forse merito degli juventini Buffon, Cannavaro, Del Piero e via discorrendo? Sostanzialmente è lo stesso ragionamento dei governanti israeliani da 60 anni a questa parte, con un peggioramento in senso sempre più estremista delle proprie convinzioni: come si può infatti rimproverare qualcosa ad Israele dopo quello che ha subito e continuerebbe a subire. Milioni di ebrei sono stati immolati sull’altare dell’ideologia nazista (tutta occidentale) ed ora quegli stati europei che hanno «permesso» (Inghilterra, Francia, Italia... vorrebbero insegnargli qualcosa? Giusto, noi non possiamo insegnargli niente. Ma arabi e palestinesi sì. Loro con l’Olocausto non hanno avuto niente a che fare e non solo. Sono stati e sono costretti a pagare ad Israele il risarcimento danni per conto dell’Europa razzista e antisemita. Loro non hanno nessun diritto alla difesa, loro devono riconoscere la superiorità morale del nuovo stato di Israele. Ogni loro tentativo di ribellione, sarà severamente punito; ogni attentato ad un cittadino israeliano sarà considerato un attentato allo stato tutto, un atto di guerra. Ecco perché anche questa guerra di Israele non può che essere giusta. Ecco perché ogni «risoluzione» contro la Juventus non può che essere ingiusta. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Rocca ci scrivono i lettori CI SCRIVONO I LETTORI Giuseppe Iannello [email protected] Il Codice da Vinci Perché si parla parecchio in giro di questo libro (Dan Brown «Il codice da Vinci», Mondatori MI 2003, Titolo originale «The da Vinci code», 2003) ed anche del film, per questo e solo per questo, ci è 5 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 6 re quella certa sessuofobia, quella tendenza alla repressione sessuale usata come strumento di controllo, presente qua e la nella Chiesa (per non parlare poi del problema del celibato!). In una religione orientale, per esempio, il fatto che il maestro e fondatore, Buddha o Krisma, sia sposato o meno non provoca alcun problema. Anche l’accusa di «maschilismo» fatta alla Chiesa, colpisce l’irrisolta questione della funzione e carisma delle donne. (Questo non significa affatto che siamo favorevoli all’assurdo sacerdozio femminile o all’abolizione del celibato!). Ma soprattutto, crediamo, si va a toccare un nostro punto debole più nascosto e sottile. Quando in questo o in altri testi esoterici o nei siti pseudo-gnostici che ripetiamo si vanno diffondendo in internet, viene attaccato il Vangelo, è sempre il racconto storico che viene messo in dubbio, mai l’insegnamento spirituale, etico. Corrispondentemente troppo spesso nella nostra pratica religiosa corrente l’attenzione è stata accentrata sulla vita di Gesù e la devozione alla Sua persona, quasi come alibi alla nostra mancanza di ascolto e messa in pratica delle sue parole, quasi bypassando quello che era venuto ad insegnarci, quelle verità salvifiche che dovevano cambiare la nostra vita, ma che ci sono sembrate, ahimè alquanto scomode. Eppure ci era stato detto. «Non chiunque dice: Signore, Signore; ma chi fa la volontà del Padre…» (Mt: VII, 21). Se il collegamento fra la vita, la figura di Gesù e il suo insegnamento fosse costante e indissolubile questi attacchi maligni perderebbero senso. E la nostra conclusione è questa. Più che scandalizzarci questi strani attacchi e spargimenti di nebbia, devono farci capire, se mai non lo avessimo già compreso, la terribile, sempre più pressante urgenza per la chiesa in generale e ciascun credente in particolare, di impegnarsi a fondo in un cammino di chiarificazione, purificazione, conversione. Amici di Tolstoi Roma Anna Portoghese ziatici) si parla sempre di un segreto da scoprire, che si mette astutamente davanti al naso dell’adepto, come il fascio di fieno davanti all’asino, per farlo trottare. Anche qui il segreto fa flop nell’ultima pagina del libro. Ma no! amici miei, non c’è alcun segreto che ci deve essere svelato (c’è il mistero di Dio, ma quello è un’altra cosa). Tutto quello che ci serve per proseguire il cammino, tutto quello che dobbiamo conoscere per la nostra salvezza ci è stato già detto chiaramente dai grandi maestri dell’umanità, e specificatamente in quei quattro Vangeli, tanto disdegnati. Ci è stato detto che dobbiamo amarci e non aggredirci ed ucciderci l’un l’altro, che dobbiamo amare anche i nemici, che non dobbiamo cercare ricchezze e potere, ma invece la sobrietà, l’umiltà e il servizio ai fratelli («Il più grande fra voi sia il servo di tutti»). Tutto qui! Il nostro problema è un altro, non di andare a cercare verità che non sappiamo, ma applicare alla nostra vita le verità che sappiamo già. È qui il nocciolo della questione. È questo che non facciamo e che ci distrugge. E finché non avremo imparato questa lezione, non ci sarà insegnato altro. Infine: il femminino sacro. Anche qui c’è un trucco. È vero che andiamo verso un risveglio delle energie femminili, dopo epoche di patriarcato. Saranno però le qualità femminili di intuitività, concretezza, nonviolenza e cura ad operare nella storia. Il ritorno al passato è antievolutivo non sarà un ritorno alle antiche sacerdotesse, maghe o streghe né a riti sessuali (considerati da sempre nei Tantra, in India, cose estremamente pericolose). L’epoca futura sarà sotto il segno di Maria, colei che disse: «Ecce ancilla domini». In una cosa le forze negative non sbagliano mai: nel colpire le debolezze, i difetti dell’avversario, e stimolare così, aldilà delle loro intenzioni, una reazione di autopurificazione. Questa è infatti la loro funzione nell’ordine cosmico. Parimenti, possiamo notare come, con assoluta precisione, il racconto attacca alcuni punti deboli del cattolicesimo. Opus Dei a parte, su cui non possiamo né sapremmo pronunciarci, esso va a stuzzica- a cura di (pag. 33) è formata da 666 pezzi, il numero della bestia (il che dà a tutto il racconto una colorazione un tantino satanista!). Ma poiché in realtà il Priorato non aveva alcuna intenzione di divulgare il segreto, esso non sarà svelato. Fine del romanzo. Quando Nostro Signore Gesù Cristo accettò di scendere in questa terra di peccato per salvarci, ben sapeva che avrebbe ricevuto sbeffeggiamenti, sputi, schiaffi e molto peggio, come poi accadde. Perciò non è il caso di meravigliarci o scandalizzarci per questo romanzo. Niente di nuovo! Ne parliamo solo perché, nel disorientamento specifico dell’epoca presente, esso rischia di aumentare la confusione che regna nelle menti, tanto più che il messaggio, di per sé banale, è veicolato attraverso un thrilling un po’ grossolano, ma abilissimo, per la continua suspence, i colpi di scena, i quiz intriganti. Non ci soffermeremo sulle insensatezze minori che si colgono qua e là. Per esempio che un Ebreo doveva per forza esser sposato. E gli Esseni, allora? Non erano celibi? Oppure che Maria Maddalena era a capo della nuova chiesa. Ma quando mai le donne in ambito ebraico, hanno avuto posti di comando? Oppure l’importanza data agli apocrifi che sono in realtà perlopiù pieni di fantasiose stranezze, e privi di messaggi etici di un qualche rilievo. Tre punti fondamentali vorremmo invece contestare più specificatamente. Il primo è l’importanza cruciale data alla trasmissione «genetica», alla discendenza dal «sangue reale». Ma sono i faraoni, gli zar, i regnanti, i nobili di sangue blu, cioè quelli che detengono potere e ricchezze terrene che hanno sempre dato tanta importanza alla loro discendenza carnale a cui trasmettono potere e denaro. I maestri spirituali, i geni, i santi, Buddha o Socrate, S. Francesco o Dante o Beethoven o non hanno avuto figli oppure i loro figli carnali non hanno mai avuto alcun rilievo, alcun posto nella storia. Sono i discepoli, i figli spirituali che hanno proseguito l’opera di questi maestri. In secondo luogo: il segreto. Nella massoneria, pardon nei centri iniziatici (o controini- primipiani sembrato conveniente esprimere qualche riflessione. Innanzitutto il testo in questione appare con evidenza provenire da quel certo tipo di cultura che un tempo si definitiva «massonica», ma poiché sembra che oggi questa parola sia «politically incorrect» la chiameremo controiniziatica, cioè propria di coloro che credendo di andare verso la Vera Luce, vanno invece verso un buio sempre più fitto. Non consigliamo a nessuno di leggerlo e noi stessi lo abbiamo letto con fatica «per dovere di ufficio»; pertanto, per far capire di che cosa si tratta, ne diamo in breve la trama. L’Opus Dei, o almeno alcuni suoi membri, si dà da fare per impedire che un certo segreto che sconvolgerebbe tutta la Chiesa cattolica, anzi tutta la storia del cristianesimo, venga divulgato. Questo segreto è stato gelosamente custodito attraverso i secoli da un gruppo misterioso chiamato Priorato di Sion, di cui fece parte a suo tempo anche Leonardo da Vinci, che infatti ha riempito dei suoi simboli i propri quadri e in particolare «L’ultima cena». E il segreto è questo: Gesù Cristo era sposato con Maria Maddalena e ha avuto un figlio da lei, che è all’origine della stirpe dei Merovingi e i cui discendenti sono ancora tra noi. Questo è il vero significato del Santo Graal (che significa in realtà: «sangue reale»). Maria Maddalena poi fu la vera fondatrice della chiesa di Cristo. Ma la chiesa cattolica ha nascosto tutto questo ed ha impedito al femminino sacro di affermarsi. «Quindi tutto quello che i nostri padri ci hanno insegnato a proposito di Cristo è falso» (pag. 276). I quattro custodi attuali del segreto del Priorato vengono uccisi da un sicario dell’Opus Dei, ma l’ultimo di loro, morendo nel Museo del Louvre, lascia una traccia complicata e una serie di astutissimi indovinelli che porteranno i due protagonisti, dopo i più impensati colpi di scena e incredibili avventure, a individuare il «luogo sacro» dove giacciono, pare, le ossa di Maria Maddalena e i documenti. Questo luogo è proprio al Louvre presso la piramide di vetro fatta costruire da Mitterand e che l’autore si era premurato di precisare, all’inizio del libro Religioni dialoghi e inchieste Somalia conflitti e diplomazia «Eu for News», notiziario dell’insegnamento religioso europeo (n.30/06/06) pubblica i risultati di un’inchiesta tra diverse personalità a proposito dell’insegnamento religioso. Alla domanda «Lei ha ricevuto un’educazione religiosa che l’ha segnata?», il filosofo Régis Debray risponde: «Sì, sono cattolico. Catechismo, comunione, cresima, e tutto il resto. Questo timbro sociologico, di cui d’altronde non mi lamento, dà dall’adolescenza la voglia naturalissima di smarcarsi, e di andare a vedere altrove». «Circa la proposta ventilata di un insegnamento della religione islamica nelle scuole italiane, io, da musulmano, dico: No al Corano impartito dallo Stato! Il problema è serio e complesso… Lo Stato italiano dovrebbe cominciare ad aprirsi all’ebraismo e insegnarlo nelle scuole. Poi all’Islam. E poi al buddismo, all’induismo e via dicendo. Affermando queste cose, io non faccio neppure gli interessi della mia religione, l’Islam. Però il discorso è questo: o la società si apre davvero a tutte le religioni o non si apre a nessuna»( Mario Scialoja, già ambasciatore in Arabia Saudita). «Sì all’ora di religione islamica», ha sostenuto il card. Martino tempo fa. In realtà è proprio questa la via che mantiene aperto lo scontro di civiltà, perché ghettizza il fatto religioso all’interno delle diverse religioni e confessioni… Vi era una diversa strada che il cardinale poteva indicare cioè la strada oggi considerata con attenzione anche da molti cattolici in Italia: l’ipotesi di un insegnamento delle religioni obbligatorio per tutti gli alunni che eviti in partenza la ghettizzazione, l’isolamento, lo scontro. Perché non prendere sul serio questa ipotesi? (Ermanno Genre, rettore Facoltà valdese di Teologia – Roma). La Somalia vive ormai da quindici anni una terribile guerra civile tra clan rivali e la sua popolazione, in conseguenza, vive malissimo. Recentemente, i rappresentanti delle cosiddette «Corti islamiche» hanno garantito un po’ di strutture sociali come scuole, le uniche del Paese, e ospedali, riscuotendo un comprensibile sostegno popolare, contro i «Signori della guerra», riuniti in alleanza contro il terrorismo, cui non interessa certo istruire o soccorrere la popolazione. Il 5 giugno scorso i guerriglieri delle Corti presero il potere, installandosi a Mogadiscio, contro il governo «transitorio» rimasto nel sud, a Baldoa (cfr Rocca n.15/06). Ma l’Etiopia, paese a guida cristiana, evidentemente non ama avere alle porte un regime islamico e ha motivo di pensare che l’obiettivo degli islamici, oltre che di governare con la sharia, sia anche quello di realizzare una «Grande Somalia», appropriandosi della regione dell’Ogaden, di etnia somala, tuttora sotto Adis Abeba. Il 20 luglio le truppe etiopiche sono entrate in forza in Somalia e hanno raggiunto Baldoa, sede del Governo Federale di Transizione loro alleato e sostenuto dagli Stati Uniti, schierandosi a difesa dei punti strategici della città. La loro presenza mira ad arrestare l’avanzata delle milizie islamiche le quali, secondo la Cia, sarebbero strettamente legate ad Al Qaeda. Non è la prima volta che l’Etiopia varca il confine somalo, e diplomatici europei sono al lavoro per evitare l’allargarsi del conflitto. Il nostro diplomatico Mario Raffaelli sta cercando di convincere gli Stati Uniti a lasciare un po’ di tempo per le trattative. Assisi a 20 anni dall’incontro mondiale Dal 5 al 7 settembre Assisi ospiterà un incontro mondiale interreligioso, nel ventesimo anniversario della storica Giornata di preghiera delle Religioni, convocata da Giovanni Paolo II nell’ottobre 1986. «Per un mondo di pace. Religioni e culture in dialogo» sarà il tema centrale del meeting, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio assieme alla Conferenza episcopale dell’Umbria. «In un tempo segnato da terrorismo e da guerre, come pure da sforzi di dialogo e di riconciliazione – scrive la Comunità – le religioni hanno assunto un ruolo rilevante nello spazio pubblico e nelle identità a confronto, e sono sempre più sottoposte alla sfida delle strumentalizzazioni estremiste». Dodici panel su temi-chiave offriranno materiali per la ricerca pratico-teorica di vie d’uscita dall’ideologia dello «scontro» nel comune sforzo di collaborazione. Già si annuncia una presenza di numerose personalità religiose di varie parti del mondo. (Nella foto, momento dell’incontro 1986). ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ATTUALITÀ CI SCRIVONO I LETTORI 7 ATTUALITÀ Croazia nave nazista diventa monastero Corea del Sud coi Metodisti intesa sulla «giustificazione» Razzismo donne sterilizzate perché rom Una vecchia nave tedesca da sbarco, che farne? Era stata ceduta alla Jugoslavia di Tito a titolo di indennità di guerra, e ora, in disarmo, viene trasformata in luogo di accoglienza, studio e preghiera. L’ultima volta che la Dtm219 prese il largo trasportò truppe, munizioni e carri armati nel corso la seconda guerra mondiale. Il ministro croato della Difesa ora l’ha offerto al Collegio salesiano di Sibenik, affidandola al cantiere navale della zona per la ristrutturazione e gli adattamenti. Il nuovo progetto prevede, infatti, la trasformazione del naviglio in un singolare luogo itinerante. Secondo il giornale di Zagabria «Jutarnji List» del 4 luglio «la nave sarà utilizzata come chiesa sul mare per i giovani, che potranno solcare l’Adriatico, pregare e meditare nel quadro di crociere religiose organizzate dai Salesiani». I cattolici rappresentano l’88% dei 4,5 milioni di abitanti della Croazia seguiti dagli ortodossi (5%). I metodisti (protestanti riformati dall’Anglicanesimo) hanno compiuto un importantissimo passo avanti sulla via dell’unità cristiana. Hanno sottoscritto, nel corso dei lavori della loro 39° Conferenza internazionale (Seul 20-24 luglio), il testo sulla «Giustificazione per fede», dichiarazione in base alla quale luterani e cattolici stabilirono nel 1999 il venir meno delle reciproche scomuniche. Si tratta di uno dei punti di maggior contrasto tra cattolici e protestanti nel XVI secolo, assunto poi anche dai metodisti con forte accentuazione psicologica. I metodisti sono oltre 73 milioni, presenti in 132 diverse nazioni; i delegati convenuti a Seul circa 2000. Il dialogo con la Chiesa cattolica risale a 40 anni fa. La firma del documento ha visto – oltre ai membri del Consiglio mondiale – la presenza del pastore Noko, segretario generale della Federazione luterana mondiale, e del cardinale Kasper, presidente del Pontificio consiglio dell’unità dei cristiani. Messaggio incomprensibile dalla civilissima Repubblica Ceca, da poco entrata a far parte dell’Unione europea: eppure è quello razzista il messaggio di donne sterilizzate a loro insaputa perché zingare, notizia riportata dai giornali dopo un’accusa dall’ospedale di Ostrava. Amnesty international e il Consiglio d’Europa avevano richiamato sia la Cechia, dove la popolazione rom è numerosa (250 mila persone), sia l’Ungheria, sia la Romania perché la pratica – che già vigeva in periodo comunista, mirante a limitare la popolazione rom considerata un peso per lo stato – fosse definitivamente soppressa. Praga sta ora affrontando la questione, mentre in Slovacchia (il 10% della popolazione è di origine rom) i governanti negano il problema. Ma la discriminazione dei rom dell’Est europeo (sono 9 milioni) esiste sotto varie forme: per i diritti della più grande minoranza del Continente il percorso dell’Europa non può ignorarne la difesa. Italia attenti agli «invisibili» ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Il 24 e il 25 settembre Amnesty International presenta la prima edizione delle Giornate «Attivismo per gli invisibili». Secondo le informazioni raccolte dal movimento, sono centinaia i minori detenuti nei centri per migranti irregolari e richiedenti asilo, resi «invisibili» perché le leggi italiane li trascurano e le statistiche non li contano. Eppure ci sono. Le due giornate serviranno per rompere il silenzio, per far uscire dall’invisibilità i minori. L’iniziativa principale, comune a tutte le piazze, sarà la realizzazione di «scritte umane» formate dagli attivisti di Amnesty, dai simpatizzanti e da tutti coloro che vorranno unirsi in questa azione per i diritti umani. Per la partecipazione, contattare Amnesty, Ufficio attivismo, via G.B.De Rossi,10, 06061 Roma, fax 064490 222. 8 notizie seminari & convegni Torre Pellice (To). Dal 20 al 25 agosto si svolgerà a Torre pellice (To) il Sinodo delle Chiese Valdesi e Metodiste. I principali temi del significativo appuntamento saranno: la responsabilità civile del cristiano, i diritti dei nuovi cittadini, l’ecumenismo difficile. All’assemblea partecipano di diritto 180 membri (pastori e laici), numerosi ospiti e osservatori. New York. Bill Gates, capo della Microsoft, l’uomo tra i più ricchi del mondo, ha do- nato 230 milioni di euro alla ricerca di un vaccino anti Aids; alla sua fondazione si è aggiunto Warren Buffet con 37 miliardi di dollari. La notizia è apparsa un mese prima della Conferenza internazionale sull’Aids che si terrà a Toronto dal 13 al 18 agosto e che vedrà il summit degli scienziati sui nuovi approcci della ricerca contro il virus dell’immunodeficienza umana. I finanziamenti della Bill and Melinda Gates andranno a 11 consorzi che raggruppano 165 ricerca- tori di 19 Paesi. Lo scambio dei dati tra le équipes è una delle condizioni poste alla fruizione del finanziamento. Artico. Il medico-esploratore francese Jean-Louis Etienne nell’aprile del 2007 (Anno internazionale dell’Artico e dell’Antartide) sorvolerà l’Artico per studiare lo spessore della banchisa, che si sta riducendo sempre più. Si servirà di uno strumento messo a punto dall’Istituto Alfred Wengener del Centro di ricerche polari tedesco. 12-15 agosto. St. Jacques de Champoluc (Ao). Giornate di riflessione in memoria di d.Michele Do, organizzate dalla Baita Albese. Partecipano Giancarlo Bruni, Enzo Bianchi, Ermis Segatti, Enrico Peiretti. Testimonianze di amici, celebrazioni liturgiche, serata musicale. Informazioni: 335 812 8767. 18-20 agosto. Assisi. Incontro biblico «Che cosa attendi?» La seconda Lettera di Paolo ai Tessalonicesi. Relatori: Nello Giostra, Bruno Baioli, Leila Carbonara della Pro Civitate Christiana, Comunità Clarisse S. Colette. Informazioni: Cittadella cristiana, 06081 Assisi, tel. 075 813231, fax 075 812445, e-mail: [email protected]. 20-25 agosto. Assisi. Corso internazionale di studi cristiani sulle problematiche dell’identità, proposto dalla Cittadella con la collaborazione della comunità di Bose e dell’Editrice Queriniana. Tra i relatori: Corrado Augias, Nocera Benali, Enzo Bianchi, Eugenio Borgna, Rita Borsellino, Paolo Ferrero, Rosino Gibellini, Sergio Givone, Raniero La Valle, Lilia Sebastiani, Rosanna Virgili. Informazioni: Cittadella cristiana 06081 Assisi, tel. 075813231, email: [email protected]. 21-26 agosto. Magnano (Bi). Al Monastero di Bose Corso di spiritualità «La speranza di un mondo salvato: conversione e azione quotidiana» con Luciano Manicardi e Roberto Mancini. Informazioni: Comunità monastica di Bose, 13887 Magnano (Bi), tel. 015 679185, e-mail: [email protected]. 25-31 agosto. Barza d’Ispra (Va). Il Centro don Guanella propone 5 laboratori di liturgia e spiritualità: lettori di testi liturgici, vocalità, cetra, arte floreale, iconografia bizantina. Informazioni; 33870.45 230 www.mdc-comunicazione.rel. 3-7 settembre. Villa Grugnano (Le). Campo giovanile vocazionale sul tema: «La missione è la scommessa di tutta la vita», diretto da p. Daniele Mazza. Tel. 081 814 1201. 3-8 settembre. Selva di Valgardena (Bz). Giornate di spiritualità per un’intensa esperienza di preghiera e orientamento. Conduce p. Filippo Clerici S.J. Informazioni. Villa Capriolo, Plan da Teja, 72 - 39048 Selva di Valgardena (Bz), tel 0471 793389. 7-10 settembre. Decollatura (Cz). Incontro biblico riservato a separati «Quando l’amore è infedele», presso l’Eremo Piccola Famiglia dell’esodo. Informazioni: 0968 61 021, www.eremiti.org. 8-11 settembre. Calambrone (Pi). Il Centro Ghandi di Pisa e i Quaderni Satyagraha organizzano un convegno su Ghandi e la nonviolenza. Sede: Centro Regina Mundi, viale Tirreno 62, Calambrone. Informazioni: cell.335 586 1242, www.centroghandi.it. 23 settembre. Piacenza. Seminario di psicodramma con Anna Boeri su: «Il Genogramma: conoscere le proprie radici», organizzato dal Centro Psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti». Informazioni: Centro, via Cam- pagna 83 – 29100 Piacenza, tel e fax 0523 498 594, www.cppp.it. 14-17 settembre. Udine. Presso il centro «E. Balducci» di Zugliano, convegno sul tema «Vivere le memorie per un futuro». Tra i relatori: Massimo Cacciari, Luigi Bettazzi, Rita Borsellino, Italo Moretti, Minoru Hataguchi, Rufina Amaya Marquez, Claude Anshin Thomas, Giampaolo Gri. Informazioni: Centro Balducci, Piazza della Chiesa 1, 33050 Zugliano (Ud), tel.0432 560 699. 19-20 settembre. 2-3 ottobre. Milano. Corso di formazione (8 ore) per animatori di strutture per anziani, organizzato da Centro di formazione «Paulo Freire» e guidato da Ennio Ripamonti e Mario Valzania. Informazioni: Centro Paulo Freire, via Guerzoni 15, 20158 Milano, tel. 02 670 9542. 9-13 ottobre. Bruxelles. Settimana europea delle regioni e delle città. La manifestazione, intitolata «Investire nelle regioni e nelle città d’Europa: i partner pubblici e privati per la crescita e l’occupazione». Informazioni: http://ec.europa.eu/ comm/regional_policy/confer e n c e s / o d 2 0 0 6 / about.cfm?nmenu=2. 20 ottobre. Italia. Quinta Giornata del dialogo cristiano-islamico. Il Comitato promotore propone di porre a base della riflessione un decalogo elaborato dai noti esperti Paolo Branca, Stefano Allievi, Silvio Ferrari, Mario Scialoja. www.ildialogo.org/ islam/cristianoislamico.htm. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 9 10 La guerra civile nella zona settentrionale dello Sri Lanka (ex isola britannica di Ceylon) tra i ribelli Tamil, che vorrebbero avere uno status autonomo in questa zona dove sono la maggioranza, e il resto degli abitanti che ritiene essere ciò una vera spartizione del Paese, non fa più notizia, nonostante la recente ripresa delle violenze. Oltre 700 persone, tra cui molti civili, sono state uccise dall’inizio di quest’anno, mentre il contesto va sempre più degradandosi.. L’isola sprofonda, sbattuta tra i demoni della violenza e le divisioni tribali, mentre accorate denunce arrivano dalle Chiese che assistono, spesso impotenti, a un’emergenza pressante. Fuggire, fuggire è la parola d’ordine che passa tra i pescatori dopo le severe restrizioni imposte nella pesca. Fuggire perché le coste sono disseminate di bunker della marina e dell’esercito e non si può andare al largo. Molte famiglie nelle notti senza stelle, per sottrarsi alla fame, fuggono nascostamente in India, paese situato a qualche centinaio di metri dalla loro costa. Il vescovo Joseph Rayppu di Mannar, una diocesi la cui popolazione è a maggioranza Tamil, ha confermato al corrispondente dell’agenzia Eni che molti pescatori vendono barche e reti per avere il denaro e raggiungere in India lo status di rifugiati politici. Un altro pescatore ha raccontato la confisca governativa del suo grosso peschereccio, che gli consentiva la pesca in alto mare, perché accusato a torto di tramare attentati. Purtroppo la storia si ripete: dopo il cessate-il-fuoco del 2002 negoziato dalla Norvegia, sono morte 65.000 persone e oltre 1. 800.000 sono fuggite. Il governo italiano «ha deciso di avvalersi della possibilità prevista dal testo unico sull’immigrazione, di riaprire le quote dei flussi d’ingresso, allo scopo di soddisfare le domande presentate dai datori di lavoro per l’impiego di cittadini extracomunitari». Così si legge nel nuovo decreto, varato a Roma il 21 luglio, che prevede 350mila nuovi ingressi. Salgono, pertanto, a 520mila i lavoratori stranieri che potranno regolarmente entrare nel nostro Paese nel 2006, sommati ai 170 mila, previsti dal governo Berlusconi... Il governo attuale ha anche stabilito, in linea con altri Paesi europei (Inghilterra, Svezia e Irlanda), di consentire la libera circolazione dei cittadini neocomunitari (contro le limitazioni precedenti). Anzi, il ministro dell’Interno Amato ha aggiunto che «tutta la legge Bossi-Fini dovrebbe essere cambiata; inoltre il governo metterà mano alla riforma della cittadinanza». (Si tratta del delicato passaggio dallo jus sanguinis allo jus soli, dall’essere cittadini per diritto di sangue al diventarlo per il luogo di nascita). Intanto, è stata bloccata la restituzione del «Bonus bebé» di 1000 euro da parte dei 3000 nuclei famigliari di immigrati che lo avevano per errore ricevuto. «Ciò che abbiamo fatto . ha detto il ministro Ferrero – è una sorta di riduzione del danno. Abbiamo semplicemente evitato che la Guardia di Finanza vada nelle case degli immigrati, come fossero dei delinquenti, per ritirare il rimborso dell’assegno bebé». Quanto ai nuovi ingressi, lo stesso ministro si è detto convinto che il nuovo decreto porterà alle casse dello Stato tra i miliardo e il miliardo e mezzo di euro, sotto forma di contributi dei datori di lavoro Palestina reggerà un ponticello di pace? Punto di riferimento quale unico ospedale specializzato in cure mediche pediatriche per la prima infanzia nei territori palestinesi (dove vivono mezzo milione di bambini al di sotto dei 4 anni), il Baby Charitas Hospital di Betlemme si presenta con le parole del suo fondatore, padre Ernst Scydrig «Abbiamo aiutato i più poveri, senza mai chiedere della loro appartenenza etnica o religiosa». Dando fiducia e speranza da oltre 50 anni, oggi accanto a una quarantina di posti letto il moderno ospedale ospita una scuola per le madri, una scuola professionale di cure medico-sanitarie, servizi sociali e un ambulatorio esterno. 20.000 i bambini che accedono annualmente alla struttura e fino a 150 le madri che ricorrono alla outpatient-clinic ogni giorno. Molte infermiere hanno imparato il mestiere nella scuola professionale interna, acquisendo competenze per costruire un nuovo sistema sanitario. L’ospedale dà stabile lavoro a 200 persone e spesso uno di questi stipendi mantiene più di una famiglia, soprattutto dopo la chiusura dell’ultimo varco nel Muro. (www.khb.ch). (L. Morsolin) della quindicina Immigrati 350mila nuovi ingressi il meglio Sri Lanka pescatori tra il diavolo e l’Oceano vignette ATTUALITÀ da PANORAMA, 13 luglio da LA REPUBBLICA, 15 luglio da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 luglio da L’UNITÀ, 19 luglio da IL CORRIERE DELLA SERA, 20 luglio da LIBERAZIONE, 21 luglio da IL CORRIERE DELLA SERA, 23 luglio da L’UNITÀ, 24 luglio ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 a cura di Anna Portoghese primipiani ATTUALITÀ 11 cittadella convegni 20-25 agosto senza i sandali dell’identità? “… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29) alcune tematiche: esplorare l'identità - se l'identità cammina con la storia - chi non si mette la maschera? - nelle derive integraliste... vivere la laicità - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - cos'è di Cesare? cos'è di Dio? - crescere con le differenze - l'identità feriale - le identità negate interpellano la politica - a piedi nudi... consegnarsi all'uomo, consegnarsi a Dio collaborano: Corrado AUGIAS, scrittore; Nacera BENALI, giornalista algerina; Tony BERNARDINI, della Cittadella; Enzo BIANCHI, priore della comunità ecumenica di Bose; Eugenio BORGNA, psichiatra; Rita BORSELLINO, deputata all'Assemblea Regionale Siciliana; Roberto CARUSI, regista teatrale; Franca CICORIA, della Cittadella; Tonio DELL'OLIO, di Libera International; Paolo FERRERO, ministro della Solidarietà Sociale; Gianna GALIANO, della Cittadella; Rosino GIBELLINI, teologo; Sergio GIVONE, filosofo; Kossi KOMLA-EBRI, scrittore migrante; Raniero LA VALLE, giornalista; Catiuscia MARINI, sindaco di Todi; Carlo MATTI, pianista; Raimòn PANIKKAR, scrittore, filosofo delle religioni; Giannino PIANA, teologo morale; Marco PIAZZA, maestro di musica classica dell'India; Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational; Lilia SEBASTIANI, teologa; Rosanna VIRGILI, biblista il Corso inizia domenica 20, alle ore 21,15; termina la mattina di venerdì 25 14° incontro biblico 1-3 settembre non solo beatitudini: i 'guai a voi' nei vangeli con padre Alberto MAGGI, biblista l'incontro inizia venerdì 1, alle ore 21,15; termina domenica 3, alle ore 13 esercizi spirituali dove sta l’errore 6-10 novembre per presbiteri, diaconi, laici, suore la Lettera di san Paolo ai Romani con don Oscar BATTAGLIA, professore emerito dell'Istituto Teologico di Assisi È la più lunga, la più ricca di teologia, la più difficile delle tredici lettere di San Paolo: una specie di sintesi della teologia cristiana delle origini... per nutrire la nostra fede alle sue sorgenti e per entrare in profondità nella spiritualità più genuina e impegnativa che la chiesa delle origini ci ha trasmesso. Ancora oggi è la lettera di Paolo più studiata e commentata gli esercizi iniziano lunedì 6 alle ore 18 con la liturgia eucaristica; terminano venerdì 10, alle ore 13 informazioni - iscrizioni: Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG – internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected] Raniero La Valle C onosco personalmente molti dei parlamentari dissidenti sull’Afghanistan, le cui fotografie vengono pubblicate ogni giorno sui giornali quasi si trattasse di pericolosi delinquenti. Tale linciaggio è inammissibile: per fortuna c’è ancora una Costituzione che tutela il loro diritto-dovere di rappresentare la nazione senza vincolo di mandato. Li conosco come persone serie e responsabili e so che le motivazioni della maggior parte di loro non sono né quelle un po’ ricattatorie di Bernocchi (dimostrino di essere «pacifisti»), né quelle assolutistiche di Gino Strada (fiat pax, pereat mundus) né quelle puriste dei movimenti non ancora giunti a pensarsi come soggetti politici (la pace «pura», senza se e senza ma, come ogni altra cosa «pura» per fortuna non esiste né nella natura né nella storia). So invece che le loro motivazioni sono politiche: essi pensano che la guerra perpetua in atto in diversi scacchieri sia la conseguenza della scelta strategica della presidenza Bush, invano mitigata dai segretari di Stato, di promuovere dopo l’11 settembre il «nuovo secolo americano», cioè il nuovo Impero mondiale che vendichi il Novecento. Questo progetto è destinato a fallire, tra molti tormenti; quello che invece si può realizzare è il progetto che vi si è inserito di Israele, di chiudere unilateralmente la questione palestinese stabilendo una sovranità definitiva su tutta l’antica terra d’Israele, dal mare al Giordano, neutralizzando i palestinesi col muro e con le altre politiche abbozzate e già in atto. Il voto sull’Afghanistan è l’occasione che è stata scelta per dire no a tutto questo, ben oltre l’Afghanistan. Ma proprio per questo tale scelta mi sembra un gravissimo errore che non solo vanifica questa occasione, ma rischia di compromettere ogni altra occasione. Essa non tiene conto della natura propria della politica e delle sue condizioni di operatività. Forse è il prezzo che si paga nel passaggio dalla politica «parlata», discussa, proiettata in scenari ragionati, alla politica in cui i destini collettivi sono effettivamente in gioco in campo aperto. Questo passaggio non esige solo «realismo» che può scadere in un compromesso al ribasso, ma una risposta alta alla responsabilità del reale. In questo senso la politica è un sistema di mezzi e strumenti per raggiungere un fine. Andarsene semplicemente, noi soli, dall’Afghanistan, non è un mezzo adeguato, se non per il suo valore rappresentativo e di impatto sull’opi- nione. Ma allora io avrei più problemi per le truppe in Kosovo, dove si rischia, anche senza sparare, di imporre dall’esterno l’indipendenza di quel territorio contro la minoranza serba disgregando definitivamente tutta l’area. Per la crisi internazionale generale due sono gli strumenti che è interesse supremo di una politica alternativa attivare. Il primo è lo strumento di un governo nazionale che sia in grado di far giocare all’Italia un ruolo di iniziativa e di proposta capace di incidere sull’intero equilibrio mondiale e sulle alleanze, in una prospettiva di comunità internazionale di diritto, che intercetti e impedisca la formazione di ogni nuovo impero. Il vertice promosso a Roma è un barlume di questa possibilità. La ricaduta nel berlusconismo, che è perfino peggiore di Berlusconi, rappresenterebbe la catastrofe di questa prospettiva. Il secondo è quello della ristrutturazione di tutto il sistema degli interventi militari internazionali, che li porti non tutti necessariamente fuori dell’uso della forza, ma tutti fuori della guerra e di qualsiasi loro uso egemonico, neo-coloniale e neo-imperiale, da parte di qualsiasi Potenza. Se una cosa è da chiedere al governo italiano è che apra una trattativa col Consiglio di Sicurezza per una attuazione del capo VII della Carta dell’Onu, e il passaggio di tutte le forze d’intervento alle dipendenze del Consiglio di Sicurezza e sotto la direzione strategica del Comitato di Stato maggiore che ne assuma il comando e ne determini l’impiego (art. 47). L’approdo sarebbe una forza permanente di pace dell’Onu. Qui la difficoltà è che gli americani non vogliono farsi comandare da generali stranieri, ma appunto questa è la vertenza politica da aprire che, se non trovasse soluzione, avrebbe come risultato la delegittimazione di qualsiasi intervento militare americano fuori confine. Se i dissidenti avessero dato questi contenuti alle loro rivendicazioni, avrebbero puntato non a una testimonianza per sé, ma a una soluzione per tutti. L’altro errore è stato di non vedere che un’azione di minoranze illuminate, in Parlamento, non è possibile se non si rimette in questione la forma italiana del bipolarismo, che toglie ogni agibilità politica ai portatori di proposte alternative, rendendole di fatto eversive. Il primo compito delle minoranze sarebbe dunque quello di lottare per un sistema elettorale-politico che permetta loro di esistere senza essere anarchiche. ❑ 13 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 64° Corso internazionale di Studi cristiani RESISTENZA E PACE LIBERIA legname e sangue 14 I Onu come una delle principali fonti di instabilità dell’Africa occidentale. Proprietario dell’impresa di legnami Oriented Timber Company (Otc), in realtà non si limitava al commercio di armi ma attraverso gli stabilimenti Otc e di un’altra sua compagnia di legname formava ed addestrava miliziani o mercenari da utilizzare in Liberia o nei paesi limitrofi. Fra la fine degli anni ’90 ed il 2003 il traffico di armi verso la Liberia, oggetto di un embargo Onu, ha seguito le vie del legno. Le armi seguono il percorso inverso dei tronchi, lungo le strade aperte dalle compagnie nelle foreste equatoriali; i mezzi dei mercanti del legno sono stati utilizzati per trasportare le armi. Nel periodo 19982000 la produzione di legno è cresciuta a dismisura ed i proventi sono serviti a pagare l’esercito: le milizie e unità speciali sono state accusate da Amnesty International di violazioni dei diritti umani. Il trafficante olandese e Taylor erano già in affari quando il dittatore liberiano era a capo di una guerriglia in lotta contro il Governo di Monrovia e gli concesse lo sfruttamento del legname nei territori sotto il suo controllo. Dal 1997, una volta giunto al potere il dittatore ha garantito all’europeo il saccheggio sistematico. Con il fratello di Taylor a capo dell’amministrazione forestale, Kouwenhoven ha avuto a sua disposizione circa un terzo delle foreste commercialmente utilizzabili. Per evitare ogni problema Taylor fece approvare una legge che delegava al Presidente, cioè a lui, ogni potere in materia di concessioni forestali. Per dare un’idea del grande valore economico è sufficiente dire che secondo Global Witness nel solo anno 2000 l’export di legname era pari a 100 milioni di dollari. È facile immaginare che solo le briciole sono finite nelle casse dello Stato. Tutti questi soldi hanno garantito oltre alla ricchezza di Taylor il finanziamento dei mercanti di cannoni. Le navi che caricavano il legname nei porti liberiani vi attraccavano cariche di armi, denunciava Global Witness. Ovviamente i porti erano gestiti dalla Otc di Kouwenhoven. Un’altra via delle armi erano le piste di atterraggio nelle zone forestali, sempre nelle aree sotto il controllo della Otc. Solo nel 2003 l’Onu ha adottato l’embargo sul legname liberiano, considerato, al pari dei diamanti, la principale fonte di finanziamento del conflitto. Fra chi ha denunciato questi commerci di morte è da segnalare Greenpeace, l’associazione che fra gli anni 2000 e 2003 ha indagato nel settore denunciando alcuni imprenditori che in Europa ed in Italia importavano dalle società di Kouwenhoven, fra cui l’italiana Tecnoalp. Recentemente l’associazione ambientalista è stata assolta in tribunale dall’accusa di diffamazione intentata dalla Tecnoalp. «Il caso Kouwenhoven – afferma Greenpeace – dimostra che il commercio internazionale del legno non è in grado di autoregolamentarsi ed evidenzia l’urgenza di una legge che regoli il mercato, vietando le importazioni di legname di origine illegale o distruttiva». armi in cambio di materie prime Le guerriglie, fra cui quella vincente di Taylor, fecero ricchi i trafficanti di armi grazie al cosiddetto «legname insanguinato», cioè venduto clandestinamente in cambio delle armi che hanno reso i Paesi dell’Africa occidentale un inferno. Del resto senza la svendita delle materie prime le guerre degli anni ’90 non sarebbero durate tanto tempo. Taylor, a titolo esemplificativo, grazie al legname ed ai diamanti ha accumulato una fortuna dell’ordine di centinaia di milioni di dollari. Ultimamente è stato arrestato in Nigeria mentre cercava di scappare in Cameroun con più di un milione di dollari in contanti e sarà processato per un lungo elenco di crimini contro l’umanità, fra cui l’arruolamento di migliaia di bambini soldato, rapiti alle proprie famiglie. Ovviamente l’ex dittatore ha fatto ricche le compagnie occidentali di diamanti e di legname che hanno sottratto enormi ricchezze a popolazioni fra le più diseredate del mondo. Non solo, la Liberia e la confinante Sierra Leone erano i Paesi più afflitti dal problema dei bambini soldato, cioè di ragazzini trasformati in spietate macchine per uccidere. Oggi, a guerre finite, migliaia di ex combattenti senza alcuna istruzione e capaci solo di combattere sono destinati diventare delinquenti. L’Occidente che si è ingrassato con le risorse naturali africane e con la vendita di armi ha l’obbligo morale di aiutare il recupero psicofisico di questi ragazzi e la fuoriuscita dal sottosviluppo. Allo stesso modo bisognerebbe rendere noto il nome delle compagnie che hanno utilizzato tali commerci, per evitare che comprando ad esempio un parquet si possa contribuire inconsapevolmente a tanta sofferenza. Questa condanna, di valenza anche pedagogica, speriamo sia solo la prima di una lunga serie. Il processo a Taylor che si svolgerà all’Aia prossimamente, sarà il capitolo successivo e rappresenterà l’occasione per fare piena luce sul ruolo svolto da politici e servizi segreti. Del resto Taylor secondo Nigrizia era al soldo della Cia dal 1985 ed il ministro francese della cooperazione Josselin, sempre secondo Nigrizia, cercò di togliere l’embargo delle armi verso la Liberia quando Taylor divenne Presidente nel 1997. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Luciano Bertozzi mercanti di armi rischiano di trascorrere molti anni in prigione. Gus Van Kouwenhoven, un importante trafficante olandese di armi, è stato condannato ad otto anni di carcere da un tribunale del suo Paese per aver venduto armi in violazione dell’embargo Onu al dittatore liberiano Taylor. La pubblica accusa chiedeva, invece, una pena di venti anni e una multa di 450.000 dollari. «Riteniamo dimostrato – ha affermato in tribunale il procuratore John Lucas – che l’imputato è colpevole di crimini di guerra per la consegna di armi, solo e in collaborazione con altri, essendo cosciente degli assassini, degli stupri, dei saccheggi» che infuriavano nel Paese africano. Lo stesso procuratore ha definito l’imputato Van Kouwenhoven «braccio operativo» di Taylor, al cui regime forniva armi in cambio di concessioni per lo sfruttamento di legname esotico. L’olandese, tuttavia, non è stato ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità, per tale reato è stato assolto per insufficienza di prove. Il trafficante olandese era al centro del commercio di morte nel Paese africano, sconvolto da una sanguinosa guerra civile negli anni ’90 che causò molte decine di migliaia di vittime e la destabilizzazione dell’intera regione africana. David Crane, il procuratore del Tribunale Speciale sui crimini commessi in Sierra Leone e che indaga da anni sul ruolo di Taylor nel predetto conflitto, ha definito l’arresto del trafficante «uno dei principali colpi assestati alla rete di affaristi e faccendieri occidentali che si arricchiscono sulle sofferenze degli africani». Il caso giudiziario ha sollevato il velo sui legami fra le attività dei commercianti di armi, i finanziatori internazionali e lo sfruttamento delle immense risorse naturali africane. Kouwenhoven era citato in numerosi rapporti Luciano Bertozzi 15 POLITICA ITALIANA il fascino del partito democratico U quale modello Comunque il sogno di un unico partito «democratico» rimane all’orizzonte e stimola a superare le difficoltà di una coalizione che stenta a imboccare una strada comune e ben lastricata. Lo si può constatare ogni giorno: la politica estera, prima di tutto, con le spedizioni militari, ma anche il lavoro, la scuola, l’immigrazione, e soprattutto i bilanci. E anche la lai16 cità. Nessuna meraviglia se si sente il fascino di una situazione rigidamente bipolare, come negli Usa. Anche se, a guardare meglio, ci si può rendere conto che anche per Bush la situazione politica non è «rose e fiori». Tutto, dovunque, è complesso: inutile farsi illusioni. Da noi, in particolare, sarebbe vano dimenticare quanto le posizioni politiche del centrosinistra siano diverse le une dalle altre. Posizioni di oggi e storia di ieri. Basti pensare alla lontananza fra le due componenti principali, i democratici di sinistra e la Margherita, Fassino e Rutelli (anche se Prodi, D’Alema e Amato guidano una forte e abile squadra di mediatori). Vengono subito in mente le case di origine, le Botteghe Oscure e Piazza del Gesù: erano vicine l’una all’altra materialmente, ma quanto lontane! Per non ricordare la distanza fra il «Capitale» di Marx e la dottrina sociale della Chiesa. Una distanza che ha caratterizzato più di mezzo secolo di storia italiana e che ora non si può cancellare in pochi mesi. Caratterizzato e anche arricchito. dall’Italia all’Europa Né giova uno sguardo all’Europa. Qui, negli scranni parlamentari si invoca una unità all’insegna del socialismo: insegna storicamente quanto mai gloriosa ma che oggi viene tirata da troppe parti, come il classico lenzuolo. E come accade anche per il «centro», altra indicazione politica troppo incerta ed elastica. La perdita delle identità politiche e culturali è un rischio da corrersi il meno possibile. Né perdite né annacquamenti. tempi lunghi e mediazioni E allora? Il sogno del partito unico democratico non si deve mettere nel cassetto, ma richiede tempi lunghi e mediazioni. E non deve comportare troppi rinvii. I problemi politici di oggi vanno risolti in quell’oggi affollato e anche confuso nel quale si è chiamati a discutere e anche a decidere. Come, d’altronde, il governo Prodi sta cercando di fare. Filippo Gentiloni 17 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Filippo Gentiloni n sogno? Una speranza senza fondamento? Un alibi che potrebbe servire a coprire le carenze del nuovo governo di centrosinistra? A questi interrogativi è chiamato a rispondere il futuro partito «democratico». Quando e se nascerà. È bene parlarne, ma senza dimenticare l’oggi: l’oggi di parecchi partiti che lavorano insieme nonostante le diversità, uniti non soltanto dalla comune fortissima avversità al berlusconismo, ma anche da un discreto programma positivo, come le recenti decisioni di Bersani hanno dimostrato. ECONOMIA la grande manovra il Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa 18 N riusciti a imporre al recalcitrante presidente del consiglio un governo a 101 membri); il proporzionalismo che allora ci si accingeva ad abbandonare è tornato nella sua versione peggiore; i tecnici – o presunti tali – non hanno vita facile né successo assicurato; la politica – con tutta la sua forza e tutte le sue debolezze – ha ripreso il suo posto. Ma queste sono solo le differenze della scena politica. Sul versante dell’economia, la radicale diversità rispetto a quei tremendi anni ’90 è ammessa dallo stesso Dpef (Documento di programmazione economica e finanziaria) del governo, quello che contiene il fatale numeretto dei 35 miliardi. Si legge infatti nel Dpef che, per l’anno 2007, non tutti quei 35 miliardi sono votati al risanamento della finanza pubblica: per essere precisi, 20 vanno recuperati dal bilancio pubblico, in forma di minori spese o maggiori entrate, per riequilibrare un bilancio che altrimenti marcerebbe verso un deficit ritenuto insopportabile; mentre altri 15 sono da dedicare alla crescita, allo sviluppo, insomma all’economia privata che non tira e se continua così non tirerà. Ma poiché – questo il ragionamento di Padoa Schioppa e colleghi – non si può aiutare l’economia privata aprendo una falla ulteriore nelle casse pubbliche, quei 15 miliardi da votare alla crescita devono essere a loro volta trovati nel bilancio, con minori spese o maggiori entrate: per questo la manovra complessiva sarà (dovrebbe essere) di 35 miliardi. La differenza non è di poco conto. Dal punto di vista teorico, è la sconfessione di un mito che si è sempre mostrato fallace ma che da molti anni a questa parte i governanti non hanno mai rinnegato, e quelli europei lo hanno addirittura scritto nelle carte fondamentali dell’Unione. Il mito per cui basta tenere i conti pubblici in ordine, il deficit sotto controllo (possibilmente tendente allo zero), e l’economia va. Beh, l’economia non va, e se gli investimenti privati non decollano, la domanda non cresce, i risparmi non vanno a scopi produttivi, le imprese non innovano e la produttività scende, bisogna metter mano a qualche strumento nuovo, non basta blaterare contro l’oppressione del governo e pensare che liberando l’economia privata da questo peso tutto si aggiusta. chi pagherà? Questo sul piano generale. Quando si scende nel dettaglio però le cose si fanno più complicate, e non solo perché non si conoscono le misure che saranno prese per la crescita. Si sa che in gran parte quei fondi andranno ad alleggerire il peso che grava sul costo del lavoro, dunque ad aumentare la convenienza dell’assunzione dei lavoratori (il che dovrebbe innescare un circolo virtuoso di fiducia nella ripresa dell’economia), a stimolare le nostre bassissime spese per la ricerca e l’innovazione tecnologica. Ma non si sa come, con quali misure specifiche, se gli sgravi saranno mirati o indiscriminati; e soprattutto non si capisce ancora bene come l’effetto positivo dello stato che dà (quei 15 miliardi, per la crescita e lo sviluppo) sia controbilanciato dall’effetto negativo dello stato che prende (quegli stessi 15 miliardi, perché la manovra non si farà in deficit, più quegli altri 20, per il risanamento complessivo). Nella complessa partita del dare e avere, non basta dire: tagliamo le spese improduttive, le sostituiamo con quelle produttive, e il gioco è fatto. In primo luogo, perché l’entità della manovra è talmente grande che difficilmente potrà essere coperta dalle sole operazioni di bisturi sulle spese «inutili»; in secondo luogo, perché ogni spesa improduttiva è un bacino di consen- ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Roberta Carlini ella manovra economica che ci aspetta per la prossima stagione, per ora si conoscono solo i grandi numeri: 35 miliardi di euro. Una misura imponente, che si avvicina quasi alla più dura manovra degli ultimi anni, quella con la quale nel 1992 l’allora primo ministro Giuliano Amato intervenne contemporaneamente su pubblico impiego, enti locali, pensioni e sanità con altrettante leggi delega e pesanti tagli. A quell’epoca si trattava di fronteggiare il pericolo di svalutazione della lira (che poi ci fu), far restare l’Italia agganciata al carro europeo, superare una gravissima crisi politica: ma fu proprio grazie a quella gravissima crisi (si era nel pieno della tempesta di Tangentopoli) che i partiti – in via di scioglimento, sciolti o comunque in travaglio – non ebbero alcuna voce in capitolo, i «tecnici» presero il sopravvento e la super-manovra si fece. Adesso, nonostante i ripetuti parallelismi – è stato lo stesso ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa a esordire dicendo che la crisi che stiamo vivendo è grave quanto quella dei primi anni ’90 –, la situazione appare molto diversa. I partiti, nuovi, vecchi o rifatti, sono abbastanza forti (o almeno così pare, visto che sono 19 il mito del 3% Ad esempio, un effetto positivo della riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti (ossia uno sgravio sui contributi o sulle tasse che gravano sul lavoro) potrebbe essere in parte annullato da un aumento dell’Iva, o dei ticket sanitari, etc. È per questo che molti economisti, nel criticare l’impostazione data al Dpef da Padoa Schioppa, chiedono di abbandonare il mito del 3%, ossia l’obiettivo di portare il rapporto tra deficit e Pil al di sotto del 3% e progressivamente verso lo zero: questa politica, voluta dal Trattato di Maastricht e poi dal patto di stabilità, è proprio quella che ci ha portato nella situazione di stagnazione in cui siamo, sottraendo risorse alla domanda aggregata e dunque all’economia. Questi economisti – il cui appello è circolato in rete ed è stato pubblicato dal manifesto – chiedono un’interpretazione meno rigida di quei patti, propongono che l’Italia si faccia promotrice in Europa di una svolta in questa direzione, e che metta mano ai suoi problemi economici senza la spada di Damocle del rispetto di parametri che non stanno scritti in nessun sacro testo né hanno alcuna motivazione scientifica, ma vengono solo dall’ossessione dei costituenti europei verso lo spauracchio dell’inflazione e del lassismo finanziario. tutta colpa dell’Europa? ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Il ministro dell’Economia Padoa Schioppa, che nei palazzi europei ha vissuto da protagonista (essendo stato per anni nel board della Banca centrale europea), non pare affatto intenzionato a seguire questa linea. Eppure in tutti i suoi scritti è testimoniata una sua insofferenza verso una concezione tutta contabile e monetaria dell’Europa, e uno slancio verso un’Europa politica che avrebbe bisogno di regole ben più profonde di quella del 3%. Ma Padoa Schioppa, pur se anagraficamente un po’ più giovane, appare appartenere a quella schiera di governanti italiani (che van20 no da Carli a Andreatta a Ciampi) che non fidandosi molto della nostra capacità di tenere la barra, sentono la necessità di mettere la nave su una scia più grande; di agganciarci all’Europa per imporci una virtù che da soli non riusciamo a imporci; di preferire una regola stupida (così Prodi definì la rigidità del Patto di stabilità) all’autodisciplina, che per noi vorrebbe dire «nessuna regola». Una concezione criticabile, ma con un fondo di verità: anche abbandonando quella regola del 3%, pur dilazionando l’obbligo di riequilibrare il bilancio pubblico (che in ogni caso non può basarsi sul ricorso indefinito al debito), anche scegliendo un percorso più ragionevole (prima lo sviluppo, poi il risanamento), siamo sicuri che la politica italiana sarà in grado di scegliere, e di agire, al momento opportuno? È colpa dell’Europa, o di noi stessi, se finora non si è scelto in modo netto tra le rendite e i salari, tra le tasse e l’evasione, tra la sanità pubblica e le (costosissime) cliniche in convenzione, tra le megaopere e le piccole strade? dai numeri alle persone Forse l’autunno porterà consiglio, e dalle discussioni sui numeri e sulle percentuali passeremo a quelle sulle persone e sulle cose. Discutendo nel merito, forse potremmo scoprire che uno degli obiettivi ritornati in auge (a sorpresa) nel Dpef, quello della riduzione delle disuguaglianze, potrebbe sposarsi bene anche con i nostri problemi fiscali. Il ministro Visco ha già dato un assaggio (piccolo) della questione, cambiando il regime fiscale delle stock option, ossia delle retribuzioni «fuori busta» che i top manager si danno, finora tassate con una ritenuta pari a meno della metà di quella che c’è sullo stipendio di un operaio. Ma è così utopistico pensare che, in situazioni straordinarie e urgenti, i più ricchi siano chiamati a contribuire di più allo sforzo? Che dunque l’ultimo modulo della riforma Tremonti, quello che ha abbassato le aliquote per i redditi più alti, vada annullato? Che il riordino delle rendite finanziarie vada fatto pensando, oltre che a fare ordine, anche a fare un po’ di giustizia? Forse parlando un po’ di più di queste cose – e di sanità, degli ospedali, delle farmacie, eccetera eccetera – e un po’ meno della regola del 3% riusciremo a superare, finalmente, quell’emergenza iniziata negli anni ’90 e non ancora finita. Roberta Carlini OLTRE LA CRONACA indulto indulgente Romolo Menighetti ’avvio di un processo di moralizzazione è una delle maggiori speranze che gli elettori del centrosinistra coltivano da quando Prodi è a capo di un governo di segno opposto al precedente. Non vanno però nel senso della moralizzazione della vita pubblica alcuni degli orientamenti della maggioranza. Mi riferisco in particolare all’indulto che, al momento in cui i lettori leggeranno queste righe, potrebbe già essere stato approvato dalla Camera. (Giova ricordare che l’indulto è uno sconto sulla pena – in questo caso di tre anni – che non estingue però il reato). Ebbene, tale provvedimento, che si vorrebbe motivare con l’esigenza di sfoltire le carceri, ammette allo sconto di pena anche i reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato), quelli finanziari (falso in bilancio, frode fiscale, aggiottaggio, appropriazione indebita), e quelli societari (i fallimenti). Cioè proprio i reati che maggiormente ammorbano la vita pubblica, e che coinvolgono, più che il comune cittadino, chi vive di politica, pubblica amministrazione e dintorni. Vale a dire proprio i reati che il centro-sinistra, quando era all’opposizione, accusava la maggioranza di centro-destra di voler legalizzare o ridimensionare. Inoltre, dal momento che i condannati per tali reati raramente stanno a lungo in galera, non regge molto la giustificazione dell’esigenza di sfoltire le carceri, mentre affiora quello che pare essere il vero motivo del provvedimento: accelerare il reinserimento nelle pubbliche funzioni di chi già in esse aveva intrallazzato. Al momento in cui scrivo, tra i ministri, il solo Antonio Di Pietro, che aveva presentato modifiche – bocciate – per escludere dall’indulto la corruzione, ha fatto sentire forte e chiara la propria contrarietà al provvedimento, minacciando addirittura le dimissioni. Di Pietro che, sia detto per inciso, appare come tra i ministri più coerenti con l’obiettivo della moralizzazione (si veda la L tempestiva consegna dei registri dell’Anas alla Magistratura), parla di «simonia» e «compravendita delle indulgenze» per cui «il centrodestra acconsente a votare l’indulto» in cambio dell’inclusione di alcuni reati, appunto quelli – aggiungo io – contro la pubblica amministrazione. In base a tale provvedimento, ad esempio, l’ex ministro berlusconiano Previti godrà dello sconto di tre anni, e potrà approfittare della legge che consente l’affidamento ai servizi sociali. Ma la difficile moralizzazione pubblica traspare anche dalla vicenda taxi e da come si è conclusa. L’obiettivo principale – più taxi a disposizione dei cittadini – è stato solo minimamente raggiunto, mentre si è ripetuto l’immoralissimo copione per cui chi più protesta, blocca le strade, crea problemi, minaccia, alza la voce e le mani, alla fine canta vittoria. Le intenzioni del Ministro Bersani erano certamente ottime, e avevano aperto il cuore degli elettori (anche di centrodestra) alla speranza circa il ridimensionamento di una lobby rozza e prepotente, che rende difficile, per motivi corporativi, l’uso di un mezzo che si rivela sempre più necessario, vista la crescente difficoltà per il trasporto privato urbano. L’essersi accontentati di un «pareggio» però si configura come una sconfitta per il cittadino che giustamente aspira a più corretti rapporti con i monopolisti di un servizio pubblico. E infine, Dio non voglia che il governo di centrosinistra si lasci tentare da quella che appare come la madre di tutte le immoralità: la grossa coalizione. Sarebbe il tradimento degli elettori che, votando Prodi e il centrosinistra, hanno votato per un cambiamento netto e preciso. Piuttosto Prodi e coloro che hanno più senso di responsabilità nella maggioranza, facciano chiaramente capire a certi irrequieti colleghi, che un conto è fare la «rivoluzione» e un conto è avere responsabilità di governo, che l’etica dei valori deve armonizzarsi con l’etica della responsabilità. E li invitino a rileggere (o a leggere per la prima volta) quel che scrive in proposito Max Weber. ❑ 21 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ECONOMIA so, stratificato negli anni, spesso ha generato dei diritti acquisiti, spesso del malaffare difficile da sradicare in pochi mesi. Ma ammesso pure che il governo abbia la forza e il coraggio di procedere su questa strada, in pochi credono che possa essere l’unica; e tutte le altre – dall’aumento delle tasse ai tagli di spese come quella sanitaria o pensionistica – sono ben più dolorose, in termini di equità ma anche ai fini dello stesso rilancio dell’economia che si vuole perseguire. SCUOLA lo Stato e la società civile ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Fiorella Farinelli 22 n diluvio di commenti alle dichiarazioni su scuola ed educazione del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia. Non solo il corteo dei soliti noti alla quotidiana ricerca di visibilità e di ascolto. Con argomenti non banali e riflessioni non schematiche sono scese questa volta in campo anche firme autorevoli e un bel gruppetto di teste pensanti. Perché le provocazioni del cardinale, che dice basta alla scuola statale e chiede che sia invece la società civile a gestire l’educazione in nome della libertà di insegnamento, se suscitano diffidenze e contrarietà anche all’interno del mondo cattolico, interessano e incontrano non poche simpatie, viceversa, in alcuni settori della sinistra e nei raggruppamenti politici di tipo liberal, magari sparuti e tuttavia vivi e vegeti in entrambe le coalizioni. Il cardinale, del resto, nell’intervista del 16 luglio al Corriere della Sera, non dice che lo Stato deve uscire dal campo dell’educazione, ma ne limita e circoscrive il ruolo esclusivamente a compiti di regolazione. Non gestione, quindi, ma governo; non istruzione di Stato, ma libertà educativa in scuole gestite da associazioni, fondazio- U ni, comunità (perché no, quindi, alle scuole islamiche?) purché accreditate dallo Stato. Parole che non suonano del tutto estranee, e tanto meno ostiche, a quella parte del centrosinistra che apprezzò la legge sulla parità scolastica approvata quando era ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, per cui si riconosce la funzione pubblica – e la partecipazione «paritaria» al sistema pubblico – a quelle scuole che, sebbene gestite da privati, ottemperano agli obiettivi e alle regole di funzionamento stabilite dallo Stato. E soprattutto a quanti, nell’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche – poi costituzionalizzata con la riforma del Titolo V – hanno visto e sostenuto proprio la netta e definitiva presa di distanza dal tradizionale statalismo scolastico, quello del pensiero pedagogico di Stato, dell’ uniformità educativa, dell’identità dei programmi e delle modalità di funzionamento come garanzia di eguaglianza, dell’autoreferenzialità indifferente alle differenze degli allievi e dei contesti. l’autonomia scolastica Molti commenti, dunque, sono positivi, almeno su questi contenuti dell’intervista del cardinale, e sembrano semmai rimproverargli di presentare un ritratto della scuola italiana molto diverso da quello che in effetti essa è, o è diventata, o almeno potrebbe diventare. È ben vero, infatti, che in Italia l’80% delle scuole è «statale» e che le istituzioni scolastiche autonome sono ancora gracili, anche perché deprivate dalla gestione Moratti delle risorse necessarie e insidiate, viceversa, dall’immarcescibile centralismo ministeriale, ma l’autonomia scolastica non è, almeno in linea di principio, proprio la restituzione delle scuole ai cittadini, alle loro comunità, ai loro territori? Non è la dislocazione delle responsabilità di gestione del sistema educativo dallo Stato alle comunità scolastiche, mentre allo Stato restano le funzioni relative alla definizione degli obiettivi e degli standard di riferimento, alla individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, alla valutazione dei risultati del sistema? Anche il nuovo regionalismo, del resto, va in questa stessa direzione, con l’attribuzione a Regioni ed Autonomie Locali di compiti un tempo dello Stato. il modello della Gran Bretagna Si può dunque trovare una certa sintonia 23 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 dibattito sulla proposta del card. Scola il card. Scola, a fianco; Sergio Romano, sotto dubbi a destra e a sinistra ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Ma è proprio attorno a questo asse di riflessioni e di proposte che si concentra il significato autentico delle posizioni del cardinale Angelo Scola? O non si tratta invece dell’ennesima versione, intinta di liberalismo, delle vecchie contrapposizioni tra scuola statale laica e scuola privata religiosa? O addirittura di un nuovo modo, sotto la bandiera della libertà della persona, di battere cassa a favore di quelle scuole private che i robusti tagli economici del dicastero Moratti hanno messo in ginocchio? I dubbi affiorano, anche tra i commentatori di sinistra più sinceramente interessati al dibattito, quando il cardinale, interrogato in proposito, riconferma la necessità che non manchi mai nelle scuole l’insegnamento della religione cattolica. La cui presenza si spiega, notoriamente, solo in un sistema educativo fortemente orientato da uno Stato che lo garantisce: e con un atto – il Concordato – che è un vero e proprio patto tra Stato e Stato. Non solo a sinistra e nel mondo laico, del resto, serpeggia l’idea che, dietro il velo della libertà di scelta agitato dal cardinale, ci sia l’intenzione di rilanciare la battaglia per la difesa dell’istruzione confessionale. «C’è una corrente del cattolicesimo – commenta il padre redentorista Nino Fasullo – che, fin dai tempi dell’unità d’Italia, contesta lo Stato espropriatore. Una corrente che oggi 24 avverte le difficoltà del cattolicesimo ad esercitare un’egemonia sulla società e vuole porvi rimedio». La vicinanza tra Angelo Scola e il pensiero di don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, ingigantisce i sospetti, soprattutto in chi ha pregiudizi laicisti. Ma anche in un commentatore certamente non dogmatico come Sergio Romano, che dichiara di guardare con interesse al superamento dell’identificazione tra pubblico e statale e all’idea «di un sistema scolastico fatto di una pluralità di istituzioni laiche o confessionali, organizzate secondo diversi criteri pedagogici e contraddistinte da una maggiore libertà quanto ai programmi, ai contenuti, ai metodi di insegnamento», gli argomenti utilizzati dal patriarca di Venezia non sempre convincono. Sembra, in particolare, molto discutibile l’interpretazione che Scola dà dell’articolo 33 della Costituzione, dove si dice che la Repubblica istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi, mentre Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione senza oneri per lo Stato. Se questo dovesse significare – come pare di dover dedurre dalle parole di Angelo Scola – che lo Stato deve istituire e finanziare le scuole ma insieme permettere che il servizio venga gestito con grande libertà da enti ed associazioni del privato, ci si troverebbe, secondo Sergio Romano, in una situazione assolutamente paradossale e decisamente anticostituzionale. Contradditoria, inoltre, con le altre parti della Costituzione che fanno dell’istruzione un diritto di tutti, che la Repubblica deve garantire indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali, di genere, di religione e di nazionalità. che scuola vogliamo? Ma è bene che la discussione ci sia. E che attraverso le tesi e gli argomenti delle diverse parti in causa si chiarisca di che scuola e di che educazione si sta parlando. E in che direzione, e per quali obiettivi, far evolvere un sistema che è indubbiamente in crisi e che, nel suo complesso, presenta performances assai modeste. Se non altro per sgomberare il campo dalle posizioni conservative per cui, «abrogata Moratti», non ci sarebbe altro da fare. privatizzazione PAROLE CHIAVE Romolo Menighetti a privatizzazione è un orientamento di politica economica che favorisce il passaggio ai privati della proprietà delle imprese pubbliche. Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso i Paesi che in precedenza avevano acquisito al settore pubblico tutta una serie di servizi e industrie, incominciarono a ricredersi sulla bontà della proprietà di Stato. Si venne così rafforzando l’opinione che la proprietà privata e la concorrenza meglio incentivassero l’efficienza e la bontà dei servizi. Anche l’Italia ha avviato una politica di privatizzazioni, smantellando le sue «partecipazioni statali». Non avendo però affrontato adeguatamente il problema dell’abolizione, o quanto meno della limitazione, del monopolio, le politiche di privatizzazione si sono per lo più risolte in fallimenti e in svendite. In realtà, se si intende privatizzare, prima bisogna liberalizzare il mercato, pena la creazione di monopoli privati in luogo di quelli pubblici. E se questi ultimi possono in alcuni casi avere una giustificazione di tipo sociale (offrire beni e servizi a prezzi politici), i monopoli privati producono solo maggiori profitti per i detentori. L’errore delle privatizzazioni è consistito in particolare nel mantenere unite le attività, sui diversi mercati, dei grandi monopolisti, quali produzione e trasmissione, o telefonia fissa e mobile. Anzi, questi stanno rafforzando le loro posizioni di dominio perseguendo modelli multiservizio (elettricità più gas più acqua più telefonia più reti televisive più giornali più libri più illuminazione pubblica più semafori e altro). Una delle conseguenze principali della privatizzazione è l’affermarsi della convinzione che l’economia debba preoccuparsi unicamente dell’aumento dei profitti privati, senza preoccuparsi della dimensione sociale della stessa. (In virtù di tale dimensione l’economia, di concerto con la politica, dovrebbe invece farsi carico, oltre che dei profitti, anche della loro redistribuzione, onde garantire un minimo di benessere per tutti, mantenere un buon livello nei consumi, salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini). In sostanza, la privatizzazione, anche grazie L al diffondersi della piccola proprietà azionaria tra la «gente» (il cittadino-azionista) vorrebbe allargare la base del consenso al liberismo economico, inculcando la convinzione che ciascuno deve, in prima persona, determinare e forgiare il proprio presente e futuro economico, finanziario e previdenziale, senza la necessità della rete protettiva del welfare. (Salvo poi a scoprire che per mancanza di controlli e per complicità a livello politicoaffaristico, il reddito da lavoro diventa sempre più precario, il risparmio è ingoiato dalle altrui speculazioni, e le pensioni si sfarinano nelle nebbie di un incerto futuro). Attualmente in Italia, più o meno realizzate, risultano le privatizzazioni nei settori dell’energia, dei trasporti e della telefonia. Si parla anche, tra l’altro, di privatizzazione della Rai, dell’Anas, e delle strutture pubbliche che si occupano di ambiente. Particolarmente inquietanti appaiono i tentativi di privatizzazione entro i settori della sanità e della previdenza, in quanto pongono sotto il segno dell’aleatorietà del mercato il soddisfacimento di esigenze fondamentali delle persone. A livello globale poi, è già in atto la privatizzazione delle sementi agricole, che assoggetta al passaggio attraverso le mani di pochi, gran parte della produzione agricola mondiale. Sempre allo stesso livello, inoltre, da tempo si parla di privatizzazione dell’acqua, un bene che, soddisfacendo un bisogno primario, dovrebbe invece essere di tutti, e gestito da autorità pubbliche. Sostiene tale tesi, riguardo al Terzo Mondo, la Banca Mondiale, in vista dello scarseggiare dell’ «oro blu». Vi è anche chi parla di privatizzare le carceri, progetto, tra l’altro, già in atto negli Usa. Infine anche la guerra è da tempo entrata nell’orbita delle privatizzazioni. Le Società Private Militari (Private Military, Pmc) sono organizzazioni internazionali che forniscono alcuni servizi di sicurezza e militari, fino all’intervento diretto, attraverso veri e propri battaglioni d’assalto. Già prima dell’invasione dell’Iraq il fatturato mondiale complessivo delle Pmc si stimava intorno ai 100 miliardi di euro. Le privatizzazioni, dunque, possono portare lontano, molto lontano dalla tutela e dalla difesa dei fondamentali diritti dell’uomo. Fiorella Farinelli 25 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 SCUOLA tra quello che dice il cardinale e le posizioni di una parte del paese, anche di sinistra e laica. Il modello cui si guarda è quello della Gran Bretagna, dove il sistema educativo è misto, fatto di scuole statali, ma anche private o gestite dalle comunità locali, che hanno piena libertà pedagogica e metodologica e che sono responsabili del proprio funzionamento, e tuttavia tutte obbligate a rispettare un curriculum nazionale, e tutte sottoposte a una valutazione nazionale dei risultati. Lo Stato, dunque, non gestisce il sistema se non in parte, ma assicura il diritto di tutti all’istruzione, definisce contenuti ed obiettivi validi per ogni scuola e condizione della validità dei titoli di studio, controlla e verifica l’andamento e gli esiti del sistema e delle singole istituzioni scolastiche. E la Gran Bretagna, si sa, è un paese né cattolico né clericale, geloso delle libertà individuali, di antichissima democrazia. chi ci crede più? ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Pietro Greco l tema lo ha riproposto anche il G8 tenuto a San Pietroburgo a metà giugno: non è possibile raggiungere né la sicurezza energetica, né gli obiettivi di sviluppo posti dalle Nazioni Unite per l’inizio del nuovo millennio (Millennium Development Goals) senza assicurare un accesso sostenibile ai carburanti ai 2,4 miliardi di persone cui a tutt’oggi è negato e senza assicurare un accesso sostenibile all’elettricità agli 1,6 miliardi di persone che ne sono prive. Il tema è quello dello sviluppo sostenibile. E il modo, piuttosto stanco, di rievocarlo da parte degli otto grandi riuniti a San Pietroburgo sembra indicare che il concetto è ormai logoro. Benché abbia solo venti anni, sia stato e sia tutt’ora protagonista di grandi assise planetarie (delle più grandi riunioni nella storia della diplomazia mondiale), continui a riempire intere biblioteche di nuovi libri e riviste e, soprattutto, ambisca a modificare il modo di produrre la ricchezza delle nazioni, è da molti considerato superato, privo di significato. Morto. Per uso e, soprattutto, per abuso, eccessivo. Tutti lo invocano, nessuno lo pratica. Meglio, dunque, abbandonarlo a se stesso? Meglio opporre ai grandi del G8, agli economisti di tutto il pianeta e persino agli «sviluppisti» che si annidano nelle fila di qualche movimento ambientalista concetti più chiari e draconiani, come quello – secco – di decrescita: per salvare l’ambiente non c’è altra strada che produrre di meno. Punto. I l’impatto umano Prima di rispondere alla domanda – e abbandonare il concetto di sviluppo sosteni26 bile al suo destino – vediamo quali sono i fattori da prendere in esame quando vogliamo indagare sul futuro del pianeta. Per fortuna questi fattori ce li hanno indicati, ormai trenta e più anni fa, l’entomologo Paul R. Ehrlich e lo studioso di problemi energetici John Holdren: l’impatto umano sull’ambiente è il prodotto di soli tre fattori: la popolazione, l’affluenza (in soldoni, i consumi pro capite) e la tecnologia (ovvero, l’impatto ambientale per unità di consumo). È davvero possibile ricondurre – con qualche rischio accettabile di riduzionismo – la complessità dell’impatto umano sull’ambiente a questi tre fattori: al numero di esseri umani che nell’ambiente vivono, alla quantità dei loro consumi e anche alla qualità dei loro consumi. Tuttavia non tutti questi tre fattori giocano allo stesso modo. Non c’è dubbio – per esempio – che il numero di esseri umani sulla Terra sia un fattore ecologico importante. Gaia – il nostro pianeta – non può sostenere, fisicamente, un numero infinito di esseri umani. Tuttavia, in questa fase storica, il fattore popolazione tende a essere sovrastimato (anche dallo stesso Paul R. Ehrlich, che parlò addirittura di «population bomb», di bomba demografica). La popolazione umana è in crescita e quindi contribuirà a far aumentare l’impatto sull’ambiente. Ma entro il prossimo secolo la popolazione umana tenderà a stabilizzarsi. E, soprattutto, già oggi non è il fattore più dinamico nell’equazione di Ehrlich e Holdren. L’impatto umano sull’ambiente (contributo ai cambiamenti climatici, erosione della biodiversità) cresce a una velocità superiore alla crescita della popolazione umana. il fattore tecnologico Anche l’altro fattore, quello tecnologico, è importante. E gioca davvero un ruolo positivo. Basta a dimostrarlo il fatto che nell’economia dell’uomo sia l’intensità di materia (ovvero la quantità di risorse materiali usate per produrre un’unità di ricchezza), sia l’intensità di energia (l’energia usata per produrre un’unità di ricchezza) stanno diminuendo. E ciò si verifica sia nelle economie mature, che hanno una spiccata cultura dell’efficienza, sia nelle economie emergenti, tutte proiettate verso lo sviluppo. È davvero importante questa ricerca di tecnologie innovative e di produzioni di beni sempre più immateriali, perché senza queste tecnologie sarà impossibile giungere a uno sviluppo sostenibile sul pianeta (e anche alla società della decrescita, evocata da molti pensatori radicali). la crescita dei consumi pro capite Tuttavia allo stato il problema è che, malgrado il rallentamento della crescita demografica e malgrado l’accelerazione dell’innovazione tecnica, l’impatto umano sull’ambiente è in crescita rapida. Un solo esempio: dal 1990 a oggi le emissioni antropiche di gas serra sono aumentate del 30%, malgrado 2,4 miliardi di persone non abbiano accesso ai carburanti e 1,6 miliardi non abbiano accesso all’energia elettrica. E malgrado, anche, la Convenzione sui cambiamenti climatici firmata nel 1992 a Rio de Janeiro richiedesse una sostanziale stabilizzazione prima di operare un radicale abbattimento. Perché? Il motivo è molto semplice. Perché tra i tre fattori dell’equazione di Ehrlich e Holdren il più dinamico è quello in genere più trascurato nei dibattiti pubblici: l’affluenza. La crescita dei consumi (materiali ed energetici) pro capite. Questa crescita è molto rapida e ha facilmente ragione sia della tendenziale stabilizzazione della popolazione (che comunque entro la fine del secolo sarà del 50% superiore a quella odierna), sia della pur impetuosa innovazione tecnologica. E l’affluenza cresce sia perché noi, popolazioni dei paesi ricchi, consumiamo sempre di più (incuranti, peraltro, delle disuguaglianze senza precedenti tra ricchi e poveri), sia perché si sta affermando nei paesi emergenti (soprattutto in Cina, ma anche in India e in tutta l’Asia orientale) una classe, che conta ormai centinaia di milioni di individui, che tendono ad avere il nostro medesimo e insostenibile stile di vita. il concetto di sviluppo sostenibile Ecco dunque, dove e come intervenire: dobbiamo rallentare e, addirittura invertire, la dinamica del fattore A (affluenza)? Dobbiamo consumare meno beni materiali e meno energia. Può aiutarci a raggiungere questo obiettivo il concetto di sviluppo sostenibile o è troppo logoro per essere utile? Non è meglio parlare più chiaramente di decrescita dell’economia umana? Il concetto di sviluppo sostenibile ha una storia culturale robusta, che affonda le sue radici nel pensiero dei primi scienziati (da Clausius ad Arrenhius) che si accorsero, già nell’Ottocento, che l’economia umana, in via di veloce industrializzazione, stava assumendo una dimensione paragonabile a quella della natura. Che con questa nuova forma di produzione, Homo sapiens si avviava a diventare un attore ecologico globale. E che la novità è tale da caratterizzare la nostra epoca e da giustificare il termine, Antropocene, con cui l’ha efficacemente ribattezzata il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen. Su questa intuizione è nato il progetto politico dello sviluppo sostenibile, lanciato dalla Commissione Brundtland negli anni ’80 dello scorso secolo e ufficialmente sancito dalla Conferenza della Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo (Unced) di Rio de Janeiro nel 1992. L’idea di fondo è che l’umanità deve rendere il suo sviluppo economico, appunto, sostenibile, sia in termini ecologici (limitare la crescita, bloccare e infine diminuire l’uso non rinnovabile di materia e di energia) sia in termini sociali, 27 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 SVILUPPO SOSTENIBILE SVILUPPO SOSTENIBILE perché la disuguaglianza sociale non solo è ingiusta in sé, ma è anche uno dei fattori che contribuiscono a rendere più pesante l’impronta umana sull’ambiente. Contro questo concetto di sostenibilità, da Rio in poi, sono scesi in campo, con diverse tattiche e diverse strategie, almeno tre potenti partiti avversari. Quello degli scettici, i quali sostengono che l’intuizione sul ruolo ecologico globale che avrebbe assunto l’uomo è, par l’appunto, un’intuizione. E che non ci sono prove scientifiche sufficienti né per trasformare l’intuizione in una proposizione verificata, né tanto meno, per supportare una politica attiva di sviluppo sostenibile. È facile dimostrare che, al contrario, in questi ultimi lustri le prove scientifiche non solo sono aumentate, portate in maniera indipendente da ricercatori delle più diverse discipline, ma la cultura scientifica intorno al concetto di sostenibilità ha dato luogo alla nascita di una scienza, la Sustainability Science, che non si oppone alla scienza consolidata, ma ne è una componente evolutiva. Insomma, è nelle università e nei centri di ricerca di tutto il mondo che vengono realizzate idee, indagini e teorie che corroborano i presupposti scientifici dello sviluppo sostenibile. Sono, dunque, le persone preoccupate e non gli scettici a fondare le loro convinzioni su solida scienza. Tuttavia contro lo sviluppo sostenibile è sceso in campo anche un secondo partito, più pragmatico e pericoloso. Il partito di coloro che dichiarano di perseguirlo – pensate a George W. Bush – e, in realtà, si muovono in direzione opposta. È questo trasformismo che ha logorato il concetto – in maniera estremamente pericolosa. l’economia della decrescita ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Ed è questo trasformismo che ha favorito l’emergere di un terzo partito: il partito di coloro che propongono di abbandonare al suo destino il sostantivo e l’aggettivo, per proporre nuovi termini – decrescita – e una nuova radicalità. Se vogliamo salvare l’ambiente in cui l’uomo vive – sostiene per esempio il sociologo francese Serge Latouche – dobbiamo costruire una società in cui semplicemente diminuisce la produzione. Perché l’impronta umana sull’ambiente ha già raggiunto la soglia limite e non può continuare ad aumentare. Inutile dire che questo partito ha i suoi aderenti soprattutto dentro il movimento ecologista. Il percorso che indicano è giusto. Occorre costruire una nuova econo28 mia e un nuovo modo di produrre che non siano fondati sul consumo di beni materiali e di energia non rinnovabile. Non c’è alternativa. Abbandoniamo le chimere neoliberiste. Abbandoniamo il mito (e il ritmo) dell’affluenza. Governiamo questo processo, prima che sia la penuria di risorse – di capitali della natura – a imporlo. Tutto giusto. A patto però – come sostiene Gianfranco Bologna, docente presso l’università di Camerino, direttore generale della Fondazione Aurelio Peccei e direttore scientifico del Wwf Italia, in un suo recente libro (Manuale della sostenibilità, Edizioni Ambiente, pagg. 332) – di chiarire che la decrescita non significa affatto diminuzione di benessere. Sia perché si può e si deve costruire una nuova economia fondata sulla conoscenza in cui vengono scambiati con poca energia (speriamo rinnovabile) non beni materiali – al netto di quelli necessari a una vita dignitosa – ma beni immateriali. Sia perché si può e si deve costruire un’economia più equa. Non è più sostenibile – appunto – un mondo che produce ricchezza come mai nella sua storia e, nel medesimo tempo, produce disuguaglianza come mai nella storia. Sia, infine, perché si può costruire un’economia in cui il benessere è un benessere collettivo diffuso, e non un benessere individuale fondato sul consumo di beni materiali. BOLIVIA meno beni ma più benessere L’economia della decrescita non è un’economia dove – semplicemente (si fa per dire) – si produce meno. È un’economia dove si producono meno beni materiali ma si produce più benessere immateriale. Se non diciamo questo, la diminuzione dei consumi, il governo del fattore affluenza e la proposta dell’economia della decrescita assumono i caratteri di un progetto velleitario. Persino masochistico. Sbagliato nei contenuti e assolutamente incapace di raccogliere il consenso necessario per imporsi. Ma un’economia della decrescita che presuppone l’aumento del benessere diffuso delle persone, anche attraverso la tutela dell’ambiente, non è altro che l’idea fondante dello sviluppo sostenibile. E allora – se la sostanza della proposta non cambia – perché abbandonare un termine entrato nell’immaginario dell’umanità, per un termine che può risultare ambiguo? Pietro Greco una terra tra utopia e comunione testo di Maurizio Salvi fotografie di Martina Salvi BOLIVIA ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 S anta Cruz de la Sierra. La terra di Evo Morales, il leader aymara diventato quest’anno presidente della repubblica contro l’ostinazione delle multinazionali del gas e del petrolio, è una realtà che riserva mille sorprese. Una di queste è qui nel sudest, nel dipartimento di Santa Cruz, dove vivono i cosidetti Cambas, meticci che controllano le leve economiche ed industriali del paese. Una Bolivia che raramente emerge dai notiziari radio-televisivi o sulla stampa, e che, se lo ha fatto, è stato appunto per la determinazione di una importante parte della popolazione locale a non accompagnare i progetti radicali di Morales, rischiando anche di fomentare una scissione. E nella consultazione popolare del 2 luglio scorso Santa Cruz è stato uno dei quattro dipartimenti – insieme a Beni, Tarija e Pando – a dire sì ad una sorta di ‘devolution’ che avrebbe permesso alle regioni più ricche di amministrare autonomamente gran parte delle proprie risorse (inutile rammentare che gas e petrolio sono proprio all’interno di questi dipartimenti). Ha prevalso il no, grazie anche alla forza del dipartimento di La Paz, ma è certo che il campanello d’allarme è stato chiaro ed evidente per i progetti di governo dell’ex leader dei cocaleros (coltivatori di coca) boliviano. Insomma è qui che si trova, sostanzialmente ancora nascosta, una delle mille sorprese che è in grado di riservare la Bolivia al mondo esterno: si tratta della Chiquitania e delle sue Missioni (o Riduzioni) Gesuitiche. In sé, l’intervento religioso dei Gesuiti e i loro ambiziosi programmi di evangelizzazione sono cosa ben nota. In America latina si trattò soprattutto della cosiddetta Conca del Rio de la Plata (Paraguay, Brasile e Argentina), con sviluppi successivi in Bolivia (Chiquitos appunto, e Moxos), Ecuador e Perù (Maynas e Macas), mentre altri missionari della Compagnia si dirigevano altrove nel mondo (Filippine, Cina, Giappone e Canadà). Tutto questo fenomeno che ha segnato il 16°, 17° e 18° secolo, oggi è conosciuto meglio con il nome, classico ma un po’ triste, di Rovine Gesuitiche, e su questo tema i tour operator di tutto il mondo propongono visite a quello che resta degli edifici religiosi di un tempo. Si tratta di esperienze significative, che richiedono però cultura storica e forte capacità di suggestione. missioni realtà vive Ma qualcosa di diverso esiste. Nella selva 30 31 BOLIVIA boliviana del sud-est, nel regno delle orchidee e della fauna multiforme, dove le strade di terra rossa tagliano la vegetazione, e dove i villaggi mostrano ancora quanto sia vivace e solida la struttura etnica indigena dei Chiquitanos, le Missioni – ed in questo caso le chiese che ne costituivano il perno – sono realtà vive e funzionanti. Non siamo di fronte a rovine romantiche, ma a edifici barocchi meticci, diversi fra loro, ma di impressionante bellezza, aperti al culto ed attrezzati con gli elementi che le componevano in origine e che erano ritenuti strumenti efficaci di trasmissione della fede: un coro giovanile, una orchestra di strumenti a corda e botteghe artigianali per la fabbricazione di violini e viole, secondo i canoni settecenteschi) e la conservazione delle immagini sacre. Restaurate negli anni ’70 dall’architetto svizzero Hans Roth che dedicò a questa impresa ogni sua risorsa per 27 anni, fino alla morte, queste chiese si offrono oggi ai visitatori stanchi degli itinerari scontati a cinque stelle e ansiosi di esperienze ancora non contaminate. La dedizione di Roth ha ricevuto fra l’altro un plauso internazionale, perché nel 1990 l’Unesco ha incluso sei delle Missioni di Chiquitos nel Patrimonio culturale mondiale. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 «La zona dove nacquero – spiega lo storico Ricardo Ortiz – è stata chiamata Chiquitos dal nome del gruppo indigeno prevalente quando nel 1691 padre José Arce fondò la prima denominata San Francisco Javier». In meno di 80 anni (fra il 1691 ed il 1760), fino a quando cioè Carlo III non decise l’espulsione dei gesuiti, sorsero una decina di villaggi comunitari (fra cui i sei ora Patrimonio dell’Unesco: San Javier, San Rafael, Concepcion, Santa Ana, San Miguel e San José con il suo altare elegante a tre piani), sviluppati attorno ad una chiesa dalle dimensioni sempre imponenti e dipinta con motivi floreali e animali, con il preciso obiettivo di utilizzare la musica e l’arte come mezzo di diffusione della fede, per rendere possibile l’utopia principale della Compagnia di Gesù: la riproduzione del Regno di Dio in Terra. Fu padre Martin Schmid, svizzero come Hans Roth, l’esecutore di questo ambizioso progetto per avvicinare gli indigeni Chiquitos alla Verità del Vangelo. I missionari sceglievano in genere una zona fertile, con acqua abbondante e clima propizio, su cui edificavano la zona urbanizzata, partendo da una piazza centrale che aveva una cro32 33 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 barocco spumeggiante BOLIVIA ce nel mezzo. Ad un lato della piazza si erigevano la chiesa, il collegio e le botteghe degli artigiani. Nei tre lati restanti si costruivano le abitazioni per le famiglie, i cui membri seguivano i corsi di dottrina, andavano a scuola, apprendevano arti e mestieri, sotto l’occhio vigile dei missionari. L’evoluzione del modello funzionò perché i gesuiti riuscirono ad imporre la lingua dei Chiquitos a tutti gli altri gruppi indigeni. Ciò portò ben presto a prefigurare l’autonomia di ciascun villaggio missionario che viveva secondo regole comunitarie e di utopia, diciamo così, socialista, con rigorosa ripartizione di responsabilità ed oneri all’interno della comunità. E, elemento veramente rivoluzionario, senza la presenza degli spagnoli. Schmid nacque nel 1694 a Baar, nel cantone di Lucerna (dove si spense nel 1772), città nel cui collegio della Compagnia fu accolto per compiere un ciclo di studi che dalla teologia si estendevano a musica, architettura e ad altre scienze di un mondo enciclopedico che si stava aprendo all’Illuminismo. Lasciata la Svizzera, il religioso giunse a Cordoba (nel nord dell’Argentina) in una Missione che poteva vantare molti gesuiti dalla buona cultura musicale – alcuni sapevano addirittura costruire ottimi strumenti – quando non si trattava di noti compositori di fama europea; è il caso del pratese Domenico Zipoli (16881726). Non avrebbe mai immaginato, padre Schmid, che tutto questo bagaglio acquisito gli sarebbe tornato utile per vincere la sfida dell’evangelizzazione da cui erano usciti sconfitti spesso altri religiosi Gesuiti, Francescani e Cappuccini. Da Santa Cruz, punto di transito obbligato per la presenza di un aeroporto internazionale, avanzando per 200 chilometri verso ovest, cioè avvicinandosi al confine con il Brasile dove si trova il delicato ecosistema acquifero del Pantanal, lo scenario si fa via via primitivo. Spariscono i cartelli pubblicitari ed i segni più deteriori della ‘civiltà’ e torna a prevalere la natura in tutta la sua ricchezza. La porta della Chiquitania è San Javier, sia perché è la prima chiesa costruita dai missionari, sia perché è quella meglio collegata con la capitale del dipartimento. È qui che nel rito solenne domenicale, si percepisce immediatamente la straordinarietà del luogo: in uno scenario marcato dai motivi barocchi bagnati d’oro dell’imponente altar maggiore e fra le navate sostenute da 34 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ricchezza primitiva 35 BOLIVIA SBARRE E DINTORNI il mio primo carcere A Vincenzo Andraous 14 anni non si pensa al carcere, ti ci trovi «dentro» improvvisamente e ne sei respirato e concluso. Sì, ti ci trovi dentro ed è davvero troppo tardi. L’età più bella improvvisamente devastata nell’incontro affascinante e frontale con il mito della trasgressione, l’incoscienza dell’azione, della sfida. Io me lo ricordo bene, ero impegnatissimo a fare vedere alle Autorià di essere un duro, e quando mi stavano portando nel «mio» primo carcere dei minorenni ho pensato: «ecco sto per iniziare finalmente». L’impatto iniziale con il carcere è stato violento, ma la mia vita era altrettanto violenta, quindi tutto in linea con ciò che immaginavo e che incoscientemente «desideravo» trovare ad attendermi. È tutto accaduto in una vita precedente? No, è stato ieri. Quando vago con la mente tra questi fotogrammi impolverati e ingialliti dal tempo, rivedo la mia immagine scomposta e inquieta, mentre i pensieri mi cadono addosso e raccoglierne i cocci è un’ardua impresa. Gli anni sono trascorsi, uno dopo l’altro, passo dopo passo, uno scarpone chiodato dopo l’altro, fino a giungere a «quell’urlo» che ha squarciato la notte. Qull’urlo che ho tenuto compresso in me, sorvegliato a vista dalla mia incredulità, contenuto nei miei tormenti, divenuto un dono prezioso da custodire. Svegliarmi nel buio, nel mezzo di una tempesta silenziosa, e due occhi bellissimi scrutarmi, scuotermi. Due occhi lucidi e profondi come l’anima che traspare al di là della coscienza, della ragione che indaga e accusa. Con le mani fredde ed il cuore in gola, il respiro che non esce, il dolore nei polmoni salire alla gola e fare fatica a respirare. Affannosa ricerca di boccate d’aria mute, imprigionate, incatenate in attimi intensi di vuoto e di pieno, di vita sospesa. Due occhi come lune inchiodate, un volto che non conosco, ma che sento tutt’intorno. Due occhi che piangono, rimangono aperti e si distendono verso di me. Nel silenzio di pietra della cella, l’urlo fuoriesce e taglia di netto il sentiero praticato a occhi bendati, sgretola le abitudini consolidate, i sussurri che impongono i piedistalli e le parole a paravento che non stanno scritte da nessuna parte. L’urlo esce, assorda, mi discosta e cancella la mia cella, le altre celle, i muri e gli steccati. L’urlo si espande, rimbalza, si piega, prosegue e non smette la sua corsa, neppure quando sono caduto in ginocchio, spossato, svuotato di me stesso. Quegli occhi sono sempre lì, velati di pianto, addolciti da un sorriso leggero, come a voler ridurre la distanza siderale che mi separa da questo reale intorno. Occhi grandi, lucenti, lacrime che parlano di una tristezza felice, di una gioia che non conosco e invece vorrei avvicinare, occhi che rimangono a osservare la mia sorpresa, la mia fragilità. Occhi bellissimi vestiti di speranza, sguardi che consentono di ricostruire e ritrovare l’uomo, sebbene nella fallibilità umana. L’urlo è una eco lontana che mi trascina via, liberando quello spirito maledetto che mi portavo dentro e che tutt’ora sento in me, ma che finalmente riesco a tenere ventre a terra. L’incontro con quegli occhi ha significato l’espansione di una riconciliazione che passa attraverso il riconoscimento di se stessi e degli altri. Questo stesso universo di carne e sangue in costante evoluzione, questa balena mitica che tutto inghiotte, questa società a cui vorrei chiedere perdono. Sì, mi sento parte di questa società ritrovata. Non ho nulla da chiedere sarebbe troppo facile, guardo ad essa con umiltà e cerco di ritornare a farne parte con i gesti ed i comportamenti di questo mio quotidiano, attraverso la mia capacità per ciò che riesco a dare di positivo, continuando a imparare. Quella notte sono rimasto in ginocchio tanto tempo, in una sorta di terra di nessuno, sbattendo il viso contro una specie di cortina fatta di barriere materiali e psicologiche, costretto fors’anche dalla mia ostinazione a vivere del mio, in una tragedia che non ha fine, con un passato che assomiglia ad una sera senza luce dove non si può leggere, solo ricordare. L’urlo ora s’è disperso, quegli occhi tanto amati sono svaniti. I giorni, e gli anni si inseguono testardi, mi adagio sul futuro che per me è già oggi, in un presente contenuto nel passato, poiché ogni volta che si progetta qualcosa si modifica e si rilegge il proprio passato con occhi e sguardi nuovi. Maurizio Salvi 36 37 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 colonne di legno, presenti i Cabildos (i capi della collettività indigena) nei loro abiti tradizionali, un coro ed un’orchestra integrati da giovani locali interpreta solitamente musica sacra. Al momento del nostro passaggio, in occasione del Lancio Mondiale del destino turistico ‘Missioni boliviane di Chiquitos’, il programma (l’opera ‘Vigilia della Festa del Santo Patrono San Francisco Xavier’) è stato realizzato nella piazza antistante, alla presenza praticamente di tutta la popolazione del villaggio che preparava da mesi con entusiasmo l’appuntamento con la stampa internazionale. A San Rafael e a Santa Ana, altri prodotti del genio di padre Schmid, i lavori di restauro di Roth per riportare le chiese al loro antico splendore fecero emergere una quantità incredibile (8.000 pagine) di spartiti con composizioni inedite di rilievo di musicisti europei ma anche indigeni. Un ritrovamento che acquistò ulteriore importanza perché portò alla luce opere sconosciute, tra esse alcune di Zipoli. L’insieme di questo materiale, che è ancora oggi oggetto di studio ed utilizzato per la realizzazione di Cd di alto livello, è custodito nell’Archivio Misional di Concepciòn. E se anche nelle altre Missioni, come abbiamo visto, non mancano orchestre e cori che si esibiscono con regolarità, è Concepciòn la capitale, e la sua chiesa è una sorta di La Scala che in occasione di festività o di cicli di rappresentazioni – nella scorsa primavera si è svolto il sesto «Festival internazionale di Musica Rinascimentale e Barocca Americana» – ospita concerti, opere, musica tipica, cori in idioma locale. Le orchestre sono tante e il repertorio è vasto: dalla «Misa de San Javier» alla «Visperas» de la Fiesta del Santo Patrono, per non citare il gioiello «Opera de San Ignacio de Loyola» (una delle sole tre opere del Barroco Misional Americano) conservata dagli indigeni di San Rafael e Santa Ana e recentemente rappresentata in prima assoluta. E a riprova della compenetrazione della tradizione indigena con il cattolicesimo, ogni Missione ha il suo gruppo di ballo (Yarituses, Sarao Paicas e Abuelos), i suoi ritmi strumentali indigeni (Tamboritas) ed i cori in Besiro (lingua originaria della regione) che si mescolano costantemente con le celebrazioni eucaristiche componendo una esperienza che non ha molti eguali al mondo. ESITI DEL MODERNO 38 uando mia madre comperava un vestito era una festa. Per lei ed intorno a lei. Irradiava felicità, come una bambina al primo gelato di stagione. Altri tempi. Altro mondo. Ma di certo, già adulta, io l’ho vista felice, come doveva esserlo stata da piccola. Per poco. Per un nonnulla: un vestito, neppure di pregio. Il fatto è che quel vestito era frutto di sacrifici. Il suo, che aveva saputo aspettare e risparmiare. Di mio padre che l’aveva aiutata a concretizzare il piccolo sogno. Il mio, che qualche pensiero lo sacrificavo alla causa della famiglia. L’unica cosa che potevo fare. Da ognuno secondo le proprie possibilità. Il vestito così, diveniva patrimonio comune, non solo economico. Per anni avrebbe accompagnato Prime Comunioni e Matrimoni. Per anni sarebbe stato l’oggetto di lusso delle grandi occasioni. Sempre quello, sempre uguale, mai scontato però, perché mia madre ci metteva del suo, un talento particolare, per rinnovarlo. Semplicemente stirandolo o guardandolo appeso. Gli occhi possono più del tempo. Se amano, danno sempre nuova luce alle cose. Di quel vestito certo i sociologi e gli economisti potevano dire tutto. Perfino gli antropologi. Consumo povero da situazione post-bellica. Sogno condizionato di una famiglia povera. L’inganno del nascente consumismo, da paese in fuga verso il progresso. Di certo però non dicevano della felicità di mia madre, della nostra felicità. Del comune sentire che avrebbe fatto di un vestito un nuovo protagonista della vita quotidiana. Perché i consumi, se così li vogliamo chiamare, avevano allora due funzioni. Da una parte si consumava per vivere, dall’altra per sognare. Anzi i due aspetti erano felicemente legati. Perché la pasta semplice apriva l’immaginazione ai tortellini e i pantaloni corti ad un bel completo blu. Che poi la politica sapesse tutto ciò e vi innestasse sopra sogni consolatori da destra o denunce tese da sinistra, tutto ciò poco importava. vestito della Festa Quel vestito, evidentemente un po’ qualunquista, continuava a dominare le domeniche e qualche volta persino il sabato. Dalla parrucchiera o dalla amica del cuore talora bisognava pure indossarlo. Che il popolo sapesse che la povertà non l’avrebbe avuta vinta per sempre! Fu così, credo, a voler celiare, che cominciai a maturare idee come dire da conservatore di sinistra. Una sorta di ossimoro, apparentemente. Un manifesto per il futuro Partito Democratico, a pensarci bene. Ma questa è un’altra storia. In ogni caso i consumi di cinquanta o giù di lì anni fa si muovevano tra bisogno e sogno e quindi venivano a letto con noi e con noi si svegliavano. Totalizzanti, forse, come direbbe uno studioso, ma di certo almeno apparentemente ancora nostri, di tutta una comunità, grande o piccola che fosse. Il vestito diveniva, prima e dopo l’acquisto, una sorta di morbido feticcio di gruppo, persino quando suscitasse critica, invidia o rabbia appena fuori dal nostro confine. Ora non sembra più così. I vestiti sono divenuti ad esempio merce più accessibile per tutti. Un nuovo capo acquistato viene vissuto quasi con indifferenza dalla famiglia, o dal piccolo o grande mondo circostante, né colei o colui che lo compera riversa su di esso in qualche modo un vissuto. Non c’è attesa, non c’è intorno allo stesso un aurea quasi sognata, come c’era per mia madre. C’è invece un quasi inverecondo desiderio di possederlo. Perché il desiderio, sempre alla base del nostro vivere, non ha più filtro. Non recede nel ripostiglio dei sogni, per ripresentarsi sotto mentite spoglie. Non si stempera nell’accettazione dei limiti del quotidiano, spesso duri. Il desiderio ai nostri giorni diviene subito voglia di possesso. Il cosiddetto consumo nasce così quasi da una spinta feroce e insopprimibile ad arraffare ciò che la pubblicità, diretta o subliminale che sia, ci propone. E il risultato è appunto la solitudine. Di colui che acquista, mai felice né prima né dopo, sempre com’è chiuso nella tenaglia del continuo desiderio irrisolto. Ma anche di coloro che con l’eventuale acquirente condividono la vita perché spesso gli stessi o non si accorgono neppure del nuovo arrivo, o lo valutano con indifferenza. Esattamente il contrario della nostra famiglia di mezzo secolo fa. consumatore solitario Il consumatore, come ora viene chiamato, è dunque solo. Un solitario arraffatore di cose, animato solo dal valore surrettiziamente inventato dal produttore. Milioni di consumatori solitari si aggi- rano così per strade e negozi alla ricerca di qualcosa che non riuscendo a condividere profondamente con nessuno, mai riuscirà a gratificarli. Economia dell’infelicità. Per questo ora si parla tanto di consumatori, perché gli acquirenti sono divenuti un’astrazione. Una categoria socio-politica tra le altre. Di sogni, angosce, desiderio di riscatto, racchiusi dietro i consumi non se ne parla più. Anzi non esistono. Consumare è entrare solamente nel grande libro del calcolo costi-benefici. E neppure le sane iniziative come quella del commercio equo e solidale ci aiutano più di tanto. Difatti chi ha fatto acquisti almeno una volta sotto quel segno sa bene come la soddisfazione conseguente è tutta di stampo cosiddetto politico. Ci si sente parte di un piccolo movimento alternativo e moralmente migliore, ma mai veramente felici proprio per le cose comperate. La verità è che l’incanto del vestito di mia madre è proprio finito, che la contentezza dei miei genitori, con lei indosso quel vestito e mio padre orgoglioso al fianco, quella contentezza sconfinante con la felicità, è definitivamente tramontata. Siamo infelici e scontenti in questa epoca che è andata perfino oltre Marx, perché è vero che l’uomo moderno è completamente alienato, ma lo sono paradossalmente in qualche modo anche le merci che sono divenute estranee a noi e a se stesse. Cose indifferenziate per acquirenti indifferenti. Che poi li chiamino consumi o consumatori è un refuso semantico. Uno dei tanti dei nostri giorni. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Claudio Cagnazzo da sognatori a consumatori Q Claudio Cagnazzo 39 IO E GLI ALTRI migliori e più felici funzionalità del gioco Si è parlato molto, e si parla ancora, dell’utilità del gioco nell’età infantile. A cosa serve dedicare ore ed ore, senza stancarsi, 40 Manuel Tejera de Meer a giochi movimentati e ripetitivi? Si è sempre detto che il gioco infantile sia l’espressione spontanea dell’energia che ogni individuo ha e che, partendo dalle motivazioni del divertimento, questa energia si sviluppi verso l’espressione adulta del lavoro. È come se il lavoro sostituisse il gioco, come se il gioco dovesse essere superato dall’impegno professionale. Secondo, però, un gruppo di studiosi dello sviluppo con i quali concordo, seguendo la mia esperienza e le mie riflessioni, il gioco costituirebbe sempre un impulso spontaneo in tutti i periodi dello sviluppo e della vita. Non si desidera giocare soltanto quando si è piccoli. Il gioco, come impulso spontaneo, si presenterebbe a tutte le età. Se, ad un certo punto della vita, si prospetta il divieto di giocare, è come se si creasse «un intoppo» – così lo chiamo io – che la società presenta e che obbliga tutti ad adeguarsi alle norme stabilite, tante volte implicite o sottilmente proclamate. La finalità originaria dell’energia è il gioco; ed il fatto di sostituirlo o di sublimarlo con la professione adulta non è altro, a nostro avviso, che una «distorsione» dell’indirizzo originario dell’energia. Per interessi concreti della società in cui viviamo, per l’obbligata accettazione di certe norme sociali tradizionali, siamo stati indirizzati fin da piccoli a distinguere il piacere dal dovere. In realtà lo sviluppo sano sarebbe sicuramente facilitato se quello che chiamiamo «dovere» fosse vissuto come piacere. In questo senso, quando un individuo continua a giocare nell’adempimento del proprio dovere, quando affronta quest’ultimo con un adattamento ilare, aggiungendo alla professionalità una nota di umorismo, la vita stessa, in tutte le sue manifestazioni, diventa più soddisfacente. A prescindere da certi lavori» come gli sport professionali che sono per se stessi fonte di piacere e di gratificazione. Vorrei, però, soffermarmi sulla dimensione sociale del gioco. Ovviamente mi riferisco ai giochi collettivi o di coppia. Non a quei giochi solitari che potrebbero degenerare in comportamenti quasi autistici ed antisociali. La tendenza socializzante del gioco infantile viene facilmente dimostrata, se si considera la facilità di comunicazione di bambini che non si conoscono, in quelle occasioni in cui esista un gioco collettivo, sia che vengano invitati a partecipare o che si aggiungano spontaneamente al gioco. Un giocattolo universale com’è la palla crea più contatti e relazioni di un qualsiasi di- scorsetto educativo. Unisce di più il gioco di squadra piuttosto che gli inviti, da parte di genitori ed educatori, a fare amicizia ed a socializzare. Nella prospettiva di considerare il gioco come condizione essenziale del genere umano ed elemento fondamentale di socializzazione, ricordiamo quello che qualcuno ha detto: «I bambini non giocano perché sono piccoli, ma sono piccoli per poter giocare». Altrimenti, se fossero adulti – diciamo noi - non potrebbero, purtroppo, giocare più. Quando si diventa adulti è vietato giocare. Così, almeno, sembra che sia la norma che la società impone. Meno male che molti adulti riescono a prolungare il gioco, non con la continuità del bambino, ma negli intervalli di evasione che una vita impegnata presenta e vivendo, purtroppo, nell’abisso creatosi tra piacere e dovere. Nascono, così, i «giochi di società», che tengono uniti intorno ad un tavolo gruppi di amici nel tentativo di divertirsi e con la convinzione di poter, così, potenziare il proprio capitale di socializzazione. In tutti questi casi conta di più lo stare insieme che vincere nel gioco. La spontaneità del gioco infantile, che ci porta a comunicare meglio, viene poi sabotata dal divieto che gli adulti si danno del continuare a giocare. Si reprimono le pulsioni ludiche e ci troviamo, purtroppo, con esseri umani mutilati, tristi. Finché persisterà la percezione interna di questa mutilazione e sarà pure presente un desiderio di «protesi», si starà a buon punto. Questa percezione può funzionare, infatti, come stimolo a liberarsi dall’oppressione di quelle regole sociali che vietano le espressioni ludiche nei grandi, ed il risultato potrà essere, più che una protesi, un’autentica rinascita della parte mutilata. Così troveremo intorno a noi persone che accettano ed usano l’ironia, che esprimono la gioia di stare insieme attraverso il proprio umorismo, che contribuiscono a creare un clima ilare ed armonioso, che sanno parlare e rispondere con il sorriso. Si creerà un clima allegro e spensierato e si potrà, allora, dire di ognuno di noi ciò che esprimevano le parole della lapide, prima citate, sulla tomba di quel bambino: gli altri si sentiranno migliori e più felici con la sola nostra presenza. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 F orse non diamo o non abbiamo dato fino ad ora sufficiente importanza alla funzione socializzante del gioco infantile, soprattutto come premessa necessaria per saper giocare nell’età adulta, per socializzare con gioia, per poter aumentare il proprio capitale sociale. Purtroppo, quando si arriva ad una certa età, l’attività ludica, d’accordo con le norme sociali del mondo in cui viviamo, deve lasciar posto alla concentrazione sulla serietà della vita, sul senso del dovere, sulla definizione di maturità come conquista di un senso d’impegno nei confronti di un futuro, che è sempre incerto, e che suppone l’abbandono delle pretese infantili di giocare sempre. Ciò, nonostante la tesi che vogliamo difendere oggi, che bisogna continuare a giocare, che bisogna vivere la vita come gioco, che il grosso potere dell’immaginazione dovrebbe essere indirizzato verso mete che ci permettano di vivere contenti in un gioco senza sosta; pur considerando le tragedie della vita ed il dramma della sofferenza, ma sapendo usare queste situazioni dolorose con il dolce proposito di coltivare uno spirito allegro. Minimizzare, alleggerire il peso del vivere, vedere le cose con un certo umorismo, liberarsi dallo spirito tragico che ci circonda in una prospettiva che conduca verso una vita più felice… sono meccanismi che aiutano sicuramente a migliorare la qualità della nostra vita e di quelli con cui entriamo in contatto. È così che si creano le condizioni per sviluppare rapporti sociali veri e profondi con parenti ed amici, ed anche con persone che incontriamo, magari per la prima volta, e verso le quali indirizziamo messaggi di serenità e di allegria. Diventa, così, un modo di vivere socialmente felice provocare un sorriso, entrare in contatto cordiale e spontaneo con l’altro, mettere le premesse per una reciproca conoscenza portatrice di rapporti umani positivi, gratificanti e piacevoli. Ricordo sempre d’aver letto, molto tempo fa, che nel cimitero di un piccolo paese sperduto, sulla lapide di un bambino era scritto: «Qui giace un bambino. Nella sua vita non fece niente di speciale, ma i suoi molti amici si sentivano migliori e più felici quando stavano con lui». Manuel Tejera de Meer 41 La felicità è avere qualcuno da perdere… Philippe Delerme questione di feeling P ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Rosella De Leonibus 42 rima annotazione. Per conoscere nuovi partner ed evitare le difficoltà del corteggiamento, c’è lo speed date. Viene chiamato il nuovo gioco per incontrare l’anima gemella. Funziona così. Innanzitutto si gioca in gruppo, così ci sentiamo più forti e sicuri. Si prende un bar, un luogo di ritrovo, abbastanza grande da contenere un centinaio di persone, 50 ragazzi e 50 ragazze. Si prenota per sms e si attende l’accettazione. Alla data fissata si arriva puntuali. Ognuno avrà su di sé un cartellino col suo nome o un nick name. Adesso cominciano le danze. No, le presentazioni. A due a due ci si siede ad un tavolino, tipo colloquio di selezione, e per alcuni minuti ci si parla e si cerca di far colpo sull’altro/a. Di solito i minuti non arrivano a cinque, in media sono tre. D’altra parte, tre minuti è circa la durata di una canzone, se si fosse fatta una vera danza, il tempo sarebbe stato poco lo stesso. Suona un campanello e si cambia posto. Una specie di quadriglia con cambio della dama. Si ricomincia con la presentazione. E così via fino a che non si sono passati tutti i tavolini. Proviamo ad immaginare la cinquante- sima volta… Man mano che si becca qualcuno di interessante, se ne annota il nome, e si può fare un secondo giro, per approfondire un po’ la conoscenza. Poi finalmente il gioco prosegue un po’ più libero. seconda annotazione Moltissimi ragazzi e ragazze si trovano in difficoltà riguardo a come avvicinare un possibile partner. Non sono tanto le inibizioni sulla propria disponibilità a livello emotivo o corporeo, quanto proprio una mancanza di know how sul modo di attrarre l’altro/a, e di aprire un minimo di dialogo, un minimo di conoscenza reciproca che permetta l’approccio. C’è insicurezza, timidezza, al di là delle ostentazioni, ma anche una franca incapacità di comunicare con le parole, un analfabetismo nella decodifica del linguaggio del corpo, una competenza all’ascolto molto approssimativa. Nel dubbio, una possibile e molto praticata soluzione è il salto delle tappe. Meno parole e più fatti. Dopo si vedrà, se dall’intimità fisica viene fuori anche la voglia di conoscersi e capirsi, ok, altrimenti il gioco della seduzione finisce pri- lo sguardo e la parola Certo che bisogna imparare a leggere il linguaggio non verbale, ovvio che, nel presentarsi a lui o a lei, alcune frasi uccidono l’atmosfera, piuttosto che crearla. Poi però c’è dell’altro. C’è il recuperare appieno l’uso dei cinque sensi, per esempio. La capacità di guardare l’altro/a, non con l’occhio di triglia, né con l’occhio di chi calcola il numero delle battute di ciglia o i gesti di auto contatto, e se sono almeno dieci allora ci sta, ma con la genuina curiosità per una persona sconosciuta. C’è l’arte di sentire la musica che vive in ogni voce, le sfumature di quel timbro vocale, il ritmo del respiro dell’interlocutore, i suoi silenzi, e leggerli, i silenzi, respirarli insieme all’altro/ a, punteggiarli di sguardi e sorrisi. C’è l’arte di avvicinarsi all’altro/a, la danza straordinaria che conduce dallo sguardo al contatto, e c’è l’arte sopraffina della parola. Non le frasi celebri più o meno melense o infuocate copiate da internet e spedite col telefonino. La parola viva che racconta di sé, ma soprattutto intriga, accarezza, manda la fantasia avanti di una puntata. La parola che invita a parlare, ad aprirsi. E non può essere imparata come le domande e le risposte di un gioco da tavolo, per favore, perché nel mistero del dialogo autentico c’è questo fatto con cui occorre fare i conti, una volta per tutte: dopo che ho iniziato, ho lanciato la mia proposta, non posso sapere quale sarà la risposta dell’altro/a, e fin dalla seconda mossa devo imparare a stare con quel che c’è, a giocare d’improvvisazione, con quel che l’interlocutore mi porta. Non succederà quasi mai che l’altro stia esattamente dentro il mio copione, e se succede vuol dire che non c’è seduzione reciproca. Poi c’è l’arte di essere come si è, né più belli né più brutti, e per arrivarci bisogna fare i conti con il conoscersi almeno un po’ e il volersi bene, almeno un altro po’. Serve per non crollare davanti ai rifiuti, per non pretendere che sia l’altro a farci da specchio delle brame, confermandoci ogni volta che siamo i più belli del reame. l’ascolto e il contatto La più efficace tecnica di seduzione al mondo, quella che mai ci farà passare inosservati, quella che funziona sempre e dovunque è un modo appassionato e intenso di fare le cose di ogni giorno. È uno sguardo vivo, una presenza al mondo attenta e generosa. È come se sulla fronte ci fosse scritto: sono interessato/a a questo universo, e con te dentro ancora di più. Allora non serve più sapere come leggere la gamba accavallata piuttosto che le labbra semiaperte, le mani in tasca o le braccia conserte. Questi sono dati che possono servire per definire un’immagine statica delle persone e del rapporto. In una immagine viva ci sono io, ci sei tu, e ogni volta devo trovare in modo creativo la via di accesso alla tua attenzione, qui e adesso, accogliendo prima di tutto quel che mi mandi tu come messaggio globale della tua persona davanti a me. C’è un esercizio che si fa in certe forme di training teatrale, serve per imparare a stare con quel che c’è adesso, a rispondere a quello che avviene, a tenere desta la propria e l’altrui attenzione. Serve ad imparare a fare contatto. Si tratta di stare in piedi l’uno davanti all’altro e, senza esitare né rallentare un ritmo dato, rivolgersi al partner con una affermazione che lo riguarda. Né giudizi, né ipotesi, né domande, né discorsi generici. Solo affermazioni, e che lo riguardino. Dopo alcuni minuti si comincia ad uscire da una specie di dialogo tra sordi, dove ognuno dei due parla sì dell’altro, ma scollegato da ciò che questi a sua volta dice, come se fosse più preoccupato di preparare il proprio discorso piuttosto che ascoltare, e connettersi, con ciò che l’interlocutore afferma. Varcata questa soglia, quando veramente si comincia ad accogliere nella propria attenzione l’altro e ciò che dice, il dialogo diventa straordinariamente intenso ed intimo, toccante a volte, vero, potente, e l’attenzione e la disponibilità che tributiamo a questa persona qui davanti la attraggono inevitabilmente, come con un filo sottile, verso di noi. E viceversa. Cambiano le voci, gli occhi sono più vivi, il corpo è più aperto e disponibile, le anime cominciano a toccarsi. Io non mi basto più, non sono più una monade isolata, siamo io e te, abbiamo riempito la distanza, abbiamo creato tra di noi uno spazio che ci connette, necessari l’uno all’altro. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 COSE DA GRANDI ma ancora di essere iniziato. E il gioco più bello del mondo, quello che fa assaporare le sensazioni più straordinarie, le vibrazioni più potenti del corpo e dell’anima, diventa niente più che una fortunata eccezione. I settimanali, i mensili, e talvolta anche i quotidiani sono prodighi di consigli, esistono manuali al maschile e al femminile, ma la lista delle cose da fare e non fare per farsi notare e agganciare «la preda», dà francamente l’impressione delle tecniche di vendita, un marketing di se stessi, come è chiamato – invero onestamente – da alcuni. il desiderio e il rischio Qualunque cosa accada nella fase precedente 43 44 so di mancanza piuttosto che di soddisfatta pienezza, ecco le molle che mi spingono a varcare questo tremendo confine del mio io, ad attraversare la terra di nessuno, fino a raggiungere te, proprio te. Fino a te. Fino a... A presentarmi col cuore in mano, rischiare che tu lo calpesti, lo ignori, che lo respinga al mittente, a farmi ferire, a beccarmi lo schiaffo psicologico del rifiuto. A fare lo sforzo di cogliere i dettagli, intuirti oltre le parole, fidarmi del registro sottile dell’irrazionale, anche quando tutto sembra inutile, e inseguire una nuova occasione, spingermi in campo aperto, nei territori della tua vita quotidiana, osare la violazione di qualche tua privacy, di qualche tuo divieto, insinuarmi in qualche esitazione, nelle brecce dei tuoi silenzi, nella – apparente – calma piatta del tuo atteggiamento di superficiale compiacenza. Ad attendere il momento giusto, contenere l’ansia, spingermi oltre l’esitazione, lasciar crescere pian piano l’emozione, porgertela con grazia, o rovesciartela addosso con irruenza tremenda, riconoscerti come colui/colei che da adesso, e per non so quanto, stabilirà il dominio sul territorio della mia anima, e da ora in poi non avrò mai più del tutto la padronanza del mio tempo, dello spazio dei miei pensieri, delle mie emozioni, perché le ho legate alle tue e ti ho dato le chiavi, chissà come me le conservi, chissà come le userai, chissà dove mi trascinerai, alle stelle o sottoterra… Da qui in poi io non potrò mai più essere uguale a prima. Il confine ben definito che mi ero costruito l’ho messo in gioco, l’ho aperto, ti ho ospitato, e anche se uscirai per sempre dalla mia anima la tua traccia resta. Come minimo, nella mia chiusura difensiva se mi hai fatto male; come massimo, nella nostalgia dolorosa che d’ora in avanti proverò fino a quando non avrò permesso a qualcun altro di rientrare. E in ogni caso nell’inventario completamente rinnovato delle mie emozioni, negli angoli del mio sé che mi hai fatto esplorare. Ecco perché innamorarsi è una cosa da grandi. Ecco perché fa un po’ paura. Ecco perché in molti vorremmo esorcizzare con tecniche varie l’ansia dell’incontro. Ecco perché vorremmo controllare un po’ quella potenza devastante che abita nella magia di uno sguardo, di un odore, di una voce, di una curva del corpo, del guizzare di un muscolo, che in un secondo ci trasformano in esseri mancanti, desideranti. LEZIONE SPEZZATA Stefano Cazzato tesine rofessò, come tesina pegli esami, io avevo pensato al titolo... La fenomenologia dell’eroismo. La fenomenologia dell’eroismo, Settini? Eh... dell’eroe, delle imprese, l’individualismo, anche estremo, che se collega co’ Oscar Wilde d’inglese, il futurismo di italiano oppure D’Annunzio o l’estetismo, in storia, con la prima guerra mon- P diale oppure la seconda, devo vedè che cè stà mejio… Sì, immaginavo, ma questo è un tema che ti interessa… o non ne hai altri da proporre? E certo che meenteressa, professò, io so pé gli eroi, mica pé le masse e l’omolooogazione, me piacciono i capi, nun so si mé spiego… Non c’è bisogno di essere eroi per distinguersi dalla massa, basta vivere in modo serio, responsabile, rispettoso… Sì stacce, l’eroe serio, responsabile! L’eroe mica è borghese? Se proprio ci tieni, vada per la fenomenologia. Cerca almeno di articolare criticamente il tuo punto di vista, di sostenerlo con riferimenti e argomenti validi, se ne hai. È chiaro, no, professò! Io nun m’emparo le cose a pappagallo come quelli. Eppoi c’ho le idee chiare su ’ste questioni dei capi. Certo, certo. Adesso Settini vai a posto, Francescotti scalpita con la sua tesina sulla resistenza? Il problema è resistere a Francescotti, professò, è nà pizza quello lì. Comunque pé filosofia? Per filosofia, cosa? Eh, pé filosofia che ce metto nella tesina pè filosofia? Me manca ancora l’argomento. Cioè n’idea ce l’avrei… Scommetto che pensi a Nietzsche! Professò, è proprio forte stà cosa, ma che me legge nel pensiero! No, no, vediamo… Potresti mettere la storia di un eroe silenzioso, un filosofo ucciso nei lager, un martire, si chiamava… Nun me dica manco er nome. E lasciamo stare i lager, che su quelli c’ho n’opinione tutta mia. Ma come se fà a essere silenziosi e eroi? Se uno nun fà notizia con un po’ de rumore e de apparenza, che eroe è? E quindi? E quindi ce penso, professò, ce penso e poi jielo dico. Comunque deve essere ’na cosa spericolata, stupefacente, unica soprattutto, che resta nella storia del Contacchi, nà cosa che fa venire i brividi alla commissione e al presidente! Rosella De Leonibus 45 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 COSE DA GRANDI della vita, a meno che non si siano abbattuti sulla persona veri disastri che ne abbiano distrutto del tutto la forza vitale, arriva un momento in cui non si sente più di bastare a se stessi. È il momento magico in cui il mondo comincia ad allargarsi parecchio, e il mio sguardo coglie cose – e persone – che prima non destavano la mia attenzione, o magari sì, ma mi limitavo a compiere elucubrazioni di fantasia, senza pensare neanche per un attimo ad avvicinarmi davvero all’oggetto del mio desiderio. Adesso invece c’è un senso di urgenza, di mancanza, di leggera ansia che comincia a pervadere l’animo, c’è un vago sentimento di deprivazione che pian piano si insinua nella coscienza, una sorta di sete, che chiede di essere estinta, e l’acqua che la placa è là fuori, alla portata della mia voce e della mia mano, ma lontanissima nello stesso tempo. Questo spazio tra me e l’oggetto del mio desiderio lo percepisco all’inizio incolmabile, largo come il Rio delle Amazzoni alla foce, e percepisco me stesso precariamente navigare su una leggerissima imbarcazione, mentre remo faticosamente contro corrente per raggiungere l’altra sponda, disperando di farcela, e ugualmente sperando di poter approdare con un qualche successo. L’altra sponda è là, che vive la sua vita, fa le sue cose, mi ignora o mi lancia segnali di fumo, e io per lui/lei ancora poco più che esisto, sono collocato/a nell’indistinto, nello sfondo degli amici, nella scenografia dei luoghi quotidiani, e da qui in poi il mio problema è solo uno: come farmi notare, come farmi avanti. All’inizio posso anche rifugiarmi in retromarce indecorose. O chiudermi più o meno rabbiosamente in me stesso/a. Chi basta a se stesso è autosufficiente, posso anche negare ostinatamente questo bisogno che sta nascendo dentro di me, e rintanarmi in casa, o nella cerchia sicura dei rapporti camerateschi tra pari, nel gruppo monogenere, e anche nel gruppo degli amici storici, dove siamo legati da questa somiglianza, fratellanza, come una cucciolata, e i lui e le lei sono comunque un plurale indistinto ai miei occhi. La pulsione esogamica, la voglia di cercare i miei legami in cerchie più lontane, eccola invece che scatta, prima o poi, inesorabile. Appena mi permetto di sentirlo, questo bisogno, la dolorosa tensione della mia incompletezza. Da qui comincia uno dei cambiamenti più grandi della vita. Vado fuori del mio orizzonte già esplorato. Fuori dal gruppo, fuori dal confine sicuro delle emozioni che già conoscevo. Fuori dal mio vecchio sé. Bisogno, desiderio, infelicità, carenza, imperfezione, sen- Dario Bellezza S versi figli di un cuore ossidato ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Giuseppe Moscati e gli fosse necessario un biglietto da visita, credo che il più efficace glielo abbia confezionato Pier Paolo Pasolini quando, nel 1971, è arrivato a definirlo «il miglior poeta della sua generazione». Dario Bellezza (1944-1996) è poeta trasparente, magari scandaloso, ma di quel tipo di scandalo che fa bene al mondo della cultura, e della letteratura in particolare, perché ‘dice’ di un’autenticità che altrimenti rimarrebbe oscurata dalle ombre delle ipocrisie di mestiere oppure soffocata dalle armi della censura di turno. È difficile parlare di lui, della sua poetica e soprattutto della critica che si è a mano a mano prodotta intorno alla sua opera, lungo questo decennio dalla scomparsa, senza ricordare che a portarlo via è stato l’aids e che in tanti non gli hanno perdonato il suo essere omosessuale. Il suo essere, appunto. Quella sua tendenza a scandalizzare, a impressionare, a sfornare di continuo Invettive e licenze, per citare uno dei suoi titoli più significativi, non lo ha certo messo in buona luce agli occhi dei più e tuttavia gli ha concesso di liberare veramente, in profondità, le sue capacità espressive. Capacità riconosciute appieno al poeta romano, oltre che dal già ricordato Pasolini, anche da altre grandi personalità della letteratura contemporanea a partire da Sandro Penna, Elsa Morante, Gianfranco Contini e Alberto Moravia, il quale in particolare scrisse la presentazione del primo libro di narrativa di Bellezza, L’innocenza. Come bene ha ricordato di recente Antonio Debenedetti, i luoghi «della sua quotidianità, luoghi di millenaria memoria, erano piazza Navona, Campo dei Fiori e i vicoli bui come rughe intorno a piazza Farnese. […] Ci sono letti appena disertati dalla distrazione di amanti incapaci d’amore, ci sono corpi spogliati anche dell’anima e nude albe che portano con loro il freddo di tormentose notti insonni» (1). cuore peccatore e orgoglio luciferino Ma torniamo allora alle invettive e licenze di Bellezza, al suo scrivere della forza e 46 della voce dei propri sentimenti, alle parole che ricerca spasmodicamente per fare ritorno all’intimo del suo essere diverso – ognuno lo è a suo modo –, quindi finalmente all’intreccio mirabile di acuti poetici e di versi sussurrati. Alla sicurezza con cui scrive «non saprai giammai perché sorrido» fa eco il dolore della solitudine: «Nella luce fioca mi lecco / le ferite mortali […]. / Chi è nell’ombra solo sa / quanto il giorno è mortale / bianca statua solare […]». Altrove lui è ancora solo, davanti alla tazza screpolata della colazione, i cui «orli senza miele» lo provocano a comporre, quasi gli chiedono di parlarci di quella quotidiana lotta che, senza appoggi, è costretto a combattere e gli offrono pertanto l’ennesima opportunità di tratteggiare quel dolore che gli scivola piano nella gola, un dolore che alla fine «s’abbandona alle / immagini di ieri, quando tu non c’eri. / Che peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre, un tavolo / e un lettino di scapolo in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso / sento la tua discesa corrosa / dalla speranza». E poi, sempre nel ’71, proprio a Pasolini e alla Morante dedica due delle poesie più significative per comprendere il senso di emarginazione e la cifra della sofferenza che abitano la sua opera; se al primo rivolge una struggente confessione: «M’aggiro fra ricatti e botte e licenzio / la mia anima mezza vuota e peccatrice», pensando alla seconda Bellezza racconta di un mondo che gli è vicino per mille motivi, primo fra i quali la dimensione onirica mista all’amaro della più disarmante consapevolezza tragica: «I ragazzi drogati, guardie del corpo / dell’Assoluto, vanno per il mondo / mattutino fino alla sera della loro / sopravvivenza: come passerotti / mangiano distrattamente / tutti presi dai loro sogni d’avventura. […] So che vanno per le vie del mondo / con in bocca il sapore della polvere / e del tossico: / strepito vano è il loro baloccarsi / bambino, orgoglio luciferino / di chi si consuma, strugge come cera, / ma rapito dall’ultimo gemito di follia Con Morte segreta (’76) fanno invece il loro ingresso nel mondo poetico di Bellezza degli elementi oscuri, a volte macabri, che ritroviamo anche nella produzione più matura e che in definitiva non fanno che ribadire quale sia il tormento delle visioni del poeta romano, aiutandoci a comprendere meglio come l’essenza della sua arte corrisponda a uno stato di costante pena. Ecco sopraggiungere il «delirio della più enorme insonnia / e solo le botte dell’infanzia mi placano, giacendo / senza vita lontano dal centro della mia vita. […] Così diviso da me, osservo il mio cadavere, / ne contemplo le mille epoche sopravvissute / alle illusioni, alla felicità passeggera di un bacio, / preda di sapienti ladroni notturni che sanno / aspettare fino all’ultimo l’estremo rantolo». Tali elementi, comunque, vengono sapientemente articolati in una poetica della memoria e della proiezione: «Le muse si sveltiscono solo se andate cose / rigirano, sezionando in dolore e confessione, / oscillando fra tenere immagini e pensiero / lucido di ieri, friabile rendendo la memoria / delle realtà impossibili, quelle mai volute / e tutte assoldate al vizio del ricordo». Come dicevo, certe cupezze si ripresentano anche più avanti nel tempo, come per esempio in Libro d’amore e in Libro di poesia, rispettivamente del 1982 e del ’90. In uno leggiamo infatti di un «fradicio ponte», in qualche modo partecipe delle emozioni del poeta, e nell’altro di lui «ferito e diverso testimone / che abolendo morti e primavere / la mano al calare del sole / asciugava al vento dei giardini»; ma anche, addirittura, di «peccati andati a male», ancora segreti o infine confessati – chissà! – tra «pesci morenti» e «spugne essiccate». Ma d’altra parte anche Prima un bacio (sempre della raccolta Libro di poesia), ci conferma che chi scrive, capace solo di «una stenta lettura» di se stesso e tutto assorbito da una «triste meta di decadenza accidiosa», si ritrova il «cuore ossidato di cittadino spento» e non può quindi che affidare l’estrema sua speranza ad «un ultimo gemito di follia». E tuttavia quello stesso cuore, che in un altro luogo e tra «giornate smarrite» il poeta giudica ormai «in disuso», pulsa forte quando Bellezza sa vedere la luce di occhi «pieni di terra»; pulsa forte quando egli piange «da solo con accanto il gatto dei ricordi» o quando scopre la notte «infedele peccato di amanti». Pulsa forte quando deve ammettere «tu mi manchi in spirito / e dolcezza primitiva» o quando sente di chiedere perdono a chi non è riuscito ad amare; pulsa forte, ancora, nel momento della resistenza più dura: «Ancora riesco a scrivere d’amore. / Come mai nel sole si scatenano / gli uragani del presente o il domani / incide nel tuo cuore assente / io strepito nel nulla il coraggio / di cercare l’estremo bacio santo / che inchioda al saturnale dei vivi» (da Serpenta, 1987). Il poetare distratto e allo stesso tempo lucido di Bellezza, una delle caratteristiche più paradossali e insieme più felici che emerge dal cuore della sua produzione, ci introduce in un mondo fatto, sì, di eccessi e di ostentazioni, ma anche e forse soprattutto di sentimenti e passioni veraci come pure di accenti lirici assai originali, mettendoci così davanti a una realtà poetica multiforme, la quale – peculiarità di ogni forma d’arte novecentesca – da un lato si confonde con il quotidiano e dall’altro strizza l’occhio alle vette del sublime e all’immortalità estetica. Giuseppe Moscati (1) A. Debenedetti, Dario Bellezza scandalo e oblio, «Corriere della sera» 21 marzo 2006. per leggere Bellezza: D. Bellezza, Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971; Libro d’amore, Guanda, Parma 1982; Io, Mondadori, Milano 1983; Serpenta, Mondadori, Milano 1987; Libro di poesia, Garzanti, Milano 1990; L’avversario, Mondadori, Milano 1994; Morte segreta [premio Viareggio 1976], Mondadori, Milano 1996; 40 poesie, Mondadori, Milano 1996. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 LETTERATURA anche così la mia voce smorta / li vorrà sempre al mio capezzale». Quanta solidarietà con quegli ultimi! Quanta voglia di urlare la denuncia di quel «sapore della polvere e del tossico» che nega, inesorabilmente, i «sogni d’avventura» dei quali peraltro si nutre l’energia spontanea e vitale di errare, nonostante tutto, «per le vie del mondo»! su Bellezza: M. Gregorini, Morte di Bellezza. Storia di una verità nascosta, Castelvecchi, Roma 1997 (poi, ampliato: Id., Il male di Dario Bellezza. Vita e morte di un poeta, Stampa Alternativa, Roma 2006); M. Consoli et alii, Diario di un mostro. Omaggio insolito a D. Bellezza, a cura di D. Priori, Anemone purpurea Ed., Albano Laziale (Roma) 2006; F. Cavallaro (a cura di), L’arcano fascino dell’amore tradito, Giulio Perrone Ed., Roma 2006. 47 la parabola della fiducia creativa ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Lilia Sebastiani 48 una parabola difficile e dura. Vi si sono arenate molte letture del vangelo un po’ troppo fai-da-te, e sto pensando anche alle mie nella prima adolescenza. Sembra di non poter ritrovare qui un messaggio di salvezza. Infatti, anche se sappiamo che non è così, avremmo un po’ tutti la tendenza a intenderla come una positività pronta per l’uso, esplicita e rassicurante. Qui non c’è nessun happy end. La conclusione, per quanto riguarda il terzo servo, è così amara da farci dimenticare la vicenda dei primi due, e occupa lo spazio maggiore, materialmente e psicologicamente. Inoltre affrontare seriamente la parabola richiede di superare certi rifiuti istintivi: il rifiuto delle grandi questioni di fondo – quali il senso della nostra vita, l’impegno nella storia... –, del futuro che non sia proprio prevedibile e a breve scadenza, della morte. Quello che all’inizio viene chiamato semplicemente ‘un uomo’ (ricco), e poi ‘il padrone’, e poi (dai servi) ‘Signore’, è chiaramente la controfigura di Dio, non è possibile sbagliarsi, ma ci sembra di non ritrovare assolutamente la misericordia di Dio in lui. Anzi il comportamento di quel padrone può apparire tale da giustificare ampiamente il giudizio pauroso e rancoroso del terzo servo. Sì, il guaio della parabola è proprio che il lettore, anche senza volerlo, rischia di ragionare come il terzo, di incorrere nello stesso equivoco intorno al padrone e ai suoi beni e alla sua volontà, restando sconcertato e schiacciato dal giudizio di condanna. E ammettiamo che il padrone, oltre che duro, ci sembra anche abbastanza ingiusto. Perché cinque talenti a uno, a un altro due, al terzo uno solo? Abbiamo così profondamente interiorizzato il criterio (almeno in teoria) delle pari opportunità come diritto, che questa differenziazione iniziale viene da noi percepita come un sopruso, un non-riconoscimento della dignità personale, e subito pensiamo: il terzo non si sarà sentito sottovalutato, fin dal primo momento? Inoltre è proprio il terzo, dopo aver avuto di meno perché «meno capace», quello che È Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra: ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l‘interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell‘abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. ha paura e funziona male, che perciò viene respinto dal padrone e giudicato con estrema severità. Non si tratta solo di impressioni, vi è anche una frase esplicita che fa rabbrividire: «A chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Certo, succede anche oggi e anche troppo spesso, ma almeno non viene ‘proclamato’… parabola delle realtà ultime Una pagina biblica che non ci lascia tranquilli è un modo specialissimo di speri- i talenti È difficile anche distinguere ed esprimere correttamente quanto è simboleggiato dai talenti. Nel mondo romano il talento era, più che una moneta, un’unità di peso, circa 33 chili d’oro o d’argento. È quasi impossibile quantificarne il valore, comunque è stato calcolato che un talento corrispondesse a circa 20-25 anni di salario di un lavoratore medio. Una grossa somma; e l’importanza di questo denaro investito, trafficato o sprecato è fondamentale nel messaggio della parabola. Nel linguaggio moderno la parola ‘talento’ – molto laicizzata, proprio in conseguenza dell’impatto esercitato da questa parabola attraverso i secoli – esprime ogni genere di spiccata disposizione naturale per qualche attività. E questo significato è indizio di un’interpretazione sbagliata, che confonde in sostanza i talenti con le varie capacità dei servi! Il significato originario accentua di più il dono, l’iniziativa di Dio, lo ‘spreco’ e il rischio, l’imprevedibilità. I talenti alludono a tutto quanto viene dato da Dio ai singoli per far crescere le loro comunità e la grande comunità umana. La realtà del Regno, in primo luogo; quindi l’annuncio del Regno. E l’intelligenza, la creatività, la speranza, la bellezza e l’incompiutezza, il dubbio, l’insoddisfazione, la comunicazione… La parabola parla del Regno, della sua logica e delle sue esigenze. Dio affida l’immensità del suo progetto di salvezza ai limiti e alla debolezza degli esseri umani immersi nel divenire della storia, quindi anche alla loro paura e ai loro errori. Ma come vi è una paura ‘paurosa’ e una paura ‘coraggiosa’, allo stesso modo vi sono errori aperti, talvolta di insperabile fecondità, ed errori chiusi, ciechi, disperati. La salvezza è Dio che rischia con noi e ci chiede il coraggio di rischiare. Al centro del messaggio (che è anche messaggio etico, ma fondato nelle realtà ultime) si trova l’invito all’attesa operosa e fiduciosa, alla vigilanza, al discernimento; non solo impegno di corrispondere ai doni di Dio, ma anche volontà attiva di trasformare il mondo secondo la logica del Regno. Perfino l’assenza del padrone (che ritorna «dopo molto tempo») può leggersi come un tempo di attesa e di fiducia da parte di Dio, un tempo donato. In questa luce acquista senso la frase «A chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». A noi non sembra una massima molto evangelica: piove sul bagnato. Il primo servo, avendone già dieci, che ne farà di un altro talento, lui che è già stato ammesso a condividere la gioia del suo signore, insomma ad essere come lui? Vuol dire, semplificando un po’, che chi si è impegnato con tutto se stesso per far fruttificare quanto gli è stato affidato dal Signore, tanto o poco che sia all’origine, vedrà il frutto del suo impegno straordinariamente arricchito e intensificato. Quello che ha 2+2 talenti viene lodato ed esaltato esattamente come colui che ne ha 5+5, anche se equivalente è solo l’impegno, non il risultato misurabile: Dio conosce le ‘capacità’, non segue il criterio del successo! Invece chi per paura ha evitato di mettere in gioco se stesso scoprirà di non avere nulla: anche ciò che ha pauro- ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO mentare la dinamica della salvezza, sempre consolante e disturbante nello stesso tempo. Una pagina che non ci disturba non produce un effetto forte, non è un vero messaggio di salvezza: ci conferma nelle nostre idee (come se ve ne fosse bisogno!), nella visione del mondo che ci siamo fabbricati o che altri hanno fabbricato per noi. Quando restiamo sconcertati, invece, siamo inevitabilmente indotti a chiederci se la nostra lettura ha colto nel segno, se abbiamo ascoltato tutto ciò che poteva trasmetterci, se vi è qualcosa che abbiamo trascurato. Così impariamo a leggere e ascoltare con un’attenzione nuova, siamo obbligati ad andare oltre, e questa esigenza è la prima tappa del nostro cammino di salvezza. Senza volerci nascondere che un problema c’è, si deve riconoscere che gran parte delle nostre difficoltà è legata a un errore di partenza. Quando non si ha della Scrittura una conoscenza abbastanza profonda, si tende d’istinto a un approccio moralistico che risulta quasi sempre fuorviante. Soprattutto in casi come questo: la parabola dei talenti non è in primo luogo morale (anche se ne scaturisce un messaggio etico relativo al nostro impegno nella storia), bensì escatologica. Il ritorno del padrone, dopo una lunga assenza, allude alla Parusìa: il ritorno del Signore, cioè, e il giudizio finale di Dio sulla storia. Il discorso escatologico occupa i capp.24 e 25 di Matteo, ma si trova in tutti e tre i Sinottici. Doveva costituire un tema fondamentale per le primissime generazioni cristiane, che attendevano il ritorno del Signore in tempi brevi. 49 50 dove opera la salvezza? Rivolta a una comunità di cristiani che provengono dall’esperienza di fede di Israele, questa parabola insegna che esiste un vero «timore di Dio» e uno falso. Il vero timore di Dio è dono dello Spirito, è il sentimento creaturale che fa riconoscere il suo amore e spinge a un continuo discernimento della sua volontà per essere fedeli all’alleanza, per vivere la relazione con lui. Non è la «paura di Dio», espressa nello sfiduciato servilismo del terzo servo. Questo, poiché vede il padrone come un uomo duro ed esigente ben oltre la giustizia, tendente ad approfittarsi del lavoro altrui (va in questo senso l’espressione «mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», probabilmente una specie di massima proverbiale), anziché lavorare per lui come gli altri, in sostanza si difende da lui con calcoli meschini. Chi pensa di fare il proprio dovere verso Dio corrispondendogli il ‘suo’ (come dice il terzo servo: «Ecco qui il tuo», quasi intendendo: non ho altri doveri verso di te), non solo inganna se stesso, ma offende Dio. Vengono meno alla loro chiamata le persone (o le comunità) che si chiudono in se stesse, evitando di compromettersi attivamente per il Regno di Dio nella storia, per non danneggiare la propria quiete o la propria carriera. L’aspetto ‘bello’ della parabola dei talenti, il più ricco di speranza, non salta agli occhi: va ricercato, richiede un cammino non solo interpretativo ma proprio interiore, spirituale. Le parabole sono espressive non tanto in virtù del loro realismo ma proprio, in primo luogo, dei loro aspetti inverosimili. Anche in questo caso. Oggi come allora, quale ricco proprietario, sano di mente, affiderebbe i propri beni a dei ‘servi’ (fossero pure ‘impiegati’ o qualcosa di simile), senza istruzioni precise, senza nulla, esponendosi al rischio di perderli? Sì, questo Padrone agisce in modo inedito, e consegna i propri beni ai servi non tanto a fini di custodia quanto di gestione creativa: si direbbe infatti che gli stiano a cuore proprio l’intraprendenza e la creatività dei servi, più della sorte dei propri beni. Se il problema fosse stato ‘conservare’, nel senso di non perdere, avrebbe potuto «affidare il suo denaro ai banchieri» – come dice alla fine – e non perdere nulla, anzi ricavarne un interesse. Invece questo ricco proprietario ama rischiare e investire non tanto in denaro quanto in fiducia sulle persone. E le conosce, evidentemente. Non dà a tutti lo stesso, ma «a ciascuno secondo le sue capacità». La giustizia puramente distributiva, il fare le parti uguali fra chi non è uguale, non significa rispettare le persone, perché non ne riconosce le differenze. Questo padrone conosce i suoi servi è affida a ognuno ciò che è capace di ricevere e di gestire. Diverse sono le somme affidate, ma a tutti è affidata la fiducia del padrone. La consegna dei talenti non è solo un incarico, ma un evento di relazione tra il padrone e i suoi servi, in cui l’iniziativa è del padrone, e quel che viene consegnato non è solo denaro, bensì fiducia. E la parabola non è un inno-esortazione all’efficienza e alla produttività, ma parla del rapporto con Dio. I primi due servi, sorprendentemente vengono lodati non in quanto attivi ed efficienti, ma in quanto «buoni e fedeli». Il lavoro, l’iniziativa, la creatività fanno fruttificare il denaro affidato. Ma come si regolano, cosa fanno i primi due servi? La parabola sorvola su questo aspetto, e da ciò si capisce che il ‘cosa fare’ è secondario nella sua dinamica spirituale. Il Vangelo è un annuncio, non è mai un libro di ricette. Importante è invece l’agire ‘aperto’ dei primi due servi di contro all’agire chiuso dell’ultimo. I primi due sono animati da fiducia e, diremmo, oggi da entusiasmo per i beni del padrone, che sentono come propri (e così li ritroveranno, alla fine). Invece il terzo ha paura, del padrone e di se stesso. Il giudizio terribile pronunciato alla fine dal padrone sembra un giudizio che il terzo servo schiacciato dalla paura e dalla sfiducia pronuncia su stesso. Dall’immagine di un Dio-giudice terribile e inesorabile deriva uno stile di comportamento all’insegna della paura (oppure è un atteggiamento esistenziale di paura all’origine di quella idea di Dio?). Comunque l’essere umano ha paura di un Dio così, e perciò si trincera dietro l’osservanza esatta delle norme: osservanza che, per quanto puntigliosa, esemplare, eroica in certi casi, ha sempre qualcosa di meschino proprio per la sfiducia che sottintende. Nei Vangeli la paura equivale alla mancanza di fede. La parabola ci chiede di trascendere un modo mercantile di concepire la vita: e mercantile è tanto la logica del profitto e dell’efficienza, dominante nel mondo che abbiamo intorno, quanto l’atteggiamento moralistico della salvezza ‘guadagnata’ per mezzo delle opere. Lilia Sebastiani FATTI E SEGNI luci e ombre Enrico Peyretti B isogni – Infelice quel popolo che ha bisogno di eroi. Infelice quella chiesa che ha bisogno di santi. Dubbi – Ho meno dubbi sull’esistenza di Dio che (contro Cartesio) sulla mia esistenza. Non vengo da me stesso e non ho base in me. Se siamo sinceri, noi siamo sempre come il neonato, che sa di non bastare a se stesso e di vivere solo in simbiosi con la madre. Poi viene l’età stupida, della presunta autosufficienza. Fino alla vecchiaia, che riconduce alla verità dell’origine. Estremismi – «Non sono venuto a chiamare i giusti ma i peccatori» (Matteo 9, 13). Non l’ho mai visto scritto sulla porta di una chiesa. Ci sarebbe pericolo che i peccatori accampassero dei diritti in quanto peccatori. Queste parole, inoltre, sono precedute da altre ancora meno note: «Andate ed imparate cosa vuol dire: misericordia cerco e non sacrificio» (Gesù cita Osea 6,6). I giusti frequentano le chiese e compiono pii sacrifici. A che varrebbe essere giusti, se si fosse accolti in chiesa da parole respingenti e ingrate come queste? Invece di compiere i nostri doveri religiosi dovremmo avere misericordia dei peccatori e trovarli davanti a noi. Gesù poteva dire simili estremismi (devono essere parole sue, così poco religiose), perché aveva da dirigere solo un gruppetto di uomini (che però gli dettero anche dei grattacapi) e di donne, mica una chiesa grossa come quella che è sulle spalle dei successori di Pietro. Certo, chiamare i peccatori alzerebbe di molto il numero. Ma quale sarebbe l’esempio dato al mondo? O forse verrebbero solo i santi – che sono pochi – perché sono gli unici che si riconoscono peccatori. Incontri – Chi afferma fede in Dio, affermi di non poterlo dimostrare e definire. Chi non afferma fede in Dio, affermi di non sapere tutto, come tutti noi. Nel non sapere, nel non negare quello che non sappiamo, nel non definire quello che sentiamo nel profondo, lì tutti ci incontriamo. Italia – Salvata la Costituzione dalla più insidiosa manipolazione, non siamo riusciti a tirarci fuori del tutto (Afghanistan) dalle guerre in cui l’Italia è stata coinvolta. La gran parte del ceto politico pensa ancora inevitabile la guerra, nel caso giudicato serio; peg- gio, per alcuni governanti saper governare implica saper fare la guerra, come fecero nel 1999, mentre è vero il contrario. C’è ancora chi chiama azione di pace quella che è guerra, in Afghanistan, come testimonia anche il generale Fabio Mini (Il Manifesto, 22 giugno). Il movimento per la pace ha sofferto dure tensioni interne (non ancora risolte mentre scrivo) tra chi sentiva il dovere del no costituzionale alla guerra, chi sentiva come un passo in avanti la riduzione quantitativa e qualitativa del coinvolgimento italiano, chi voleva accentuare la discontinuità dal passato governo. La responsabilità di governare deve insegnare sia a mantenere la chiarezza dell’intero obiettivo lungo – nulla di meno che «fuori la guerra dalla politica!» – sia la pazienza delle decisioni condivise in una coalizione, senza rischiare di ridare il governo a chi non ha avuto scrupoli (ma interessi) a fare la guerra. Luce e ombra – Il dubbio, come ombra, tallona la fede. La fede, come corpo vivo, si erge a perpendicolo sull’ombra. L’ombra giace, ma non si scolla mai dai piedi della fede. Soltanto presso un muro l’ombra può alzarsi, non in spazio aperto. Come l’albero e il fiore, nati dalla terra, sono tesi alla luce, ugualmente la fede, verticale. Come l’ombra non è altro che luce impedita dal corpo illuminato, ugualmente il dubbio altro non è che ciò che resta non raggiunto ancora dalla fede. Quando la luce è intera e dovunque, come in quei minuti tra l’alba e l’aurora, l’ombra svanisce nella luce. Pensare – «Noi pensiamo diversamente». «Va bene. Continuiamo a pensare, in modo non fisso». Rubare – Quando il tuo fratello pecca, quando pecca il tuo avversario, anche se pecca contro di te, fa’ tuo quel suo peccato, fatti per lui peccatore, fatti colpevole per lui, chiedi a Dio di contare a te quel male, paga tu per chi pecca, in silenzio, fai giustizia più grande della giustizia, donagli l’innocenza, perché il peccato rubato al peccatore è tolto dal mondo. Il peccato imputato fermenta. Vescovi – Durante il Concilio un vescovo innovatore, criticato dai tradizionalisti, disse: «Anche a me piacciono le tradizioni, tanto che vorrei anch’io iniziarne una». ❑ 51 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 IL CONCRETO DELLO SPIRITO samente tentato di salvare è, in effetti, nulla. alle radici della guerra ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Arturo Paoli 52 G uerra-guerra-guerra, ieri. Guerraguerra-guerra, oggi. Guerra-guerra-guerra, domani. Dove nel mondo? Nella regione ebraico-cristiana, in quella terra che Tu hai attraversato nei piedi di un gruppo di schiavi che hai scelto di guidare a libertà. Nella terra dove il tuo Figlio è entrato per i piedi scalzi dei suoi inviati, precedendo la sua dimora fra i lebbrosi giacenti alle porte di Roma, dove lo ha incontrato l’Ebreo in cerca del Messia. Qui, in questa terra del tramonto dove secondo la tua promessa il popolo che guidavi trovò le colline da dove colava latte e miele. Dove il tuo popolo incontrò popoli sconosciuti che non si sorpresero quando alla domanda «Chi vi ha guidato qui?» la vostra risposta fu: «un Essere che ha ascoltato il nostro grido, ha avuto compassione di noi», e ci ha accompagnato fin qui. Noi conosciamo da tempo questo Essere e vi diremo chi è, come chiamarlo, come parlare a Lui. Così l’Occidente si è trovato di fronte alla scelta: il dio lontano, onnipotente dominatore. Il dio prossimo, il dio che scende vicino all’uomo, all’ultimo posto, colui che secondo Osea prende in braccio il bambino e mette la sua guancia a contatto con quella del bambino. Il Cristianesimo è attraversato da questo contrasto, le due immagini di dio, il dio lontano e il dio povero, inerme fatto prossimo. Colui che ha scelto la stoltezza della croce per sconfiggere i poteri della terra. La storia oggi ci mette di fronte ad una scelta. Definire il momento storico come conflitto di civiltà equivale a scegliere la guerra, perché è chiaro che l’Occidente cristiano è il solo esportatore di guerra, guerra del liberismo, guerra delle armi, esportatore di morte. Sostituisco la parola liberismo alla parola economia che fa pensare ad una cosa armoniosa senza eccessi dove il denaro non avvelena la vita. Altri fuochi di guerra sono fuori di qui: quelli che si definiscono terrorismo, ma sono una risposta alla nostra guerra. È venuto il momento storico per noi cristiani di ricercare le radici della guerra che noi esportiamo. Queste radici si mostrano allo scoperto nelle produzioni del pensiero che, secondo la sua essenza, la sua ragione di essere dovrebbe chiamarsi saggezza, luce che orienta l’uomo a vivere con gli altri e con le cose musicalmente, è di- ventato strumento di conoscenza e di dominio sulle cose per dominarle e rendere più comoda la vita dell’uomo ed è morto nella tecnica che da serva è diventata padrona dell’uomo. Così in questo silenzio di morte è nata l’idolatria del mercato presenza astratta di dominio sulle creature. A questa idolatria doveva opporsi il Dio dei cristiani come il Dio unico e vero. Gesù uomo in cui Dio si è fatto prossimo, illumina tutte le generazioni su questo conflitto permanente nel mondo, opposizione alla creazione continua al progetto creatore di Dio che dovrebbe muoversi verso la meta che è la convivenza pacifica, il mondo riconciliato «amorizzato» secondo il termine di Theilard de Chardin. Il problema affidato ad un cristiano oggi è la nostra liberazione e la saggezza di Cristo ce lo indica con parole chiare. Nella sua preghiera al Padre Gesù si esprime: «Non chiedo che Tu li tolga dal mondo ma che li costudisca dal Maligno. Essi non sono del mondo come Io non sono del mondo» (Giov. 17). Ora è venuto il momento di essere realisti e di guardare coraggiosamente il mondo cristiano: la situazione dell’umanità non ci permette di gingillarci nelle retoriche della pace, nelle apologie che vogliono salvare le acrobazie del pensiero filosofico quello di matrice metafisico, astratto, per fare un posticino a Gesù che lo ha rifiutato sdegnosamente e per sempre. I laici che si dicono cattolici a rovescio delle indicazioni di Gesù sono stati tolti dal mondo e non sono stati liberati dall’essere preda del mondo. Il fatto è chiaro. Sono stati liberati dalle responsabilità politiche ed economiche che dovrebbero essere guidate dall’amore per gli altri e guidate alla finalità del Regno di Dio, agiscono secondo le leggi dell’idolo. dov’è la profezia? L’ideale di affermare una presenza assoluta del Signore Gesù mettendolo al posto dell’idolo e quindi come immagine piuttosto che come vivente, li conduce solo ad essere più scaltri, più spregiudicati di quelli che gestiscono gli affari dell’idolo. E allo stesso tempo pretendono di glorificare Dio con preghiere, incontri sprituali, iniziative di ogni genere che calmino le loro angosce interiori per non aver trovato nel tempo ricondurre al suo posto il Vivente L’unica via che si apre al Cristianesimo oggi per essere veramente una forza di pace e di ricostruzione di un mondo che si sta sbriciolando, è quello di ricondurre Gesù da dove lo abbiamo messo noi al luogo che ha scelto lui. Il grido selvaggio di un innamorato di Dio si leva sul nostro tempo. «Mon fils? Cherchez-le dans les lourdures. Mio Figlio? Cercatelo nella spazzatura» (Léon Blois). Cercatelo tra i vinti, tra le vittime della fame perché noi abbiamo sottratto loro i viveri, delle guerre perché noi abbiamo distrutto le loro abitazioni, della nostra religione perché abbiamo tolto loro Dio per rinchiuderlo in templi che abbiamo costruito accanto ai vostri slums, proibendovi di fatto l’entrata. Abbiamo consegnato Dio ai politici, ai banchieri, ai teologi, ai progettatori di guerra. È venuto il tempo di andarlo a cercare nel posto che Lui ha scelto e non ha mai abbandonato. I giovani capiscono perfettamente questo linguaggio e vanno a trovare Gesù tra i poveri. Sanno che non ama la povertà frutto dell’ingiustizia ma non vuole ricorrere né alle armi né al potere. Vuole rimettere in piedi quelli abbattuti da malattie o da quella più grave dell’emarginazione. Non si alleerà mai con quelli che usano la parola per imporre il silenzio ma sta con quelli che trovano la parola che nasce nel silenzio perché quella sola è la parola dell’Amore e della solidarietà e della fiducia nella vita. Solo lì possiamo trovare rifugiato il Dio vero, quello di Gesù. Ci fa arrossire il solo pensiero di aver- lo tolto da questo posto portandolo nelle regge di cattivo gusto senza accorgerci che vi abbiamo portato solo la sua immagine. Questo non luogo che lui ha scelto è il solo dove si può pensare una teologia dei poveri che è una teologia della liberazione. È spiegabile che fuori di questa scelta la teologia diventi una ricostruzione di immagini umane oggetto di consumazione di coloro che portano nel cuore desideri di guerra, di spoliazioni e di morte. È solamente in questo luogo che si può pensare il progresso come crescita nella libertà, nella solidarietà e nella pace. Bisogna uscire da una concezione falangista della fede. Dio non si difende con la forza della parola, del denaro, delle armi, maschere dei politici che chiedono giaculatorie da lanciare verso questo dio lontano. Dio non si difende perché è assolutamente fuori e lontano dai campi di battaglia «Usciamo dunque verso di lui, fuori dall’accampamento portando il suo obbrobrio» (Ebrei 13,14). Tutti i tentativi per rigenerare il cristianesimo che sembra languire sotto le impalcature trionfanti dei congressi organizzati per far credere alla buona salute del cristianesimo sono assolutamente vani. Il progetto dio Cristo di amorizzare il mondo non può avverarsi modificando le scelte concrete del Gesù storico che noi definiamo il Vivente. Sembra un particolare indifferente o lasciato alla nostra fantasia la scelta concreta di Gesù eppure non si può pensare ad amorizzare il mondo se non partendo da questa scelta. Il beato Charles De Foucauld nel momento in cui fu folgorato dallo Spirito pensò subito dove trovare questo essere che vide come il solo senso di questa nuova vita che entrava in lui. Dove trovarlo? A Nazareth il luogo geografico che lui aveva scelto? L’Eucaristia relazione del solo col solo? E finalmente i Tuaregh. Uomini come lui ma altri da lui per religione, per cultura, per luogo di nascita. Forse tra i più poveri che aveva incontrato. E finalmente anche dalle immagini che ci sono rimaste ha incontrato il luogo del fratello generatore della fraternità tra gli uomini. Nella svolta del pensiero occidentale che ha abbandonato l’indirizzo metafisico per entrare nell’esistenza umana attraverso la speculazione scientifica dell’analisi psichica, attraverso la filosofia come illuminazione della vita, attraverso l’antropologia come scoperta del vero destino umano, non è più possibile un’evangelizzazione fatta di parole. Ci ricolleghiamo con Gesù che invia i suoi discepoli indicando loro di portare solo il loro corpo, la loro esitenza umana e se volevano dire una parola questa fosse «Pace». ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 CERCATE ANCORA della loro vita la vera responsabilità. Non fanno nessun caso di avvertimenti profetici che sono di un’attualità contudente: «che m’importa dei vostri sacrifici e degli olocausti...? Che richiedere da voi che venite a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili. Quando stendete la mano io allontano gli occhi da voi. Imparate a fare del bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso» (Is. 1). Quando la verità è messa fuori dall’esistenza umana e l’uomo non è verità ma pretende di possedere la verità, la verità è un mezzo di potere e l’uomo diventa uomo di guerra e non di pace. Quando i beni della terra sono visti non nella loro finalità di riempire i bisogni dell’uomo, in altre parole sono staccati dall’esistenza concreta dell’uomo diventano strumenti di guerra. Quando la religione è culto, celebrazione dell’uomo che senza accorgersene si mette al posto di Dio, volendo rompere la frontiera dei suoi limiti, usurpando l’onnipotenza di Dio piuttosto che accoglierlo umilmente, la religione diventa preludio e causa di guerra. Arturo Paoli 53 pluralismo religioso modelli a confronto ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Carlo Molari 54 opo le molte riflessioni riportate negli articoli precedenti, credo sia necessario delineare qualche linea di cammino. Non sono conclusioni, bensì spunti di riflessione. Il tema è ancora oggetto di ricerca ed esige esperienze ulteriori. Le molte riflessioni e proposte che in ambito cristiano si stanno svolgendo sul dialogo interreligioso mostrano con chiarezza la diversità dei modelli utilizzati e spesso anche la loro incompatibilità. Il che indica che il problema non è ancora giunto a maturazione. L’immaturità non è solo il risultato della sua novità, bensì anche delle resistenze ancora presenti all’interno delle stesse comunità ecclesiali. Cambiamenti così profondi non possono avvenire in poco tempo, ma richiedono un lungo cammino. È quindi comprensibile che molti si oppongano al dialogo interreligioso e si aggrappino a modelli teologici tradizionali. Solo dopo esperienze, verifiche e confronti si potrà giungere a convinzioni e a pratiche da tutti condivise. Elenco prima alcune acquisizioni che ritengo assodati punti di partenza. Un primo dato chiaro è il carattere ecumenico della ricerca di una teologia cristiana delle religioni. Le singole chiese e comunità cristiane si sono trovate divise al loro interno di fronte ai problemi posti dalla nuova condizione storica. Le diverse opzioni teologiche attraversano e dividono le varie comunità cristiane mentre stabiliscono legami di affinità tra teologi di tradizioni molto diverse. Un secondo dato è la consapevolezza della relatività di tutti i modelli teologici. Questo dato è ancor più rilevante se compreso alla luce della recente acquisizione delle scienze umane che il linguaggio come interpre- D limiti dei modelli cristologici Tra i diversi modelli interpretativi della avventura di Gesù quello diventato più comune è quello dell’incarnazione: il Verbo eterno si è espresso («ha preso carne», «ha piantato le sue tende» cfr Gv 1,14) attraverso la realtà umana di Gesù. Lo Spirito lo ha reso icona del Padre (cfr Col 1, 15), risonanza del suo Verbo, che in Lui diventava desiderio, pensiero e decisione. Quando ha cercato di spiegare l’unione tra la realtà umana di Gesù e l’azione divina del Verbo, la chiesa ha usato formule condizionate dai modelli culturali e dal linguaggio del tempo. Ne sono derivate due ambiguità nell’analisi del mistero di Cristo che ora pesano gravemente nel dialogo dei cristiani con le altre religioni. La prima riguarda il divenire di Gesù, la seconda concerne il termine persona. 1. Spesso si è presentata l’incarnazione come un evento istantaneo che costituisce fin dall’inizio una condizione straordinaria di esistenza. Il modello, invece, descrive un processo di crescita personale, che implica riflessione, preghiera, ricerca delle vie da percorrere, analisi delle situazioni impreviste e culmina nel gesto supremo di amore e di fedeltà a Dio sulla croce. «Imparò, infatti, dalle cose che patì l’obbedienza e, divenuto perfetto, è stato costituito principio di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb. 5, 8-9). Egli ha raggiunto la sua perfezione quando «fu costituito figlio per opera dello Spirito nella risurrezione dai morti» (Rom 1,4). Tutta l’esistenza storica di Gesù ha costituito l’ambito del processo di incarnazione, attraverso il quale Gesù è divenuto «icona di Dio» (Col 1,15). 2. Nelle formule tradizionali, che risalgono ai Concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451) per designare il rapporto tra Gesù e il Verbo di Dio, si utilizzano i termini greci upostasis e prosopon che vengono tradotti con «ipostasi» e «persona» per cui si è parlato di unione ipostatica e si è detto che Gesù è persona divina. Ora il termine «persona» ha subìto lungo i secoli cambiamenti profondi. Dall’idea di «ruolo», «funzione sociale» e analoghi è giunto a significare un soggetto di natura intellettuale consapevole di sé e libero. Mentre quindi il senso della formula classica «Gesù Cristo unica persona divina» indicava affermare che soggiacente (upo-stasis) all’avventura di Gesù Cristo era l’azione del Logos (Verbo) divino, per cui Gesù per dichiarare la sua fedeltà alla Parola del Padre poteva dire: «io non faccio nulla da me stesso», «le parole che io vi dico non sono mie» «Il Padre compie in me le sue opere». Oggi invece la formula viene a significare che in Gesù Cristo esiste un unico soggetto divino operante con un’unica coscienza e libertà. Questa ultima concezione è contro l’esplicita affermazione dei Concili Costantinopolitano II (553) e Costantinopolitano III (661662) secondo i quali nel Verbo incarnato occorre distinguere l’attività divina soggiacente con la corrispettiva libertà e l’attività umana libera che la esprime a livello storico. Le due nature, infatti, quella umana e quella divina con le loro attività restano distinte, anche se in rapporto. Chi accentua l’unica persona divina di Cristo, dato il cambiamento avvenuto nel significato del termine persona, rischia di non considerare Gesù come creatura e di attribuirgli esclusive funzioni divine. Gesù ci avrebbe salvato in virtù di una costituzione personale divina. Talmente unica da essere irrepetibile. L’esclusiva funzione salvifica dipenderebbe da questa sua struttura personale. limiti dei modelli soteriologici Ad analoga conclusione perviene chi resta ancorato alla soteriologia ascendente. Se infatti si pensa che Gesù in virtù dell’unione ipostatica è stato in grado di meritare la salvezza divina per tutti, nessun altro può supplire o completare la sua azione. L’argomentazione è stata espressa nella forma logica più rigorosa da S. Anselmo di Aosta nell’opuscolo Perché un Dio uomo, esaminato nel numero scorso (v. Rocca n. 15/2006, p. 52). Ma essa è stata diffusa nelle scuole di teologia, nella catechesi e nell’omiletica, al punto da costituire, per molto tempo, l’insegnamento corrente della chiesa. Se la salvezza consiste nell’offrire a Dio la soddisfazione per i peccati degli uomini e se solo un uomo/Dio è in grado di offrire tale soddisfazione, non può esistere altra alternativa alla salvezza operata da Cristo. Analogamente se la salvezza consistesse nell’offrire a Dio il prezzo del riscatto dell’uomo e se solo un uomo/Dio era in grado di offrire tale prezzo con il suo sangue, allora solo la morte di Gesù costituisce l’evento necessario ed esclusivo per la salvezza. Queste argomentazioni, anche quando non sono esplicitate, soggiacciono a molte prese di posizione sulla mediazione unica di Cristo e sulla necessità per tutti gli uomini di riferirsi alla sua azione. Per cui anche chi ammette che la rivelazione di Dio possa essere realizzata e di fatto sia stata attuata nella storia anche attraverso numerosi altri mediatori, nell’ambito della salvezza esclude che vi possano essere mediatori autonomi e indipendenti da Gesù Cristo. Ma i modelli teologici soggiacenti sono in revisione da molto tempo. Molti fra i teologi cristiani affermano che le religioni possono essere non solo luoghi di rivelazione di Dio ma anche ambiti di salvezza. Il dono di Dio è talmente ricco da poter assumere molte modalità secondo la molteplicità delle culture umane. Ogni struttura religiosa perciò per capire la sua stessa tradizione deve mettersi in ascolto anche delle altre. Per i cattolici il Concilio Vaticano II lo ha affermato in modo molto chiaro quando ha scritto: «È dovere di tutto il popolo di Dio, in particolare dei pastori e dei teologi, di ascoltare il linguaggio degli uomini del proprio tempo, siano essi credenti che non credenti, per capire la verità rivelata, per approfondirla e per saperla esprimere in modo più adeguato» (GSp 44). Ciò tanto più vale dei linguaggi religiosi. ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 TEOLOGIA tazione della realtà e strumento di comunicazione tra le persone è inadeguato. Le varie religioni quando entrano in dialogo parlano di esperienze spesso incomparabili e con modelli culturali difficilmente armonizzabili. Si confrontano su realtà a cui ciascuno accede secondo punti di vista molto diversi e che esprime con linguaggi non omogenei. Non sappiamo a che cosa di fatto corrispondano le immagini di Dio che le diverse religioni presentano e a cui si rifanno le persone nella loro esperienza. Non sappiamo a che cosa corrisponda la tensione che ogni persona esprime nella pratica religiosa e in che cosa consista la salvezza da lei attesa. Alcuni esasperano questo dato al punto da precludere ogni possibilità di dialogo sui contenuti. Per George Lindbek, ad esempio, le formule religiose sono intraducibili e incomunicabili fra di loro: «Le esperienze che le religioni assumono o modellano sono altrettanto varie quanto gli schemi interpretativi che incorporano. Coloro che aderiscono a religioni differenti non tematizzano diversamente la loro esperienza, ma hanno esperienze diverse» (The Nature of Doctrine, Westminster Press, Philadelphia 1984, p. 40). Un terzo dato comune a tutti i teologi cristiani è che la salvezza è offerta da Dio gratuitamente e nessuna prestazione umana è sufficiente a realizzarla. Esistono però condizioni per accoglierla. Nell’ambito cristiano questa nuova condizione ha messo in discussione alcuni modelli teologici relativi alla struttura di Cristo, alla sua missione e alla salvezza da lui offerta, che sembravano pacifici e universalmente acquisiti. Carlo Molari 55 CINEMA EVA E LE SUE SORELLE ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Lidia Maggi 56 A ppena qualche attimo prima di morire, appoggiata al nocciòlo del giardino, l’Annina emerse dall’ombra in cui la sua mente si era nascosta da molti anni, e all’improvviso, in quei brevi istanti che la morte ancora le concesse, come se fosse in volo rivide la casa col pino… e sua madre partorirla urlando di un dolore che le sembrò perfetto, e solo alla fine, quasi spiando, scorse la propria testa uscire da quel corpo rosso e gonfio dallo sforzo...». (U. Ricciarelli «Il dolore perfetto») Si dice che una persona, nel momento della morte, ripercorra tutta la sua vita, fino al parto. Non di rado il linguaggio della morte e quello della nascita si intersecano. Per il credente il morire è un passaggio, un parto verso una nuova realtà. Nella Bibbia il parto può essere evocato per ritrovare fiducia in Dio nei momenti di crisi: «Signore, tu mi hai tratto dal ventre di mia madre e tra le sue braccia mi hai fatto riposare, a te sono stato affidato fin dalla nascita, fin dal ventre di mia madre tu sei il mio Dio» (Salmo 22,10-11). Il salmo che accompagna Gesù sulla croce accosta all’urlo «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?!» la memoria della nascita. Accanto all’esperienza d’abbandono rimane il ricordo dell’amorevole accoglienza nelle braccia della vita. Questa supplica dove la morte è descritta con immagini crude (il verme, la fossa) intreccia preziosi rimandi con il parto. Il salmo costruisce un richiamo ulteriore tra l’esperienza di salvezza del popolo di Dio e la nascita dell’orante descritta nei versi sopra citati. «In te sperarono i nostri padri: hanno sperato e li hai condotti in salvo, ti chiesero aiuto e li hai liberati, si sono fidati e non sono rimasti delusi» (Salmo 22,5-6). Siamo abituati ai canti biblici che ripercorrono le grandi gesta divine per invocare liberazione. Meno scontato è invece il parallelo con la nascita fisica del salmista. Due esperienze di uscita. Due storie di nascita. Dalla schiavitù alla libertà, attraverso cui nasce il popolo che Dio si è scelto; e dal ventre materno attraverso cui nasce il credente. In entrambi i casi compaiono immagini e sentimenti legati al parto. Non è forse l’esodo, esperienza di acque che bisogna attra- versare per arrivare alla libertà e passaggio doloroso dal giogo egiziano? Il dolore del salmo, simile alle doglie di una partoriente, è la ragione che muove la supplica. Dio è per l’orante una levatrice che aiuta a far uscire il neonato e lo deposita sul seno materno. Anche nella nascita di Israele, Dio sembra assumere gli stessi tratti: facilita l’uscita. Israele riconosce nell’esodo l’inizio fondante della propria storia. Facendone memoria, di continuo confessa che nasce dall’esperienza di un passaggio. Il «braccio forte e potente» di Dio assomiglia più alle braccia salde di una levatrice che a quelle di un guerriero. Del resto occorrono movimenti forti e decisi per aiutare una vita a nascere. Alcune operazioni nel parto richiedono sforzo ed energia. Le levatrici in genere sono donne vigorose! Ce lo rammenta la vicenda di Sifra e Pua, le ostetriche ebree che si oppongono al genocidio proprio all’inizio dell’esodo. L’immagine del Dio-levatrice non è nuova di per sé: lo stesso Fromm aveva letto l’episodio del giardino e la cacciata di Adamo ed Eva con le categorie della nascita, evitando di parlare di maledizione e mostrando come l’uscita dal paradiso terrestre fosse il necessario passaggio per l’autonomia. Il giardino è in questa interpretazione l’utero materno, dove Adamo ed Eva sono formati. La cacciata è il parto e il conseguente taglio del cordone ombelicale. Anche nei racconti primordiali della Genesi, Dio appare dunque come la grande levatrice che facilita l’uscita, il venire al mondo dell’umanità. La Scrittura tra i tanti linguaggi per dire Dio ci presenta anche l’immagine della levatrice. È questo particolare modo di raffigurare il divino che ci permette di richiamarlo alle sue responsabilità di cura e di rivolgergli una preghiera: Dio, ostinata levatrice, così come hai creato la luce, accompagnaci nel venire alla luce; così come hai creato la vita, accompagnaci nel venire alla vita; e se non puoi proteggerci dalla sofferenza del vivere, accoglici almeno nelle tue braccia vigorose, non solo quando moriamo. Non lasciarci precipitare: donaci la fiducia di chi sa di essere stato affidato alla madre terra, e non si sente come sbattuto nel duro suolo. È di certo un film per spettatori particolarmente vicini al genere «country», e insieme al sentimento del ricordo. Il country – non siamo specialisti –, ma sappiamo che è quel tipico modo di cantare e suonare che negli Stati Uniti ripercorre le vie musicali di vecchie ballate popolari, alcune di origine irlandese, addirittura dai tempi del West. Robert Altman, regista ultraottantenne che conosce e ama il suo Paese, senza nasconderne – neppure a se stesso – difetti e limiti, anzi volgendo spesso uno sguardo critico sulla vita di ogni giorno, è il regista di Radio America . E se quasi ogni film di Altman comprende e conclude in sé un proprio tema, Radio America è appunto un dolce-amaro omaggio alla vecchia e tradizionale e amata provincia di un profondo territorio di campagna. Il film è centrato su una trasmissione radiofonica di grande successo con almeno trenta anni di vita, A Prairie Home Companion, che viene realizzata in un auditorio aperto al pubblico e che è, stando al film, alla sua ultima puntata. La sala sarà abbattuta, una banca o un supermercato o un garage ne prenderanno il posto. Cantanti, imitatori, rumoristi, musicisti, per lo più alquanto anziani sono al loro ultimo show, e c’è anche chi ancora non ne è al corrente, e qualcuno non saprà più come lavorare. Battute spiritose e originali, altre banali o volgari si succedono con un ritmo a mitraglia. Come sempre in Altman l’ironia e il gioco non tolgono spazio all’amarezza; e c’è perfino, tra i personaggi, uno degli amici più cari e avanzati in età che, appartatosi in attesa di un incontro amoroso, muore d’infarto. Numerosissime sono le figure che si incontrano die- Passato e Presente Radio America tro le quinte, magari fino all’ultimo momento distratte da preoccupazioni o da chiacchiere familiari e personali, poi all’ultimo secondo utile perfettamente in grado di eseguire il proprio numero e di rispondere al pubblico presente in sala e a quello che ascolta alla radio. Che dire delle straordinarie «sorelle Johnson», Jolanda e Rhonda, rispettivamente interpretate da Meryl Streep e da Lily Tomlin? Suonano e cantano (veramente, imprevedibilmente straordinaria Meryl Streep) ricordando, nella trasmissione, la vecchia madre e commovendosi come si deve ri-cantando le canzoni che lei stessa insegnava loro. Come non ricordare la ballata del Fiume Rosso, ascoltata sullo sfondo musicale di tanti film? Come non ricordare la canzone western addirittura sull’aria de «La donna è mobile» del verdiano Rigoletto? Non so se a cinquantasei anni Meryl Streep voglia ora intraprendere una nuova carriera di cantante dopo i grandi successi come attrice (a questo riguardo, per quel che possono significare, non vanno trascurati gli Oscar e le numerose candidature): certamente molti cantanti di professione avrebbero tutto il diritto di temere – per concorrenza – il suo ingresso fra di loro e la sua popolarità. Ma Meryl Streep non fa differenza fra un modo e l’altro di lavorare nel campo dello spettacolo e di essere presente in quella parte di America che le è cara e in quel significato del suo Paese che lei stessa stima. Ha avuto infatti occasione di dichiarare: «sapete il male che penso di Bush e della politica americana, ma sono felice che il film di Altman racconti il cuore dell’America vera e dimenticata, quel sano conservatorismo che sfida il cinismo attuale. E sono felice che giri il mondo una pellicola che, per una volta, non racconta solo quanto siamo cattivi». Nel film c’è un cosiddetto «tagliatore di teste» che rappresenta coloro che hanno ormai acquistato il teatro e che vogliono abbatterlo per interessi di mercato. Per contrastare e simbolicamente eliminare il «tagliatore di teste», Altman inventa una specie di angelo, la bella Asfodelo tutta vestita di bianco, un po’ vero, un po’ immaginato, un po’ fantasma, un po’ simbolo, un po’ donna da sogno e d’amore. È una figura che attraversa tutto l’arco del film e che arricchisce il racconto di sentimento e di pensiero, affinché i vari brani di musica e di canto non costituiscano una semplice successione di carattere spettacolare. E a questo riguardo va ricordato l’apporto sostanziale dato al film dalla presenza di Garrison Keillor, che è il vero conduttore dello show autentico, in trent’anni di lavoro, animatore cantante e conduttore, ma soprattutto – qui – sceneggiatore del film. Film che Altman ha diretto, secondo il suo costume, con una libertà di tecnica e di inventiva assolutamente straordinaria: «la macchina da presa? Erano almeno dieci – ha dichiarato la Streep –; non ho mai lavorato con tanti obiettivi addosso. Ho provato tantissimo, con Lily Tomlin, abbiamo passato un intero pomeriggio a casa mia per entrare nella parte delle sorelle, costruirci un passato e una madre di cui parlare, entrare in intimità. [...] Abbiamo recitato così il dialogo a tre fra Lily, me e l’attrice che interpreta mia figlia depressa e dedita a poesie sul suicidio. Ma chi poteva ricordare tutte quelle battute? Ci siamo lasciate andare, dove non arrivava la memoria ci arrangiavamo con l’inventiva, ci abbiamo messo del nostro e alla fine abbiamo pianto insieme. Certo, i ricordi d’infanzia sono serviti e anche l’esperienza con quattro figli, di cui tre femmine». Si è accennato a Garrison Keillor, figura popolarissima negli Stati Uniti e – anche perché nel campo della radio –, sconosciuta in ogni altro Paese. Keillor, sessantaquattro anni, è in realtà attore, cantante, compositore, intrattenitore di straordinarie qualità, disinvolto e intelligente, e non ha certamente le fattezze del divo. A rigor di logica non sappiamo neppure se l’ultimo spettacolo qui celebrato del suo show corrisponda alla realtà o sia soltanto una invenzione di sceneggiatura. Ma in un film del tutto corale come questo (o, per ricordare altri titoli di Altman, come Nashville, come America oggi, come Gosford Park), in cui la realtà si mescola di frequente con la lirica, col sentimento, con l’invenzione, quel che conta alla fine è la riuscita piena di una grande opera cinematografica. ❑ 57 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Dio, grande levatrice Giacomo Gambetti Roberto Carusi ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 L a scuola di teatro d’animazione Fiando prende nome dal marionettista Giuseppe Fiando, che per primo – nel 1800 – portò a Milano la maschera piemontese di Gerolamo. Da quest’ultimo prese a sua volta nome il centralissimo Teatro Gerolamo, dono della municipalità milanese all’artista che riusciva a far sognare grandi e piccini con melodrammi, drammi storici, balletti, pantomime e vaudevilles: tutti interpretati da «attrici ed attori con fili». Ad uno di quei successi ottocenteschi (riproduzioni in scala minore dei trionfi scaligeri a grandezza naturale) Eugenio Monti Colla, erede della storica Compagnia Carlo Colla e Figli, che fu al Gerolamo del primo Novecento e della quale è regista e direttore artistico, si è ispirato – nell’anno accademico appena concluso – per il compito assegnato a quattro giovani donne allieve del corso della Fiando. Al loro entusiasmo, con il contributo di una decina di docenti delle varie discipline artistiche, ha infatti «commissionato» la messinscena di un classico della Compagnia: Prometeo ovvero la rigenerazione della specie umana (con Gerolamo seguace di Prometeo maestro degli uomini). Un’azione mitologica in 5 quadri, ridotta – ovviamente – a misura di un edificio marionettistico ad altezza d’uomo, completo di scenografie, sipario e di una decina di marionette alte non più di una trentina di centimetri. Ad animare le marionette e a dare loro voce – dal vivo, come si 58 Giuliano Della Pergola Mariano Apa Impara l’arte... dice oggi – le quattro allieve, autrici anche chi delle scene, chi dei costumi, chi dei testi scritti e interpretati, chi della ricerca delle musiche di scena più appropriate. Un tema, certo, non facile: ricco com’è di figure allegoriche, sostenuto – più che dai dialoghi – dai movimenti. Va detto che solo nella stagione 2005/2006 (che ha visto i Colla dar ligneo corpo e sorprendenti macchinerie al mozartiano Sogno di Scipione) poteva nascere l’idea di mettere le quattro artiste con un soggetto tanto astratto a prima vista, alla prova in realtà tanto concreto nella sua ben congegnata rappresentazione. Per tutte e quattro le neomarionettiste una grande soddisfazione, per più di una forse la scoperta di una vocazione, in qualche caso la conferma di un apprendistato già effettuato brillantemente durante una delle tante tournées dei Colla in giro per il mondo. La platea, divertita come a un vero spettacolo e non soltanto a un saggio, ha respirato – nonostante comprensibili e lievi improprietà – il profumo antico e nuovo di un gran mestiere. Lo si è sentito nei tempi di controllata ieratica lentezza, nella tenerezza con cui erano manipolati i fili e ogni elemento della attrezzeria, nel tacito coordinamento delle abilità individuali nel prodotto finale collettivo. Vale la pena di ricordare i nomi delle artiste meritatamente licenziate: Debora Coviello, Marzia Gambardella, Flavia Pozzi, Antonella Villani. ❑ FOTOGRAFIA MOSTRE Bose uando la Parola è vissuta nella Comunità «lo spazio liturgico è lex orandi alla pari di un testo liturgico» (Goffredo Boselli) e le individualità vengono esaltate e la sapienza dell’umiltà è lo spazio del servizio entro cui l’eros pentecostale informa la Pastorale non come burocrazia della prassi ma come comportamento della Testimonianza. E la riflessione sullo spazio sacro diventa argomento dell’identità cristologica. È stato a Bose nel 2003 (31 ottobre/2 novembre) che si è iniziato un cammino di incontri ad altissima concentrazione e qualità di intenti – e di risultati di cui si documenta negli «Atti», per la cura di G. Boselli, edizioni Qiqajon della Comunità di Bose –, sull’impulso di una scadenza non occasionale, ma davvero da tutta la Chiesa partecipata, del quarantesimo della Sacrosanctum Concilium. Con il sostegno della Cei, e in paricolare della direzione dell’Ufficio nazionale dei beni culturali ecclesiastici, nella persona di Mons. Giancarlo Santi e, oggi, di don Stefano Russo; il Priore di Bose Enzo Bianchi e Mons. Valenziano, Debuyst, De Clerck, Gerhards, e il monaco di Bose Goffredo Boselli, hanno proposto il convegno su: «Altare. Mistero di presenza, opera d’arte» e «L’Ambone. Tavola della parola di Dio» (2-4 giugno,2005) e quindi in questo 2006: «Lo spazio liturgico e il suo orientamento» (1-3 giugno). Mentre nel prossimo anno 2007 si terrà il V Convegno, il quale (dal 31 al 2 giugno) «proseguirà la ri- flessione sullo spazio liturgico affrontando i temi del battistero, del luogo del sacramento della penitenza e della riserva eucaristica», come si è espresso Enzo Bianchi, riassumendo i lavori dell’attuale convegno sull’Orientamento («L’Osservatore Romano», 14 –VI-2006, pag. 7). In apertura al convegno sull’Ambone Enzo Bianchi, Priore della Comunità di Bose, tenendo di conto la definizione di «non-luogo», esplicitata da Marc Augé («Nonluoghi», Milano 1993), così si è espresso: «Se lo spazio liturgico viene percepito e vissuto come un ‘non-luogo’, non solo diviene spazio di non incontro tra gli uomini, ma anche spazio di non incontro tra uomo e Dio. Nulla, dunque, ci impedisce di pensare che quella diffusa domanda alla quale cerchiamo di dare risposta con questi nostri convegni, esprima in fondo il bisogno oggi più che mai impellente di formazione e di approfondimento affinché le nostre chiese siano degli autentici luoghi di fede, evitando così il tragico pericolo di trasformarsi in veri e propri ‘non-luoghi’ della fede.Una chiesa è spazio per la celebrazione della fede quando è veicolo e strumento di conoscenza e di comunione tra l’uomo e Dio, e degli uomini tra loro. Solo così ‘avviene’ la vera bellezza cui deve tendere lo spazio liturgico; non solo quella bellezza, come dice Dionigi l’Areopagita, ‘che crea ogni comunione’ ma, anche all’inverso, quella bellezza che la comunione, la koinonia con Dio e con i fratelli può creare». ❑ Alberto Pellegrino Dai bizantini a Cimabue P isa, museo san Matteo. Una mostra d’importanza davvero particolare illustra il passaggio dall’arte bizantina, iconica, statica, schematica, alla più differenziata arte italica che andò formandosi in periodo medievale in Toscana. La tradizione pittorica orientale ci restituiva un’immagine religiosa fissa, definita, ripetitiva, monocorde. La sua verità stava nella sua stessa tradizione. Nell’Italia medievale invece inizia un «discostamento» dall’icona. La figura acquista lentamente più i caratteri di un’immagine antropologica. Gesù in croce è studiato come un uomo che sforza i muscoli delle braccia: e allora tre muscoli diversi tra di loro compaiono a riempire quelle braccia tese dal dolore per i chiodi sulle mani. Il braccio viene studiato partitamente. Poi è il caso dell’addome: il peso del corpo del Crocifisso pesa sui lombi: allora ecco che la pancia si gonfia e gonfiandosi si ripartisce in quattro o sei sezioni. Poi il volto si contrae in smorfie o in espressioni dolorose. Allora l’icona perde il suo carattere modellistico ed è il pittore che interpreta, dapprima in modo timido, poi sempre più liberamente, la tragedia del Golgota. Lo stesso dicasi per la Madonna: dalla stilizzata forma mariana con in grembo il piccolo Messia, via, via la pittura rivela una relazione tra madre e figlio. La coppia non è più composta da una madre più un figlio, ma da un tutt’uno nella differenza dei ruoli. La Madonna dialoga con il figlio e il figlio le sta in braccio assumendo posizioni diverse: si protrae in avanti, predica, alza un dito della mano, sorride, beve il latte dal seno… L’espressione iconica viene sostituita da una relazione a due, dove il pittore immagina forme e differenze antropologiche. Il Rinascimento avrebbe portato a compimento questo studio, ma la bella mostra pisana, nelle austere sale del museo san Matteo, per l’occasione illuminate molto adeguatamente, ci illustra quel primo passo che va dalla teologia all’antropologia e che racchiude in nuce un lunghissimo processo culturale. Per l’occasione sono giunte poi da Londra e da New York due preziose formelle di Cimabue, una Madonna in trono col bambino e la Flagellazione di Gesù alla colonna. Quando poi s’arriva a Giotto, non è solo passato un mezzo secolo: è l’insieme della pittura che va mutando e maturando. L’irruzione della psicologia diventa una ricerca nella ricerca e ogni volto di santo acquista caratteri umani specifici. E’ di Giovanni Pisano un Crocifisso in legno policromo (datato verso il 1300), che da solo merita la visita della mostra. Si tratta di un gesto artistico rivoluzionario e geniale. Normalmente posto nella chiesa pisana di san Nicola, questo Crocifisso mette in evidenza in forma scultorea quello che prima si diceva per la pittura. E la scultura riesce, ancor meglio dei soli colori, a illustrare la qualità dell’arte che, assumendo Gesù come modello, laicizza la figura del Messia per potere studiare l’uomo. Siamo ancora in ambiente strettamente medievale e certi temi sarebbero maturati solamente dopo, eppure è commovente potere capire questo movimento dell’arte, che a Pisa e in altre città toscane (a Siena con Duccio, a Firenze con Giotto) avrebbero cambiato la storia dell’immagine sacra. ❑ Illusione o rivelazione R icompare dopo 25 anni il volume La fotografia. Illusione o rivelazione (Il Mulino, 1981) ristampato dalla Editrice Quinlan (www. aroundphotography.it), una giovane casa editrice bolognese che ha il merito di riproporre un’opera che ha segnato una svolta nel campo degli studi fotografici, perché ha posto la fotografia in relazione con le altre arti visive, con la letteratura e il cinema, con le maggiori teorie estetiche dell’Ottocento e Novecento. Il volume contiene due saggi fra loro complementari: il primo è di Francesca Alinovi, giovane e validissima studiosa di estetica e storia dell’arte presso l’Università di Bologna, che purtroppo sarebbe tragicamente scomparsa dopo appena due anni; il secondo è di Claudio Marra, allora giovanissimo ricercatore e oggi affermato autore di importanti saggi, nonché docente di Storia della Fotografia presso il Dams di Bologna. Nel saggio La fotografia: l’illusione della realtà la Alinovi, dopo una approfondita analisi rapporto tra realtà e illusione nella fotografia, traccia un particolare percorso storico che parte dai ritrattisti dell’Ottocento, i quali scoprono involontariamente quanto l’immagine sia lontana dalla realtà, ma nasca da un «ibrido miscuglio surreale» di elementi diversi; segue una rivalutazione del Pittorialismo nelle sue componenti di invenzione e di immaginazione e una più precisa collocazione critica della fotografia dell’età vittoriana, che ha i suoi maggiori esponenti in Lewis Carroll e Julia Margaret Cameron; altrettanto interessante è la classificazione come «fabbrica dei sogni» della fotografia esotica che segue la pittura e la narrativa sulla via dell’Oriente. Il primo Novecento si divide tra revivalismo ed erotismo passando attraverso neomediovalismo gotico, Art nouveau e surrealismo. Questo percorso critico si conclude con le opere di Duane Michals, maestro della Narrative Art, che riesce a materializzare sogni, pulsioni inconsce, deliri sessuali, emozioni mistiche dell’uomo contemporaneo e con la scoperta di Mapplethorpe, genio fotografico allora pressoché sconosciuto in Italia. Da parte sua Marra prende in esame i legami esistenti tra fotografia e filosofia, letteratura e psicanalisi, quindi analizza l’apporto dato allo sviluppo della fotografia da Stieglitz, dal futurismo, dal surrealismo, dal fotomontaggio, dall’arte concettuale, pop, body, narrative art; quale fondamentale rapporto vi sia infine tra invenzione e realtà in autori come Hine, Sander, Atget, Salomon, Brassai, CartierBresson e Arbus. ❑ 59 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 ARTE TEATRO SITI INTERNET MUSICA Enrico Romani I ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 60 rivalità violenta tra le varie posse e crew, con gli stessi interpreti di gangstarap (Tupac morirà ucciso) che diventano interpreti di storie reali non propriamente esemplari. C’è poco da fare: il duro mondo dei giovani afro-americani, giamaicani e portoricani dei ghetti delle grandi città statunitensi, il mondo che già era stato descritto efficacemente da Dennis Hopper nel film Colors (1987), e che viene aggiornato da 8 Mile di Curtis Hanson (2002), con Eminem, è un mondo di degrado e povertà. Che esso sia riuscito a far nascere ed amare una musica dai giovani di tutto il mondo è il consueto «miracolo» degli emarginati a stelle e strisce, che fin dal blues, dal jazz, riuscirono ad imporre le loro sotto-culture musicali come dominanti. La musica rap si è poi di nuovo fusa con un genere che già abbiamo visto essergli vicino in passato, l’heavy metal, dando vita al nu-metal di gruppi come Korn, Limp Bizkit e Linkin Park, ma essa stessa è divenuta un contenitore onnivoro di musica nera e non solo, trovando poi in ogni continente e paese risorse proprie. Pensiamo a quanto sia diverso qui da noi il rap di Lorenzo Cherubini, alias il già citato Jovanotti, finalmente adulto e ultra-consapevole, con quello di Frankie Hi NRG, grande affabulatore, o con quello istrionico, «zappiano» e anche un po’ glam di Caparezza! Certo, il linguaggio del rap americano, ma anche un po’ di quello internazionale, è stato, è, e sarà sempre molto esplicito, e la scritta «Parental Advisory» continuerà a troneggiare sulle copertine dei dischi, ma i giovani sono così, e la gioventù si attraversa una volta sola nella vita. ❑ Pubblicità online I dati più eloquenti vengono, tanto per cambiare, dagli Stati Uniti, ma c’è da scommettere che le tendenze là in atto siano anticipazioni di quanto succederà anche da noi: la pubblicità in Internet sta aumentando esponenzialmente i suoi volumi e, pur ancora appannaggio di televisione e giornali, si sta candidando ad essere (temibile) alternativa o, quanto meno, (flessibile) integrazione di quella tradizionale. I numeri parlano da soli: nel 2005, la pubblicità su Internet venduta negli Usa ha raggiunto la cifra record di 12 miliardi di dollari, contro i 9,6 miliardi del 2004 e i 6 del 2002. Il dato assume valenze considerevoli se si tiene conto, tra l’altro, che uno spot della durata di 24 ore sul portale Msn.com della Microsoft può costare da diverse centinaia di migliaia di dollari fino a un milione (mentre solo 4 anni fa costava tra i 25 e i 50 mila dollari): per avere un parametro di riferimento, si consideri che 30 secondi di spot nel corso delle più seguite fiction televisive della Abc costano 547 mila dollari, mentre una pagina sul magazine «People» viene venduta a 228 mila dollari. Sale la domanda, sale il prezzo. L’appeal dello spot online si è fatto talmente forte che grandi protagonisti del web come Google, Yahoo!, Aol di Time Warner, Msn di Microsoft hanno esaurito tutti i loro banner per i prossimi 18 mesi. Nondimeno, il settore della pubblicità online rappresenta soltanto il 3,7% delle spese pubblicitarie nel mercato americano (dati relativi al 2004), mentre le prime 50 web company raccolgono il 96% delle risorse investite in pubblicità; a campeggiare, su tutti, è Google, che su tali entrate basa più del 95% del suo fatturato. I dati generali sono ulte- riormente confermati da ricerche di settore, come ad esempio quella realizzata dall’«Economist», secondo la quale le attività di marketing e pianificazione per i prossimi due anni da parte di un campione di 228 aziende di tutto il mondo (70 delle quali fatturano ogni anno almeno 5 miliardi di dollari) sono in netta crescita: il 72% dei rispettivi top manager ritiene che tra due anni Internet sarà la piattaforma sulla quale pianificare ed eseguire le principali campagne di comunicazione, mentre il 30% delle aziende pensa già di spostare parte del «budget promozione» dai media tradizionali a Internet. Con conseguenze non di poco conto, visto il fiume di danaro che si riverserà in rete. Di sicuro Internet inizia a sovvertire già oggi modelli e criteri, anche economici, della pubblicità. Bill Gross, ad esempio, ha inventato e poi ceduto a Yahoo! il metodo dei link sponsorizzati, in forza del quale il pagamento delle inserzioni avviene solo nel momento in cui il visitatore clicca sul link sponsorizzato. Offrendo un dato certo e un valore sicuro, il sistema ideato da Gross sta attirando da 5 anni a questa parte investimenti pubblicitari crescenti, a tassi prossimi al 20%. Senza dire che c’è chi sta già pensando ad un sistema di pagamento della pubblicità legato all’effettivo acquisto da parte dell’utente della merce reclamizzata. Afflitti come già siamo da pubblicità che ci bombarda da ogni dove, proprio non auspichiamo una rete lordata di spot. Ma una pubblicità un po’ più «intelligente», che almeno su Internet offra un briciolo di «conoscenza», è pretesa o aspettativa eccessiva? Ci auguriamo che i fatti stiano dalla nostra parte. ❑ Miklós Vámos Il libro dei padri Einaudi, Torino 2006 pp. 453 Nell’intreccio complesso ed avvincente del romanzo, in cui si succedono lessici arcaici e curiose commistioni linguistiche odierne, Vamos narra la saga di una famiglia ebrea ungherese nel suo comporsi e sfaldarsi e ricostituirsi dal 1700 ai giorni nostri. Sullo sfondo l’avventuroso e drammatico svolgersi di incursioni soldatesche, epidemie, catastrofi naturali, pogrom che costringono i diversi membri della famiglia «sulla via delle tribolazioni» a peregrinare da un paese all’altro dell’Europa spingendosi perfino in America, nell’ostinata volontà di «non rinunciare alla speranza». Con industriosa capacità essi riescono a passare dalla fame alla vita agiata, dal carcere a incarichi politici prestigiosi e imparano lingue e si adattano a costumi diversi, modificano anche il cognome, ma in fondo non perdono mai i legami con la propria origine, grazie alla puntuale registrazione di eventi familiari, gioie e lutti, affari e paure curata dai primogeniti della famiglia che si tramandano di padre in figlio il compito di annotarli nel misterioso «Libro dei padri», volume che si conserva indenne nonostante le avversità che si abbattono sulla famiglia. Ogni primogenito è dotato di memoria prodigiosa e, nei momenti clou della vita, ha in visione i ricordi del passato e la premonizione del futuro . Fatti ed eventi apparentemente insignificanti vengono così ricomposti alla luce di tali squarci di chiarezza e restano vivi oltre lo spazio del tempo e al di là della caducità della vita. Abile e attento descrittore di ambienti e di caratteri, Vámos conduce il lettore nell’atmosfera stregata di orizzonti fiabeschi e affascinanti. Luigina Morsolin Luca Bressan e Luca Diotallevi Tra le case degli uomini presente e “possibilità” della parrocchia italiana Cittadella Editrice, Assisi 2006, pp. 358 Per noi, reduci da una lunga e accesa campagna elettorale e quasi assuefatti alle «semplificazioni terribili» della propaganda, questo saggio rappresenta un bagno benefico e ristoratore perché non solo non ci nasconde la complessità della situazione pastorale, ma la considera una sfida da raccogliere, fino in fondo, senza cedere ai «luoghi comuni». La diversa competenza dei due Autori, sociologo l’uno (Luca Diotallevi), teologo e pastoralista l’altro (Luca Bressan), adusi entrambi ad un lavoro multidisciplinare, dà vita ad un percorso di ricerca che ha come oggetto la parrocchia italiana, letta nel suo presente, ma anche scandagliata nelle «possibilità» che si intravedono. Il metodo scelto è quello di una ricerca sociologica e teologica, in cui le due discipline, «diverse ed irriducibili l’una all’altra», rispettano i confini delle proprie competenze, ma nello stesso tempo si avvantaggiano dei risultati reciproci. Una prima parte si occupa del «significato socioreligioso della»vertenza-parrocchia» nel cattolicesimo italiano contemporaneo e quindi offre, in successione, una veloce ricognizione su alcune situazioni ed alcune dinamiche in atto nel sistema religioso in Italia, un’analisi dei modelli di parrocchia, un’interpretazione del significato sociologico della crisi della parrocchia cattolica di oggi in Italia. Le chiavi di lettura prescelte si rivelano, al proposito, molto feconde. La logica di appartenenza «inclusiva» della parrocchia fa infatti emergere ancor più la logica «esclusiva» dei nuovi movimenti ecclesiali. Nasce da qui una domanda fondamentale: che cosa si intende per esperienza di una religio- ne «di chiesa»? Scartare la vecchia contrapposizione tra «chiesa» e «sette» non significa rinunciare ad identificare un’appartenenza religiosa «di chiesa», distinguendola da altri tipi di appartenenza religiosa. Questo itinerario, in effetti, permette di riconoscere le diverse idee di parrocchia e di cogliere il conflitto di culture e di poteri che è all’origine della «vertenzaparrocchia». La parrocchia, ad una lettura sociologica, appare infatti in buona salute: essa svolge nel sistema religioso dell’Italia contemporanea il ruolo di principale e più diffuso sportello cui ci si rivolge per il consumo di beni religiosi ed uno dei principali riferimenti di identificazione religiosa. Dove sta allora il problema? Davanti alla diversificazione della domanda religiosa la strategia adottata è stata quella di una diversificazione dell’offerta, ma dentro un sistema che prevedeva una «prima gamba» (la parrocchia) e molte «seconde gambe» (tra cui i «nuovi movimenti ecclesiali»). Ora si tratta di decidere se questa situazione deve essere conservata o se – seguendo la metafora – la «prima gamba» diventa una qualsiasi delle «seconde gambe» e ancora se, davanti al proliferare delle «seconde gambe» si debba adottare l’ipotesi di tagliare e limare alcune di esse. Il sociologo, da parte sua, deve rilevare che «la rete parrocchiale è oggi in Italia il più diffuso e consistente network di produzione e di regolazione dei flussi di identificazione e di partecipazione religiosa». È questa realtà che «garantisce al cattolicesimo italiano, anche oggi, di essere un fenomeno religioso del tipo ‘di chiesa’» (pp.200-201). Nella seconda parte del saggio a prendere la parola è il pastoralista che offre una lettura teologica dei cambiamenti, illustra la identità multidimensionale della parrocchia italiana (come appare, come si autointerpreta, come si autogestisce e come si orienta), e si concentra infine sulla prospettive per il futuro. È indubbio che le trasformazioni avvenute obbligano la parrocchia a non fun- zionare più come prima. La maggior parte della gente, infatti, ha realizzato percorsi autonomi per istituire la propria relazione personale col divino: i fedeli sono diventati pellegrini, i praticanti regolari si sono trasformati in ospiti più o meno occasionali , i parrocchiani si sono trasformati in pendolari , che partecipano per qualche tempo, per poi allontanarsi e tornare più avanti. In questo contesto solo la parrocchia sembra rappresentare uno «strumento» capace di dare visibilità al cristianesimo dentro la società, di rappresentarlo sul territorio, di assicurargli un’anima popolare e di offrire capillarmente l’annuncio del messaggio evangelico. Proprio perché «non settaria» per definizione, essa presenta un carattere debole e poco marcato a livello identitario. Ma, paradossalmente, non è proprio questa «debolezza» il suo punto di forza? Non è grazie a questa che essa «realizza la convivenza e il riconoscimento reciproco di molte diversità, sia sociali che ecclesiali»? Istituzione ambivalente, essa è costretta così a vivere stabilmente in equilibrio precario. Ma è proprio questo il segno della sua eccezionale vitalità perché le consente di essere avamposto, luogo di integrazione, spazio sociale in cui si radica la memoria cristiana, forte e totalizzante, spazio attivo in cui viene resa presente e fatta vivere l’esperienza cristiana. Trasmettere, istituire ed abitare sono allora i tre verbi che rendono ragione della dinamicità della parrocchia, che è al tempo stesso una memoria, un corpo e una rete di processi di localizzazione. Tutto dipenderà, naturalmente, dalla «conversione pastorale» di cui sarà capace: se diventerà autentico spazio di relazione, se saprà parlare i diversi linguaggi della tradizione cristiana, se saprà accogliere, incontrare e accompagnare, ascoltare i bisogni della gente e dare una risposta concreta, essa apparirà come un «laboratorio ecclesiale del futuro». Roberto Laurita 61 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 Giovanni Ruggeri Il rap attuale l campionamento anche di singoli segmenti sonori tratti da brani già editi poneva ovviamente una questione di natura legale, essendo tutte le canzoni nella loro interezza coperte da copyright. Nel 1988 ci fu la svolta: James Brown, il «padre» in qualche modo dell’hip hop (questo termine viene alla fine usato come sinonimo di rap) e il più «saccheggiato», vince la causa contro Erik B. & Rakim che in Paid In Full del 1987 lo avevano «citato» a dismisura. Va ricordato comunque che i due ebbero il grande merito di introdurre il jazz nelle basi rap. Il conseguente pagamento dei diritti di tutti i dischi rap incredibilmente ampliò, invece di diminuire, il successo del genere, tanto che le major finirono col gestirlo in prima persona. La valanga hip hop cominciò a trovare proseliti in tutto il mondo (da noi un Jovanotti imberbe e stucchevole), e pur restando gli Usa all’avanguardia in tutto, il rap viene assorbito e proposto ovunque. Nei primi anni ’90 l’hip hop subisce poi la grande innovazione. Dee-jay che diventano sinonimo di garanzia qualitativa e commerciale come Dr. Dre (il guru di Eminem), RZA e il suo gruppo di rapper denominati WuTang Clan, ma anche vecchi MC come Ice-T e Ice Cube, il gangsta-rap di Snoop Dogg e Tupac (che deve il suo nome alle storie noir e malavitose declamate), in pratica tutta la scena «losangelina», introduce parzialmente, oltre alla batteria tornata di moda già anni prima, anche linee sonore finalmente create (elettronicamente e con strumenti tradizionali), e in più parti cantate. È il rap che conosciamo oggi, il rap che ha scatenato e scatena ancora la LIBRI Nello Giostra Si stanno «spegnendo» Mongolia ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 S tato dell’Asia centrale, privo di sbocchi sul mare, la Mongolia confina a nord con la Russia e a est, sud e ovest con la Cina. Grande tre volte la Francia, ha un’altitudine media di 1580 metri. E’ un Paese arido e povero d’acqua, ma con un ampia varietà di ecosistemi naturali diversi fra loro per clima, flora, fauna e terreni. Si passa infatti dalla montagna alla foresta, dalla steppa al deserto. Quasi un terzo del Paese è occupato dal Deserto di Gobi. Marco Polo ne «Il Milione» raccontava di una terra d’oriente abitata da nomadi e abili guerrieri che a cavallo conquistarono il mondo, arrivando fino alle porte dell’Occidente. Era il regno del leggendario Gengis Khan e del nipote Kublai, che riuscirono ad unificare tutti i clan presenti nel territorio creando un’entità politica che raggiunse il suo apogeo con la nascita dell’Impero mongolo nel 1206. Kublai Khan, una volta portata a termine la conquista della Cina, assunse il titolo di imperatore della dinastia cinese Yuan. L’impero mongolo, il più vasto che il mondo avesse mai conosciuto, si estendeva dalla Corea all’Ungheria e a sud fino al Vietnam. Verso la metà del XIV secolo i mongoli vennero cacciati da Pechino dal primo imperatore della dinastia Ming. La Mongolia venne così divisa in due regioni. La Mongolia orientale divenne dominio della dinastia Manciù che regnava sulla Cina nel XVII secolo. In seguito anche la Mongolia occidentale cad- 62 de sotto il dominio cinese. Nel 1911, la Mongolia proclamò la propria indipendenza, divenendo un protettorato russo governato da una monarchia teocratica, con a capo l’ottavo Jebtzun Damba (Buddha vivente). La rivoluzione russa del 1917 inflisse un duro colpo all’aristocrazia mongola. Nel 1921, un giovane ufficiale, Sükhe-Bator, riunì intorno a sé l’opposizione nazionalista mongola, costituì il Partito rivoluzionario mongolo, si alleò con i bolscevichi e, sostenuto dall’Armata Rossa, cacciò dal Paese le residue truppe cinesi. Nel 1924 fu proclamata la Repubblica Popolare di Mongolia, la seconda nazione comunista al mondo e la capitale divenne Ulan-Bator, «eroe rosso». La dipendenza della neonata Repubblica mongola da Mosca divenne da subito piuttosto forte. Con l’avvento di Stalin, la Mongolia si trovò catapultata all’interno del sistema totalitario russo, che dette inizio ad un periodo di purghe, persecuzioni religiose, distruzione di monasteri e uccisione di migliaia di monaci. Con la disgregazione dell’Unione Sovietica, prese inizio il processo di democratizzazione del Paese, che culminò nel luglio 1990 con le prime elezioni multipartitiche. Da allora la Mongolia è alle prese con una difficile transizione, che vede l’alternarsi al governo del Partito popolare rivoluzionario mongolo e una coalizione di forze di vaga ispirazione democratica. Popolazione: la maggioranza dei cittadini è di etnia mongola, ma ci sono anche minoranze di kazaki e buria- ti. Lo stile di vita dei mongoli, costituiti da quasi 3 milioni di abitanti, è profondamente legato agli animali, considerati una ricchezza sia per il sostentamento che forniscono alla popolazione sia per l’importanza che ricoprono come mezzi di trasporto. L’urbanizzazione non è riuscita a scalfire le antiche tradizioni che continuano a sopravvivere nelle steppe. Persino nelle città, un gran numero di mongoli vive nelle ger, grandi tende di feltro bianco, facilmente trasportabili. Religione: la fede tradizionale è il buddismo lamaista, testimoniata anche dai solidi e antichi rapporti che legano la Mongolia al Tibet. Con la salita al potere del regime comunista, migliaia di monaci furono arrestati e deportati nei campi di lavoro in Siberia. I monasteri furono chiusi e saccheggiati e tutte le cerimonie e culti religiosi dichiarati fuori legge. La libertà di culto è stata ripristinata nel 1990 e da allora si è registrato un massiccio ritorno alla fede. Nelle regioni occidentali vive anche una consistente minoranza di musulmani sunniti, gran parte dei quali di etnia kazaka. Economia: il settore dominante dell’economia è l’agricoltura, a cui la produzione industriale è strettamente collegata. L’allevamento del bestiame rappresenta i tre quarti della produzione agricola. Il comparto industriale si concentra essenzialmente sulla lavorazioni della lana, del cashmere (di cui il Paese fornisce più del 25% della produzione mondiale) e del pellame. Di rilievo sono le FRATERNITÀ risorse minerali e metallifere del Paese che possiede rame, oro, uranio, piombo e pietre preziose. Importanti sono anche le risorse carbonifere e quelle petrolifere. Nella regione del Gobi è stata avviata una significativa attività di estrazione di petrolio, grazie alle trivellazioni esplorative condotte da società statunitensi, europee, cinesi e russe. Situazione politica e relazioni internazionali: la Mongolia è oggi un Paese fondato su un’economia di mercato. Dopo la libertà economica, la popolazione ha cominciato a richiedere quella politica e religiosa. Senza rivoluzioni cruente, ma solo mediante una serie di scioperi della fame di studenti e di intellettuali, la popolazione è riuscita a convincere il Partito comunista a concedere libertà di stampa, di religione e di fondazione di partiti. In seguito alle dimissioni di dieci Ministri appartenenti al partito principale, il Partito popolare rivoluzionario mongolo, dovute alla lenta crescita economica, all’inflazione e alla corruzione e dopo il voto di sfiducia del gennaio 2006 alla coalizione di governo, il Paese sta attraversando una forte crisi politica. La Mongolia è uno dei pochi Stati dell’Asia centrale che ha raggiunto una democrazia abbastanza stabile dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Stretta tra Cina e Russia, è anche alleata degli Stati Uniti, spesso definiti «il terzo vicino» politico. La Mongolia ha anche inviato una forza armata in Iraq, piccola ma dalla forte valenza simbolica. ❑ In questi giorni ho potuto rendermi conto della situazione di una bambina che il 18 giugno ha ricevuto la prima Comunione. Avevo sentito che le assenze durante la preparazione erano dovute al fatto che veniva portata a Siena per visite agli occhi, ma solo ieri sera, la mamma mi ha detto che ad Antonella si stanno «spegnendo» gli occhi e che rischia sicuramente la cecità perché le cellule «muoiono» come è successo alla cantante Annalisa Minetti. Non vi sto a descrivere la disperazione e le lacrime di questa mamma. Accludo alla presente i certificati medici richiesti e potete vedere scritta la diagnosi: retinosi pigmentosa. Di persona ho potuto notare che la bambina si muove con una certa difficoltà e non riesce a distinguere bene le cose; ha appena dieci anni e la sua situazione va proprio peggiorando. Le difficoltà economiche della famiglia sono tante e mi auguro che gli amici di «Fraternità» possano aiutarla. Solo il papà lavora! Grazie. Don V.S. Gravi e pesanti debiti Vi raccomando la famiglia di Antonio. Un anno fa la moglie è stata operata a Milano, ma la situazione è peggiorata nonostante il calvario di visite, terapie ed analisi continue molto costose e senza alcun aiuto da parte della Asl. Il capofamiglia è pensionato e la figlia lavora «in precariato» e si sta preparando al matrimonio. Se non ci fossero problemi di salute Antonio potrebbe vivere con una certa tranquillità la vita con i suoi cari ma le varie preoccupazioni scombinano il suo bilancio familiare e la normalità della vita. I 300 euro che voi di «Fraternità» mi avete mandato per lui sono stati una vera manna e gli sono stati di gran sollievo in questo momento così particolare, con gravi e pesanti debiti. Conosco bene la vostra «Ogni volta che avete fatto qualcosa a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me» Matteo 25, 40 comprensione, bontà e generosità e questo mi fa trovare il coraggio per rivolgermi ancora ai Rocchigiani. Grazie per tutto il bene che riuscite a fare; il Signore solo vi potrà ricompensare di tutto. Sac. S.V. Povertà senza fine La nostra missione in questa zona del Brasile continua la sua opera di evangelizzazione e aiuto ai poveri con lo stesso zelo e fervore con i quali è stata iniziata 43 anni fa. La mia vocazione missionaria è nata con me; sempre ho avuto nel cuore questo desiderio e sono felice di realizzarlo come Dio vuole e dove vuole. Siamo tre religiose della missione San Giovanni Battista felici di diffondere la parola di Gesù ai più lontani, ai più bisognosi della sua grazie attraverso corsi, incontri, visite alle famiglie, senza contare il grande numero di poveri, per i quali dobbiamo essere sempre disponibili. La nostra missione vive di offerte e di donanzioni di ogni genere. Con il passare degli anni anche qui le cose stanno cambiando: l’«apparente» progresso materiale non si accompagna con quello morale e religioso che si trova in decadenza. Ho detto «apparente» progresso materiale, perché la ricchezza è in mano di pochi e sotto un volto rinnovato si nascondono per molte famiglie e con molti figli, povertà senza fine, carenza di assistenza sanitaria, soprattutto nelle isole circostanti e nella foresta. Noi ci prodighiamo nel modo migliore, ma l’estensione della Parrocchia è tale che non si può giungere a tutto. Avrei altri particolari da raccontarvi, ma non voglio dilungarmi troppo. Aggiungo solo che la vita in missione non è priva di difficoltà e fatiche, ma le affrontiamo con generosità e con grande fede. Se i tralci crescono rigogliosi e fruttificano signifca che il «tronco» è vivo e trasmette linfa vitale. Nuovi tralci spunteranno se abbiamo fede e il «tronco» sarà sempre in Cristo giovane e attivo. Sr. E.G. Hanno bisogno di essere impegnati Mi rendo conto del momento difficile che stiamo attraversando. Opero da quaranta anni nello sport e nel sociale. La mia Polisportiva ha svolto un grande servizio per bambini e bambine (inizia con loro l’attività) per finire ai giovani; no ha mai incontrato difficoltà finanziarie, perché ha potuto contare sul contributo di alcuni soci. L’anno sportivo che si è chiuso in data 30 giugno, per la prima volta ha fatto registrare un deficit di 1.000 euro; non vorrei che questo dato segni un ridimensionamento nelle molteplici attività della Polisportiva. Questa annovera nelle sue file più di 350 ragazzi e ragazze. Cerco di dare loro una formazione civica, morale e religiosa togliendoli dalla strada e da tanti pericoli di cui questa zona è colma. Mi dispiacerebbe molto smettere questo servizio utile per i giovani che ora più che mai hanno bisogno di essere impegnati. Offro loro la possibilità di praticare sport, ma gestire una società di queste dimensioni ora sta diventando difficile. Per loro è un punto di riferimento importante ed è per questo che mi rivolgo a voi per un aiuto. I lettori di «Rocca» considereranno il mio appello di poco conto nei confronti di casi penosissimi e li capisco... se avanza qualche briciola, grazie! Don M.M. * * * Ringraziamo di cuore gli amici generosi che sempre rispondono ai nostri appelli. Con i beneficati chiediamo al Signore ricompense e benedizioni per tutti e auguriamo il bene più desiderato. Ecco alcune loro espressioni di gratitutidine. ... ho ricevuto il vostro assegno di 400 euro e vi ringrazio tanto perché devo affrontare continue spese per i viaggi per controllare lo stato dei miei occhi; presto dovrà affrontare un altro intervento e sono molto preoccupato, ma confido nel Signore che so essermi sempre vicino. Vi sono infinitamente grato. N.G. «Per non diventare cieco». ... vi ringrazio di cuore anche a nome della missionaria e di tutte le suore filippine per la somma di 250 euro. Sarà di grande aiuto per le vittime dell’ultima sciagura del fango che ha causato tanti morti accaduta proprio vicino alla nostra missione. Grazie per sostenere sempre il loro apostolico.... Sr. M.M. V. «Da offerte libere» ...ieri alle ore 13 ho ricevuto il vostro carissimo e generosissimo aiuto di 500 euro; quasi non credevamo ai nostri occhi! Non sapevo a chi rivolgermi per trovare i soldi per il viaggio fino all’ospedale per esami e visite di controllo per il male che ci affligge a entrambi. Mi consolavano solo le preghiere e il santo rosario che ogni notte sta nel mio braccio destro ed è l’unica mia forza per i dolori che sono assai forti... Quanto grande e infinita è la bontà di Dio. Abbiamo pianto e pregato tanto. Grazie, grazie. E.S. «Da offerte libere» Si possono inviare offerte con assegni bancari, vaglia postali o tramite c.c.p. n. 10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana – 06081 Assisi. 63 ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006 paesi in primo piano Carlo Timio rocca schede Rocca/foto d’archivio Santo Piano