N°16/17 - Rivista Rocca - Pro Civitate Christiana

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N°16/17 - Rivista Rocca - Pro Civitate Christiana
Rivista
della
Pro Civitate Christiana
Assisi
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ANNO
periodico quindicinale 15 agosto/1 settembre 2006
sped. in abbon. post.
Art. 2 com. 20/C L. 662/96 filiale di Perugia
e 2,00
Resistenza e pace: Dove sta l’errore L’indulto indulgente La grande manovra Il fascino del Partito Democratico
Sviluppo sostenibile: Chi ci crede più? Migliori e più felici Scuola: Lo Stato e la Società civile. Dibattito sulla proposta del card. Scola
Pluralismo religioso: Modelli a confronto Inserto: Bolivia una terra tra utopia e comunione
NUMERO
16 17
da sognatori a consumatori
TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE
ISSN 0391 – 108X
Rocca
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sommario
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21
occa
allarga i
tuoi orizzonti
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15 agosto/
1 settembre
2006
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Ci scrivono i lettori
Anna Portoghese
Primi Piani Attualità
Vignette
Il meglio della quindicina
46
48
Raniero La Valle
Resistenza e pace
Dove sta l’errore
51
Luciano Bertozzi
Liberia
Legname e sangue
52
Filippo Gentiloni
Politica italiana
Il fascino del partito democratico
54
Roberta Carlini
Economia
La grande manovra
56
Romolo Menighetti
Oltre la cronaca
Indulto indulgente
57
Fiorella Farinelli
Scuola
Lo Stato e la società civile dibattito sulla proposta del card. Scola
58
Romolo Menighetti
Parole chiave
Privatizzazione
58
Pietro Greco
Sviluppo sostenibile
Chi ci crede più?
59
Testo di Maurizio Salvi
fotografie di Martina Salvi
Inserto
Bolivia
Una terra tra utopia e comunione
Vincenzo Andraous
Sbarre e dintorni
Il mio primo carcere
Claudio Cagnazzo
Esiti del moderno
Da sognatori a consumatori
Manuel Tejera de Meer
Io e gli altri
Migliori e più felici
Rosella De Leonibus
Cose da grandi
Questione di feeling
Stefano Cazzato
Lezione spezzata
Tesine
59
60
60
61
62
63
Giuseppe Moscati
Letteratura
Dario Bellezza
Versi figli di un cuore ossidato
Lilia Sebastiani
Il concreto dello spirito
La parabola della fiducia creativa
Enrico Peyretti
Fatti e segni
Luci e ombre
Arturo Paoli
Cercate ancora
Alle radici della guerra
Carlo Molari
Teologia
Pluralismo religioso: modelli a confronto
Lidia Maggi
Eva e le sue sorelle
Dio, grande levatrice
Giacomo Gambetti
Cinema
Passato e presente
Radio America
Roberto Carusi
Teatro
Impara l’arte…
Mariano Apa
Arte
Bose
Giuliano Della Pergola
Mostre
Dai bizantini a Cimabue
Alberto Pellegrino
Fotografia
Illusione o rivelazione
Enrico Romani
Musica
Il rap attuale
Giovanni Ruggeri
Siti Internet
Pubblicità online
Libri
Carlo Timio
Rocca schede
Paesi in primo piano
Mongolia
Nello Giostra
Fraternità
quindicinale
della Pro Civitate Christiana
Numero 16-17 – 15 agosto-1 settembre 2006
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
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Questo numero
è stato chiuso il 25/07/2006 e spedito da
Città di Castello il 28/07/2006
4
Missione
in Afghanistan
Gli interventi
qui pubblicati
esprimono
libere opinioni
ed esperienze dei lettori.
La redazione
non si rende garante
della verità
dei fatti riportati
né fa sue
le tesi sostenute
Avvertiamo l’urgenza e la necessità di costruire un percorso collettivo con un obiettivo
semplice e preciso: il ritiro delle truppe militari italiane dall’Afghanistan, teatro di una
guerra sanguinosa e potenzialmente infinita. Obiettivo indicato da tutto il movimento fin
dal 2001 e ribadito dai Forum
sociali mondiali di Bamakò e
Caracas e dal Forum sociale
europeo di Atene. Il decreto del
governo per il rifinanziamento della missione italiana in
Afghanistan introduce elementi di cosiddetta «riduzione del
danno» ma non può essere certo considerato un risultato
adeguato, infatti non parla di
ritiro. D’altra parte il movimento per la pace attraversa
un momento di affaticamento,
e noi, che di questo movimento ci sentiamo parte, crediamo
sia necessario investire al più
presto ogni energia possibile
per un suo rilancio, nell’autonomia che è elemento costitutivo della sua stessa esistenza.
La pace e la guerra sono un
terreno troppo importante perché su di esso si scatenino vecchie e nuove concorrenze fra
componenti e anime della così
detta sinistra «radicale», sia
nelle aule parlamentari, sia nei
movimenti sociali. Non è il
momento di polemizzare con
chi ci siede vicino ma di impegnarci per far sì che, dopo
l’Iraq, il 2006 sia effettivamente l’anno della decisione sull’uscita delle nostre truppe dall’Afghanistan.
In questi giorni molte voci chiedono di non mettere a rischio
la tenuta del nuovo governo, e
di subordinare a ciò il ritiro
delle truppe dall’Afghanistan.
Siamo quindi ben consapevoli
della situazione di grande difficoltà nella quale si trovano i
parlamentari pacifisti.
Siamo certi che, se potesse
pronunciarsi, gran parte del
popolo dell’Unione, e non solo
la «sinistra radicale», sceglierebbe ambedue gli obiettivi: la
tenuta del governo e l’uscita
dell’Italia dalla guerra afghana. Se potesse scegliere. Esiste
infatti un problema di democrazia e partecipazione: perché non s’interpella direttamente il popolo dell’Unione
sulla missione in Afghanistan?
Quello stesso popolo che è sta-
to chiamato a pronunciarsi sul
leader. Scegliere se partecipare o meno ad una guerra è forse meno importante? Siamo
certi che la risposta di pace
sarebbe ancora una volta chiara.
La scelta tra pace e guerra è
per noi costitutiva del nostro
modo d’intendere la politica,
il terreno principale sul quale
unità e radicalità si incontrano. Se è giusto non sottrarsi
alle responsabilità di governo,
e noi ne siamo convinti, è altrettanto necessario stare al
governo in maniera differente. Partecipare al governo e
partecipare ad una guerra non
sono due scelte obbligatoriamente tra loro vincolate.
Continuiamo ad impegnarci
perché questo obiettivo possa
essere raggiunto nei prossimi
giorni, pur sapendo che oggi
questo non dipende solo da
noi, considerato l’alto grado di
condivisione che tale obiettivo richiederebbe nella coalizione. Ma già da oggi possiamo scegliere di impegnarci per
costruire mobilitazioni in grado, per dimensioni e qualità,
di ottenere, il definitivo ritiro
di tutte le truppe italiane dall’Afghanistan.
Proponiamo ai movimenti, alle
reti, alle associazioni democratiche, alle tante singole e singoli incontrati in questi anni di
tornare a lavorare assieme nei
prossimi mesi, attraverso tappe condivise, per costruire una
mobilitazione la più ampia possibile capace di ottenere dal
Parlamento entro il 2006 l’approvazione di una strategia di
uscita dalla guerra.
Antonio Bruno
[email protected]
Lo spirito
della legge
Bassanini
Mi complimento con la redazione di Rocca, perché trovo
sempre sulla vs. rivista articoli stimolanti sia per gli argomenti trattati sia per la scelta
di introdurvi il lettore seguendo linee generali che meglio
orientano sui problemi stessi.
In particolare sul n. 11 ho apprezzato l’articolo di G. Piana sui temi della sussidiarietà e della solidarietà, che valgono per il settore politico in
senso lato, quindi anche, pen-
so, per chi svolge attività amministrativa.
Su questa scia io sarei interessata all’approfondimento di un
altro tassello, collaterale a questo, quello relativo alla legge
Bassanini: ogni volta che, come
capogruppo di minoranza in
consiglio comunale di un piccolo paese, mi trovo nella situazione di partecipare ad un consiglio affrettato e sommario, la
maggioranza giustifica questa
modalità facendo riferimento,
appunto, alla legge sopracitata, che avrebbe snaturato e tolto ogni respiro al consiglio comunale stesso. Mi chiedo allora quale sia lo spirito della legge, al di là dei contenuti, e mi
chiedo se la posizione della
maggioranza, in questo caso,
sia strumentale alla volontà di
negare spazio al dibattito oppure se sia in linea con l’intento di questa legge.
Renata Abbiati
Tresivio (So)
Dal trionfo azzurro
agli incubi
calcistici
di casa nostra
Tutto era stato bellissimo, come
in un sogno. Gli azzurri guidati
da Marcello Lippi e capitan
Cannavaro che trionfano sul
mondo calcistico mondiale. Un
viatico e un momento d’orgoglio nazionale. Vero e meritato.
Un gruppo di ragazzi che, non
curanti di ciò che si stava sgretolando all’interno del loro
mondo, hanno fatto il loro dovere, compiendo un capolavoro. Le feste, i balli, i canti di giubilo, le bandiere al vento, addirittura un principio di concordia nazionale. Tutto è duranto
lo spazio di 6 giorni. In una settimana tutto, è stato purtroppo
archiviato, dimenticato, oscurato. Dal terremoto, dalla stangata storica e senza precedenti del
mondo dello sport più popolare in Italia. Le sentenze di primo grado di calciopoli.
È finito l’effetto Circo Massimo. Delle mille piazze italiane,
dai grandi centri urbani ai piccoli paesi di provincia. La gioia per l’impresa della Nazionale nella finalissima di Berlino,
gli abbracci di soddisfazione,
persino il po-po-po tormentone estivo al pari del caso Zidane-Materazzi sembrano sbiadi-
ti. Il verdetto di Cesare Ruperto, presidente della Caf – dopo
sei giorni di Camera di Consiglio – riporta tutti quanti a terra. O meglio ci riconsegna al
nostro «vecchio» calcio. Fatto
di intercettazioni, griglie, pettegolezzi, campionario completo del ‘bar sport’. Disdegnato da illustri commentatori e
addetti ai lavori, ma quanto
mai reale. Purtroppo.
La realtà del vivere, gioie e dolori del mondo (a partire dai
venti di guerra in Israele e Libano che distrugge il cuore)
sono passati in secondo piano.
E sempre così, quando c’è il
calcio. E il solo pensiero a ciò
che avrebbe potuto succedere,
senza la bella vittoria del quarto mondiale, dei 23 giovani azzurri, non lascia tranquilli al
pensiero.
Come dopo la vittoria mondiale del 1982, passata la festa,
ognuno è con se stesso. Con i
problemi, le difficoltà, le angustie, le prospettive, i programmi di prima e di sempre. Il gioco ci ha trastullati abbastanza.
Anche un gioco è serio. Ma la
vita non è un gioco. È più seria di qualsiasi gioco... anche
del giuoco del calcio e delle sue
glorie e miserie.
Luca Rolandi
Torino
Israele
e la Juventus
gli intoccabili
Calciopoli ed Israele. Cosa hanno in comune? A prima vista
niente. Sembrerebbe addirittura di mischiare sacro e profano. Col rischio per giunta di
non distinguere subito quale
sia il sacro e quale il profano.
Cosa c’è infatti nella società
moderna di più sacro del gioco del calcio, di più rituale?
Andare alla messa domenicale
ed andare allo stadio (o guardare la partita alla tv, come d’altronde la messa) si sono perfettamente sovrapposti; riti con
le loro regole e i loro divieti ....
Ma torniamo ad Israele. Cosa
c’entra con calciopoli? Se non
fosse che lo stato israeliano
avesse scatenato la sua ennesima guerra proprio mentre in
Italia milioni di «fedeli» attendevano il responso della giustizia sportiva sul comportamen-
to scorretto delle principali
«parrocchie», probabilmente
non ci avrei mai pensato. Ed
invece ... è arrivato quel verdetto e il presidente della Juventus si è detto scandalizzato per
il trattamento riservato alla
sua squadra. Come si può osare tanto verso un club (leggi
anche «chiesa»), che tanto ha
dato al paese e al mondo: se
abbiamo vinto la coppa del
mondo non è forse merito degli juventini Buffon, Cannavaro, Del Piero e via discorrendo?
Sostanzialmente è lo stesso ragionamento dei governanti
israeliani da 60 anni a questa
parte, con un peggioramento
in senso sempre più estremista delle proprie convinzioni:
come si può infatti rimproverare qualcosa ad Israele dopo
quello che ha subito e continuerebbe a subire. Milioni di
ebrei sono stati immolati sull’altare dell’ideologia nazista
(tutta occidentale) ed ora quegli stati europei che hanno
«permesso» (Inghilterra, Francia, Italia... vorrebbero insegnargli qualcosa? Giusto, noi
non possiamo insegnargli
niente. Ma arabi e palestinesi
sì.
Loro con l’Olocausto non hanno avuto niente a che fare e
non solo. Sono stati e sono
costretti a pagare ad Israele il
risarcimento danni per conto
dell’Europa razzista e antisemita. Loro non hanno nessun
diritto alla difesa, loro devono
riconoscere la superiorità morale del nuovo stato di Israele.
Ogni loro tentativo di ribellione, sarà severamente punito;
ogni attentato ad un cittadino
israeliano sarà considerato un
attentato allo stato tutto, un
atto di guerra. Ecco perché
anche questa guerra di Israele
non può che essere giusta.
Ecco perché ogni «risoluzione» contro la Juventus non
può che essere ingiusta.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Rocca
ci scrivono i lettori
CI SCRIVONO I LETTORI
Giuseppe Iannello
[email protected]
Il Codice da Vinci
Perché si parla parecchio in
giro di questo libro (Dan
Brown «Il codice da Vinci»,
Mondatori MI 2003, Titolo originale «The da Vinci code»,
2003) ed anche del film, per
questo e solo per questo, ci è
5
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
6
re quella certa sessuofobia,
quella tendenza alla repressione sessuale usata come
strumento di controllo, presente qua e la nella Chiesa
(per non parlare poi del problema del celibato!). In una
religione orientale, per esempio, il fatto che il maestro e
fondatore, Buddha o Krisma,
sia sposato o meno non provoca alcun problema.
Anche l’accusa di «maschilismo» fatta alla Chiesa, colpisce l’irrisolta questione della
funzione e carisma delle donne. (Questo non significa affatto che siamo favorevoli all’assurdo sacerdozio femminile o all’abolizione del celibato!).
Ma soprattutto, crediamo, si
va a toccare un nostro punto
debole più nascosto e sottile.
Quando in questo o in altri
testi esoterici o nei siti pseudo-gnostici che ripetiamo si
vanno diffondendo in internet, viene attaccato il Vangelo, è sempre il racconto storico che viene messo in dubbio,
mai l’insegnamento spirituale, etico. Corrispondentemente troppo spesso nella nostra
pratica religiosa corrente l’attenzione è stata accentrata
sulla vita di Gesù e la devozione alla Sua persona, quasi
come alibi alla nostra mancanza di ascolto e messa in
pratica delle sue parole, quasi bypassando quello che era
venuto ad insegnarci, quelle
verità salvifiche che dovevano
cambiare la nostra vita, ma
che ci sono sembrate, ahimè
alquanto scomode. Eppure ci
era stato detto. «Non chiunque dice: Signore, Signore;
ma chi fa la volontà del Padre…» (Mt: VII, 21).
Se il collegamento fra la vita,
la figura di Gesù e il suo insegnamento fosse costante e indissolubile questi attacchi
maligni perderebbero senso.
E la nostra conclusione è questa. Più che scandalizzarci
questi strani attacchi e spargimenti di nebbia, devono farci capire, se mai non lo avessimo già compreso, la terribile, sempre più pressante urgenza per la chiesa in generale e ciascun credente in particolare, di impegnarsi a fondo
in un cammino di chiarificazione, purificazione, conversione.
Amici di Tolstoi
Roma
Anna Portoghese
ziatici) si parla sempre di un
segreto da scoprire, che si mette astutamente davanti al naso
dell’adepto, come il fascio di
fieno davanti all’asino, per farlo trottare. Anche qui il segreto fa flop nell’ultima pagina del
libro.
Ma no! amici miei, non c’è alcun segreto che ci deve essere
svelato (c’è il mistero di Dio,
ma quello è un’altra cosa). Tutto quello che ci serve per proseguire il cammino, tutto quello che dobbiamo conoscere
per la nostra salvezza ci è stato già detto chiaramente dai
grandi maestri dell’umanità, e
specificatamente in quei quattro Vangeli, tanto disdegnati.
Ci è stato detto che dobbiamo
amarci e non aggredirci ed
ucciderci l’un l’altro, che dobbiamo amare anche i nemici,
che non dobbiamo cercare ricchezze e potere, ma invece la
sobrietà, l’umiltà e il servizio
ai fratelli («Il più grande fra voi
sia il servo di tutti»). Tutto qui!
Il nostro problema è un altro,
non di andare a cercare verità
che non sappiamo, ma applicare alla nostra vita le verità
che sappiamo già. È qui il nocciolo della questione. È questo
che non facciamo e che ci distrugge. E finché non avremo
imparato questa lezione, non
ci sarà insegnato altro.
Infine: il femminino sacro.
Anche qui c’è un trucco. È vero
che andiamo verso un risveglio
delle energie femminili, dopo
epoche di patriarcato. Saranno però le qualità femminili di
intuitività, concretezza, nonviolenza e cura ad operare nella storia. Il ritorno al passato è
antievolutivo non sarà un ritorno alle antiche sacerdotesse, maghe o streghe né a riti
sessuali (considerati da sempre nei Tantra, in India, cose
estremamente pericolose).
L’epoca futura sarà sotto il segno di Maria, colei che disse:
«Ecce ancilla domini».
In una cosa le forze negative
non sbagliano mai: nel colpire le debolezze, i difetti dell’avversario, e stimolare così,
aldilà delle loro intenzioni,
una reazione di autopurificazione. Questa è infatti la loro
funzione nell’ordine cosmico.
Parimenti, possiamo notare
come, con assoluta precisione, il racconto attacca alcuni
punti deboli del cattolicesimo.
Opus Dei a parte, su cui non
possiamo né sapremmo pronunciarci, esso va a stuzzica-
a cura di
(pag. 33) è formata da 666 pezzi, il numero della bestia (il che
dà a tutto il racconto una colorazione un tantino satanista!). Ma poiché in realtà il
Priorato non aveva alcuna intenzione di divulgare il segreto, esso non sarà svelato. Fine
del romanzo.
Quando Nostro Signore Gesù
Cristo accettò di scendere in
questa terra di peccato per salvarci, ben sapeva che avrebbe
ricevuto sbeffeggiamenti, sputi, schiaffi e molto peggio,
come poi accadde. Perciò non
è il caso di meravigliarci o
scandalizzarci per questo romanzo. Niente di nuovo! Ne
parliamo solo perché, nel disorientamento specifico dell’epoca presente, esso rischia
di aumentare la confusione
che regna nelle menti, tanto
più che il messaggio, di per sé
banale, è veicolato attraverso
un thrilling un po’ grossolano,
ma abilissimo, per la continua
suspence, i colpi di scena, i
quiz intriganti.
Non ci soffermeremo sulle insensatezze minori che si colgono qua e là. Per esempio che
un Ebreo doveva per forza esser sposato. E gli Esseni, allora? Non erano celibi? Oppure
che Maria Maddalena era a
capo della nuova chiesa. Ma
quando mai le donne in ambito ebraico, hanno avuto posti
di comando? Oppure l’importanza data agli apocrifi che
sono in realtà perlopiù pieni di
fantasiose stranezze, e privi di
messaggi etici di un qualche
rilievo.
Tre punti fondamentali vorremmo invece contestare più
specificatamente. Il primo è
l’importanza cruciale data alla
trasmissione «genetica», alla
discendenza dal «sangue reale». Ma sono i faraoni, gli zar, i
regnanti, i nobili di sangue blu,
cioè quelli che detengono potere e ricchezze terrene che
hanno sempre dato tanta importanza alla loro discendenza carnale a cui trasmettono
potere e denaro. I maestri spirituali, i geni, i santi, Buddha
o Socrate, S. Francesco o Dante o Beethoven o non hanno
avuto figli oppure i loro figli
carnali non hanno mai avuto
alcun rilievo, alcun posto nella storia. Sono i discepoli, i figli spirituali che hanno proseguito l’opera di questi maestri.
In secondo luogo: il segreto.
Nella massoneria, pardon nei
centri iniziatici (o controini-
primipiani
sembrato conveniente esprimere qualche riflessione.
Innanzitutto il testo in questione appare con evidenza provenire da quel certo tipo di cultura che un tempo si definitiva «massonica», ma poiché
sembra che oggi questa parola sia «politically incorrect» la
chiameremo controiniziatica,
cioè propria di coloro che credendo di andare verso la Vera
Luce, vanno invece verso un
buio sempre più fitto.
Non consigliamo a nessuno di
leggerlo e noi stessi lo abbiamo letto con fatica «per dovere di ufficio»; pertanto, per far
capire di che cosa si tratta, ne
diamo in breve la trama.
L’Opus Dei, o almeno alcuni
suoi membri, si dà da fare per
impedire che un certo segreto
che sconvolgerebbe tutta la
Chiesa cattolica, anzi tutta la
storia del cristianesimo, venga divulgato. Questo segreto è
stato gelosamente custodito
attraverso i secoli da un gruppo misterioso chiamato Priorato di Sion, di cui fece parte
a suo tempo anche Leonardo
da Vinci, che infatti ha riempito dei suoi simboli i propri
quadri e in particolare «L’ultima cena». E il segreto è questo: Gesù Cristo era sposato
con Maria Maddalena e ha
avuto un figlio da lei, che è all’origine della stirpe dei Merovingi e i cui discendenti sono
ancora tra noi. Questo è il vero
significato del Santo Graal
(che significa in realtà: «sangue reale»). Maria Maddalena
poi fu la vera fondatrice della
chiesa di Cristo. Ma la chiesa
cattolica ha nascosto tutto
questo ed ha impedito al femminino sacro di affermarsi.
«Quindi tutto quello che i nostri padri ci hanno insegnato
a proposito di Cristo è falso»
(pag. 276). I quattro custodi
attuali del segreto del Priorato vengono uccisi da un sicario dell’Opus Dei, ma l’ultimo
di loro, morendo nel Museo
del Louvre, lascia una traccia
complicata e una serie di astutissimi indovinelli che porteranno i due protagonisti, dopo
i più impensati colpi di scena
e incredibili avventure, a individuare il «luogo sacro» dove
giacciono, pare, le ossa di Maria Maddalena e i documenti.
Questo luogo è proprio al Louvre presso la piramide di vetro
fatta costruire da Mitterand e
che l’autore si era premurato
di precisare, all’inizio del libro
Religioni
dialoghi
e
inchieste
Somalia
conflitti
e
diplomazia
«Eu for News», notiziario dell’insegnamento religioso europeo (n.30/06/06) pubblica i risultati di un’inchiesta tra diverse personalità a proposito dell’insegnamento religioso. Alla
domanda «Lei ha ricevuto
un’educazione religiosa che
l’ha segnata?», il filosofo Régis
Debray risponde: «Sì, sono cattolico. Catechismo, comunione, cresima, e tutto il resto.
Questo timbro sociologico, di
cui d’altronde non mi lamento, dà dall’adolescenza la voglia
naturalissima di smarcarsi, e
di andare a vedere altrove».
«Circa la proposta ventilata di
un insegnamento della religione islamica nelle scuole italiane, io, da musulmano, dico:
No al Corano impartito dallo
Stato! Il problema è serio e
complesso… Lo Stato italiano
dovrebbe cominciare ad aprirsi all’ebraismo e insegnarlo
nelle scuole. Poi all’Islam. E
poi al buddismo, all’induismo
e via dicendo. Affermando
queste cose, io non faccio neppure gli interessi della mia religione, l’Islam. Però il discorso è questo: o la società si apre
davvero a tutte le religioni o
non si apre a nessuna»( Mario Scialoja, già ambasciatore in Arabia Saudita).
«Sì all’ora di religione islamica», ha sostenuto il card. Martino tempo fa. In realtà è proprio questa la via che mantiene aperto lo scontro di civiltà,
perché ghettizza il fatto religioso all’interno delle diverse religioni e confessioni… Vi era
una diversa strada che il cardinale poteva indicare cioè la
strada oggi considerata con attenzione anche da molti cattolici in Italia: l’ipotesi di un insegnamento delle religioni obbligatorio per tutti gli alunni
che eviti in partenza la ghettizzazione, l’isolamento, lo
scontro. Perché non prendere
sul serio questa ipotesi? (Ermanno Genre, rettore Facoltà
valdese di Teologia – Roma).
La Somalia vive ormai da
quindici anni una terribile
guerra civile tra clan rivali e
la sua popolazione, in conseguenza, vive malissimo. Recentemente, i rappresentanti
delle cosiddette «Corti islamiche» hanno garantito un po’
di strutture sociali come scuole, le uniche del Paese, e ospedali, riscuotendo un comprensibile sostegno popolare, contro i «Signori della guerra»,
riuniti in alleanza contro il
terrorismo, cui non interessa
certo istruire o soccorrere la
popolazione.
Il 5 giugno scorso i guerriglieri delle Corti presero il potere, installandosi a Mogadiscio, contro il governo «transitorio» rimasto nel sud, a
Baldoa (cfr Rocca n.15/06).
Ma l’Etiopia, paese a guida
cristiana, evidentemente non
ama avere alle porte un regime islamico e ha motivo di
pensare che l’obiettivo degli
islamici, oltre che di governare con la sharia, sia anche
quello di realizzare una
«Grande Somalia», appropriandosi della regione dell’Ogaden, di etnia somala,
tuttora sotto Adis Abeba. Il 20
luglio le truppe etiopiche
sono entrate in forza in Somalia e hanno raggiunto Baldoa, sede del Governo Federale di Transizione loro alleato e sostenuto dagli Stati
Uniti, schierandosi a difesa
dei punti strategici della città. La loro presenza mira ad
arrestare l’avanzata delle milizie islamiche le quali, secondo la Cia, sarebbero strettamente legate ad Al Qaeda.
Non è la prima volta che
l’Etiopia varca il confine somalo, e diplomatici europei
sono al lavoro per evitare l’allargarsi del conflitto. Il nostro diplomatico Mario Raffaelli sta cercando di convincere gli Stati Uniti a lasciare
un po’ di tempo per le trattative.
Assisi
a 20 anni
dall’incontro
mondiale
Dal 5 al 7 settembre Assisi
ospiterà un incontro mondiale interreligioso, nel ventesimo anniversario della storica
Giornata di preghiera delle
Religioni, convocata da Giovanni Paolo II nell’ottobre
1986. «Per un mondo di pace.
Religioni e culture in dialogo»
sarà il tema centrale del meeting, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio assieme alla
Conferenza episcopale dell’Umbria. «In un tempo segnato da terrorismo e da guerre,
come pure da sforzi di dialogo e di riconciliazione – scrive la Comunità – le religioni
hanno assunto un ruolo rilevante nello spazio pubblico e
nelle identità a confronto, e
sono sempre più sottoposte
alla sfida delle strumentalizzazioni estremiste». Dodici
panel su temi-chiave offriranno materiali per la ricerca pratico-teorica di vie d’uscita dall’ideologia dello «scontro» nel
comune sforzo di collaborazione. Già si annuncia una
presenza di numerose personalità religiose di varie parti
del mondo. (Nella foto, momento dell’incontro 1986).
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ATTUALITÀ
CI SCRIVONO I LETTORI
7
ATTUALITÀ
Croazia
nave
nazista diventa
monastero
Corea del Sud
coi Metodisti
intesa sulla
«giustificazione»
Razzismo
donne
sterilizzate
perché rom
Una vecchia nave tedesca da
sbarco, che farne? Era stata
ceduta alla Jugoslavia di Tito
a titolo di indennità di guerra, e ora, in disarmo, viene
trasformata in luogo di accoglienza, studio e preghiera. L’ultima volta che la Dtm219 prese il largo trasportò
truppe, munizioni e carri armati nel corso la seconda
guerra mondiale. Il ministro
croato della Difesa ora l’ha
offerto al Collegio salesiano
di Sibenik, affidandola al
cantiere navale della zona
per la ristrutturazione e gli
adattamenti. Il nuovo progetto prevede, infatti, la trasformazione del naviglio in
un singolare luogo itinerante.
Secondo il giornale di Zagabria «Jutarnji List» del 4 luglio «la nave sarà utilizzata
come chiesa sul mare per i
giovani, che potranno solcare l’Adriatico, pregare e meditare nel quadro di crociere religiose organizzate dai
Salesiani». I cattolici rappresentano l’88% dei 4,5 milioni di abitanti della Croazia seguiti dagli ortodossi
(5%).
I metodisti (protestanti riformati dall’Anglicanesimo)
hanno compiuto un importantissimo passo avanti sulla
via dell’unità cristiana. Hanno sottoscritto, nel corso dei
lavori della loro 39° Conferenza internazionale (Seul
20-24 luglio), il testo sulla
«Giustificazione per fede»,
dichiarazione in base alla
quale luterani e cattolici stabilirono nel 1999 il venir
meno delle reciproche scomuniche. Si tratta di uno dei
punti di maggior contrasto
tra cattolici e protestanti nel
XVI secolo, assunto poi anche dai metodisti con forte
accentuazione psicologica. I
metodisti sono oltre 73 milioni, presenti in 132 diverse nazioni; i delegati convenuti a
Seul circa 2000. Il dialogo
con la Chiesa cattolica risale
a 40 anni fa.
La firma del documento ha
visto – oltre ai membri del
Consiglio mondiale – la presenza del pastore Noko, segretario generale della Federazione luterana mondiale, e del
cardinale Kasper, presidente
del Pontificio consiglio dell’unità dei cristiani.
Messaggio incomprensibile
dalla civilissima Repubblica
Ceca, da poco entrata a far
parte dell’Unione europea:
eppure è quello razzista il
messaggio di donne sterilizzate a loro insaputa perché zingare, notizia riportata dai
giornali dopo un’accusa dall’ospedale di Ostrava.
Amnesty international e il
Consiglio d’Europa avevano
richiamato sia la Cechia,
dove la popolazione rom è
numerosa (250 mila persone), sia l’Ungheria, sia la Romania perché la pratica – che
già vigeva in periodo comunista, mirante a limitare la
popolazione rom considerata un peso per lo stato – fosse definitivamente soppressa. Praga sta ora affrontando la questione, mentre in
Slovacchia (il 10% della popolazione è di origine rom) i
governanti negano il problema. Ma la discriminazione
dei rom dell’Est europeo
(sono 9 milioni) esiste sotto
varie forme: per i diritti della più grande minoranza del
Continente il percorso dell’Europa non può ignorarne
la difesa.
Italia
attenti agli «invisibili»
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Il 24 e il 25 settembre Amnesty International presenta la prima edizione delle Giornate «Attivismo per gli invisibili». Secondo le informazioni raccolte dal movimento, sono centinaia i minori detenuti nei centri per migranti irregolari e richiedenti asilo, resi «invisibili» perché le leggi italiane li trascurano e le statistiche non li contano. Eppure ci sono. Le
due giornate serviranno per rompere il silenzio, per far uscire dall’invisibilità i minori.
L’iniziativa principale, comune a tutte le piazze, sarà la realizzazione di «scritte umane» formate dagli attivisti di Amnesty, dai simpatizzanti e da tutti coloro che vorranno unirsi in
questa azione per i diritti umani.
Per la partecipazione, contattare Amnesty, Ufficio attivismo,
via G.B.De Rossi,10, 06061 Roma, fax 064490 222.
8
notizie
seminari
&
convegni
Torre Pellice (To). Dal 20 al
25 agosto si svolgerà a Torre
pellice (To) il Sinodo delle
Chiese Valdesi e Metodiste. I
principali temi del significativo appuntamento saranno: la
responsabilità civile del cristiano, i diritti dei nuovi cittadini,
l’ecumenismo difficile. All’assemblea partecipano di diritto 180 membri (pastori e laici), numerosi ospiti e osservatori.
New York. Bill Gates, capo
della Microsoft, l’uomo tra i
più ricchi del mondo, ha do-
nato 230 milioni di euro alla
ricerca di un vaccino anti Aids;
alla sua fondazione si è aggiunto Warren Buffet con 37
miliardi di dollari. La notizia
è apparsa un mese prima della Conferenza internazionale
sull’Aids che si terrà a Toronto
dal 13 al 18 agosto e che vedrà
il summit degli scienziati sui
nuovi approcci della ricerca
contro il virus dell’immunodeficienza umana. I finanziamenti della Bill and Melinda
Gates andranno a 11 consorzi
che raggruppano 165 ricerca-
tori di 19 Paesi. Lo scambio dei
dati tra le équipes è una delle
condizioni poste alla fruizione del finanziamento.
Artico. Il medico-esploratore
francese Jean-Louis Etienne
nell’aprile del 2007 (Anno internazionale dell’Artico e dell’Antartide) sorvolerà l’Artico
per studiare lo spessore della
banchisa, che si sta riducendo sempre più. Si servirà di
uno strumento messo a punto dall’Istituto Alfred Wengener del Centro di ricerche polari tedesco.
12-15 agosto. St. Jacques de
Champoluc (Ao). Giornate di
riflessione in memoria di
d.Michele Do, organizzate
dalla Baita Albese. Partecipano Giancarlo Bruni, Enzo
Bianchi, Ermis Segatti, Enrico Peiretti. Testimonianze di
amici, celebrazioni liturgiche,
serata musicale. Informazioni: 335 812 8767.
18-20 agosto. Assisi. Incontro biblico «Che cosa attendi?» La seconda Lettera di
Paolo ai Tessalonicesi. Relatori: Nello Giostra, Bruno Baioli, Leila Carbonara della Pro
Civitate Christiana, Comunità Clarisse S. Colette. Informazioni: Cittadella cristiana,
06081 Assisi, tel. 075 813231,
fax 075 812445, e-mail:
[email protected].
20-25 agosto. Assisi. Corso
internazionale di studi cristiani sulle problematiche
dell’identità, proposto dalla
Cittadella con la collaborazione della comunità di Bose
e dell’Editrice Queriniana.
Tra i relatori: Corrado Augias,
Nocera Benali, Enzo Bianchi,
Eugenio Borgna, Rita Borsellino, Paolo Ferrero, Rosino
Gibellini, Sergio Givone, Raniero La Valle, Lilia Sebastiani, Rosanna Virgili. Informazioni: Cittadella cristiana
06081 Assisi, tel. 075813231, email: [email protected].
21-26 agosto. Magnano
(Bi). Al Monastero di Bose
Corso di spiritualità «La speranza di un mondo salvato:
conversione e azione quotidiana» con Luciano Manicardi e Roberto Mancini. Informazioni: Comunità monastica di Bose, 13887 Magnano
(Bi), tel. 015 679185, e-mail:
[email protected].
25-31 agosto. Barza d’Ispra
(Va). Il Centro don Guanella
propone 5 laboratori di liturgia e spiritualità: lettori di testi liturgici, vocalità, cetra, arte
floreale, iconografia bizantina.
Informazioni; 33870.45 230
www.mdc-comunicazione.rel.
3-7 settembre. Villa Grugnano (Le). Campo giovanile vocazionale sul tema: «La missione è la scommessa di tutta
la vita», diretto da p. Daniele
Mazza. Tel. 081 814 1201.
3-8 settembre. Selva di Valgardena (Bz). Giornate di
spiritualità per un’intensa
esperienza di preghiera e
orientamento. Conduce p. Filippo Clerici S.J. Informazioni. Villa Capriolo, Plan da
Teja, 72 - 39048 Selva di Valgardena (Bz), tel 0471 793389.
7-10 settembre. Decollatura
(Cz). Incontro biblico riservato a separati «Quando l’amore è infedele», presso l’Eremo
Piccola Famiglia dell’esodo.
Informazioni: 0968 61 021,
www.eremiti.org.
8-11 settembre. Calambrone (Pi). Il Centro Ghandi di
Pisa e i Quaderni Satyagraha
organizzano un convegno su
Ghandi e la nonviolenza.
Sede: Centro Regina Mundi,
viale Tirreno 62, Calambrone.
Informazioni: cell.335 586
1242, www.centroghandi.it.
23 settembre. Piacenza. Seminario di psicodramma con
Anna Boeri su: «Il Genogramma: conoscere le proprie radici», organizzato dal Centro
Psicopedagogico per la pace e
la gestione dei conflitti». Informazioni: Centro, via Cam-
pagna 83 – 29100 Piacenza,
tel e fax 0523 498 594,
www.cppp.it.
14-17 settembre. Udine.
Presso il centro «E. Balducci» di Zugliano, convegno sul
tema «Vivere le memorie per
un futuro». Tra i relatori:
Massimo Cacciari, Luigi Bettazzi, Rita Borsellino, Italo
Moretti, Minoru Hataguchi,
Rufina Amaya Marquez,
Claude Anshin Thomas,
Giampaolo Gri. Informazioni: Centro Balducci, Piazza
della Chiesa 1, 33050 Zugliano (Ud), tel.0432 560 699.
19-20 settembre. 2-3 ottobre. Milano. Corso di formazione (8 ore) per animatori di
strutture per anziani, organizzato da Centro di formazione «Paulo Freire» e guidato da Ennio Ripamonti e Mario Valzania. Informazioni:
Centro Paulo Freire, via
Guerzoni 15, 20158 Milano,
tel. 02 670 9542.
9-13 ottobre. Bruxelles. Settimana europea delle regioni e
delle città. La manifestazione,
intitolata «Investire nelle regioni e nelle città d’Europa: i partner pubblici e privati per la crescita e l’occupazione». Informazioni: http://ec.europa.eu/
comm/regional_policy/confer e n c e s / o d 2 0 0 6 /
about.cfm?nmenu=2.
20 ottobre. Italia. Quinta
Giornata del dialogo cristiano-islamico. Il Comitato promotore propone di porre a
base della riflessione un decalogo elaborato dai noti esperti Paolo Branca, Stefano Allievi, Silvio Ferrari, Mario
Scialoja. www.ildialogo.org/
islam/cristianoislamico.htm.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
9
10
La guerra civile nella zona
settentrionale dello Sri Lanka
(ex isola britannica di Ceylon)
tra i ribelli Tamil, che vorrebbero avere uno status autonomo in questa zona dove sono
la maggioranza, e il resto degli abitanti che ritiene essere
ciò una vera spartizione del
Paese, non fa più notizia, nonostante la recente ripresa
delle violenze. Oltre 700 persone, tra cui molti civili, sono
state uccise dall’inizio di quest’anno, mentre il contesto va
sempre più degradandosi..
L’isola sprofonda, sbattuta tra
i demoni della violenza e le
divisioni tribali, mentre accorate denunce arrivano dalle
Chiese che assistono, spesso
impotenti, a un’emergenza
pressante. Fuggire, fuggire è
la parola d’ordine che passa
tra i pescatori dopo le severe
restrizioni imposte nella pesca. Fuggire perché le coste
sono disseminate di bunker
della marina e dell’esercito e
non si può andare al largo.
Molte famiglie nelle notti senza stelle, per sottrarsi alla
fame, fuggono nascostamente in India, paese situato a
qualche centinaio di metri
dalla loro costa. Il vescovo Joseph Rayppu di Mannar, una
diocesi la cui popolazione è a
maggioranza Tamil, ha confermato al corrispondente
dell’agenzia Eni che molti pescatori vendono barche e reti
per avere il denaro e raggiungere in India lo status di rifugiati politici. Un altro pescatore ha raccontato la confisca
governativa del suo grosso peschereccio, che gli consentiva la pesca in alto mare, perché accusato a torto di tramare attentati.
Purtroppo la storia si ripete:
dopo il cessate-il-fuoco del
2002 negoziato dalla Norvegia, sono morte 65.000 persone e oltre 1. 800.000 sono fuggite.
Il governo italiano «ha deciso
di avvalersi della possibilità
prevista dal testo unico sull’immigrazione, di riaprire le
quote dei flussi d’ingresso,
allo scopo di soddisfare le domande presentate dai datori
di lavoro per l’impiego di cittadini extracomunitari». Così
si legge nel nuovo decreto,
varato a Roma il 21 luglio, che
prevede 350mila nuovi ingressi. Salgono, pertanto, a
520mila i lavoratori stranieri
che potranno regolarmente
entrare nel nostro Paese nel
2006, sommati ai 170 mila,
previsti dal governo Berlusconi... Il governo attuale ha anche stabilito, in linea con altri Paesi europei (Inghilterra,
Svezia e Irlanda), di consentire la libera circolazione dei
cittadini neocomunitari (contro le limitazioni precedenti).
Anzi, il ministro dell’Interno
Amato ha aggiunto che «tutta la legge Bossi-Fini dovrebbe essere cambiata; inoltre il
governo metterà mano alla
riforma della cittadinanza».
(Si tratta del delicato passaggio dallo jus sanguinis allo jus
soli, dall’essere cittadini per
diritto di sangue al diventarlo
per il luogo di nascita).
Intanto, è stata bloccata la restituzione del «Bonus bebé» di
1000 euro da parte dei 3000
nuclei famigliari di immigrati
che lo avevano per errore ricevuto. «Ciò che abbiamo fatto .
ha detto il ministro Ferrero –
è una sorta di riduzione del
danno. Abbiamo semplicemente evitato che la Guardia
di Finanza vada nelle case degli immigrati, come fossero dei
delinquenti, per ritirare il rimborso dell’assegno bebé».
Quanto ai nuovi ingressi, lo
stesso ministro si è detto convinto che il nuovo decreto porterà alle casse dello Stato tra i
miliardo e il miliardo e mezzo
di euro, sotto forma di contributi dei datori di lavoro
Palestina
reggerà
un ponticello
di pace?
Punto di riferimento quale
unico ospedale specializzato in
cure mediche pediatriche per
la prima infanzia nei territori
palestinesi (dove vivono mezzo milione di bambini al di
sotto dei 4 anni), il Baby Charitas Hospital di Betlemme si
presenta con le parole del suo
fondatore, padre Ernst
Scydrig «Abbiamo aiutato i
più poveri, senza mai chiedere della loro appartenenza etnica o religiosa». Dando fiducia e speranza da oltre 50 anni,
oggi accanto a una quarantina di posti letto il moderno
ospedale ospita una scuola per
le madri, una scuola professionale di cure medico-sanitarie,
servizi sociali e un ambulatorio esterno. 20.000 i bambini
che accedono annualmente
alla struttura e fino a 150 le
madri che ricorrono alla outpatient-clinic ogni giorno.
Molte infermiere hanno imparato il mestiere nella scuola
professionale interna, acquisendo competenze per costruire un nuovo sistema sanitario.
L’ospedale dà stabile lavoro a
200 persone e spesso uno di
questi stipendi mantiene più di
una famiglia, soprattutto dopo
la chiusura dell’ultimo varco
nel Muro. (www.khb.ch). (L.
Morsolin)
della quindicina
Immigrati
350mila
nuovi
ingressi
il meglio
Sri Lanka
pescatori
tra il diavolo
e l’Oceano
vignette
ATTUALITÀ
da PANORAMA, 13 luglio
da LA REPUBBLICA, 15 luglio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 15 luglio
da L’UNITÀ, 19 luglio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 20 luglio
da LIBERAZIONE, 21 luglio
da IL CORRIERE DELLA SERA, 23 luglio
da L’UNITÀ, 24 luglio
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
a cura di
Anna Portoghese
primipiani
ATTUALITÀ
11
cittadella convegni
20-25 agosto
senza i sandali dell’identità?
“… non c’è giudeo né greco; né schiavo né libero; né uomo, o donna…” (Gal 3, 28-29)
alcune tematiche: esplorare l'identità - se l'identità cammina con la storia - chi non si mette la maschera? - nelle
derive integraliste... vivere la laicità - culture e religioni: il meticciato, una sfida ineludibile? - cos'è di Cesare?
cos'è di Dio? - crescere con le differenze - l'identità feriale - le identità negate interpellano la politica - a piedi
nudi... consegnarsi all'uomo, consegnarsi a Dio
collaborano: Corrado AUGIAS, scrittore; Nacera BENALI, giornalista algerina; Tony BERNARDINI, della Cittadella; Enzo BIANCHI, priore della comunità ecumenica di Bose; Eugenio BORGNA, psichiatra; Rita BORSELLINO,
deputata all'Assemblea Regionale Siciliana; Roberto CARUSI, regista teatrale; Franca CICORIA, della Cittadella; Tonio DELL'OLIO, di Libera International; Paolo FERRERO, ministro della Solidarietà Sociale; Gianna
GALIANO, della Cittadella; Rosino GIBELLINI, teologo; Sergio GIVONE, filosofo; Kossi KOMLA-EBRI, scrittore
migrante; Raniero LA VALLE, giornalista; Catiuscia MARINI, sindaco di Todi; Carlo MATTI, pianista; Raimòn
PANIKKAR, scrittore, filosofo delle religioni; Giannino PIANA, teologo morale; Marco PIAZZA, maestro di musica
classica dell'India; Renzo SALVI, capoprogetto Rai Educational; Lilia SEBASTIANI, teologa; Rosanna VIRGILI,
biblista
il Corso inizia domenica 20, alle ore 21,15; termina la mattina di venerdì 25
14° incontro biblico
1-3 settembre
non solo beatitudini: i 'guai a voi' nei vangeli
con padre Alberto MAGGI, biblista
l'incontro inizia venerdì 1, alle ore 21,15; termina domenica 3, alle ore 13
esercizi spirituali
dove sta l’errore
6-10 novembre
per presbiteri, diaconi, laici, suore
la Lettera di san Paolo ai Romani
con don Oscar BATTAGLIA, professore emerito dell'Istituto Teologico di Assisi
È la più lunga, la più ricca di teologia, la più difficile delle tredici lettere di San Paolo: una specie di sintesi della
teologia cristiana delle origini... per nutrire la nostra fede alle sue sorgenti e per entrare in profondità nella
spiritualità più genuina e impegnativa che la chiesa delle origini ci ha trasmesso. Ancora oggi è la lettera di Paolo
più studiata e commentata
gli esercizi iniziano lunedì 6 alle ore 18 con la liturgia eucaristica; terminano venerdì 10, alle ore 13
informazioni - iscrizioni:
Cittadella Cristiana – sezione Convegni – via Ancajani 3 – 06081 Assisi/PG –
internet: ospitassisi.cittadella.org – tel. 075813231; fax 075812445 – e-mail: [email protected]
Raniero
La Valle
C
onosco personalmente molti dei
parlamentari dissidenti sull’Afghanistan, le cui fotografie vengono
pubblicate ogni giorno sui giornali
quasi si trattasse di pericolosi delinquenti. Tale linciaggio è inammissibile: per fortuna c’è ancora una Costituzione che tutela il loro diritto-dovere di rappresentare la nazione senza vincolo di mandato. Li conosco come persone serie e responsabili e so che le motivazioni della maggior
parte di loro non sono né quelle un po’ ricattatorie di Bernocchi (dimostrino di essere «pacifisti»), né quelle assolutistiche di Gino Strada (fiat pax, pereat mundus) né quelle puriste
dei movimenti non ancora giunti a pensarsi
come soggetti politici (la pace «pura», senza
se e senza ma, come ogni altra cosa «pura»
per fortuna non esiste né nella natura né nella
storia). So invece che le loro motivazioni sono
politiche: essi pensano che la guerra perpetua
in atto in diversi scacchieri sia la conseguenza
della scelta strategica della presidenza Bush,
invano mitigata dai segretari di Stato, di promuovere dopo l’11 settembre il «nuovo secolo
americano», cioè il nuovo Impero mondiale
che vendichi il Novecento.
Questo progetto è destinato a fallire, tra molti
tormenti; quello che invece si può realizzare è
il progetto che vi si è inserito di Israele, di chiudere unilateralmente la questione palestinese
stabilendo una sovranità definitiva su tutta
l’antica terra d’Israele, dal mare al Giordano,
neutralizzando i palestinesi col muro e con le
altre politiche abbozzate e già in atto.
Il voto sull’Afghanistan è l’occasione che è stata scelta per dire no a tutto questo, ben oltre
l’Afghanistan. Ma proprio per questo tale scelta
mi sembra un gravissimo errore che non solo
vanifica questa occasione, ma rischia di compromettere ogni altra occasione.
Essa non tiene conto della natura propria della politica e delle sue condizioni di operatività. Forse è il prezzo che si paga nel passaggio
dalla politica «parlata», discussa, proiettata in
scenari ragionati, alla politica in cui i destini
collettivi sono effettivamente in gioco in campo aperto. Questo passaggio non esige solo «realismo» che può scadere in un compromesso
al ribasso, ma una risposta alta alla responsabilità del reale.
In questo senso la politica è un sistema di mezzi e strumenti per raggiungere un fine. Andarsene semplicemente, noi soli, dall’Afghanistan,
non è un mezzo adeguato, se non per il suo
valore rappresentativo e di impatto sull’opi-
nione. Ma allora io avrei più problemi per le
truppe in Kosovo, dove si rischia, anche senza sparare, di imporre dall’esterno l’indipendenza di quel territorio contro la minoranza
serba disgregando definitivamente tutta l’area.
Per la crisi internazionale generale due sono
gli strumenti che è interesse supremo di una
politica alternativa attivare.
Il primo è lo strumento di un governo nazionale che sia in grado di far giocare all’Italia un
ruolo di iniziativa e di proposta capace di incidere sull’intero equilibrio mondiale e sulle
alleanze, in una prospettiva di comunità internazionale di diritto, che intercetti e impedisca la formazione di ogni nuovo impero. Il
vertice promosso a Roma è un barlume di
questa possibilità. La ricaduta nel berlusconismo, che è perfino peggiore di Berlusconi, rappresenterebbe la catastrofe di questa prospettiva.
Il secondo è quello della ristrutturazione di
tutto il sistema degli interventi militari internazionali, che li porti non tutti necessariamente fuori dell’uso della forza, ma tutti fuori della guerra e di qualsiasi loro uso egemonico,
neo-coloniale e neo-imperiale, da parte di qualsiasi Potenza. Se una cosa è da chiedere al
governo italiano è che apra una trattativa col
Consiglio di Sicurezza per una attuazione del
capo VII della Carta dell’Onu, e il passaggio di
tutte le forze d’intervento alle dipendenze del
Consiglio di Sicurezza e sotto la direzione strategica del Comitato di Stato maggiore che ne
assuma il comando e ne determini l’impiego
(art. 47). L’approdo sarebbe una forza permanente di pace dell’Onu. Qui la difficoltà è che
gli americani non vogliono farsi comandare
da generali stranieri, ma appunto questa è la
vertenza politica da aprire che, se non trovasse soluzione, avrebbe come risultato la delegittimazione di qualsiasi intervento militare
americano fuori confine.
Se i dissidenti avessero dato questi contenuti
alle loro rivendicazioni, avrebbero puntato non
a una testimonianza per sé, ma a una soluzione per tutti.
L’altro errore è stato di non vedere che un’azione di minoranze illuminate, in Parlamento,
non è possibile se non si rimette in questione
la forma italiana del bipolarismo, che toglie
ogni agibilità politica ai portatori di proposte
alternative, rendendole di fatto eversive. Il primo compito delle minoranze sarebbe dunque
quello di lottare per un sistema elettorale-politico che permetta loro di esistere senza essere anarchiche.
❑
13
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
64° Corso internazionale di Studi cristiani
RESISTENZA E PACE
LIBERIA
legname
e sangue
14
I
Onu come una delle principali fonti di instabilità dell’Africa occidentale. Proprietario
dell’impresa di legnami Oriented Timber
Company (Otc), in realtà non si limitava al
commercio di armi ma attraverso gli stabilimenti Otc e di un’altra sua compagnia di
legname formava ed addestrava miliziani o
mercenari da utilizzare in Liberia o nei paesi limitrofi. Fra la fine degli anni ’90 ed il
2003 il traffico di armi verso la Liberia, oggetto di un embargo Onu, ha seguito le vie
del legno. Le armi seguono il percorso inverso dei tronchi, lungo le strade aperte dalle compagnie nelle foreste equatoriali; i mezzi dei mercanti del legno sono stati utilizzati
per trasportare le armi. Nel periodo 19982000 la produzione di legno è cresciuta a
dismisura ed i proventi sono serviti a pagare
l’esercito: le milizie e unità speciali sono state accusate da Amnesty International di violazioni dei diritti umani.
Il trafficante olandese e Taylor erano già in
affari quando il dittatore liberiano era a
capo di una guerriglia in lotta contro il
Governo di Monrovia e gli concesse lo sfruttamento del legname nei territori sotto il
suo controllo. Dal 1997, una volta giunto al
potere il dittatore ha garantito all’europeo
il saccheggio sistematico. Con il fratello di
Taylor a capo dell’amministrazione forestale, Kouwenhoven ha avuto a sua disposizione circa un terzo delle foreste commercialmente utilizzabili. Per evitare ogni problema Taylor fece approvare una legge che
delegava al Presidente, cioè a lui, ogni potere in materia di concessioni forestali.
Per dare un’idea del grande valore economico è sufficiente dire che secondo Global
Witness nel solo anno 2000 l’export di legname era pari a 100 milioni di dollari. È
facile immaginare che solo le briciole sono
finite nelle casse dello Stato. Tutti questi
soldi hanno garantito oltre alla ricchezza
di Taylor il finanziamento dei mercanti di
cannoni. Le navi che caricavano il legname
nei porti liberiani vi attraccavano cariche
di armi, denunciava Global Witness. Ovviamente i porti erano gestiti dalla Otc di Kouwenhoven. Un’altra via delle armi erano le
piste di atterraggio nelle zone forestali, sempre nelle aree sotto il controllo della Otc.
Solo nel 2003 l’Onu ha adottato l’embargo
sul legname liberiano, considerato, al pari
dei diamanti, la principale fonte di finanziamento del conflitto.
Fra chi ha denunciato questi commerci di
morte è da segnalare Greenpeace, l’associazione che fra gli anni 2000 e 2003 ha indagato nel settore denunciando alcuni imprenditori che in Europa ed in Italia importavano dalle società di Kouwenhoven, fra cui
l’italiana Tecnoalp. Recentemente l’associazione ambientalista è stata assolta in tribunale dall’accusa di diffamazione intentata
dalla Tecnoalp.
«Il caso Kouwenhoven – afferma Greenpeace – dimostra che il commercio internazionale del legno non è in grado di autoregolamentarsi ed evidenzia l’urgenza di una
legge che regoli il mercato, vietando le importazioni di legname di origine illegale o
distruttiva».
armi in cambio di materie prime
Le guerriglie, fra cui quella vincente di
Taylor, fecero ricchi i trafficanti di armi grazie al cosiddetto «legname insanguinato»,
cioè venduto clandestinamente in cambio
delle armi che hanno reso i Paesi dell’Africa occidentale un inferno. Del resto senza
la svendita delle materie prime le guerre
degli anni ’90 non sarebbero durate tanto
tempo. Taylor, a titolo esemplificativo, grazie al legname ed ai diamanti ha accumulato una fortuna dell’ordine di centinaia di
milioni di dollari. Ultimamente è stato arrestato in Nigeria mentre cercava di scappare in Cameroun con più di un milione di
dollari in contanti e sarà processato per un
lungo elenco di crimini contro l’umanità,
fra cui l’arruolamento di migliaia di bambini soldato, rapiti alle proprie famiglie.
Ovviamente l’ex dittatore ha fatto ricche le
compagnie occidentali di diamanti e di legname che hanno sottratto enormi ricchezze a popolazioni fra le più diseredate del
mondo. Non solo, la Liberia e la confinante
Sierra Leone erano i Paesi più afflitti dal
problema dei bambini soldato, cioè di ragazzini trasformati in spietate macchine per
uccidere.
Oggi, a guerre finite, migliaia di ex combattenti senza alcuna istruzione e capaci solo
di combattere sono destinati diventare delinquenti. L’Occidente che si è ingrassato con
le risorse naturali africane e con la vendita
di armi ha l’obbligo morale di aiutare il recupero psicofisico di questi ragazzi e la fuoriuscita dal sottosviluppo. Allo stesso modo
bisognerebbe rendere noto il nome delle
compagnie che hanno utilizzato tali commerci, per evitare che comprando ad esempio un parquet si possa contribuire inconsapevolmente a tanta sofferenza.
Questa condanna, di valenza anche pedagogica, speriamo sia solo la prima di una
lunga serie. Il processo a Taylor che si svolgerà all’Aia prossimamente, sarà il capitolo
successivo e rappresenterà l’occasione per
fare piena luce sul ruolo svolto da politici e
servizi segreti. Del resto Taylor secondo Nigrizia era al soldo della Cia dal 1985 ed il
ministro francese della cooperazione Josselin, sempre secondo Nigrizia, cercò di togliere l’embargo delle armi verso la Liberia
quando Taylor divenne Presidente nel 1997.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Luciano
Bertozzi
mercanti di armi rischiano di trascorrere molti anni in prigione. Gus Van
Kouwenhoven, un importante trafficante olandese di armi, è stato condannato ad otto anni di carcere da un tribunale del suo Paese per aver venduto
armi in violazione dell’embargo Onu al
dittatore liberiano Taylor. La pubblica accusa chiedeva, invece, una pena di venti
anni e una multa di 450.000 dollari. «Riteniamo dimostrato – ha affermato in tribunale il procuratore John Lucas – che l’imputato è colpevole di crimini di guerra per
la consegna di armi, solo e in collaborazione con altri, essendo cosciente degli assassini, degli stupri, dei saccheggi» che infuriavano nel Paese africano. Lo stesso procuratore ha definito l’imputato Van Kouwenhoven «braccio operativo» di Taylor, al
cui regime forniva armi in cambio di concessioni per lo sfruttamento di legname
esotico.
L’olandese, tuttavia, non è stato ritenuto responsabile di crimini contro l’umanità, per
tale reato è stato assolto per insufficienza di
prove. Il trafficante olandese era al centro
del commercio di morte nel Paese africano,
sconvolto da una sanguinosa guerra civile
negli anni ’90 che causò molte decine di migliaia di vittime e la destabilizzazione dell’intera regione africana. David Crane, il procuratore del Tribunale Speciale sui crimini
commessi in Sierra Leone e che indaga da
anni sul ruolo di Taylor nel predetto conflitto, ha definito l’arresto del trafficante «uno
dei principali colpi assestati alla rete di affaristi e faccendieri occidentali che si arricchiscono sulle sofferenze degli africani».
Il caso giudiziario ha sollevato il velo sui legami fra le attività dei commercianti di armi,
i finanziatori internazionali e lo sfruttamento
delle immense risorse naturali africane. Kouwenhoven era citato in numerosi rapporti
Luciano Bertozzi
15
POLITICA ITALIANA
il fascino
del
partito democratico
U
quale modello
Comunque il sogno di un unico partito
«democratico» rimane all’orizzonte e stimola a superare le difficoltà di una coalizione che stenta a imboccare una strada
comune e ben lastricata. Lo si può constatare ogni giorno: la politica estera, prima di tutto, con le spedizioni militari, ma
anche il lavoro, la scuola, l’immigrazione, e soprattutto i bilanci. E anche la lai16
cità. Nessuna meraviglia se si sente il fascino di una situazione rigidamente bipolare, come negli Usa. Anche se, a guardare meglio, ci si può rendere conto che
anche per Bush la situazione politica non
è «rose e fiori».
Tutto, dovunque, è complesso: inutile farsi illusioni. Da noi, in particolare, sarebbe
vano dimenticare quanto le posizioni politiche del centrosinistra siano diverse le
une dalle altre. Posizioni di oggi e storia
di ieri. Basti pensare alla lontananza fra le
due componenti principali, i democratici
di sinistra e la Margherita, Fassino e Rutelli (anche se Prodi, D’Alema e Amato guidano una forte e abile squadra di mediatori). Vengono subito in mente le case di
origine, le Botteghe Oscure e Piazza del
Gesù: erano vicine l’una all’altra materialmente, ma quanto lontane! Per non ricordare la distanza fra il «Capitale» di Marx e
la dottrina sociale della Chiesa. Una distanza che ha caratterizzato più di mezzo secolo di storia italiana e che ora non si può
cancellare in pochi mesi. Caratterizzato e
anche arricchito.
dall’Italia all’Europa
Né giova uno sguardo all’Europa. Qui, negli scranni parlamentari si invoca una unità all’insegna del socialismo: insegna storicamente quanto mai gloriosa ma che
oggi viene tirata da troppe parti, come il
classico lenzuolo. E come accade anche
per il «centro», altra indicazione politica
troppo incerta ed elastica. La perdita delle identità politiche e culturali è un rischio
da corrersi il meno possibile. Né perdite
né annacquamenti.
tempi lunghi e mediazioni
E allora? Il sogno del partito unico democratico non si deve mettere nel cassetto, ma richiede tempi lunghi e mediazioni. E non deve
comportare troppi rinvii. I problemi politici
di oggi vanno risolti in quell’oggi affollato e
anche confuso nel quale si è chiamati a discutere e anche a decidere. Come, d’altronde, il governo Prodi sta cercando di fare.
Filippo Gentiloni
17
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Filippo
Gentiloni
n sogno? Una speranza senza
fondamento? Un alibi che potrebbe servire a coprire le carenze del nuovo governo di centrosinistra? A questi interrogativi è
chiamato a rispondere il futuro
partito «democratico». Quando e se nascerà. È bene parlarne, ma senza dimenticare l’oggi: l’oggi di parecchi partiti che lavorano insieme nonostante le diversità,
uniti non soltanto dalla comune fortissima avversità al berlusconismo, ma anche
da un discreto programma positivo, come
le recenti decisioni di Bersani hanno dimostrato.
ECONOMIA
la grande
manovra
il Ministro
dell’Economia
Tommaso
Padoa Schioppa
18
N
riusciti a imporre al recalcitrante presidente del consiglio un governo a 101 membri);
il proporzionalismo che allora ci si accingeva ad abbandonare è tornato nella sua
versione peggiore; i tecnici – o presunti tali
– non hanno vita facile né successo assicurato; la politica – con tutta la sua forza e
tutte le sue debolezze – ha ripreso il suo
posto.
Ma queste sono solo le differenze della scena politica. Sul versante dell’economia, la
radicale diversità rispetto a quei tremendi
anni ’90 è ammessa dallo stesso Dpef (Documento di programmazione economica
e finanziaria) del governo, quello che contiene il fatale numeretto dei 35 miliardi.
Si legge infatti nel Dpef che, per l’anno
2007, non tutti quei 35 miliardi sono votati al risanamento della finanza pubblica:
per essere precisi, 20 vanno recuperati dal
bilancio pubblico, in forma di minori spese o maggiori entrate, per riequilibrare un
bilancio che altrimenti marcerebbe verso
un deficit ritenuto insopportabile; mentre
altri 15 sono da dedicare alla crescita, allo
sviluppo, insomma all’economia privata
che non tira e se continua così non tirerà.
Ma poiché – questo il ragionamento di Padoa Schioppa e colleghi – non si può aiutare l’economia privata aprendo una falla
ulteriore nelle casse pubbliche, quei 15
miliardi da votare alla crescita devono essere a loro volta trovati nel bilancio, con
minori spese o maggiori entrate: per questo la manovra complessiva sarà (dovrebbe essere) di 35 miliardi.
La differenza non è di poco conto. Dal punto di vista teorico, è la sconfessione di un
mito che si è sempre mostrato fallace ma
che da molti anni a questa parte i governanti non hanno mai rinnegato, e quelli
europei lo hanno addirittura scritto nelle
carte fondamentali dell’Unione. Il mito per
cui basta tenere i conti pubblici in ordine,
il deficit sotto controllo (possibilmente tendente allo zero), e l’economia va. Beh, l’economia non va, e se gli investimenti privati
non decollano, la domanda non cresce, i
risparmi non vanno a scopi produttivi, le
imprese non innovano e la produttività
scende, bisogna metter mano a qualche
strumento nuovo, non basta blaterare contro l’oppressione del governo e pensare che
liberando l’economia privata da questo
peso tutto si aggiusta.
chi pagherà?
Questo sul piano generale. Quando si scende nel dettaglio però le cose si fanno più
complicate, e non solo perché non si conoscono le misure che saranno prese per
la crescita. Si sa che in gran parte quei fondi andranno ad alleggerire il peso che grava sul costo del lavoro, dunque ad aumentare la convenienza dell’assunzione dei lavoratori (il che dovrebbe innescare un circolo virtuoso di fiducia nella ripresa dell’economia), a stimolare le nostre bassissime spese per la ricerca e l’innovazione tecnologica. Ma non si sa come, con quali
misure specifiche, se gli sgravi saranno
mirati o indiscriminati; e soprattutto non
si capisce ancora bene come l’effetto positivo dello stato che dà (quei 15 miliardi,
per la crescita e lo sviluppo) sia controbilanciato dall’effetto negativo dello stato che
prende (quegli stessi 15 miliardi, perché
la manovra non si farà in deficit, più quegli altri 20, per il risanamento complessivo).
Nella complessa partita del dare e avere,
non basta dire: tagliamo le spese improduttive, le sostituiamo con quelle produttive, e il gioco è fatto. In primo luogo, perché l’entità della manovra è talmente grande che difficilmente potrà essere coperta
dalle sole operazioni di bisturi sulle spese
«inutili»; in secondo luogo, perché ogni
spesa improduttiva è un bacino di consen-
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Roberta
Carlini
ella manovra economica che ci
aspetta per la prossima stagione,
per ora si conoscono solo i grandi numeri: 35 miliardi di euro.
Una misura imponente, che si
avvicina quasi alla più dura manovra degli ultimi anni, quella con la quale nel 1992 l’allora primo ministro Giuliano Amato intervenne contemporaneamente su pubblico impiego, enti locali, pensioni e sanità con altrettante leggi delega e
pesanti tagli. A quell’epoca si trattava di
fronteggiare il pericolo di svalutazione
della lira (che poi ci fu), far restare l’Italia
agganciata al carro europeo, superare una
gravissima crisi politica: ma fu proprio
grazie a quella gravissima crisi (si era nel
pieno della tempesta di Tangentopoli) che
i partiti – in via di scioglimento, sciolti o
comunque in travaglio – non ebbero alcuna voce in capitolo, i «tecnici» presero il
sopravvento e la super-manovra si fece.
Adesso, nonostante i ripetuti parallelismi
– è stato lo stesso ministro dell’Economia
Tommaso Padoa Schioppa a esordire dicendo che la crisi che stiamo vivendo è
grave quanto quella dei primi anni ’90 –,
la situazione appare molto diversa. I partiti, nuovi, vecchi o rifatti, sono abbastanza forti (o almeno così pare, visto che sono
19
il mito del 3%
Ad esempio, un effetto positivo della riduzione del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti (ossia uno sgravio sui contributi o
sulle tasse che gravano sul lavoro) potrebbe
essere in parte annullato da un aumento
dell’Iva, o dei ticket sanitari, etc. È per questo che molti economisti, nel criticare l’impostazione data al Dpef da Padoa Schioppa,
chiedono di abbandonare il mito del 3%,
ossia l’obiettivo di portare il rapporto tra deficit e Pil al di sotto del 3% e progressivamente verso lo zero: questa politica, voluta
dal Trattato di Maastricht e poi dal patto di
stabilità, è proprio quella che ci ha portato
nella situazione di stagnazione in cui siamo,
sottraendo risorse alla domanda aggregata
e dunque all’economia. Questi economisti –
il cui appello è circolato in rete ed è stato
pubblicato dal manifesto – chiedono un’interpretazione meno rigida di quei patti, propongono che l’Italia si faccia promotrice in
Europa di una svolta in questa direzione, e
che metta mano ai suoi problemi economici
senza la spada di Damocle del rispetto di parametri che non stanno scritti in nessun sacro testo né hanno alcuna motivazione scientifica, ma vengono solo dall’ossessione dei
costituenti europei verso lo spauracchio dell’inflazione e del lassismo finanziario.
tutta colpa dell’Europa?
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Il ministro dell’Economia Padoa Schioppa, che nei palazzi europei ha vissuto da
protagonista (essendo stato per anni nel
board della Banca centrale europea), non
pare affatto intenzionato a seguire questa
linea. Eppure in tutti i suoi scritti è testimoniata una sua insofferenza verso una
concezione tutta contabile e monetaria
dell’Europa, e uno slancio verso un’Europa politica che avrebbe bisogno di regole
ben più profonde di quella del 3%. Ma Padoa Schioppa, pur se anagraficamente un
po’ più giovane, appare appartenere a quella schiera di governanti italiani (che van20
no da Carli a Andreatta a Ciampi) che non
fidandosi molto della nostra capacità di
tenere la barra, sentono la necessità di
mettere la nave su una scia più grande; di
agganciarci all’Europa per imporci una
virtù che da soli non riusciamo a imporci;
di preferire una regola stupida (così Prodi
definì la rigidità del Patto di stabilità) all’autodisciplina, che per noi vorrebbe dire
«nessuna regola».
Una concezione criticabile, ma con un fondo di verità: anche abbandonando quella
regola del 3%, pur dilazionando l’obbligo
di riequilibrare il bilancio pubblico (che in
ogni caso non può basarsi sul ricorso indefinito al debito), anche scegliendo un percorso più ragionevole (prima lo sviluppo,
poi il risanamento), siamo sicuri che la politica italiana sarà in grado di scegliere, e di
agire, al momento opportuno? È colpa dell’Europa, o di noi stessi, se finora non si è
scelto in modo netto tra le rendite e i salari,
tra le tasse e l’evasione, tra la sanità pubblica e le (costosissime) cliniche in convenzione, tra le megaopere e le piccole strade?
dai numeri alle persone
Forse l’autunno porterà consiglio, e dalle
discussioni sui numeri e sulle percentuali
passeremo a quelle sulle persone e sulle
cose. Discutendo nel merito, forse potremmo scoprire che uno degli obiettivi ritornati in auge (a sorpresa) nel Dpef, quello
della riduzione delle disuguaglianze, potrebbe sposarsi bene anche con i nostri
problemi fiscali. Il ministro Visco ha già
dato un assaggio (piccolo) della questione, cambiando il regime fiscale delle stock
option, ossia delle retribuzioni «fuori busta» che i top manager si danno, finora
tassate con una ritenuta pari a meno della
metà di quella che c’è sullo stipendio di un
operaio. Ma è così utopistico pensare che,
in situazioni straordinarie e urgenti, i più
ricchi siano chiamati a contribuire di più
allo sforzo? Che dunque l’ultimo modulo
della riforma Tremonti, quello che ha abbassato le aliquote per i redditi più alti,
vada annullato? Che il riordino delle rendite finanziarie vada fatto pensando, oltre
che a fare ordine, anche a fare un po’ di
giustizia? Forse parlando un po’ di più di
queste cose – e di sanità, degli ospedali,
delle farmacie, eccetera eccetera – e un po’
meno della regola del 3% riusciremo a superare, finalmente, quell’emergenza iniziata negli anni ’90 e non ancora finita.
Roberta Carlini
OLTRE LA CRONACA
indulto indulgente
Romolo
Menighetti
’avvio di un processo di moralizzazione è una delle maggiori speranze che gli elettori del centrosinistra coltivano da quando Prodi
è a capo di un governo di segno
opposto al precedente. Non vanno però nel senso della moralizzazione
della vita pubblica alcuni degli orientamenti della maggioranza.
Mi riferisco in particolare all’indulto che,
al momento in cui i lettori leggeranno queste righe, potrebbe già essere stato approvato dalla Camera. (Giova ricordare che
l’indulto è uno sconto sulla pena – in questo caso di tre anni – che non estingue però
il reato).
Ebbene, tale provvedimento, che si vorrebbe motivare con l’esigenza di sfoltire le
carceri, ammette allo sconto di pena anche i reati contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato),
quelli finanziari (falso in bilancio, frode
fiscale, aggiottaggio, appropriazione indebita), e quelli societari (i fallimenti). Cioè
proprio i reati che maggiormente ammorbano la vita pubblica, e che coinvolgono,
più che il comune cittadino, chi vive di
politica, pubblica amministrazione e dintorni. Vale a dire proprio i reati che il centro-sinistra, quando era all’opposizione,
accusava la maggioranza di centro-destra
di voler legalizzare o ridimensionare. Inoltre, dal momento che i condannati per tali
reati raramente stanno a lungo in galera,
non regge molto la giustificazione dell’esigenza di sfoltire le carceri, mentre affiora
quello che pare essere il vero motivo del
provvedimento: accelerare il reinserimento nelle pubbliche funzioni di chi già in
esse aveva intrallazzato.
Al momento in cui scrivo, tra i ministri, il
solo Antonio Di Pietro, che aveva presentato modifiche – bocciate – per escludere dall’indulto la corruzione, ha fatto sentire forte e chiara la propria contrarietà al provvedimento, minacciando addirittura le dimissioni. Di Pietro che, sia detto per inciso,
appare come tra i ministri più coerenti con
l’obiettivo della moralizzazione (si veda la
L
tempestiva consegna dei registri dell’Anas
alla Magistratura), parla di «simonia» e
«compravendita delle indulgenze» per cui
«il centrodestra acconsente a votare l’indulto» in cambio dell’inclusione di alcuni reati, appunto quelli – aggiungo io – contro la
pubblica amministrazione. In base a tale
provvedimento, ad esempio, l’ex ministro
berlusconiano Previti godrà dello sconto di
tre anni, e potrà approfittare della legge che
consente l’affidamento ai servizi sociali.
Ma la difficile moralizzazione pubblica traspare anche dalla vicenda taxi e da come
si è conclusa. L’obiettivo principale – più
taxi a disposizione dei cittadini – è stato
solo minimamente raggiunto, mentre si è
ripetuto l’immoralissimo copione per cui
chi più protesta, blocca le strade, crea problemi, minaccia, alza la voce e le mani, alla
fine canta vittoria. Le intenzioni del Ministro Bersani erano certamente ottime, e
avevano aperto il cuore degli elettori (anche di centrodestra) alla speranza circa il
ridimensionamento di una lobby rozza e
prepotente, che rende difficile, per motivi
corporativi, l’uso di un mezzo che si rivela
sempre più necessario, vista la crescente
difficoltà per il trasporto privato urbano.
L’essersi accontentati di un «pareggio»
però si configura come una sconfitta per il
cittadino che giustamente aspira a più corretti rapporti con i monopolisti di un servizio pubblico.
E infine, Dio non voglia che il governo di
centrosinistra si lasci tentare da quella che
appare come la madre di tutte le immoralità: la grossa coalizione. Sarebbe il tradimento degli elettori che, votando Prodi e il centrosinistra, hanno votato per un cambiamento netto e preciso. Piuttosto Prodi e
coloro che hanno più senso di responsabilità nella maggioranza, facciano chiaramente capire a certi irrequieti colleghi, che un
conto è fare la «rivoluzione» e un conto è
avere responsabilità di governo, che l’etica
dei valori deve armonizzarsi con l’etica della responsabilità. E li invitino a rileggere (o
a leggere per la prima volta) quel che scrive
in proposito Max Weber.
❑
21
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ECONOMIA
so, stratificato negli anni, spesso ha generato dei diritti acquisiti, spesso del malaffare difficile da sradicare in pochi mesi.
Ma ammesso pure che il governo abbia la
forza e il coraggio di procedere su questa
strada, in pochi credono che possa essere
l’unica; e tutte le altre – dall’aumento delle
tasse ai tagli di spese come quella sanitaria o pensionistica – sono ben più dolorose, in termini di equità ma anche ai fini
dello stesso rilancio dell’economia che si
vuole perseguire.
SCUOLA
lo Stato
e la società
civile
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Fiorella
Farinelli
22
n diluvio di commenti alle dichiarazioni su scuola ed educazione
del cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia. Non solo il corteo dei soliti noti alla quotidiana
ricerca di visibilità e di ascolto.
Con argomenti non banali e riflessioni non
schematiche sono scese questa volta in
campo anche firme autorevoli e un bel
gruppetto di teste pensanti. Perché le provocazioni del cardinale, che dice basta alla
scuola statale e chiede che sia invece la
società civile a gestire l’educazione in nome
della libertà di insegnamento, se suscitano diffidenze e contrarietà anche all’interno del mondo cattolico, interessano e incontrano non poche simpatie, viceversa, in
alcuni settori della sinistra e nei raggruppamenti politici di tipo liberal, magari sparuti e tuttavia vivi e vegeti in entrambe le
coalizioni.
Il cardinale, del resto, nell’intervista del 16
luglio al Corriere della Sera, non dice che
lo Stato deve uscire dal campo dell’educazione, ma ne limita e circoscrive il ruolo
esclusivamente a compiti di regolazione.
Non gestione, quindi, ma governo; non
istruzione di Stato, ma libertà educativa
in scuole gestite da associazioni, fondazio-
U
ni, comunità (perché no, quindi, alle scuole
islamiche?) purché accreditate dallo Stato.
Parole che non suonano del tutto estranee,
e tanto meno ostiche, a quella parte del
centrosinistra che apprezzò la legge sulla
parità scolastica approvata quando era ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, per
cui si riconosce la funzione pubblica – e la
partecipazione «paritaria» al sistema pubblico – a quelle scuole che, sebbene gestite
da privati, ottemperano agli obiettivi e alle
regole di funzionamento stabilite dallo Stato. E soprattutto a quanti, nell’introduzione dell’autonomia delle istituzioni scolastiche – poi costituzionalizzata con la riforma del Titolo V – hanno visto e sostenuto proprio la netta e definitiva presa di
distanza dal tradizionale statalismo scolastico, quello del pensiero pedagogico di
Stato, dell’ uniformità educativa, dell’identità dei programmi e delle modalità di funzionamento come garanzia di eguaglianza, dell’autoreferenzialità indifferente alle
differenze degli allievi e dei contesti.
l’autonomia scolastica
Molti commenti, dunque, sono positivi,
almeno su questi contenuti dell’intervista
del cardinale, e sembrano semmai rimproverargli di presentare un ritratto della scuola
italiana molto diverso da quello che in effetti essa è, o è diventata, o almeno potrebbe diventare. È ben vero, infatti, che in Italia l’80% delle scuole è «statale» e che le istituzioni scolastiche autonome sono ancora
gracili, anche perché deprivate dalla gestione Moratti delle risorse necessarie e insidiate, viceversa, dall’immarcescibile centralismo ministeriale, ma l’autonomia scolastica non è, almeno in linea di principio,
proprio la restituzione delle scuole ai cittadini, alle loro comunità, ai loro territori?
Non è la dislocazione delle responsabilità
di gestione del sistema educativo dallo Stato alle comunità scolastiche, mentre allo
Stato restano le funzioni relative alla definizione degli obiettivi e degli standard di
riferimento, alla individuazione dei livelli
essenziali delle prestazioni, alla valutazione dei risultati del sistema?
Anche il nuovo regionalismo, del resto, va
in questa stessa direzione, con l’attribuzione a Regioni ed Autonomie Locali di compiti un tempo dello Stato.
il modello della Gran Bretagna
Si può dunque trovare una certa sintonia
23
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
dibattito sulla proposta del card. Scola
il card. Scola,
a fianco;
Sergio Romano,
sotto
dubbi a destra e a sinistra
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Ma è proprio attorno a questo asse di riflessioni e di proposte che si concentra il
significato autentico delle posizioni del
cardinale Angelo Scola? O non si tratta
invece dell’ennesima versione, intinta di
liberalismo, delle vecchie contrapposizioni tra scuola statale laica e scuola privata religiosa? O addirittura di un nuovo modo, sotto la bandiera della libertà
della persona, di battere cassa a favore
di quelle scuole private che i robusti tagli economici del dicastero Moratti hanno messo in ginocchio?
I dubbi affiorano, anche tra i commentatori di sinistra più sinceramente interessati al dibattito, quando il cardinale,
interrogato in proposito, riconferma la
necessità che non manchi mai nelle scuole l’insegnamento della religione cattolica. La cui presenza si spiega, notoriamente, solo in un sistema educativo fortemente orientato da uno Stato che lo garantisce: e con un atto – il Concordato –
che è un vero e proprio patto tra Stato e
Stato. Non solo a sinistra e nel mondo
laico, del resto, serpeggia l’idea che, dietro il velo della libertà di scelta agitato
dal cardinale, ci sia l’intenzione di rilanciare la battaglia per la difesa dell’istruzione confessionale. «C’è una corrente
del cattolicesimo – commenta il padre
redentorista Nino Fasullo – che, fin dai
tempi dell’unità d’Italia, contesta lo Stato espropriatore. Una corrente che oggi
24
avverte le difficoltà del cattolicesimo ad
esercitare un’egemonia sulla società e
vuole porvi rimedio». La vicinanza tra
Angelo Scola e il pensiero di don Luigi
Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, ingigantisce i sospetti, soprattutto in chi ha pregiudizi laicisti. Ma anche in un commentatore certamente non
dogmatico come Sergio Romano, che
dichiara di guardare con interesse al superamento dell’identificazione tra pubblico e statale e all’idea «di un sistema
scolastico fatto di una pluralità di istituzioni laiche o confessionali, organizzate
secondo diversi criteri pedagogici e contraddistinte da una maggiore libertà
quanto ai programmi, ai contenuti, ai
metodi di insegnamento», gli argomenti
utilizzati dal patriarca di Venezia non
sempre convincono. Sembra, in particolare, molto discutibile l’interpretazione
che Scola dà dell’articolo 33 della Costituzione, dove si dice che la Repubblica
istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi, mentre Enti e privati hanno il
diritto di istituire scuole ed istituti di
educazione senza oneri per lo Stato. Se
questo dovesse significare – come pare
di dover dedurre dalle parole di Angelo
Scola – che lo Stato deve istituire e finanziare le scuole ma insieme permettere che il servizio venga gestito con grande libertà da enti ed associazioni del privato, ci si troverebbe, secondo Sergio
Romano, in una situazione assolutamente paradossale e decisamente anticostituzionale. Contradditoria, inoltre, con le
altre parti della Costituzione che fanno
dell’istruzione un diritto di tutti, che la
Repubblica deve garantire indipendentemente dalle condizioni sociali, culturali,
di genere, di religione e di nazionalità.
che scuola vogliamo?
Ma è bene che la discussione ci sia. E che
attraverso le tesi e gli argomenti delle diverse parti in causa si chiarisca di che
scuola e di che educazione si sta parlando. E in che direzione, e per quali obiettivi, far evolvere un sistema che è indubbiamente in crisi e che, nel suo complesso, presenta performances assai modeste. Se non altro per sgomberare il campo dalle posizioni conservative per cui,
«abrogata Moratti», non ci sarebbe altro
da fare.
privatizzazione
PAROLE CHIAVE
Romolo
Menighetti
a privatizzazione è un orientamento di politica economica che favorisce il passaggio ai privati della
proprietà delle imprese pubbliche.
Nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso i Paesi che in precedenza avevano acquisito al settore pubblico
tutta una serie di servizi e industrie, incominciarono a ricredersi sulla bontà della
proprietà di Stato. Si venne così rafforzando l’opinione che la proprietà privata e la
concorrenza meglio incentivassero l’efficienza e la bontà dei servizi.
Anche l’Italia ha avviato una politica di privatizzazioni, smantellando le sue «partecipazioni statali». Non avendo però affrontato adeguatamente il problema dell’abolizione, o quanto meno della limitazione,
del monopolio, le politiche di privatizzazione si sono per lo più risolte in fallimenti e in svendite.
In realtà, se si intende privatizzare, prima
bisogna liberalizzare il mercato, pena la
creazione di monopoli privati in luogo di
quelli pubblici. E se questi ultimi possono
in alcuni casi avere una giustificazione di
tipo sociale (offrire beni e servizi a prezzi
politici), i monopoli privati producono solo
maggiori profitti per i detentori.
L’errore delle privatizzazioni è consistito in
particolare nel mantenere unite le attività,
sui diversi mercati, dei grandi monopolisti,
quali produzione e trasmissione, o telefonia fissa e mobile. Anzi, questi stanno rafforzando le loro posizioni di dominio perseguendo modelli multiservizio (elettricità
più gas più acqua più telefonia più reti televisive più giornali più libri più illuminazione pubblica più semafori e altro).
Una delle conseguenze principali della privatizzazione è l’affermarsi della convinzione che l’economia debba preoccuparsi unicamente dell’aumento dei profitti privati,
senza preoccuparsi della dimensione sociale della stessa. (In virtù di tale dimensione
l’economia, di concerto con la politica, dovrebbe invece farsi carico, oltre che dei profitti, anche della loro redistribuzione, onde
garantire un minimo di benessere per tutti,
mantenere un buon livello nei consumi, salvaguardare l’ordine pubblico e la sicurezza
dei cittadini).
In sostanza, la privatizzazione, anche grazie
L
al diffondersi della piccola proprietà azionaria tra la «gente» (il cittadino-azionista) vorrebbe allargare la base del consenso al liberismo economico, inculcando la convinzione
che ciascuno deve, in prima persona, determinare e forgiare il proprio presente e futuro
economico, finanziario e previdenziale, senza la necessità della rete protettiva del welfare. (Salvo poi a scoprire che per mancanza di
controlli e per complicità a livello politicoaffaristico, il reddito da lavoro diventa sempre più precario, il risparmio è ingoiato dalle
altrui speculazioni, e le pensioni si sfarinano
nelle nebbie di un incerto futuro).
Attualmente in Italia, più o meno realizzate, risultano le privatizzazioni nei settori dell’energia, dei trasporti e della telefonia. Si
parla anche, tra l’altro, di privatizzazione
della Rai, dell’Anas, e delle strutture pubbliche che si occupano di ambiente.
Particolarmente inquietanti appaiono i tentativi di privatizzazione entro i settori della
sanità e della previdenza, in quanto pongono sotto il segno dell’aleatorietà del mercato
il soddisfacimento di esigenze fondamentali delle persone.
A livello globale poi, è già in atto la privatizzazione delle sementi agricole, che assoggetta al passaggio attraverso le mani di
pochi, gran parte della produzione agricola mondiale.
Sempre allo stesso livello, inoltre, da tempo
si parla di privatizzazione dell’acqua, un bene
che, soddisfacendo un bisogno primario, dovrebbe invece essere di tutti, e gestito da autorità pubbliche. Sostiene tale tesi, riguardo
al Terzo Mondo, la Banca Mondiale, in vista
dello scarseggiare dell’ «oro blu». Vi è anche
chi parla di privatizzare le carceri, progetto,
tra l’altro, già in atto negli Usa.
Infine anche la guerra è da tempo entrata
nell’orbita delle privatizzazioni. Le Società
Private Militari (Private Military, Pmc) sono
organizzazioni internazionali che forniscono alcuni servizi di sicurezza e militari, fino
all’intervento diretto, attraverso veri e propri battaglioni d’assalto. Già prima dell’invasione dell’Iraq il fatturato mondiale complessivo delle Pmc si stimava intorno ai 100
miliardi di euro.
Le privatizzazioni, dunque, possono portare lontano, molto lontano dalla tutela e dalla difesa dei fondamentali diritti dell’uomo.
Fiorella Farinelli
25
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
SCUOLA
tra quello che dice il cardinale e le posizioni di una parte del paese, anche di sinistra e laica. Il modello cui si guarda è
quello della Gran Bretagna, dove il sistema educativo è misto, fatto di scuole statali, ma anche private o gestite dalle comunità locali, che hanno piena libertà
pedagogica e metodologica e che sono
responsabili del proprio funzionamento,
e tuttavia tutte obbligate a rispettare un
curriculum nazionale, e tutte sottoposte
a una valutazione nazionale dei risultati.
Lo Stato, dunque, non gestisce il sistema se non in parte, ma assicura il diritto
di tutti all’istruzione, definisce contenuti ed obiettivi validi per ogni scuola e condizione della validità dei titoli di studio,
controlla e verifica l’andamento e gli esiti del sistema e delle singole istituzioni
scolastiche. E la Gran Bretagna, si sa, è
un paese né cattolico né clericale, geloso
delle libertà individuali, di antichissima
democrazia.
chi
ci crede più?
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Pietro
Greco
l tema lo ha riproposto anche il G8
tenuto a San Pietroburgo a metà giugno: non è possibile raggiungere né
la sicurezza energetica, né gli obiettivi di sviluppo posti dalle Nazioni Unite per l’inizio del nuovo millennio
(Millennium Development Goals) senza
assicurare un accesso sostenibile ai carburanti ai 2,4 miliardi di persone cui a tutt’oggi è negato e senza assicurare un accesso sostenibile all’elettricità agli 1,6 miliardi di persone che ne sono prive.
Il tema è quello dello sviluppo sostenibile.
E il modo, piuttosto stanco, di rievocarlo
da parte degli otto grandi riuniti a San Pietroburgo sembra indicare che il concetto
è ormai logoro. Benché abbia solo venti
anni, sia stato e sia tutt’ora protagonista
di grandi assise planetarie (delle più grandi riunioni nella storia della diplomazia
mondiale), continui a riempire intere biblioteche di nuovi libri e riviste e, soprattutto, ambisca a modificare il modo di produrre la ricchezza delle nazioni, è da molti considerato superato, privo di significato. Morto. Per uso e, soprattutto, per abuso, eccessivo. Tutti lo invocano, nessuno
lo pratica.
Meglio, dunque, abbandonarlo a se stesso?
Meglio opporre ai grandi del G8, agli economisti di tutto il pianeta e persino agli
«sviluppisti» che si annidano nelle fila di
qualche movimento ambientalista concetti
più chiari e draconiani, come quello – secco – di decrescita: per salvare l’ambiente
non c’è altra strada che produrre di meno.
Punto.
I
l’impatto umano
Prima di rispondere alla domanda – e abbandonare il concetto di sviluppo sosteni26
bile al suo destino – vediamo quali sono i
fattori da prendere in esame quando vogliamo indagare sul futuro del pianeta. Per
fortuna questi fattori ce li hanno indicati,
ormai trenta e più anni fa, l’entomologo
Paul R. Ehrlich e lo studioso di problemi
energetici John Holdren: l’impatto umano sull’ambiente è il prodotto di soli tre
fattori: la popolazione, l’affluenza (in soldoni, i consumi pro capite) e la tecnologia
(ovvero, l’impatto ambientale per unità di
consumo).
È davvero possibile ricondurre – con qualche rischio accettabile di riduzionismo –
la complessità dell’impatto umano sull’ambiente a questi tre fattori: al numero di
esseri umani che nell’ambiente vivono, alla
quantità dei loro consumi e anche alla
qualità dei loro consumi.
Tuttavia non tutti questi tre fattori giocano allo stesso modo.
Non c’è dubbio – per esempio – che il numero di esseri umani sulla Terra sia un
fattore ecologico importante. Gaia – il nostro pianeta – non può sostenere, fisicamente, un numero infinito di esseri umani. Tuttavia, in questa fase storica, il fattore popolazione tende a essere sovrastimato (anche dallo stesso Paul R. Ehrlich, che
parlò addirittura di «population bomb», di
bomba demografica). La popolazione
umana è in crescita e quindi contribuirà a
far aumentare l’impatto sull’ambiente. Ma
entro il prossimo secolo la popolazione
umana tenderà a stabilizzarsi. E, soprattutto, già oggi non è il fattore più dinamico nell’equazione di Ehrlich e Holdren.
L’impatto umano sull’ambiente (contributo ai cambiamenti climatici, erosione della biodiversità) cresce a una velocità superiore alla crescita della popolazione umana.
il fattore tecnologico
Anche l’altro fattore, quello tecnologico, è
importante. E gioca davvero un ruolo positivo. Basta a dimostrarlo il fatto che nell’economia dell’uomo sia l’intensità di
materia (ovvero la quantità di risorse materiali usate per produrre un’unità di ricchezza), sia l’intensità di energia (l’energia usata per produrre un’unità di ricchezza) stanno diminuendo. E ciò si verifica
sia nelle economie mature, che hanno una
spiccata cultura dell’efficienza, sia nelle
economie emergenti, tutte proiettate verso lo sviluppo. È davvero importante questa ricerca di tecnologie innovative e di
produzioni di beni sempre più immateriali,
perché senza queste tecnologie sarà impossibile giungere a uno sviluppo sostenibile
sul pianeta (e anche alla società della decrescita, evocata da molti pensatori radicali).
la crescita dei consumi pro capite
Tuttavia allo stato il problema è che, malgrado il rallentamento della crescita demografica e malgrado l’accelerazione dell’innovazione tecnica, l’impatto umano
sull’ambiente è in crescita rapida. Un solo
esempio: dal 1990 a oggi le emissioni antropiche di gas serra sono aumentate del
30%, malgrado 2,4 miliardi di persone non
abbiano accesso ai carburanti e 1,6 miliardi non abbiano accesso all’energia elettrica. E malgrado, anche, la Convenzione sui
cambiamenti climatici firmata nel 1992 a
Rio de Janeiro richiedesse una sostanziale stabilizzazione prima di operare un radicale abbattimento.
Perché? Il motivo è molto semplice. Perché tra i tre fattori dell’equazione di Ehrlich e Holdren il più dinamico è quello in
genere più trascurato nei dibattiti pubblici: l’affluenza. La crescita dei consumi
(materiali ed energetici) pro capite. Questa crescita è molto rapida e ha facilmente
ragione sia della tendenziale stabilizzazione della popolazione (che comunque entro la fine del secolo sarà del 50% superiore a quella odierna), sia della pur impetuosa innovazione tecnologica. E l’affluenza
cresce sia perché noi, popolazioni dei paesi ricchi, consumiamo sempre di più (incuranti, peraltro, delle disuguaglianze senza precedenti tra ricchi e poveri), sia perché si sta affermando nei paesi emergenti
(soprattutto in Cina, ma anche in India e
in tutta l’Asia orientale) una classe, che
conta ormai centinaia di milioni di individui, che tendono ad avere il nostro medesimo e insostenibile stile di vita.
il concetto di sviluppo sostenibile
Ecco dunque, dove e come intervenire:
dobbiamo rallentare e, addirittura invertire, la dinamica del fattore A (affluenza)?
Dobbiamo consumare meno beni materiali
e meno energia.
Può aiutarci a raggiungere questo obiettivo il concetto di sviluppo sostenibile o è
troppo logoro per essere utile? Non è meglio parlare più chiaramente di decrescita
dell’economia umana?
Il concetto di sviluppo sostenibile ha una
storia culturale robusta, che affonda le sue
radici nel pensiero dei primi scienziati (da
Clausius ad Arrenhius) che si accorsero,
già nell’Ottocento, che l’economia umana,
in via di veloce industrializzazione, stava
assumendo una dimensione paragonabile
a quella della natura. Che con questa nuova forma di produzione, Homo sapiens si
avviava a diventare un attore ecologico globale. E che la novità è tale da caratterizzare la nostra epoca e da giustificare il termine, Antropocene, con cui l’ha efficacemente ribattezzata il premio Nobel per la
chimica Paul Crutzen.
Su questa intuizione è nato il progetto politico dello sviluppo sostenibile, lanciato
dalla Commissione Brundtland negli anni
’80 dello scorso secolo e ufficialmente sancito dalla Conferenza della Nazioni Unite
sull’Ambiente e lo Sviluppo (Unced) di Rio
de Janeiro nel 1992. L’idea di fondo è che
l’umanità deve rendere il suo sviluppo economico, appunto, sostenibile, sia in termini ecologici (limitare la crescita, bloccare
e infine diminuire l’uso non rinnovabile di
materia e di energia) sia in termini sociali,
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SVILUPPO SOSTENIBILE
SVILUPPO
SOSTENIBILE
perché la disuguaglianza sociale non solo
è ingiusta in sé, ma è anche uno dei fattori
che contribuiscono a rendere più pesante
l’impronta umana sull’ambiente.
Contro questo concetto di sostenibilità, da
Rio in poi, sono scesi in campo, con diverse tattiche e diverse strategie, almeno tre
potenti partiti avversari. Quello degli scettici, i quali sostengono che l’intuizione sul
ruolo ecologico globale che avrebbe assunto l’uomo è, par l’appunto, un’intuizione.
E che non ci sono prove scientifiche sufficienti né per trasformare l’intuizione in
una proposizione verificata, né tanto
meno, per supportare una politica attiva
di sviluppo sostenibile.
È facile dimostrare che, al contrario, in
questi ultimi lustri le prove scientifiche non
solo sono aumentate, portate in maniera
indipendente da ricercatori delle più diverse discipline, ma la cultura scientifica intorno al concetto di sostenibilità ha dato
luogo alla nascita di una scienza, la Sustainability Science, che non si oppone alla
scienza consolidata, ma ne è una componente evolutiva. Insomma, è nelle università e nei centri di ricerca di tutto il mondo che vengono realizzate idee, indagini e
teorie che corroborano i presupposti scientifici dello sviluppo sostenibile. Sono, dunque, le persone preoccupate e non gli scettici a fondare le loro convinzioni su solida
scienza.
Tuttavia contro lo sviluppo sostenibile è
sceso in campo anche un secondo partito,
più pragmatico e pericoloso. Il partito di
coloro che dichiarano di perseguirlo – pensate a George W. Bush – e, in realtà, si
muovono in direzione opposta. È questo
trasformismo che ha logorato il concetto
– in maniera estremamente pericolosa.
l’economia della decrescita
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Ed è questo trasformismo che ha favorito
l’emergere di un terzo partito: il partito di
coloro che propongono di abbandonare al
suo destino il sostantivo e l’aggettivo, per
proporre nuovi termini – decrescita – e una
nuova radicalità. Se vogliamo salvare l’ambiente in cui l’uomo vive – sostiene per
esempio il sociologo francese Serge Latouche – dobbiamo costruire una società in cui
semplicemente diminuisce la produzione.
Perché l’impronta umana sull’ambiente ha
già raggiunto la soglia limite e non può
continuare ad aumentare.
Inutile dire che questo partito ha i suoi
aderenti soprattutto dentro il movimento
ecologista. Il percorso che indicano è giusto. Occorre costruire una nuova econo28
mia e un nuovo modo di produrre che non
siano fondati sul consumo di beni materiali e di energia non rinnovabile. Non c’è
alternativa. Abbandoniamo le chimere neoliberiste. Abbandoniamo il mito (e il ritmo) dell’affluenza. Governiamo questo
processo, prima che sia la penuria di risorse – di capitali della natura – a imporlo.
Tutto giusto. A patto però – come sostiene
Gianfranco Bologna, docente presso l’università di Camerino, direttore generale
della Fondazione Aurelio Peccei e direttore scientifico del Wwf Italia, in un suo recente libro (Manuale della sostenibilità,
Edizioni Ambiente, pagg. 332) – di chiarire che la decrescita non significa affatto
diminuzione di benessere.
Sia perché si può e si deve costruire una
nuova economia fondata sulla conoscenza in cui vengono scambiati con poca energia (speriamo rinnovabile) non beni materiali – al netto di quelli necessari a una vita
dignitosa – ma beni immateriali.
Sia perché si può e si deve costruire un’economia più equa. Non è più sostenibile –
appunto – un mondo che produce ricchezza come mai nella sua storia e, nel medesimo tempo, produce disuguaglianza come
mai nella storia.
Sia, infine, perché si può costruire un’economia in cui il benessere è un benessere
collettivo diffuso, e non un benessere individuale fondato sul consumo di beni materiali.
BOLIVIA
meno beni ma più benessere
L’economia della decrescita non è un’economia dove – semplicemente (si fa per dire)
– si produce meno. È un’economia dove si
producono meno beni materiali ma si produce più benessere immateriale.
Se non diciamo questo, la diminuzione dei
consumi, il governo del fattore affluenza e
la proposta dell’economia della decrescita
assumono i caratteri di un progetto velleitario. Persino masochistico. Sbagliato nei
contenuti e assolutamente incapace di raccogliere il consenso necessario per imporsi.
Ma un’economia della decrescita che presuppone l’aumento del benessere diffuso
delle persone, anche attraverso la tutela
dell’ambiente, non è altro che l’idea fondante dello sviluppo sostenibile. E allora –
se la sostanza della proposta non cambia
– perché abbandonare un termine entrato
nell’immaginario dell’umanità, per un termine che può risultare ambiguo?
Pietro Greco
una terra
tra utopia e comunione
testo di
Maurizio Salvi
fotografie di
Martina Salvi
BOLIVIA
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
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S
anta Cruz de la Sierra. La terra
di Evo Morales, il leader aymara
diventato quest’anno presidente
della repubblica contro l’ostinazione delle multinazionali del gas
e del petrolio, è una realtà che riserva mille sorprese. Una di queste è qui nel sudest, nel dipartimento di Santa Cruz, dove
vivono i cosidetti Cambas, meticci che controllano le leve economiche ed industriali
del paese. Una Bolivia che raramente emerge dai notiziari radio-televisivi o sulla stampa, e che, se lo ha fatto, è stato appunto
per la determinazione di una importante
parte della popolazione locale a non accompagnare i progetti radicali di Morales,
rischiando anche di fomentare una scissione. E nella consultazione popolare del
2 luglio scorso Santa Cruz è stato uno dei
quattro dipartimenti – insieme a Beni, Tarija e Pando – a dire sì ad una sorta di ‘devolution’ che avrebbe permesso alle regioni più ricche di amministrare autonomamente gran parte delle proprie risorse (inutile rammentare che gas e petrolio sono
proprio all’interno di questi dipartimenti).
Ha prevalso il no, grazie anche alla forza
del dipartimento di La Paz, ma è certo che
il campanello d’allarme è stato chiaro ed
evidente per i progetti di governo dell’ex
leader dei cocaleros (coltivatori di coca)
boliviano.
Insomma è qui che si trova, sostanzialmente ancora nascosta, una delle mille sorprese che è in grado di riservare la Bolivia al
mondo esterno: si tratta della Chiquitania
e delle sue Missioni (o Riduzioni) Gesuitiche. In sé, l’intervento religioso dei Gesuiti e i loro ambiziosi programmi di evangelizzazione sono cosa ben nota. In America
latina si trattò soprattutto della cosiddetta
Conca del Rio de la Plata (Paraguay, Brasile e Argentina), con sviluppi successivi
in Bolivia (Chiquitos appunto, e Moxos),
Ecuador e Perù (Maynas e Macas), mentre altri missionari della Compagnia si dirigevano altrove nel mondo (Filippine,
Cina, Giappone e Canadà). Tutto questo fenomeno che ha segnato il 16°, 17° e 18°
secolo, oggi è conosciuto meglio con il
nome, classico ma un po’ triste, di Rovine
Gesuitiche, e su questo tema i tour operator di tutto il mondo propongono visite a
quello che resta degli edifici religiosi di un
tempo. Si tratta di esperienze significative, che richiedono però cultura storica e
forte capacità di suggestione.
missioni realtà vive
Ma qualcosa di diverso esiste. Nella selva
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BOLIVIA
boliviana del sud-est, nel regno delle orchidee e della fauna multiforme, dove le
strade di terra rossa tagliano la vegetazione, e dove i villaggi mostrano ancora quanto sia vivace e solida la struttura etnica
indigena dei Chiquitanos, le Missioni – ed
in questo caso le chiese che ne costituivano il perno – sono realtà vive e funzionanti. Non siamo di fronte a rovine romantiche, ma a edifici barocchi meticci, diversi
fra loro, ma di impressionante bellezza,
aperti al culto ed attrezzati con gli elementi
che le componevano in origine e che erano ritenuti strumenti efficaci di trasmissione della fede: un coro giovanile, una
orchestra di strumenti a corda e botteghe
artigianali per la fabbricazione di violini e
viole, secondo i canoni settecenteschi) e la
conservazione delle immagini sacre. Restaurate negli anni ’70 dall’architetto svizzero Hans Roth che dedicò a questa impresa ogni sua risorsa per 27 anni, fino alla
morte, queste chiese si offrono oggi ai visitatori stanchi degli itinerari scontati a
cinque stelle e ansiosi di esperienze ancora non contaminate. La dedizione di Roth
ha ricevuto fra l’altro un plauso internazionale, perché nel 1990 l’Unesco ha incluso sei delle Missioni di Chiquitos nel Patrimonio culturale mondiale.
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«La zona dove nacquero – spiega lo storico Ricardo Ortiz – è stata chiamata Chiquitos dal nome del gruppo indigeno prevalente quando nel 1691 padre José Arce
fondò la prima denominata San Francisco
Javier». In meno di 80 anni (fra il 1691 ed
il 1760), fino a quando cioè Carlo III non
decise l’espulsione dei gesuiti, sorsero una
decina di villaggi comunitari (fra cui i sei
ora Patrimonio dell’Unesco: San Javier,
San Rafael, Concepcion, Santa Ana, San
Miguel e San José con il suo altare elegante a tre piani), sviluppati attorno ad una
chiesa dalle dimensioni sempre imponenti e dipinta con motivi floreali e animali,
con il preciso obiettivo di utilizzare la
musica e l’arte come mezzo di diffusione
della fede, per rendere possibile l’utopia
principale della Compagnia di Gesù: la riproduzione del Regno di Dio in Terra. Fu
padre Martin Schmid, svizzero come Hans
Roth, l’esecutore di questo ambizioso progetto per avvicinare gli indigeni Chiquitos
alla Verità del Vangelo. I missionari sceglievano in genere una zona fertile, con acqua abbondante e clima propizio, su cui
edificavano la zona urbanizzata, partendo
da una piazza centrale che aveva una cro32
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barocco spumeggiante
BOLIVIA
ce nel mezzo. Ad un lato della piazza si
erigevano la chiesa, il collegio e le botteghe degli artigiani. Nei tre lati restanti si
costruivano le abitazioni per le famiglie, i
cui membri seguivano i corsi di dottrina,
andavano a scuola, apprendevano arti e
mestieri, sotto l’occhio vigile dei missionari. L’evoluzione del modello funzionò
perché i gesuiti riuscirono ad imporre la
lingua dei Chiquitos a tutti gli altri gruppi
indigeni. Ciò portò ben presto a prefigurare l’autonomia di ciascun villaggio missionario che viveva secondo regole comunitarie e di utopia, diciamo così, socialista,
con rigorosa ripartizione di responsabilità ed oneri all’interno della comunità. E,
elemento veramente rivoluzionario, senza
la presenza degli spagnoli.
Schmid nacque nel 1694 a Baar, nel cantone di Lucerna (dove si spense nel 1772),
città nel cui collegio della Compagnia fu
accolto per compiere un ciclo di studi che
dalla teologia si estendevano a musica, architettura e ad altre scienze di un mondo
enciclopedico che si stava aprendo all’Illuminismo. Lasciata la Svizzera, il religioso giunse a Cordoba (nel nord dell’Argentina) in una Missione che poteva vantare
molti gesuiti dalla buona cultura musicale – alcuni sapevano addirittura costruire
ottimi strumenti – quando non si trattava
di noti compositori di fama europea; è il
caso del pratese Domenico Zipoli (16881726). Non avrebbe mai immaginato, padre Schmid, che tutto questo bagaglio
acquisito gli sarebbe tornato utile per vincere la sfida dell’evangelizzazione da cui
erano usciti sconfitti spesso altri religiosi
Gesuiti, Francescani e Cappuccini.
Da Santa Cruz, punto di transito obbligato per la presenza di un aeroporto internazionale, avanzando per 200 chilometri
verso ovest, cioè avvicinandosi al confine
con il Brasile dove si trova il delicato ecosistema acquifero del Pantanal, lo scenario si fa via via primitivo. Spariscono i
cartelli pubblicitari ed i segni più deteriori
della ‘civiltà’ e torna a prevalere la natura
in tutta la sua ricchezza. La porta della
Chiquitania è San Javier, sia perché è la
prima chiesa costruita dai missionari, sia
perché è quella meglio collegata con la
capitale del dipartimento. È qui che nel
rito solenne domenicale, si percepisce immediatamente la straordinarietà del luogo: in uno scenario marcato dai motivi
barocchi bagnati d’oro dell’imponente altar maggiore e fra le navate sostenute da
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ricchezza primitiva
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SBARRE E DINTORNI
il mio primo carcere
A
Vincenzo
Andraous
14 anni non si pensa al carcere, ti ci
trovi «dentro» improvvisamente e
ne sei respirato e concluso. Sì, ti ci
trovi dentro ed è davvero troppo
tardi. L’età più bella improvvisamente devastata nell’incontro affascinante e frontale con il mito della trasgressione, l’incoscienza dell’azione, della
sfida.
Io me lo ricordo bene, ero impegnatissimo
a fare vedere alle Autorià di essere un duro,
e quando mi stavano portando nel «mio»
primo carcere dei minorenni ho pensato:
«ecco sto per iniziare finalmente».
L’impatto iniziale con il carcere è stato violento, ma la mia vita era altrettanto violenta, quindi tutto in linea con ciò che immaginavo e che incoscientemente «desideravo» trovare ad attendermi.
È tutto accaduto in una vita precedente?
No, è stato ieri.
Quando vago con la mente tra questi fotogrammi impolverati e ingialliti dal tempo,
rivedo la mia immagine scomposta e inquieta, mentre i pensieri mi cadono addosso e
raccoglierne i cocci è un’ardua impresa.
Gli anni sono trascorsi, uno dopo l’altro,
passo dopo passo, uno scarpone chiodato
dopo l’altro, fino a giungere a «quell’urlo»
che ha squarciato la notte.
Qull’urlo che ho tenuto compresso in me,
sorvegliato a vista dalla mia incredulità,
contenuto nei miei tormenti, divenuto un
dono prezioso da custodire.
Svegliarmi nel buio, nel mezzo di una tempesta silenziosa, e due occhi bellissimi scrutarmi, scuotermi. Due occhi lucidi e profondi come l’anima che traspare al di là della
coscienza, della ragione che indaga e accusa. Con le mani fredde ed il cuore in gola, il
respiro che non esce, il dolore nei polmoni
salire alla gola e fare fatica a respirare.
Affannosa ricerca di boccate d’aria mute,
imprigionate, incatenate in attimi intensi
di vuoto e di pieno, di vita sospesa.
Due occhi come lune inchiodate, un volto
che non conosco, ma che sento tutt’intorno. Due occhi che piangono, rimangono
aperti e si distendono verso di me.
Nel silenzio di pietra della cella, l’urlo fuoriesce e taglia di netto il sentiero praticato a
occhi bendati, sgretola le abitudini consolidate, i sussurri che impongono i piedistalli e
le parole a paravento che non stanno scritte
da nessuna parte. L’urlo esce, assorda, mi
discosta e cancella la mia cella, le altre celle,
i muri e gli steccati. L’urlo si espande, rimbalza, si piega, prosegue e non smette la sua
corsa, neppure quando sono caduto in ginocchio, spossato, svuotato di me stesso.
Quegli occhi sono sempre lì, velati di pianto, addolciti da un sorriso leggero, come a
voler ridurre la distanza siderale che mi
separa da questo reale intorno.
Occhi grandi, lucenti, lacrime che parlano
di una tristezza felice, di una gioia che non
conosco e invece vorrei avvicinare, occhi
che rimangono a osservare la mia sorpresa, la mia fragilità.
Occhi bellissimi vestiti di speranza, sguardi che consentono di ricostruire e ritrovare l’uomo, sebbene nella fallibilità umana.
L’urlo è una eco lontana che mi trascina
via, liberando quello spirito maledetto che
mi portavo dentro e che tutt’ora sento in
me, ma che finalmente riesco a tenere ventre a terra.
L’incontro con quegli occhi ha significato
l’espansione di una riconciliazione che passa attraverso il riconoscimento di se stessi
e degli altri. Questo stesso universo di carne e sangue in costante evoluzione, questa
balena mitica che tutto inghiotte, questa
società a cui vorrei chiedere perdono. Sì,
mi sento parte di questa società ritrovata.
Non ho nulla da chiedere sarebbe troppo
facile, guardo ad essa con umiltà e cerco di
ritornare a farne parte con i gesti ed i comportamenti di questo mio quotidiano, attraverso la mia capacità per ciò che riesco a
dare di positivo, continuando a imparare.
Quella notte sono rimasto in ginocchio tanto tempo, in una sorta di terra di nessuno,
sbattendo il viso contro una specie di cortina fatta di barriere materiali e psicologiche, costretto fors’anche dalla mia ostinazione a vivere del mio, in una tragedia che
non ha fine, con un passato che assomiglia ad una sera senza luce dove non si può
leggere, solo ricordare.
L’urlo ora s’è disperso, quegli occhi tanto
amati sono svaniti.
I giorni, e gli anni si inseguono testardi,
mi adagio sul futuro che per me è già oggi,
in un presente contenuto nel passato, poiché ogni volta che si progetta qualcosa si
modifica e si rilegge il proprio passato con
occhi e sguardi nuovi.
Maurizio Salvi
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colonne di legno, presenti i Cabildos (i
capi della collettività indigena) nei loro
abiti tradizionali, un coro ed un’orchestra
integrati da giovani locali interpreta solitamente musica sacra. Al momento del
nostro passaggio, in occasione del Lancio Mondiale del destino turistico ‘Missioni boliviane di Chiquitos’, il programma
(l’opera ‘Vigilia della Festa del Santo Patrono San Francisco Xavier’) è stato realizzato nella piazza antistante, alla presenza praticamente di tutta la popolazione del villaggio che preparava da mesi con
entusiasmo l’appuntamento con la stampa internazionale.
A San Rafael e a Santa Ana, altri prodotti
del genio di padre Schmid, i lavori di restauro di Roth per riportare le chiese al
loro antico splendore fecero emergere una
quantità incredibile (8.000 pagine) di spartiti con composizioni inedite di rilievo di
musicisti europei ma anche indigeni. Un
ritrovamento che acquistò ulteriore importanza perché portò alla luce opere sconosciute, tra esse alcune di Zipoli. L’insieme di questo materiale, che è ancora
oggi oggetto di studio ed utilizzato per la
realizzazione di Cd di alto livello, è custodito nell’Archivio Misional di Concepciòn. E se anche nelle altre Missioni,
come abbiamo visto, non mancano orchestre e cori che si esibiscono con regolarità, è Concepciòn la capitale, e la sua chiesa è una sorta di La Scala che in occasione di festività o di cicli di rappresentazioni – nella scorsa primavera si è svolto il
sesto «Festival internazionale di Musica
Rinascimentale e Barocca Americana» –
ospita concerti, opere, musica tipica, cori
in idioma locale.
Le orchestre sono tante e il repertorio è
vasto: dalla «Misa de San Javier» alla «Visperas» de la Fiesta del Santo Patrono,
per non citare il gioiello «Opera de San
Ignacio de Loyola» (una delle sole tre
opere del Barroco Misional Americano)
conservata dagli indigeni di San Rafael
e Santa Ana e recentemente rappresentata in prima assoluta. E a riprova della
compenetrazione della tradizione indigena con il cattolicesimo, ogni Missione ha
il suo gruppo di ballo (Yarituses, Sarao
Paicas e Abuelos), i suoi ritmi strumentali indigeni (Tamboritas) ed i cori in Besiro (lingua originaria della regione) che
si mescolano costantemente con le celebrazioni eucaristiche componendo una
esperienza che non ha molti eguali al
mondo.
ESITI DEL MODERNO
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uando mia madre comperava un
vestito era una festa. Per lei ed intorno a lei. Irradiava felicità, come
una bambina al primo gelato di
stagione. Altri tempi. Altro mondo. Ma di certo, già adulta, io l’ho
vista felice, come doveva esserlo stata da piccola. Per poco. Per un
nonnulla: un vestito, neppure di pregio.
Il fatto è che quel vestito era frutto di sacrifici. Il suo, che aveva saputo aspettare
e risparmiare. Di mio padre che l’aveva
aiutata a concretizzare il piccolo sogno.
Il mio, che qualche pensiero lo sacrificavo alla causa della famiglia. L’unica cosa
che potevo fare. Da ognuno secondo le
proprie possibilità. Il vestito così, diveniva patrimonio comune, non solo economico. Per anni avrebbe accompagnato
Prime Comunioni e Matrimoni. Per anni
sarebbe stato l’oggetto di lusso delle grandi occasioni. Sempre quello, sempre uguale, mai scontato però, perché mia madre
ci metteva del suo, un talento particolare, per rinnovarlo. Semplicemente stirandolo o guardandolo appeso. Gli occhi possono più del tempo. Se amano, danno
sempre nuova luce alle cose. Di quel vestito certo i sociologi e gli economisti potevano dire tutto. Perfino gli antropologi.
Consumo povero da situazione post-bellica. Sogno condizionato di una famiglia
povera. L’inganno del nascente consumismo, da paese in fuga verso il progresso.
Di certo però non dicevano della felicità
di mia madre, della nostra felicità. Del
comune sentire che avrebbe fatto di un
vestito un nuovo protagonista della vita
quotidiana. Perché i consumi, se così li
vogliamo chiamare, avevano allora due
funzioni. Da una parte si consumava per
vivere, dall’altra per sognare. Anzi i due
aspetti erano felicemente legati. Perché la
pasta semplice apriva l’immaginazione ai
tortellini e i pantaloni corti ad un bel completo blu. Che poi la politica sapesse tutto ciò e vi innestasse sopra sogni consolatori da destra o denunce tese da sinistra, tutto ciò poco importava.
vestito della Festa
Quel vestito, evidentemente un po’ qualunquista, continuava a dominare le domeniche e qualche volta persino il sabato. Dalla parrucchiera o dalla amica del
cuore talora bisognava pure indossarlo.
Che il popolo sapesse che la povertà non
l’avrebbe avuta vinta per sempre! Fu così,
credo, a voler celiare, che cominciai a
maturare idee come dire da conservatore di sinistra. Una sorta di ossimoro, apparentemente. Un manifesto per il futuro Partito Democratico, a pensarci bene.
Ma questa è un’altra storia. In ogni caso
i consumi di cinquanta o giù di lì anni fa
si muovevano tra bisogno e sogno e quindi venivano a letto con noi e con noi si
svegliavano. Totalizzanti, forse, come direbbe uno studioso, ma di certo almeno
apparentemente ancora nostri, di tutta
una comunità, grande o piccola che fosse. Il vestito diveniva, prima e dopo l’acquisto, una sorta di morbido feticcio di
gruppo, persino quando suscitasse critica, invidia o rabbia appena fuori dal nostro confine. Ora non sembra più così. I
vestiti sono divenuti ad esempio merce
più accessibile per tutti. Un nuovo capo
acquistato viene vissuto quasi con indifferenza dalla famiglia, o dal piccolo o
grande mondo circostante, né colei o colui che lo compera riversa su di esso in
qualche modo un vissuto. Non c’è attesa, non c’è intorno allo stesso un aurea
quasi sognata, come c’era per mia madre. C’è invece un quasi inverecondo desiderio di possederlo. Perché il desiderio, sempre alla base del nostro vivere,
non ha più filtro. Non recede nel ripostiglio dei sogni, per ripresentarsi sotto
mentite spoglie. Non si stempera nell’accettazione dei limiti del quotidiano, spesso duri. Il desiderio ai nostri giorni diviene subito voglia di possesso. Il cosiddetto consumo nasce così quasi da una
spinta feroce e insopprimibile ad arraffare ciò che la pubblicità, diretta o subliminale che sia, ci propone. E il risultato è appunto la solitudine. Di colui che
acquista, mai felice né prima né dopo,
sempre com’è chiuso nella tenaglia del
continuo desiderio irrisolto. Ma anche di
coloro che con l’eventuale acquirente
condividono la vita perché spesso gli
stessi o non si accorgono neppure del
nuovo arrivo, o lo valutano con indifferenza. Esattamente il contrario della
nostra famiglia di mezzo secolo fa.
consumatore solitario
Il consumatore, come ora viene chiamato, è dunque solo. Un solitario arraffatore di cose, animato solo dal valore surrettiziamente inventato dal produttore.
Milioni di consumatori solitari si aggi-
rano così per strade e negozi alla ricerca
di qualcosa che non riuscendo a condividere profondamente con nessuno, mai
riuscirà a gratificarli. Economia dell’infelicità. Per questo ora si parla tanto di
consumatori, perché gli acquirenti sono
divenuti un’astrazione. Una categoria socio-politica tra le altre. Di sogni, angosce,
desiderio di riscatto, racchiusi dietro i
consumi non se ne parla più. Anzi non
esistono. Consumare è entrare solamente
nel grande libro del calcolo costi-benefici. E neppure le sane iniziative come quella del commercio equo e solidale ci aiutano più di tanto. Difatti chi ha fatto acquisti almeno una volta sotto quel segno sa
bene come la soddisfazione conseguente
è tutta di stampo cosiddetto politico. Ci
si sente parte di un piccolo movimento
alternativo e moralmente migliore, ma
mai veramente felici proprio per le cose
comperate. La verità è che l’incanto del
vestito di mia madre è proprio finito, che
la contentezza dei miei genitori, con lei
indosso quel vestito e mio padre orgoglioso al fianco, quella contentezza sconfinante con la felicità, è definitivamente tramontata. Siamo infelici e scontenti in questa epoca che è andata perfino oltre Marx,
perché è vero che l’uomo moderno è completamente alienato, ma lo sono paradossalmente in qualche modo anche le merci che sono divenute estranee a noi e a se
stesse. Cose indifferenziate per acquirenti indifferenti. Che poi li chiamino consumi o consumatori è un refuso semantico.
Uno dei tanti dei nostri giorni.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Claudio
Cagnazzo
da sognatori
a consumatori
Q
Claudio Cagnazzo
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IO E GLI ALTRI
migliori
e più felici
funzionalità del gioco
Si è parlato molto, e si parla ancora, dell’utilità del gioco nell’età infantile. A cosa
serve dedicare ore ed ore, senza stancarsi,
40
Manuel Tejera de Meer
a giochi movimentati e ripetitivi? Si è sempre detto che il gioco infantile sia l’espressione spontanea dell’energia che ogni individuo ha e che, partendo dalle motivazioni del divertimento, questa energia si
sviluppi verso l’espressione adulta del lavoro. È come se il lavoro sostituisse il gioco, come se il gioco dovesse essere superato dall’impegno professionale. Secondo,
però, un gruppo di studiosi dello sviluppo
con i quali concordo, seguendo la mia esperienza e le mie riflessioni, il gioco costituirebbe sempre un impulso spontaneo in
tutti i periodi dello sviluppo e della vita.
Non si desidera giocare soltanto quando
si è piccoli. Il gioco, come impulso spontaneo, si presenterebbe a tutte le età. Se,
ad un certo punto della vita, si prospetta il
divieto di giocare, è come se si creasse «un
intoppo» – così lo chiamo io – che la società presenta e che obbliga tutti ad adeguarsi alle norme stabilite, tante volte implicite o sottilmente proclamate.
La finalità originaria dell’energia è il gioco; ed il fatto di sostituirlo o di sublimarlo
con la professione adulta non è altro, a
nostro avviso, che una «distorsione» dell’indirizzo originario dell’energia.
Per interessi concreti della società in cui
viviamo, per l’obbligata accettazione di
certe norme sociali tradizionali, siamo stati
indirizzati fin da piccoli a distinguere il
piacere dal dovere.
In realtà lo sviluppo sano sarebbe sicuramente facilitato se quello che chiamiamo
«dovere» fosse vissuto come piacere. In
questo senso, quando un individuo continua a giocare nell’adempimento del proprio dovere, quando affronta quest’ultimo
con un adattamento ilare, aggiungendo
alla professionalità una nota di umorismo,
la vita stessa, in tutte le sue manifestazioni, diventa più soddisfacente.
A prescindere da certi lavori» come gli
sport professionali che sono per se stessi
fonte di piacere e di gratificazione.
Vorrei, però, soffermarmi sulla dimensione sociale del gioco. Ovviamente mi riferisco ai giochi collettivi o di coppia. Non a
quei giochi solitari che potrebbero degenerare in comportamenti quasi autistici ed
antisociali.
La tendenza socializzante del gioco infantile viene facilmente dimostrata, se si considera la facilità di comunicazione di bambini che non si conoscono, in quelle occasioni in cui esista un gioco collettivo, sia
che vengano invitati a partecipare o che si
aggiungano spontaneamente al gioco.
Un giocattolo universale com’è la palla crea
più contatti e relazioni di un qualsiasi di-
scorsetto educativo. Unisce di più il gioco
di squadra piuttosto che gli inviti, da parte di genitori ed educatori, a fare amicizia
ed a socializzare.
Nella prospettiva di considerare il gioco
come condizione essenziale del genere
umano ed elemento fondamentale di socializzazione, ricordiamo quello che qualcuno ha detto: «I bambini non giocano
perché sono piccoli, ma sono piccoli per
poter giocare». Altrimenti, se fossero adulti
– diciamo noi - non potrebbero, purtroppo, giocare più.
Quando si diventa adulti è vietato giocare.
Così, almeno, sembra che sia la norma che
la società impone.
Meno male che molti adulti riescono a prolungare il gioco, non con la continuità del
bambino, ma negli intervalli di evasione
che una vita impegnata presenta e vivendo, purtroppo, nell’abisso creatosi tra piacere e dovere.
Nascono, così, i «giochi di società», che
tengono uniti intorno ad un tavolo gruppi
di amici nel tentativo di divertirsi e con la
convinzione di poter, così, potenziare il
proprio capitale di socializzazione. In tutti questi casi conta di più lo stare insieme
che vincere nel gioco.
La spontaneità del gioco infantile, che ci
porta a comunicare meglio, viene poi sabotata dal divieto che gli adulti si danno
del continuare a giocare.
Si reprimono le pulsioni ludiche e ci troviamo, purtroppo, con esseri umani mutilati, tristi.
Finché persisterà la percezione interna di
questa mutilazione e sarà pure presente un
desiderio di «protesi», si starà a buon punto. Questa percezione può funzionare, infatti, come stimolo a liberarsi dall’oppressione di quelle regole sociali che vietano le
espressioni ludiche nei grandi, ed il risultato potrà essere, più che una protesi,
un’autentica rinascita della parte mutilata.
Così troveremo intorno a noi persone che
accettano ed usano l’ironia, che esprimono la gioia di stare insieme attraverso il
proprio umorismo, che contribuiscono a
creare un clima ilare ed armonioso, che
sanno parlare e rispondere con il sorriso.
Si creerà un clima allegro e spensierato e
si potrà, allora, dire di ognuno di noi ciò
che esprimevano le parole della lapide,
prima citate, sulla tomba di quel bambino: gli altri si sentiranno migliori e più felici con la sola nostra presenza.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
F
orse non diamo o non abbiamo
dato fino ad ora sufficiente importanza alla funzione socializzante del gioco infantile, soprattutto come premessa necessaria
per saper giocare nell’età adulta, per socializzare con gioia, per poter aumentare
il proprio capitale sociale.
Purtroppo, quando si arriva ad una certa
età, l’attività ludica, d’accordo con le norme sociali del mondo in cui viviamo, deve
lasciar posto alla concentrazione sulla serietà della vita, sul senso del dovere, sulla
definizione di maturità come conquista di
un senso d’impegno nei confronti di un
futuro, che è sempre incerto, e che suppone l’abbandono delle pretese infantili di
giocare sempre. Ciò, nonostante la tesi che
vogliamo difendere oggi, che bisogna continuare a giocare, che bisogna vivere la vita
come gioco, che il grosso potere dell’immaginazione dovrebbe essere indirizzato
verso mete che ci permettano di vivere contenti in un gioco senza sosta; pur considerando le tragedie della vita ed il dramma
della sofferenza, ma sapendo usare queste
situazioni dolorose con il dolce proposito
di coltivare uno spirito allegro. Minimizzare, alleggerire il peso del vivere, vedere
le cose con un certo umorismo, liberarsi
dallo spirito tragico che ci circonda in una
prospettiva che conduca verso una vita più
felice… sono meccanismi che aiutano sicuramente a migliorare la qualità della
nostra vita e di quelli con cui entriamo in
contatto.
È così che si creano le condizioni per sviluppare rapporti sociali veri e profondi con
parenti ed amici, ed anche con persone che
incontriamo, magari per la prima volta, e
verso le quali indirizziamo messaggi di
serenità e di allegria. Diventa, così, un
modo di vivere socialmente felice provocare un sorriso, entrare in contatto cordiale
e spontaneo con l’altro, mettere le premesse per una reciproca conoscenza portatrice di rapporti umani positivi, gratificanti
e piacevoli. Ricordo sempre d’aver letto,
molto tempo fa, che nel cimitero di un piccolo paese sperduto, sulla lapide di un
bambino era scritto: «Qui giace un bambino. Nella sua vita non fece niente di speciale, ma i suoi molti amici si sentivano
migliori e più felici quando stavano con
lui».
Manuel Tejera de Meer
41
La felicità
è avere
qualcuno
da perdere…
Philippe Delerme
questione di feeling
P
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Rosella
De Leonibus
42
rima annotazione. Per conoscere
nuovi partner ed evitare le difficoltà
del corteggiamento, c’è lo speed date.
Viene chiamato il nuovo gioco per
incontrare l’anima gemella. Funziona così.
Innanzitutto si gioca in gruppo, così ci sentiamo più forti e sicuri.
Si prende un bar, un luogo di ritrovo, abbastanza grande da contenere un centinaio di
persone, 50 ragazzi e 50 ragazze. Si prenota
per sms e si attende l’accettazione. Alla data
fissata si arriva puntuali. Ognuno avrà su di sé
un cartellino col suo nome o un nick name.
Adesso cominciano le danze. No, le presentazioni. A due a due ci si siede ad un tavolino,
tipo colloquio di selezione, e per alcuni minuti
ci si parla e si cerca di far colpo sull’altro/a.
Di solito i minuti non arrivano a cinque, in
media sono tre. D’altra parte, tre minuti è
circa la durata di una canzone, se si fosse
fatta una vera danza, il tempo sarebbe stato
poco lo stesso.
Suona un campanello e si cambia posto. Una
specie di quadriglia con cambio della dama.
Si ricomincia con la presentazione. E così
via fino a che non si sono passati tutti i tavolini. Proviamo ad immaginare la cinquante-
sima volta…
Man mano che si becca qualcuno di interessante, se ne annota il nome, e si può fare un
secondo giro, per approfondire un po’ la conoscenza. Poi finalmente il gioco prosegue
un po’ più libero.
seconda annotazione
Moltissimi ragazzi e ragazze si trovano in
difficoltà riguardo a come avvicinare un possibile partner. Non sono tanto le inibizioni
sulla propria disponibilità a livello emotivo
o corporeo, quanto proprio una mancanza
di know how sul modo di attrarre l’altro/a, e
di aprire un minimo di dialogo, un minimo
di conoscenza reciproca che permetta l’approccio. C’è insicurezza, timidezza, al di là
delle ostentazioni, ma anche una franca incapacità di comunicare con le parole, un
analfabetismo nella decodifica del linguaggio del corpo, una competenza all’ascolto
molto approssimativa. Nel dubbio, una possibile e molto praticata soluzione è il salto
delle tappe. Meno parole e più fatti. Dopo si
vedrà, se dall’intimità fisica viene fuori anche la voglia di conoscersi e capirsi, ok, altrimenti il gioco della seduzione finisce pri-
lo sguardo e la parola
Certo che bisogna imparare a leggere il linguaggio non verbale, ovvio che, nel presentarsi a lui o a lei, alcune frasi uccidono l’atmosfera, piuttosto che crearla. Poi però c’è
dell’altro.
C’è il recuperare appieno l’uso dei cinque sensi, per esempio. La capacità di guardare l’altro/a, non con l’occhio di triglia, né con l’occhio di chi calcola il numero delle battute di
ciglia o i gesti di auto contatto, e se sono almeno dieci allora ci sta, ma con la genuina
curiosità per una persona sconosciuta. C’è l’arte di sentire la musica che vive in ogni voce,
le sfumature di quel timbro vocale, il ritmo
del respiro dell’interlocutore, i suoi silenzi, e
leggerli, i silenzi, respirarli insieme all’altro/
a, punteggiarli di sguardi e sorrisi. C’è l’arte
di avvicinarsi all’altro/a, la danza straordinaria che conduce dallo sguardo al contatto, e
c’è l’arte sopraffina della parola. Non le frasi
celebri più o meno melense o infuocate copiate da internet e spedite col telefonino. La
parola viva che racconta di sé, ma soprattutto intriga, accarezza, manda la fantasia avanti
di una puntata. La parola che invita a parlare, ad aprirsi. E non può essere imparata come
le domande e le risposte di un gioco da tavolo, per favore, perché nel mistero del dialogo
autentico c’è questo fatto con cui occorre fare
i conti, una volta per tutte: dopo che ho iniziato, ho lanciato la mia proposta, non posso
sapere quale sarà la risposta dell’altro/a, e fin
dalla seconda mossa devo imparare a stare
con quel che c’è, a giocare d’improvvisazione, con quel che l’interlocutore mi porta. Non
succederà quasi mai che l’altro stia esattamente dentro il mio copione, e se succede vuol
dire che non c’è seduzione reciproca.
Poi c’è l’arte di essere come si è, né più belli
né più brutti, e per arrivarci bisogna fare i
conti con il conoscersi almeno un po’ e il
volersi bene, almeno un altro po’. Serve per
non crollare davanti ai rifiuti, per non pretendere che sia l’altro a farci da specchio delle
brame, confermandoci ogni volta che siamo
i più belli del reame.
l’ascolto e il contatto
La più efficace tecnica di seduzione al mondo, quella che mai ci farà passare inosservati, quella che funziona sempre e dovunque è
un modo appassionato e intenso di fare le
cose di ogni giorno. È uno sguardo vivo, una
presenza al mondo attenta e generosa. È
come se sulla fronte ci fosse scritto: sono
interessato/a a questo universo, e con te dentro ancora di più. Allora non serve più sapere come leggere la gamba accavallata piuttosto che le labbra semiaperte, le mani in
tasca o le braccia conserte. Questi sono dati
che possono servire per definire un’immagine statica delle persone e del rapporto. In
una immagine viva ci sono io, ci sei tu, e ogni
volta devo trovare in modo creativo la via di
accesso alla tua attenzione, qui e adesso, accogliendo prima di tutto quel che mi mandi
tu come messaggio globale della tua persona davanti a me.
C’è un esercizio che si fa in certe forme di
training teatrale, serve per imparare a stare
con quel che c’è adesso, a rispondere a quello che avviene, a tenere desta la propria e
l’altrui attenzione. Serve ad imparare a fare
contatto. Si tratta di stare in piedi l’uno davanti all’altro e, senza esitare né rallentare
un ritmo dato, rivolgersi al partner con una
affermazione che lo riguarda. Né giudizi, né
ipotesi, né domande, né discorsi generici.
Solo affermazioni, e che lo riguardino. Dopo
alcuni minuti si comincia ad uscire da una
specie di dialogo tra sordi, dove ognuno dei
due parla sì dell’altro, ma scollegato da ciò
che questi a sua volta dice, come se fosse più
preoccupato di preparare il proprio discorso piuttosto che ascoltare, e connettersi, con
ciò che l’interlocutore afferma. Varcata questa soglia, quando veramente si comincia ad
accogliere nella propria attenzione l’altro e
ciò che dice, il dialogo diventa straordinariamente intenso ed intimo, toccante a volte, vero, potente, e l’attenzione e la disponibilità che tributiamo a questa persona qui
davanti la attraggono inevitabilmente, come
con un filo sottile, verso di noi. E viceversa.
Cambiano le voci, gli occhi sono più vivi, il
corpo è più aperto e disponibile, le anime
cominciano a toccarsi. Io non mi basto più,
non sono più una monade isolata, siamo io
e te, abbiamo riempito la distanza, abbiamo
creato tra di noi uno spazio che ci connette,
necessari l’uno all’altro.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
COSE
DA
GRANDI
ma ancora di essere iniziato. E il gioco più
bello del mondo, quello che fa assaporare le
sensazioni più straordinarie, le vibrazioni più
potenti del corpo e dell’anima, diventa niente più che una fortunata eccezione. I settimanali, i mensili, e talvolta anche i quotidiani sono prodighi di consigli, esistono
manuali al maschile e al femminile, ma la
lista delle cose da fare e non fare per farsi
notare e agganciare «la preda», dà francamente l’impressione delle tecniche di vendita, un marketing di se stessi, come è chiamato – invero onestamente – da alcuni.
il desiderio e il rischio
Qualunque cosa accada nella fase precedente
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44
so di mancanza piuttosto che di soddisfatta pienezza, ecco le molle che mi spingono a varcare questo tremendo confine del
mio io, ad attraversare la terra di nessuno,
fino a raggiungere te, proprio te. Fino a te.
Fino a...
A presentarmi col cuore in mano, rischiare
che tu lo calpesti, lo ignori, che lo respinga
al mittente, a farmi ferire, a beccarmi lo
schiaffo psicologico del rifiuto. A fare lo
sforzo di cogliere i dettagli, intuirti oltre le
parole, fidarmi del registro sottile dell’irrazionale, anche quando tutto sembra inutile, e inseguire una nuova occasione, spingermi in campo aperto, nei territori della
tua vita quotidiana, osare la violazione di
qualche tua privacy, di qualche tuo divieto,
insinuarmi in qualche esitazione, nelle brecce dei tuoi silenzi, nella – apparente – calma piatta del tuo atteggiamento di superficiale compiacenza. Ad attendere il momento giusto, contenere l’ansia, spingermi oltre l’esitazione, lasciar crescere pian piano
l’emozione, porgertela con grazia, o rovesciartela addosso con irruenza tremenda,
riconoscerti come colui/colei che da adesso, e per non so quanto, stabilirà il dominio
sul territorio della mia anima, e da ora in
poi non avrò mai più del tutto la padronanza del mio tempo, dello spazio dei miei pensieri, delle mie emozioni, perché le ho legate alle tue e ti ho dato le chiavi, chissà come
me le conservi, chissà come le userai, chissà dove mi trascinerai, alle stelle o sottoterra…
Da qui in poi io non potrò mai più essere
uguale a prima. Il confine ben definito che
mi ero costruito l’ho messo in gioco, l’ho
aperto, ti ho ospitato, e anche se uscirai
per sempre dalla mia anima la tua traccia
resta. Come minimo, nella mia chiusura
difensiva se mi hai fatto male; come massimo, nella nostalgia dolorosa che d’ora in
avanti proverò fino a quando non avrò permesso a qualcun altro di rientrare. E in
ogni caso nell’inventario completamente
rinnovato delle mie emozioni, negli angoli
del mio sé che mi hai fatto esplorare.
Ecco perché innamorarsi è una cosa da grandi. Ecco perché fa un po’ paura. Ecco perché in molti vorremmo esorcizzare con tecniche varie l’ansia dell’incontro. Ecco perché
vorremmo controllare un po’ quella potenza devastante che abita nella magia di uno
sguardo, di un odore, di una voce, di una
curva del corpo, del guizzare di un muscolo,
che in un secondo ci trasformano in esseri
mancanti, desideranti.
LEZIONE SPEZZATA
Stefano
Cazzato
tesine
rofessò, come tesina pegli esami,
io avevo pensato al titolo... La fenomenologia dell’eroismo.
La fenomenologia dell’eroismo,
Settini?
Eh... dell’eroe, delle imprese, l’individualismo, anche estremo, che se collega co’ Oscar Wilde d’inglese, il futurismo
di italiano oppure D’Annunzio o l’estetismo, in storia, con la prima guerra mon-
P
diale oppure la seconda, devo vedè che cè
stà mejio…
Sì, immaginavo, ma questo è un tema che
ti interessa… o non ne hai altri da proporre?
E certo che meenteressa, professò, io so
pé gli eroi, mica pé le masse e l’omolooogazione, me piacciono i capi, nun so si mé
spiego…
Non c’è bisogno di essere eroi per distinguersi dalla massa, basta vivere in modo
serio, responsabile, rispettoso…
Sì stacce, l’eroe serio, responsabile! L’eroe
mica è borghese?
Se proprio ci tieni, vada per la fenomenologia. Cerca almeno di articolare criticamente il tuo punto di vista, di sostenerlo
con riferimenti e argomenti validi, se ne
hai.
È chiaro, no, professò! Io nun m’emparo
le cose a pappagallo come quelli. Eppoi
c’ho le idee chiare su ’ste questioni dei capi.
Certo, certo. Adesso Settini vai a posto,
Francescotti scalpita con la sua tesina sulla resistenza?
Il problema è resistere a Francescotti, professò, è nà pizza quello lì. Comunque pé
filosofia?
Per filosofia, cosa?
Eh, pé filosofia che ce metto nella tesina
pè filosofia? Me manca ancora l’argomento. Cioè n’idea ce l’avrei…
Scommetto che pensi a Nietzsche!
Professò, è proprio forte stà cosa, ma che
me legge nel pensiero!
No, no, vediamo… Potresti mettere la storia di un eroe silenzioso, un filosofo ucciso nei lager, un martire, si chiamava…
Nun me dica manco er nome. E lasciamo
stare i lager, che su quelli c’ho n’opinione
tutta mia. Ma come se fà a essere silenziosi e eroi? Se uno nun fà notizia con un po’
de rumore e de apparenza, che eroe è?
E quindi?
E quindi ce penso, professò, ce penso e poi
jielo dico. Comunque deve essere ’na cosa
spericolata, stupefacente, unica soprattutto, che resta nella storia del Contacchi, nà
cosa che fa venire i brividi alla commissione e al presidente!
Rosella De Leonibus
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
COSE
DA
GRANDI
della vita, a meno che non si siano abbattuti
sulla persona veri disastri che ne abbiano
distrutto del tutto la forza vitale, arriva un
momento in cui non si sente più di bastare a
se stessi. È il momento magico in cui il mondo comincia ad allargarsi parecchio, e il mio
sguardo coglie cose – e persone – che prima
non destavano la mia attenzione, o magari
sì, ma mi limitavo a compiere elucubrazioni di fantasia, senza pensare neanche per un
attimo ad avvicinarmi davvero all’oggetto del
mio desiderio. Adesso invece c’è un senso di
urgenza, di mancanza, di leggera ansia che
comincia a pervadere l’animo, c’è un vago
sentimento di deprivazione che pian piano
si insinua nella coscienza, una sorta di sete,
che chiede di essere estinta, e l’acqua che la
placa è là fuori, alla portata della mia voce e
della mia mano, ma lontanissima nello stesso tempo. Questo spazio tra me e l’oggetto
del mio desiderio lo percepisco all’inizio incolmabile, largo come il Rio delle Amazzoni
alla foce, e percepisco me stesso precariamente navigare su una leggerissima imbarcazione, mentre remo faticosamente contro
corrente per raggiungere l’altra sponda, disperando di farcela, e ugualmente sperando
di poter approdare con un qualche successo.
L’altra sponda è là, che vive la sua vita, fa le
sue cose, mi ignora o mi lancia segnali di
fumo, e io per lui/lei ancora poco più che
esisto, sono collocato/a nell’indistinto, nello
sfondo degli amici, nella scenografia dei luoghi quotidiani, e da qui in poi il mio problema è solo uno: come farmi notare, come farmi avanti. All’inizio posso anche rifugiarmi
in retromarce indecorose. O chiudermi più
o meno rabbiosamente in me stesso/a. Chi
basta a se stesso è autosufficiente, posso anche negare ostinatamente questo bisogno
che sta nascendo dentro di me, e rintanarmi
in casa, o nella cerchia sicura dei rapporti
camerateschi tra pari, nel gruppo monogenere, e anche nel gruppo degli amici storici,
dove siamo legati da questa somiglianza, fratellanza, come una cucciolata, e i lui e le lei
sono comunque un plurale indistinto ai miei
occhi.
La pulsione esogamica, la voglia di cercare i miei legami in cerchie più lontane, eccola invece che scatta, prima o poi, inesorabile. Appena mi permetto di sentirlo,
questo bisogno, la dolorosa tensione della
mia incompletezza. Da qui comincia uno
dei cambiamenti più grandi della vita.
Vado fuori del mio orizzonte già esplorato. Fuori dal gruppo, fuori dal confine sicuro delle emozioni che già conoscevo.
Fuori dal mio vecchio sé. Bisogno, desiderio, infelicità, carenza, imperfezione, sen-
Dario Bellezza
S
versi figli di un cuore ossidato
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Giuseppe
Moscati
e gli fosse necessario un biglietto da
visita, credo che il più efficace glielo abbia confezionato Pier Paolo
Pasolini quando, nel 1971, è arrivato a definirlo «il miglior poeta della
sua generazione».
Dario Bellezza (1944-1996) è poeta trasparente, magari scandaloso, ma di quel tipo
di scandalo che fa bene al mondo della
cultura, e della letteratura in particolare,
perché ‘dice’ di un’autenticità che altrimenti rimarrebbe oscurata dalle ombre delle
ipocrisie di mestiere oppure soffocata dalle armi della censura di turno. È difficile
parlare di lui, della sua poetica e soprattutto della critica che si è a mano a mano
prodotta intorno alla sua opera, lungo questo decennio dalla scomparsa, senza ricordare che a portarlo via è stato l’aids e che
in tanti non gli hanno perdonato il suo essere omosessuale. Il suo essere, appunto.
Quella sua tendenza a scandalizzare, a
impressionare, a sfornare di continuo Invettive e licenze, per citare uno dei suoi titoli più significativi, non lo ha certo messo in buona luce agli occhi dei più e tuttavia gli ha concesso di liberare veramente,
in profondità, le sue capacità espressive.
Capacità riconosciute appieno al poeta
romano, oltre che dal già ricordato Pasolini, anche da altre grandi personalità della
letteratura contemporanea a partire da
Sandro Penna, Elsa Morante, Gianfranco
Contini e Alberto Moravia, il quale in particolare scrisse la presentazione del primo
libro di narrativa di Bellezza, L’innocenza.
Come bene ha ricordato di recente Antonio Debenedetti, i luoghi «della sua quotidianità, luoghi di millenaria memoria, erano piazza Navona, Campo dei Fiori e i vicoli bui come rughe intorno a piazza Farnese. […] Ci sono letti appena disertati dalla distrazione di amanti incapaci d’amore,
ci sono corpi spogliati anche dell’anima e
nude albe che portano con loro il freddo
di tormentose notti insonni» (1).
cuore peccatore e orgoglio luciferino
Ma torniamo allora alle invettive e licenze
di Bellezza, al suo scrivere della forza e
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della voce dei propri sentimenti, alle parole che ricerca spasmodicamente per fare
ritorno all’intimo del suo essere diverso –
ognuno lo è a suo modo –, quindi finalmente all’intreccio mirabile di acuti poetici e di versi sussurrati. Alla sicurezza con
cui scrive «non saprai giammai perché sorrido» fa eco il dolore della solitudine: «Nella luce fioca mi lecco / le ferite mortali […].
/ Chi è nell’ombra solo sa / quanto il giorno è mortale / bianca statua solare […]».
Altrove lui è ancora solo, davanti alla tazza screpolata della colazione, i cui «orli
senza miele» lo provocano a comporre,
quasi gli chiedono di parlarci di quella
quotidiana lotta che, senza appoggi, è costretto a combattere e gli offrono pertanto
l’ennesima opportunità di tratteggiare quel
dolore che gli scivola piano nella gola, un
dolore che alla fine «s’abbandona alle /
immagini di ieri, quando tu non c’eri. / Che
peccato questa solitudine, questo / scrivere versi ascoltando il peccatore / cuore sempre nella stessa stanza / con due grandi finestre, un tavolo / e un lettino di scapolo
in miseria. / E se l’orecchio poso al rumore solo / delle scale battute dal rimorso /
sento la tua discesa corrosa / dalla speranza».
E poi, sempre nel ’71, proprio a Pasolini e
alla Morante dedica due delle poesie più
significative per comprendere il senso di
emarginazione e la cifra della sofferenza
che abitano la sua opera; se al primo rivolge una struggente confessione: «M’aggiro
fra ricatti e botte e licenzio / la mia anima
mezza vuota e peccatrice», pensando alla
seconda Bellezza racconta di un mondo
che gli è vicino per mille motivi, primo fra
i quali la dimensione onirica mista all’amaro della più disarmante consapevolezza
tragica: «I ragazzi drogati, guardie del corpo / dell’Assoluto, vanno per il mondo /
mattutino fino alla sera della loro / sopravvivenza: come passerotti / mangiano distrattamente / tutti presi dai loro sogni d’avventura. […] So che vanno per le vie del
mondo / con in bocca il sapore della polvere / e del tossico: / strepito vano è il loro
baloccarsi / bambino, orgoglio luciferino /
di chi si consuma, strugge come cera, / ma
rapito dall’ultimo gemito di follia
Con Morte segreta (’76) fanno invece il loro
ingresso nel mondo poetico di Bellezza
degli elementi oscuri, a volte macabri, che
ritroviamo anche nella produzione più
matura e che in definitiva non fanno che
ribadire quale sia il tormento delle visioni
del poeta romano, aiutandoci a comprendere meglio come l’essenza della sua arte
corrisponda a uno stato di costante pena.
Ecco sopraggiungere il «delirio della più
enorme insonnia / e solo le botte dell’infanzia mi placano, giacendo / senza vita
lontano dal centro della mia vita. […] Così
diviso da me, osservo il mio cadavere, / ne
contemplo le mille epoche sopravvissute /
alle illusioni, alla felicità passeggera di un
bacio, / preda di sapienti ladroni notturni
che sanno / aspettare fino all’ultimo l’estremo rantolo». Tali elementi, comunque,
vengono sapientemente articolati in una
poetica della memoria e della proiezione:
«Le muse si sveltiscono solo se andate cose
/ rigirano, sezionando in dolore e confessione, / oscillando fra tenere immagini e
pensiero / lucido di ieri, friabile rendendo
la memoria / delle realtà impossibili, quelle mai volute / e tutte assoldate al vizio del
ricordo».
Come dicevo, certe cupezze si ripresentano
anche più avanti nel tempo, come per esempio in Libro d’amore e in Libro di poesia, rispettivamente del 1982 e del ’90. In uno leggiamo infatti di un «fradicio ponte», in qualche modo partecipe delle emozioni del poeta, e nell’altro di lui «ferito e diverso testimone / che abolendo morti e primavere / la
mano al calare del sole / asciugava al vento
dei giardini»; ma anche, addirittura, di «peccati andati a male», ancora segreti o infine
confessati – chissà! – tra «pesci morenti» e
«spugne essiccate». Ma d’altra parte anche
Prima un bacio (sempre della raccolta Libro di poesia), ci conferma che chi scrive,
capace solo di «una stenta lettura» di se stesso e tutto assorbito da una «triste meta di
decadenza accidiosa», si ritrova il «cuore
ossidato di cittadino spento» e non può
quindi che affidare l’estrema sua speranza
ad «un ultimo gemito di follia». E tuttavia
quello stesso cuore, che in un altro luogo e
tra «giornate smarrite» il poeta giudica ormai «in disuso», pulsa forte quando Bellezza sa vedere la luce di occhi «pieni di terra»; pulsa forte quando egli piange «da solo
con accanto il gatto dei ricordi» o quando
scopre la notte «infedele peccato di amanti». Pulsa forte quando deve ammettere «tu
mi manchi in spirito / e dolcezza primitiva» o quando sente di chiedere perdono a
chi non è riuscito ad amare; pulsa forte, ancora, nel momento della resistenza più dura:
«Ancora riesco a scrivere d’amore. / Come
mai nel sole si scatenano / gli uragani del
presente o il domani / incide nel tuo cuore
assente / io strepito nel nulla il coraggio / di
cercare l’estremo bacio santo / che inchioda al saturnale dei vivi» (da Serpenta, 1987).
Il poetare distratto e allo stesso tempo lucido di Bellezza, una delle caratteristiche
più paradossali e insieme più felici che
emerge dal cuore della sua produzione, ci
introduce in un mondo fatto, sì, di eccessi
e di ostentazioni, ma anche e forse soprattutto di sentimenti e passioni veraci come
pure di accenti lirici assai originali, mettendoci così davanti a una realtà poetica
multiforme, la quale – peculiarità di ogni
forma d’arte novecentesca – da un lato si
confonde con il quotidiano e dall’altro
strizza l’occhio alle vette del sublime e all’immortalità estetica.
Giuseppe Moscati
(1) A. Debenedetti, Dario Bellezza scandalo e
oblio, «Corriere della sera» 21 marzo 2006.
per leggere Bellezza:
D. Bellezza, Invettive e licenze, Garzanti, Milano 1971; Libro d’amore, Guanda, Parma 1982;
Io, Mondadori, Milano 1983; Serpenta,
Mondadori, Milano 1987; Libro di poesia,
Garzanti, Milano 1990;
L’avversario,
Mondadori, Milano 1994; Morte segreta [premio Viareggio 1976], Mondadori, Milano 1996;
40 poesie, Mondadori, Milano 1996.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
LETTERATURA
anche così la mia voce smorta / li vorrà
sempre al mio capezzale». Quanta solidarietà con quegli ultimi! Quanta voglia di
urlare la denuncia di quel «sapore della
polvere e del tossico» che nega, inesorabilmente, i «sogni d’avventura» dei quali
peraltro si nutre l’energia spontanea e vitale di errare, nonostante tutto, «per le vie
del mondo»!
su Bellezza:
M. Gregorini, Morte di Bellezza. Storia di una
verità nascosta, Castelvecchi, Roma 1997 (poi,
ampliato: Id., Il male di Dario Bellezza. Vita e
morte di un poeta, Stampa Alternativa, Roma
2006);
M. Consoli et alii, Diario di un mostro. Omaggio insolito a D. Bellezza, a cura di D. Priori,
Anemone purpurea Ed., Albano Laziale (Roma)
2006;
F. Cavallaro (a cura di), L’arcano fascino dell’amore tradito, Giulio Perrone Ed., Roma 2006.
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la parabola della fiducia creativa
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Lilia
Sebastiani
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una parabola difficile e dura. Vi si
sono arenate molte letture del vangelo un po’ troppo fai-da-te, e sto
pensando anche alle mie nella prima adolescenza.
Sembra di non poter ritrovare
qui un messaggio di salvezza. Infatti, anche se sappiamo che non è così, avremmo
un po’ tutti la tendenza a intenderla come
una positività pronta per l’uso, esplicita e
rassicurante. Qui non c’è nessun happy end.
La conclusione, per quanto riguarda il terzo servo, è così amara da farci dimenticare la vicenda dei primi due, e occupa lo
spazio maggiore, materialmente e psicologicamente.
Inoltre affrontare seriamente la parabola richiede di superare certi rifiuti istintivi: il rifiuto delle grandi questioni di fondo – quali
il senso della nostra vita, l’impegno nella storia... –, del futuro che non sia proprio prevedibile e a breve scadenza, della morte.
Quello che all’inizio viene chiamato semplicemente ‘un uomo’ (ricco), e poi ‘il padrone’, e poi (dai servi) ‘Signore’, è chiaramente la controfigura di Dio, non è possibile sbagliarsi, ma ci sembra di non ritrovare assolutamente la misericordia di Dio
in lui. Anzi il comportamento di quel padrone può apparire tale da giustificare
ampiamente il giudizio pauroso e rancoroso del terzo servo.
Sì, il guaio della parabola è proprio che il
lettore, anche senza volerlo, rischia di ragionare come il terzo, di incorrere nello stesso equivoco intorno al padrone e ai suoi beni
e alla sua volontà, restando sconcertato e
schiacciato dal giudizio di condanna. E
ammettiamo che il padrone, oltre che duro,
ci sembra anche abbastanza ingiusto. Perché cinque talenti a uno, a un altro due, al
terzo uno solo?
Abbiamo così profondamente interiorizzato il criterio (almeno in teoria) delle pari
opportunità come diritto, che questa differenziazione iniziale viene da noi percepita come un sopruso, un non-riconoscimento della dignità personale, e subito
pensiamo: il terzo non si sarà sentito sottovalutato, fin dal primo momento? Inoltre è proprio il terzo, dopo aver avuto di
meno perché «meno capace», quello che
È
Avverrà come di un uomo che, partendo per un
viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i
suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro
due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua
capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva
ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece
che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare
una buca nel terreno e vi nascose il denaro del
suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di
quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro.
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati
altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse
il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò
autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo
padrone. Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri
due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità
su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone. Venuto infine colui che aveva ricevuto un
solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo
duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra: ecco qui il tuo. Il
padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e
raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l‘interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell‘abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche
quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori
nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
ha paura e funziona male, che perciò viene respinto dal padrone e giudicato con
estrema severità. Non si tratta solo di impressioni, vi è anche una frase esplicita che
fa rabbrividire: «A chiunque ha sarà dato
e sarà nell’abbondanza, a chi non ha sarà
tolto anche quello che ha».
Certo, succede anche oggi e anche troppo
spesso, ma almeno non viene ‘proclamato’…
parabola delle realtà ultime
Una pagina biblica che non ci lascia tranquilli è un modo specialissimo di speri-
i talenti
È difficile anche distinguere ed esprimere correttamente quanto è simboleggiato
dai talenti. Nel mondo romano il talento
era, più che una moneta, un’unità di peso,
circa 33 chili d’oro o d’argento. È quasi
impossibile quantificarne il valore, comunque è stato calcolato che un talento
corrispondesse a circa 20-25 anni di salario di un lavoratore medio. Una grossa
somma; e l’importanza di questo denaro
investito, trafficato o sprecato è fondamentale nel messaggio della parabola.
Nel linguaggio moderno la parola ‘talento’ – molto laicizzata, proprio in conseguenza dell’impatto esercitato da questa
parabola attraverso i secoli – esprime ogni
genere di spiccata disposizione naturale
per qualche attività. E questo significato
è indizio di un’interpretazione sbagliata,
che confonde in sostanza i talenti con le
varie capacità dei servi! Il significato originario accentua di più il dono, l’iniziativa di Dio, lo ‘spreco’ e il rischio, l’imprevedibilità.
I talenti alludono a tutto quanto viene
dato da Dio ai singoli per far crescere le
loro comunità e la grande comunità umana. La realtà del Regno, in primo luogo;
quindi l’annuncio del Regno. E l’intelligenza, la creatività, la speranza, la bellezza e l’incompiutezza, il dubbio, l’insoddisfazione, la comunicazione…
La parabola parla del Regno, della sua logica e delle sue esigenze. Dio affida l’immensità del suo progetto di salvezza ai limiti e alla debolezza degli esseri umani
immersi nel divenire della storia, quindi
anche alla loro paura e ai loro errori. Ma
come vi è una paura ‘paurosa’ e una paura ‘coraggiosa’, allo stesso modo vi sono
errori aperti, talvolta di insperabile fecondità, ed errori chiusi, ciechi, disperati.
La salvezza è Dio che rischia con noi e ci
chiede il coraggio di rischiare. Al centro
del messaggio (che è anche messaggio etico, ma fondato nelle realtà ultime) si trova l’invito all’attesa operosa e fiduciosa,
alla vigilanza, al discernimento; non solo
impegno di corrispondere ai doni di Dio,
ma anche volontà attiva di trasformare il
mondo secondo la logica del Regno. Perfino l’assenza del padrone (che ritorna
«dopo molto tempo») può leggersi come
un tempo di attesa e di fiducia da parte di
Dio, un tempo donato.
In questa luce acquista senso la frase «A
chiunque ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». A noi non sembra una massima molto evangelica: piove sul bagnato.
Il primo servo, avendone già dieci, che ne
farà di un altro talento, lui che è già stato
ammesso a condividere la gioia del suo
signore, insomma ad essere come lui?
Vuol dire, semplificando un po’, che chi
si è impegnato con tutto se stesso per far
fruttificare quanto gli è stato affidato dal
Signore, tanto o poco che sia all’origine,
vedrà il frutto del suo impegno straordinariamente arricchito e intensificato.
Quello che ha 2+2 talenti viene lodato ed
esaltato esattamente come colui che ne ha
5+5, anche se equivalente è solo l’impegno, non il risultato misurabile: Dio conosce le ‘capacità’, non segue il criterio
del successo! Invece chi per paura ha evitato di mettere in gioco se stesso scoprirà
di non avere nulla: anche ciò che ha pauro-
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
IL CONCRETO DELLO SPIRITO
mentare la dinamica della salvezza, sempre consolante e disturbante nello stesso
tempo. Una pagina che non ci disturba
non produce un effetto forte, non è un
vero messaggio di salvezza: ci conferma
nelle nostre idee (come se ve ne fosse bisogno!), nella visione del mondo che ci
siamo fabbricati o che altri hanno fabbricato per noi.
Quando restiamo sconcertati, invece, siamo inevitabilmente indotti a chiederci se
la nostra lettura ha colto nel segno, se abbiamo ascoltato tutto ciò che poteva trasmetterci, se vi è qualcosa che abbiamo
trascurato. Così impariamo a leggere e
ascoltare con un’attenzione nuova, siamo
obbligati ad andare oltre, e questa esigenza è la prima tappa del nostro cammino
di salvezza.
Senza volerci nascondere che un problema c’è, si deve riconoscere che gran parte
delle nostre difficoltà è legata a un errore
di partenza. Quando non si ha della Scrittura una conoscenza abbastanza profonda, si tende d’istinto a un approccio moralistico che risulta quasi sempre fuorviante.
Soprattutto in casi come questo: la parabola dei talenti non è in primo luogo morale (anche se ne scaturisce un messaggio etico relativo al nostro impegno nella
storia), bensì escatologica. Il ritorno del
padrone, dopo una lunga assenza, allude
alla Parusìa: il ritorno del Signore, cioè, e
il giudizio finale di Dio sulla storia.
Il discorso escatologico occupa i capp.24
e 25 di Matteo, ma si trova in tutti e tre i
Sinottici. Doveva costituire un tema fondamentale per le primissime generazioni
cristiane, che attendevano il ritorno del
Signore in tempi brevi.
49
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dove opera la salvezza?
Rivolta a una comunità di cristiani che provengono dall’esperienza di fede di Israele,
questa parabola insegna che esiste un vero
«timore di Dio» e uno falso. Il vero timore
di Dio è dono dello Spirito, è il sentimento
creaturale che fa riconoscere il suo amore
e spinge a un continuo discernimento della
sua volontà per essere fedeli all’alleanza, per
vivere la relazione con lui. Non è la «paura
di Dio», espressa nello sfiduciato servilismo
del terzo servo. Questo, poiché vede il padrone come un uomo duro ed esigente ben
oltre la giustizia, tendente ad approfittarsi
del lavoro altrui (va in questo senso l’espressione «mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso», probabilmente una
specie di massima proverbiale), anziché lavorare per lui come gli altri, in sostanza si
difende da lui con calcoli meschini. Chi pensa di fare il proprio dovere verso Dio corrispondendogli il ‘suo’ (come dice il terzo servo: «Ecco qui il tuo», quasi intendendo: non
ho altri doveri verso di te), non solo inganna se stesso, ma offende Dio.
Vengono meno alla loro chiamata le persone (o le comunità) che si chiudono in se stesse, evitando di compromettersi attivamente per il Regno di Dio nella storia, per non
danneggiare la propria quiete o la propria
carriera.
L’aspetto ‘bello’ della parabola dei talenti, il
più ricco di speranza, non salta agli occhi:
va ricercato, richiede un cammino non solo
interpretativo ma proprio interiore, spirituale.
Le parabole sono espressive non tanto in
virtù del loro realismo ma proprio, in primo luogo, dei loro aspetti inverosimili. Anche in questo caso. Oggi come allora, quale
ricco proprietario, sano di mente, affiderebbe i propri beni a dei ‘servi’ (fossero pure
‘impiegati’ o qualcosa di simile), senza istruzioni precise, senza nulla, esponendosi al
rischio di perderli?
Sì, questo Padrone agisce in modo inedito,
e consegna i propri beni ai servi non tanto
a fini di custodia quanto di gestione creativa: si direbbe infatti che gli stiano a cuore
proprio l’intraprendenza e la creatività dei
servi, più della sorte dei propri beni. Se il
problema fosse stato ‘conservare’, nel senso di non perdere, avrebbe potuto «affidare
il suo denaro ai banchieri» – come dice alla
fine – e non perdere nulla, anzi ricavarne
un interesse. Invece questo ricco proprietario ama rischiare e investire non tanto in
denaro quanto in fiducia sulle persone. E
le conosce, evidentemente.
Non dà a tutti lo stesso, ma «a ciascuno secondo le sue capacità». La giustizia puramente distributiva, il fare le parti uguali fra
chi non è uguale, non significa rispettare le
persone, perché non ne riconosce le differenze. Questo padrone conosce i suoi servi
è affida a ognuno ciò che è capace di ricevere e di gestire. Diverse sono le somme affidate, ma a tutti è affidata la fiducia del
padrone.
La consegna dei talenti non è solo un incarico, ma un evento di relazione tra il padrone e i suoi servi, in cui l’iniziativa è del padrone, e quel che viene consegnato non è
solo denaro, bensì fiducia. E la parabola non
è un inno-esortazione all’efficienza e alla
produttività, ma parla del rapporto con Dio.
I primi due servi, sorprendentemente vengono lodati non in quanto attivi ed efficienti, ma in quanto «buoni e fedeli».
Il lavoro, l’iniziativa, la creatività fanno fruttificare il denaro affidato. Ma come si regolano, cosa fanno i primi due servi? La parabola sorvola su questo aspetto, e da ciò si
capisce che il ‘cosa fare’ è secondario nella
sua dinamica spirituale. Il Vangelo è un
annuncio, non è mai un libro di ricette.
Importante è invece l’agire ‘aperto’ dei primi due servi di contro all’agire chiuso dell’ultimo. I primi due sono animati da fiducia e, diremmo, oggi da entusiasmo per i
beni del padrone, che sentono come propri
(e così li ritroveranno, alla fine). Invece il
terzo ha paura, del padrone e di se stesso. Il
giudizio terribile pronunciato alla fine dal
padrone sembra un giudizio che il terzo
servo schiacciato dalla paura e dalla sfiducia pronuncia su stesso.
Dall’immagine di un Dio-giudice terribile e
inesorabile deriva uno stile di comportamento all’insegna della paura (oppure è un
atteggiamento esistenziale di paura all’origine di quella idea di Dio?). Comunque l’essere umano ha paura di un Dio così, e perciò si trincera dietro l’osservanza esatta delle
norme: osservanza che, per quanto puntigliosa, esemplare, eroica in certi casi, ha
sempre qualcosa di meschino proprio per
la sfiducia che sottintende. Nei Vangeli la
paura equivale alla mancanza di fede.
La parabola ci chiede di trascendere un
modo mercantile di concepire la vita: e
mercantile è tanto la logica del profitto e
dell’efficienza, dominante nel mondo che
abbiamo intorno, quanto l’atteggiamento
moralistico della salvezza ‘guadagnata’ per
mezzo delle opere.
Lilia Sebastiani
FATTI E SEGNI
luci e ombre
Enrico
Peyretti
B
isogni – Infelice quel popolo che ha
bisogno di eroi. Infelice quella chiesa che ha bisogno di santi.
Dubbi – Ho meno dubbi sull’esistenza di Dio che (contro Cartesio)
sulla mia esistenza. Non vengo
da me stesso e non ho base in me. Se siamo
sinceri, noi siamo sempre come il neonato,
che sa di non bastare a se stesso e di vivere
solo in simbiosi con la madre. Poi viene l’età
stupida, della presunta autosufficienza. Fino
alla vecchiaia, che riconduce alla verità dell’origine.
Estremismi – «Non sono venuto a chiamare
i giusti ma i peccatori» (Matteo 9, 13). Non
l’ho mai visto scritto sulla porta di una chiesa. Ci sarebbe pericolo che i peccatori accampassero dei diritti in quanto peccatori.
Queste parole, inoltre, sono precedute da
altre ancora meno note: «Andate ed imparate cosa vuol dire: misericordia cerco e non
sacrificio» (Gesù cita Osea 6,6). I giusti frequentano le chiese e compiono pii sacrifici.
A che varrebbe essere giusti, se si fosse accolti in chiesa da parole respingenti e ingrate come queste? Invece di compiere i nostri
doveri religiosi dovremmo avere misericordia dei peccatori e trovarli davanti a noi.
Gesù poteva dire simili estremismi (devono
essere parole sue, così poco religiose), perché aveva da dirigere solo un gruppetto di
uomini (che però gli dettero anche dei grattacapi) e di donne, mica una chiesa grossa
come quella che è sulle spalle dei successori
di Pietro. Certo, chiamare i peccatori alzerebbe di molto il numero. Ma quale sarebbe
l’esempio dato al mondo? O forse verrebbero solo i santi – che sono pochi – perché sono
gli unici che si riconoscono peccatori.
Incontri – Chi afferma fede in Dio, affermi
di non poterlo dimostrare e definire. Chi non
afferma fede in Dio, affermi di non sapere
tutto, come tutti noi. Nel non sapere, nel non
negare quello che non sappiamo, nel non definire quello che sentiamo nel profondo, lì
tutti ci incontriamo.
Italia – Salvata la Costituzione dalla più insidiosa manipolazione, non siamo riusciti a
tirarci fuori del tutto (Afghanistan) dalle
guerre in cui l’Italia è stata coinvolta. La gran
parte del ceto politico pensa ancora inevitabile la guerra, nel caso giudicato serio; peg-
gio, per alcuni governanti saper governare
implica saper fare la guerra, come fecero nel
1999, mentre è vero il contrario. C’è ancora
chi chiama azione di pace quella che è guerra, in Afghanistan, come testimonia anche
il generale Fabio Mini (Il Manifesto, 22 giugno). Il movimento per la pace ha sofferto
dure tensioni interne (non ancora risolte
mentre scrivo) tra chi sentiva il dovere del
no costituzionale alla guerra, chi sentiva
come un passo in avanti la riduzione quantitativa e qualitativa del coinvolgimento italiano, chi voleva accentuare la discontinuità dal passato governo. La responsabilità di
governare deve insegnare sia a mantenere
la chiarezza dell’intero obiettivo lungo –
nulla di meno che «fuori la guerra dalla politica!» – sia la pazienza delle decisioni condivise in una coalizione, senza rischiare di
ridare il governo a chi non ha avuto scrupoli (ma interessi) a fare la guerra.
Luce e ombra – Il dubbio, come ombra, tallona la fede. La fede, come corpo vivo, si
erge a perpendicolo sull’ombra. L’ombra giace, ma non si scolla mai dai piedi della fede.
Soltanto presso un muro l’ombra può alzarsi, non in spazio aperto. Come l’albero e il
fiore, nati dalla terra, sono tesi alla luce,
ugualmente la fede, verticale. Come l’ombra non è altro che luce impedita dal corpo
illuminato, ugualmente il dubbio altro non
è che ciò che resta non raggiunto ancora
dalla fede. Quando la luce è intera e dovunque, come in quei minuti tra l’alba e l’aurora, l’ombra svanisce nella luce.
Pensare – «Noi pensiamo diversamente». «Va
bene. Continuiamo a pensare, in modo non
fisso».
Rubare – Quando il tuo fratello pecca, quando pecca il tuo avversario, anche se pecca
contro di te, fa’ tuo quel suo peccato, fatti
per lui peccatore, fatti colpevole per lui, chiedi a Dio di contare a te quel male, paga tu
per chi pecca, in silenzio, fai giustizia più
grande della giustizia, donagli l’innocenza,
perché il peccato rubato al peccatore è tolto
dal mondo. Il peccato imputato fermenta.
Vescovi – Durante il Concilio un vescovo innovatore, criticato dai tradizionalisti, disse:
«Anche a me piacciono le tradizioni, tanto
che vorrei anch’io iniziarne una».
❑
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
IL
CONCRETO
DELLO
SPIRITO
samente tentato di salvare è, in effetti, nulla.
alle radici della guerra
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Arturo
Paoli
52
G
uerra-guerra-guerra, ieri. Guerraguerra-guerra, oggi. Guerra-guerra-guerra, domani. Dove nel mondo? Nella regione ebraico-cristiana, in quella terra che Tu hai attraversato nei piedi di un
gruppo di schiavi che hai scelto di guidare
a libertà. Nella terra dove il tuo Figlio è entrato per i piedi scalzi dei suoi inviati, precedendo la sua dimora fra i lebbrosi giacenti alle porte di Roma, dove lo ha incontrato l’Ebreo in cerca del Messia. Qui, in
questa terra del tramonto dove secondo la
tua promessa il popolo che guidavi trovò le
colline da dove colava latte e miele. Dove il
tuo popolo incontrò popoli sconosciuti che
non si sorpresero quando alla domanda
«Chi vi ha guidato qui?» la vostra risposta
fu: «un Essere che ha ascoltato il nostro grido, ha avuto compassione di noi», e ci ha
accompagnato fin qui. Noi conosciamo da
tempo questo Essere e vi diremo chi è, come
chiamarlo, come parlare a Lui. Così l’Occidente si è trovato di fronte alla scelta: il dio
lontano, onnipotente dominatore. Il dio
prossimo, il dio che scende vicino all’uomo,
all’ultimo posto, colui che secondo Osea
prende in braccio il bambino e mette la sua
guancia a contatto con quella del bambino.
Il Cristianesimo è attraversato da questo
contrasto, le due immagini di dio, il dio lontano e il dio povero, inerme fatto prossimo.
Colui che ha scelto la stoltezza della croce
per sconfiggere i poteri della terra.
La storia oggi ci mette di fronte ad una scelta. Definire il momento storico come conflitto di civiltà equivale a scegliere la guerra, perché è chiaro che l’Occidente cristiano è il solo esportatore di guerra, guerra
del liberismo, guerra delle armi, esportatore di morte. Sostituisco la parola liberismo
alla parola economia che fa pensare ad una
cosa armoniosa senza eccessi dove il denaro non avvelena la vita. Altri fuochi di guerra sono fuori di qui: quelli che si definiscono terrorismo, ma sono una risposta alla
nostra guerra. È venuto il momento storico per noi cristiani di ricercare le radici della
guerra che noi esportiamo. Queste radici si
mostrano allo scoperto nelle produzioni del
pensiero che, secondo la sua essenza, la sua
ragione di essere dovrebbe chiamarsi saggezza, luce che orienta l’uomo a vivere con
gli altri e con le cose musicalmente, è di-
ventato strumento di conoscenza e di dominio sulle cose per dominarle e rendere
più comoda la vita dell’uomo ed è morto
nella tecnica che da serva è diventata padrona dell’uomo. Così in questo silenzio di
morte è nata l’idolatria del mercato presenza astratta di dominio sulle creature.
A questa idolatria doveva opporsi il Dio dei
cristiani come il Dio unico e vero. Gesù
uomo in cui Dio si è fatto prossimo, illumina tutte le generazioni su questo conflitto
permanente nel mondo, opposizione alla
creazione continua al progetto creatore di
Dio che dovrebbe muoversi verso la meta
che è la convivenza pacifica, il mondo riconciliato «amorizzato» secondo il termine di Theilard de Chardin. Il problema affidato ad un cristiano oggi è la nostra liberazione e la saggezza di Cristo ce lo indica
con parole chiare. Nella sua preghiera al Padre Gesù si esprime: «Non chiedo che Tu li
tolga dal mondo ma che li costudisca dal
Maligno. Essi non sono del mondo come
Io non sono del mondo» (Giov. 17). Ora è
venuto il momento di essere realisti e di
guardare coraggiosamente il mondo cristiano: la situazione dell’umanità non ci permette di gingillarci nelle retoriche della
pace, nelle apologie che vogliono salvare le
acrobazie del pensiero filosofico quello di
matrice metafisico, astratto, per fare un posticino a Gesù che lo ha rifiutato sdegnosamente e per sempre. I laici che si dicono
cattolici a rovescio delle indicazioni di Gesù
sono stati tolti dal mondo e non sono stati
liberati dall’essere preda del mondo. Il fatto è chiaro. Sono stati liberati dalle responsabilità politiche ed economiche che dovrebbero essere guidate dall’amore per gli
altri e guidate alla finalità del Regno di Dio,
agiscono secondo le leggi dell’idolo.
dov’è la profezia?
L’ideale di affermare una presenza assoluta
del Signore Gesù mettendolo al posto dell’idolo e quindi come immagine piuttosto
che come vivente, li conduce solo ad essere
più scaltri, più spregiudicati di quelli che
gestiscono gli affari dell’idolo. E allo stesso
tempo pretendono di glorificare Dio con
preghiere, incontri sprituali, iniziative di
ogni genere che calmino le loro angosce
interiori per non aver trovato nel tempo
ricondurre al suo posto il Vivente
L’unica via che si apre al Cristianesimo oggi
per essere veramente una forza di pace e di
ricostruzione di un mondo che si sta sbriciolando, è quello di ricondurre Gesù da
dove lo abbiamo messo noi al luogo che ha
scelto lui. Il grido selvaggio di un innamorato di Dio si leva sul nostro tempo. «Mon
fils? Cherchez-le dans les lourdures. Mio
Figlio? Cercatelo nella spazzatura» (Léon
Blois). Cercatelo tra i vinti, tra le vittime
della fame perché noi abbiamo sottratto
loro i viveri, delle guerre perché noi abbiamo distrutto le loro abitazioni, della nostra
religione perché abbiamo tolto loro Dio per
rinchiuderlo in templi che abbiamo costruito accanto ai vostri slums, proibendovi di
fatto l’entrata. Abbiamo consegnato Dio ai
politici, ai banchieri, ai teologi, ai progettatori di guerra. È venuto il tempo di andarlo a cercare nel posto che Lui ha scelto e
non ha mai abbandonato. I giovani capiscono perfettamente questo linguaggio e
vanno a trovare Gesù tra i poveri. Sanno
che non ama la povertà frutto dell’ingiustizia ma non vuole ricorrere né alle armi né
al potere. Vuole rimettere in piedi quelli
abbattuti da malattie o da quella più grave
dell’emarginazione. Non si alleerà mai con
quelli che usano la parola per imporre il
silenzio ma sta con quelli che trovano la
parola che nasce nel silenzio perché quella
sola è la parola dell’Amore e della solidarietà e della fiducia nella vita. Solo lì possiamo trovare rifugiato il Dio vero, quello di
Gesù. Ci fa arrossire il solo pensiero di aver-
lo tolto da questo posto portandolo nelle
regge di cattivo gusto senza accorgerci che
vi abbiamo portato solo la sua immagine.
Questo non luogo che lui ha scelto è il solo
dove si può pensare una teologia dei poveri
che è una teologia della liberazione. È spiegabile che fuori di questa scelta la teologia
diventi una ricostruzione di immagini umane oggetto di consumazione di coloro che
portano nel cuore desideri di guerra, di spoliazioni e di morte. È solamente in questo
luogo che si può pensare il progresso come
crescita nella libertà, nella solidarietà e nella
pace. Bisogna uscire da una concezione falangista della fede. Dio non si difende con
la forza della parola, del denaro, delle armi,
maschere dei politici che chiedono giaculatorie da lanciare verso questo dio lontano. Dio non si difende perché è assolutamente fuori e lontano dai campi di battaglia «Usciamo dunque verso di lui, fuori dall’accampamento portando il suo obbrobrio»
(Ebrei 13,14).
Tutti i tentativi per rigenerare il cristianesimo che sembra languire sotto le impalcature trionfanti dei congressi organizzati per
far credere alla buona salute del cristianesimo sono assolutamente vani. Il progetto
dio Cristo di amorizzare il mondo non può
avverarsi modificando le scelte concrete del
Gesù storico che noi definiamo il Vivente.
Sembra un particolare indifferente o lasciato alla nostra fantasia la scelta concreta di
Gesù eppure non si può pensare ad amorizzare il mondo se non partendo da questa
scelta. Il beato Charles De Foucauld nel momento in cui fu folgorato dallo Spirito pensò subito dove trovare questo essere che vide
come il solo senso di questa nuova vita che
entrava in lui. Dove trovarlo? A Nazareth il
luogo geografico che lui aveva scelto? L’Eucaristia relazione del solo col solo? E finalmente i Tuaregh. Uomini come lui ma altri
da lui per religione, per cultura, per luogo
di nascita. Forse tra i più poveri che aveva
incontrato. E finalmente anche dalle immagini che ci sono rimaste ha incontrato il
luogo del fratello generatore della fraternità tra gli uomini.
Nella svolta del pensiero occidentale che ha
abbandonato l’indirizzo metafisico per entrare nell’esistenza umana attraverso la speculazione scientifica dell’analisi psichica,
attraverso la filosofia come illuminazione
della vita, attraverso l’antropologia come
scoperta del vero destino umano, non è più
possibile un’evangelizzazione fatta di parole. Ci ricolleghiamo con Gesù che invia i
suoi discepoli indicando loro di portare solo
il loro corpo, la loro esitenza umana e se
volevano dire una parola questa fosse
«Pace».
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
CERCATE ANCORA
della loro vita la vera responsabilità.
Non fanno nessun caso di avvertimenti profetici che sono di un’attualità contudente:
«che m’importa dei vostri sacrifici e degli
olocausti...? Che richiedere da voi che venite a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili. Quando stendete la
mano io allontano gli occhi da voi. Imparate a fare del bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso» (Is. 1). Quando la verità
è messa fuori dall’esistenza umana e l’uomo non è verità ma pretende di possedere
la verità, la verità è un mezzo di potere e
l’uomo diventa uomo di guerra e non di
pace.
Quando i beni della terra sono visti non
nella loro finalità di riempire i bisogni dell’uomo, in altre parole sono staccati dall’esistenza concreta dell’uomo diventano strumenti di guerra. Quando la religione è culto, celebrazione dell’uomo che senza accorgersene si mette al posto di Dio, volendo
rompere la frontiera dei suoi limiti, usurpando l’onnipotenza di Dio piuttosto che
accoglierlo umilmente, la religione diventa
preludio e causa di guerra.
Arturo Paoli
53
pluralismo
religioso
modelli
a confronto
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Carlo
Molari
54
opo le molte riflessioni riportate
negli articoli precedenti, credo sia
necessario delineare qualche linea di cammino. Non sono conclusioni, bensì spunti di riflessione. Il tema è ancora oggetto di ricerca ed esige esperienze ulteriori. Le molte
riflessioni e proposte che in ambito cristiano si stanno svolgendo sul dialogo interreligioso mostrano con chiarezza la diversità dei
modelli utilizzati e spesso anche la loro incompatibilità. Il che indica che il problema
non è ancora giunto a maturazione. L’immaturità non è solo il risultato della sua novità,
bensì anche delle resistenze ancora presenti
all’interno delle stesse comunità ecclesiali.
Cambiamenti così profondi non possono
avvenire in poco tempo, ma richiedono un
lungo cammino. È quindi comprensibile che
molti si oppongano al dialogo interreligioso
e si aggrappino a modelli teologici tradizionali. Solo dopo esperienze, verifiche e confronti si potrà giungere a convinzioni e a
pratiche da tutti condivise.
Elenco prima alcune acquisizioni che ritengo assodati punti di partenza.
Un primo dato chiaro è il carattere ecumenico della ricerca di una teologia cristiana delle religioni. Le singole chiese e
comunità cristiane si sono trovate divise
al loro interno di fronte ai problemi posti
dalla nuova condizione storica. Le diverse
opzioni teologiche attraversano e dividono le varie comunità cristiane mentre stabiliscono legami di affinità tra teologi di
tradizioni molto diverse.
Un secondo dato è la consapevolezza della
relatività di tutti i modelli teologici. Questo
dato è ancor più rilevante se compreso alla
luce della recente acquisizione delle scienze umane che il linguaggio come interpre-
D
limiti dei modelli cristologici
Tra i diversi modelli interpretativi della
avventura di Gesù quello diventato più
comune è quello dell’incarnazione: il Verbo eterno si è espresso («ha preso carne»,
«ha piantato le sue tende» cfr Gv 1,14) attraverso la realtà umana di Gesù. Lo Spirito lo ha reso icona del Padre (cfr Col 1,
15), risonanza del suo Verbo, che in Lui
diventava desiderio, pensiero e decisione.
Quando ha cercato di spiegare l’unione tra
la realtà umana di Gesù e l’azione divina
del Verbo, la chiesa ha usato formule condizionate dai modelli culturali e dal linguaggio del tempo. Ne sono derivate due
ambiguità nell’analisi del mistero di Cristo che ora pesano gravemente nel dialogo dei cristiani con le altre religioni. La
prima riguarda il divenire di Gesù, la seconda concerne il termine persona.
1. Spesso si è presentata l’incarnazione
come un evento istantaneo che costituisce
fin dall’inizio una condizione straordinaria
di esistenza. Il modello, invece, descrive un
processo di crescita personale, che implica
riflessione, preghiera, ricerca delle vie da
percorrere, analisi delle situazioni impreviste e culmina nel gesto supremo di amore
e di fedeltà a Dio sulla croce. «Imparò, infatti, dalle cose che patì l’obbedienza e, divenuto perfetto, è stato costituito principio
di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb. 5, 8-9). Egli ha raggiunto la sua
perfezione quando «fu costituito figlio per
opera dello Spirito nella risurrezione dai
morti» (Rom 1,4). Tutta l’esistenza storica
di Gesù ha costituito l’ambito del processo
di incarnazione, attraverso il quale Gesù è
divenuto «icona di Dio» (Col 1,15).
2. Nelle formule tradizionali, che risalgono
ai Concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451)
per designare il rapporto tra Gesù e il Verbo
di Dio, si utilizzano i termini greci upostasis
e prosopon che vengono tradotti con «ipostasi» e «persona» per cui si è parlato di unione ipostatica e si è detto che Gesù è persona
divina. Ora il termine «persona» ha subìto
lungo i secoli cambiamenti profondi. Dall’idea di «ruolo», «funzione sociale» e analoghi è giunto a significare un soggetto di natura intellettuale consapevole di sé e libero.
Mentre quindi il senso della formula classica «Gesù Cristo unica persona divina» indicava affermare che soggiacente (upo-stasis)
all’avventura di Gesù Cristo era l’azione del
Logos (Verbo) divino, per cui Gesù per dichiarare la sua fedeltà alla Parola del Padre
poteva dire: «io non faccio nulla da me stesso», «le parole che io vi dico non sono mie»
«Il Padre compie in me le sue opere». Oggi
invece la formula viene a significare che in
Gesù Cristo esiste un unico soggetto divino
operante con un’unica coscienza e libertà.
Questa ultima concezione è contro l’esplicita affermazione dei Concili Costantinopolitano II (553) e Costantinopolitano III (661662) secondo i quali nel Verbo incarnato
occorre distinguere l’attività divina soggiacente con la corrispettiva libertà e l’attività
umana libera che la esprime a livello storico. Le due nature, infatti, quella umana e
quella divina con le loro attività restano distinte, anche se in rapporto.
Chi accentua l’unica persona divina di Cristo, dato il cambiamento avvenuto nel significato del termine persona, rischia di
non considerare Gesù come creatura e di
attribuirgli esclusive funzioni divine. Gesù
ci avrebbe salvato in virtù di una costituzione personale divina. Talmente unica da
essere irrepetibile. L’esclusiva funzione
salvifica dipenderebbe da questa sua struttura personale.
limiti dei modelli soteriologici
Ad analoga conclusione perviene chi resta
ancorato alla soteriologia ascendente. Se
infatti si pensa che Gesù in virtù dell’unione
ipostatica è stato in grado di meritare la salvezza divina per tutti, nessun altro può supplire o completare la sua azione. L’argomentazione è stata espressa nella forma logica
più rigorosa da S. Anselmo di Aosta nell’opuscolo Perché un Dio uomo, esaminato nel
numero scorso (v. Rocca n. 15/2006, p. 52).
Ma essa è stata diffusa nelle scuole di teologia, nella catechesi e nell’omiletica, al punto
da costituire, per molto tempo, l’insegnamento corrente della chiesa. Se la salvezza consiste nell’offrire a Dio la soddisfazione per i
peccati degli uomini e se solo un uomo/Dio
è in grado di offrire tale soddisfazione, non
può esistere altra alternativa alla salvezza
operata da Cristo.
Analogamente se la salvezza consistesse nell’offrire a Dio il prezzo del riscatto dell’uomo e se solo un uomo/Dio era in grado di
offrire tale prezzo con il suo sangue, allora
solo la morte di Gesù costituisce l’evento
necessario ed esclusivo per la salvezza. Queste argomentazioni, anche quando non sono
esplicitate, soggiacciono a molte prese di
posizione sulla mediazione unica di Cristo e
sulla necessità per tutti gli uomini di riferirsi alla sua azione. Per cui anche chi ammette che la rivelazione di Dio possa essere realizzata e di fatto sia stata attuata nella storia
anche attraverso numerosi altri mediatori,
nell’ambito della salvezza esclude che vi possano essere mediatori autonomi e indipendenti da Gesù Cristo. Ma i modelli teologici
soggiacenti sono in revisione da molto tempo. Molti fra i teologi cristiani affermano che
le religioni possono essere non solo luoghi
di rivelazione di Dio ma anche ambiti di salvezza. Il dono di Dio è talmente ricco da poter
assumere molte modalità secondo la molteplicità delle culture umane. Ogni struttura
religiosa perciò per capire la sua stessa tradizione deve mettersi in ascolto anche delle
altre. Per i cattolici il Concilio Vaticano II lo
ha affermato in modo molto chiaro quando
ha scritto: «È dovere di tutto il popolo di Dio,
in particolare dei pastori e dei teologi, di
ascoltare il linguaggio degli uomini del proprio tempo, siano essi credenti che non credenti, per capire la verità rivelata, per approfondirla e per saperla esprimere in modo più
adeguato» (GSp 44). Ciò tanto più vale dei
linguaggi religiosi.
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
TEOLOGIA
tazione della realtà e strumento di comunicazione tra le persone è inadeguato. Le varie religioni quando entrano in dialogo parlano di esperienze spesso incomparabili e
con modelli culturali difficilmente armonizzabili. Si confrontano su realtà a cui ciascuno accede secondo punti di vista molto
diversi e che esprime con linguaggi non
omogenei. Non sappiamo a che cosa di fatto corrispondano le immagini di Dio che le
diverse religioni presentano e a cui si rifanno le persone nella loro esperienza. Non
sappiamo a che cosa corrisponda la tensione che ogni persona esprime nella pratica
religiosa e in che cosa consista la salvezza
da lei attesa. Alcuni esasperano questo dato
al punto da precludere ogni possibilità di
dialogo sui contenuti. Per George Lindbek,
ad esempio, le formule religiose sono intraducibili e incomunicabili fra di loro: «Le
esperienze che le religioni assumono o
modellano sono altrettanto varie quanto gli
schemi interpretativi che incorporano. Coloro che aderiscono a religioni differenti
non tematizzano diversamente la loro esperienza, ma hanno esperienze diverse» (The
Nature of Doctrine, Westminster Press, Philadelphia 1984, p. 40).
Un terzo dato comune a tutti i teologi cristiani è che la salvezza è offerta da Dio gratuitamente e nessuna prestazione umana
è sufficiente a realizzarla. Esistono però
condizioni per accoglierla.
Nell’ambito cristiano questa nuova condizione ha messo in discussione alcuni modelli teologici relativi alla struttura di Cristo, alla sua missione e alla salvezza da lui
offerta, che sembravano pacifici e universalmente acquisiti.
Carlo Molari
55
CINEMA
EVA E LE SUE SORELLE
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Lidia
Maggi
56
A
ppena qualche attimo prima di
morire, appoggiata al nocciòlo del
giardino, l’Annina emerse dall’ombra in cui la sua mente si era nascosta da molti anni, e all’improvviso,
in quei brevi istanti che la morte
ancora le concesse, come se fosse in volo rivide la casa col pino… e sua madre partorirla
urlando di un dolore che le sembrò perfetto,
e solo alla fine, quasi spiando, scorse la propria testa uscire da quel corpo rosso e gonfio dallo sforzo...».
(U. Ricciarelli «Il dolore perfetto»)
Si dice che una persona, nel momento della
morte, ripercorra tutta la sua vita, fino al
parto.
Non di rado il linguaggio della morte e quello della nascita si intersecano. Per il credente il morire è un passaggio, un parto verso
una nuova realtà.
Nella Bibbia il parto può essere evocato per
ritrovare fiducia in Dio nei momenti di crisi:
«Signore, tu mi hai tratto dal ventre di mia
madre e tra le sue braccia mi hai fatto riposare, a te sono stato affidato fin dalla nascita, fin dal ventre di mia madre tu sei il mio
Dio» (Salmo 22,10-11).
Il salmo che accompagna Gesù sulla croce
accosta all’urlo «Mio Dio, mio Dio, perché
mi hai abbandonato?!» la memoria della
nascita. Accanto all’esperienza d’abbandono
rimane il ricordo dell’amorevole accoglienza nelle braccia della vita. Questa supplica
dove la morte è descritta con immagini crude (il verme, la fossa) intreccia preziosi rimandi con il parto.
Il salmo costruisce un richiamo ulteriore tra
l’esperienza di salvezza del popolo di Dio e
la nascita dell’orante descritta nei versi sopra citati.
«In te sperarono i nostri padri: hanno sperato e li hai condotti in salvo, ti chiesero aiuto
e li hai liberati, si sono fidati e non sono rimasti delusi» (Salmo 22,5-6).
Siamo abituati ai canti biblici che
ripercorrono le grandi gesta divine per invocare liberazione. Meno scontato è invece il
parallelo con la nascita fisica del salmista.
Due esperienze di uscita. Due storie di nascita. Dalla schiavitù alla libertà, attraverso
cui nasce il popolo che Dio si è scelto; e dal
ventre materno attraverso cui nasce il credente.
In entrambi i casi compaiono immagini e
sentimenti legati al parto. Non è forse l’esodo, esperienza di acque che bisogna attra-
versare per arrivare alla libertà e passaggio
doloroso dal giogo egiziano?
Il dolore del salmo, simile alle doglie di una
partoriente, è la ragione che muove la supplica.
Dio è per l’orante una levatrice che aiuta a
far uscire il neonato e lo deposita sul seno
materno. Anche nella nascita di Israele, Dio
sembra assumere gli stessi tratti: facilita
l’uscita. Israele riconosce nell’esodo l’inizio
fondante della propria storia. Facendone
memoria, di continuo confessa che nasce
dall’esperienza di un passaggio. Il «braccio
forte e potente» di Dio assomiglia più alle
braccia salde di una levatrice che a quelle di
un guerriero. Del resto occorrono movimenti
forti e decisi per aiutare una vita a nascere.
Alcune operazioni nel parto richiedono sforzo ed energia. Le levatrici in genere sono
donne vigorose! Ce lo rammenta la vicenda
di Sifra e Pua, le ostetriche ebree che si oppongono al genocidio proprio all’inizio dell’esodo.
L’immagine del Dio-levatrice non è nuova di
per sé: lo stesso Fromm aveva letto l’episodio del giardino e la cacciata di Adamo ed
Eva con le categorie della nascita, evitando
di parlare di maledizione e mostrando come
l’uscita dal paradiso terrestre fosse il necessario passaggio per l’autonomia. Il giardino
è in questa interpretazione l’utero materno,
dove Adamo ed Eva sono formati. La cacciata è il parto e il conseguente taglio del cordone ombelicale.
Anche nei racconti primordiali della Genesi, Dio appare dunque come la grande levatrice che facilita l’uscita, il venire al mondo
dell’umanità.
La Scrittura tra i tanti linguaggi per dire Dio
ci presenta anche l’immagine della levatrice. È questo particolare modo di raffigurare
il divino che ci permette di richiamarlo alle
sue responsabilità di cura e di rivolgergli una
preghiera:
Dio, ostinata levatrice,
così come hai creato la luce, accompagnaci
nel venire alla luce;
così come hai creato la vita, accompagnaci
nel venire alla vita;
e se non puoi proteggerci dalla sofferenza
del vivere,
accoglici almeno nelle tue braccia vigorose,
non solo quando moriamo.
Non lasciarci precipitare: donaci la fiducia
di chi sa di essere stato affidato alla madre
terra,
e non si sente come sbattuto nel duro suolo.
È
di certo un film per
spettatori particolarmente vicini al genere «country», e insieme al
sentimento del ricordo. Il
country – non siamo specialisti –, ma sappiamo che è
quel tipico modo di cantare e suonare che negli Stati
Uniti ripercorre le vie musicali di vecchie ballate popolari, alcune di origine irlandese, addirittura dai
tempi del West. Robert Altman, regista ultraottantenne che conosce e ama il suo
Paese, senza nasconderne –
neppure a se stesso – difetti
e limiti, anzi volgendo spesso uno sguardo critico sulla vita di ogni giorno, è il
regista di Radio America .
E se quasi ogni film di Altman comprende e conclude in sé un proprio tema,
Radio America è appunto
un dolce-amaro omaggio
alla vecchia e tradizionale
e amata provincia di un
profondo territorio di campagna.
Il film è centrato su una trasmissione radiofonica di
grande successo con almeno trenta anni di vita, A
Prairie Home Companion,
che viene realizzata in un
auditorio aperto al pubblico e che è, stando al film,
alla sua ultima puntata. La
sala sarà abbattuta, una
banca o un supermercato o
un garage ne prenderanno
il posto. Cantanti, imitatori, rumoristi, musicisti, per
lo più alquanto anziani
sono al loro ultimo show, e
c’è anche chi ancora non ne
è al corrente, e qualcuno
non saprà più come lavorare. Battute spiritose e originali, altre banali o volgari si succedono con un ritmo a mitraglia. Come sempre in Altman l’ironia e il
gioco non tolgono spazio all’amarezza; e c’è perfino, tra
i personaggi, uno degli amici più cari e avanzati in età
che, appartatosi in attesa di
un incontro amoroso, muore d’infarto.
Numerosissime sono le figure che si incontrano die-
Passato e Presente
Radio America
tro le quinte, magari fino all’ultimo momento distratte
da preoccupazioni o da
chiacchiere familiari e personali, poi all’ultimo secondo utile perfettamente in
grado di eseguire il proprio
numero e di rispondere al
pubblico presente in sala e
a quello che ascolta alla radio.
Che dire delle straordinarie
«sorelle Johnson», Jolanda
e Rhonda, rispettivamente
interpretate da Meryl
Streep e da Lily Tomlin?
Suonano e cantano (veramente, imprevedibilmente
straordinaria Meryl Streep)
ricordando, nella trasmissione, la vecchia madre e
commovendosi come si
deve ri-cantando le canzoni che lei stessa insegnava
loro. Come non ricordare la
ballata del Fiume Rosso,
ascoltata sullo sfondo musicale di tanti film? Come
non ricordare la canzone
western addirittura sull’aria
de «La donna è mobile» del
verdiano Rigoletto? Non so
se a cinquantasei anni Meryl Streep voglia ora intraprendere una nuova carriera di cantante dopo i grandi successi come attrice (a
questo riguardo, per quel
che possono significare,
non vanno trascurati gli
Oscar e le numerose candidature): certamente molti
cantanti di professione
avrebbero tutto il diritto di
temere – per concorrenza –
il suo ingresso fra di loro e
la sua popolarità. Ma Meryl Streep non fa differenza
fra un modo e l’altro di lavorare nel campo dello spettacolo e di essere presente
in quella parte di America
che le è cara e in quel significato del suo Paese che lei
stessa stima. Ha avuto infatti occasione di dichiarare: «sapete il male che penso di Bush e della politica
americana, ma sono felice
che il film di Altman racconti il cuore dell’America
vera e dimenticata, quel
sano conservatorismo che
sfida il cinismo attuale. E
sono felice che giri il mondo una pellicola che, per
una volta, non racconta
solo quanto siamo cattivi».
Nel film c’è un cosiddetto
«tagliatore di teste» che
rappresenta coloro che
hanno ormai acquistato il
teatro e che vogliono abbatterlo per interessi di mercato. Per contrastare e simbolicamente eliminare il «tagliatore di teste», Altman
inventa una specie di angelo, la bella Asfodelo tutta
vestita di bianco, un po’
vero, un po’ immaginato,
un po’ fantasma, un po’
simbolo, un po’ donna da
sogno e d’amore. È una figura che attraversa tutto
l’arco del film e che arricchisce il racconto di sentimento e di pensiero, affinché i vari brani di musica e
di canto non costituiscano
una semplice successione
di carattere spettacolare.
E a questo riguardo va ricordato l’apporto sostanziale dato al film dalla presenza di Garrison Keillor,
che è il vero conduttore dello show autentico, in
trent’anni di lavoro, animatore cantante e conduttore,
ma soprattutto – qui – sceneggiatore del film.
Film che Altman ha diretto, secondo il suo costume,
con una libertà di tecnica e
di inventiva assolutamente
straordinaria: «la macchina da presa? Erano almeno dieci – ha dichiarato la
Streep –; non ho mai lavorato con tanti obiettivi addosso. Ho provato tantissimo, con Lily Tomlin, abbiamo passato un intero pomeriggio a casa mia per entrare nella parte delle sorelle, costruirci un passato e
una madre di cui parlare,
entrare in intimità. [...] Abbiamo recitato così il dialogo a tre fra Lily, me e l’attrice che interpreta mia figlia depressa e dedita a poesie sul suicidio. Ma chi poteva ricordare tutte quelle
battute? Ci siamo lasciate
andare, dove non arrivava
la memoria ci arrangiavamo con l’inventiva, ci abbiamo messo del nostro e
alla fine abbiamo pianto insieme. Certo, i ricordi d’infanzia sono serviti e anche
l’esperienza con quattro figli, di cui tre femmine».
Si è accennato a Garrison
Keillor, figura popolarissima negli Stati Uniti e – anche perché nel campo della radio –, sconosciuta in
ogni altro Paese. Keillor,
sessantaquattro anni, è in
realtà attore, cantante,
compositore, intrattenitore
di straordinarie qualità,
disinvolto e intelligente, e
non ha certamente le fattezze del divo. A rigor di
logica non sappiamo neppure se l’ultimo spettacolo
qui celebrato del suo show
corrisponda alla realtà o sia
soltanto una invenzione di
sceneggiatura. Ma in un
film del tutto corale come
questo (o, per ricordare altri titoli di Altman, come
Nashville, come America
oggi, come Gosford Park),
in cui la realtà si mescola
di frequente con la lirica,
col sentimento, con l’invenzione, quel che conta alla
fine è la riuscita piena di
una grande opera cinematografica.
❑
57
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Dio, grande levatrice
Giacomo Gambetti
Roberto Carusi
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
L
a scuola di teatro
d’animazione Fiando prende nome dal
marionettista Giuseppe
Fiando, che per primo – nel
1800 – portò a Milano la
maschera piemontese di
Gerolamo. Da quest’ultimo
prese a sua volta nome il
centralissimo Teatro Gerolamo, dono della municipalità milanese all’artista
che riusciva a far sognare
grandi e piccini con melodrammi, drammi storici,
balletti, pantomime e vaudevilles: tutti interpretati
da «attrici ed attori con
fili».
Ad uno di quei successi
ottocenteschi (riproduzioni in scala minore dei
trionfi scaligeri a grandezza naturale) Eugenio Monti Colla, erede della storica Compagnia Carlo Colla
e Figli, che fu al Gerolamo
del primo Novecento e della quale è regista e direttore artistico, si è ispirato –
nell’anno accademico appena concluso – per il compito assegnato a quattro
giovani donne allieve del
corso della Fiando. Al loro
entusiasmo, con il contributo di una decina di docenti delle varie discipline
artistiche, ha infatti «commissionato» la messinscena di un classico della
Compagnia: Prometeo ovvero la rigenerazione della
specie umana (con Gerolamo seguace di Prometeo
maestro degli uomini).
Un’azione mitologica in 5
quadri, ridotta – ovviamente – a misura di un edificio
marionettistico ad altezza
d’uomo, completo di scenografie, sipario e di una
decina di marionette alte
non più di una trentina di
centimetri. Ad animare le
marionette e a dare loro
voce – dal vivo, come si
58
Giuliano Della Pergola
Mariano Apa
Impara l’arte...
dice oggi – le quattro allieve, autrici anche chi delle
scene, chi dei costumi, chi
dei testi scritti e interpretati, chi della ricerca delle
musiche di scena più appropriate.
Un tema, certo, non facile:
ricco com’è di figure allegoriche, sostenuto – più
che dai dialoghi – dai movimenti. Va detto che solo
nella stagione 2005/2006
(che ha visto i Colla dar ligneo corpo e sorprendenti
macchinerie al mozartiano
Sogno di Scipione) poteva
nascere l’idea di mettere le
quattro artiste con un soggetto tanto astratto a prima vista, alla prova in realtà tanto concreto nella
sua ben congegnata rappresentazione.
Per tutte e quattro le neomarionettiste una grande
soddisfazione, per più di
una forse la scoperta di
una vocazione, in qualche
caso la conferma di un apprendistato già effettuato
brillantemente durante
una delle tante tournées
dei Colla in giro per il mondo. La platea, divertita
come a un vero spettacolo
e non soltanto a un saggio,
ha respirato – nonostante
comprensibili e lievi improprietà – il profumo antico e nuovo di un gran
mestiere. Lo si è sentito nei
tempi di controllata ieratica lentezza, nella tenerezza con cui erano manipolati i fili e ogni elemento
della attrezzeria, nel tacito coordinamento delle
abilità individuali nel prodotto finale collettivo. Vale
la pena di ricordare i nomi
delle artiste meritatamente licenziate: Debora Coviello, Marzia Gambardella, Flavia Pozzi, Antonella
Villani.
❑
FOTOGRAFIA
MOSTRE
Bose
uando la Parola è
vissuta nella Comunità «lo spazio liturgico è lex orandi alla pari
di un testo liturgico» (Goffredo Boselli) e le individualità vengono esaltate e
la sapienza dell’umiltà è lo
spazio del servizio entro
cui l’eros pentecostale informa la Pastorale non
come burocrazia della
prassi ma come comportamento della Testimonianza. E la riflessione sullo
spazio sacro diventa argomento dell’identità cristologica. È stato a Bose nel
2003 (31 ottobre/2 novembre) che si è iniziato un
cammino di incontri ad
altissima concentrazione e
qualità di intenti – e di risultati di cui si documenta negli «Atti», per la cura
di G. Boselli, edizioni Qiqajon della Comunità di
Bose –, sull’impulso di una
scadenza non occasionale,
ma davvero da tutta la
Chiesa partecipata, del
quarantesimo della Sacrosanctum Concilium. Con il
sostegno della Cei, e in paricolare della direzione
dell’Ufficio nazionale dei
beni culturali ecclesiastici,
nella persona di Mons.
Giancarlo Santi e, oggi, di
don Stefano Russo; il Priore di Bose Enzo Bianchi e
Mons. Valenziano, Debuyst, De Clerck, Gerhards, e il monaco di Bose
Goffredo Boselli, hanno
proposto il convegno su:
«Altare. Mistero di presenza, opera d’arte» e «L’Ambone. Tavola della parola
di Dio» (2-4 giugno,2005)
e quindi in questo 2006:
«Lo spazio liturgico e il
suo orientamento» (1-3
giugno).
Mentre nel prossimo anno
2007 si terrà il V Convegno, il quale (dal 31 al 2
giugno) «proseguirà la ri-
flessione sullo spazio liturgico affrontando i temi del
battistero, del luogo del
sacramento della penitenza e della riserva eucaristica», come si è espresso
Enzo Bianchi, riassumendo i lavori dell’attuale convegno sull’Orientamento
(«L’Osservatore Romano»,
14 –VI-2006, pag. 7).
In apertura al convegno
sull’Ambone Enzo Bianchi, Priore della Comunità
di Bose, tenendo di conto
la definizione di «non-luogo», esplicitata da Marc
Augé («Nonluoghi», Milano 1993), così si è espresso: «Se lo spazio liturgico
viene percepito e vissuto
come un ‘non-luogo’, non
solo diviene spazio di non
incontro tra gli uomini, ma
anche spazio di non incontro tra uomo e Dio. Nulla,
dunque, ci impedisce di
pensare che quella diffusa
domanda alla quale cerchiamo di dare risposta
con questi nostri convegni,
esprima in fondo il bisogno oggi più che mai impellente di formazione e di
approfondimento affinché
le nostre chiese siano degli autentici luoghi di fede,
evitando così il tragico pericolo di trasformarsi in
veri e propri ‘non-luoghi’
della fede.Una chiesa è
spazio per la celebrazione
della fede quando è veicolo e strumento di conoscenza e di comunione tra
l’uomo e Dio, e degli uomini tra loro. Solo così ‘avviene’ la vera bellezza cui deve
tendere lo spazio liturgico;
non solo quella bellezza,
come dice Dionigi l’Areopagita, ‘che crea ogni comunione’ ma, anche all’inverso, quella bellezza che
la comunione, la koinonia
con Dio e con i fratelli può
creare».
❑
Alberto Pellegrino
Dai bizantini a Cimabue
P
isa, museo san Matteo. Una mostra d’importanza davvero particolare illustra il passaggio
dall’arte bizantina, iconica,
statica, schematica, alla
più differenziata arte italica che andò formandosi in
periodo medievale in Toscana. La tradizione pittorica orientale ci restituiva
un’immagine religiosa fissa, definita, ripetitiva, monocorde. La sua verità stava nella sua stessa tradizione. Nell’Italia medievale
invece inizia un «discostamento» dall’icona. La figura acquista lentamente più
i caratteri di un’immagine
antropologica. Gesù in croce è studiato come un
uomo che sforza i muscoli
delle braccia: e allora tre
muscoli diversi tra di loro
compaiono a riempire
quelle braccia tese dal dolore per i chiodi sulle mani.
Il braccio viene studiato
partitamente. Poi è il caso
dell’addome: il peso del
corpo del Crocifisso pesa
sui lombi: allora ecco che
la pancia si gonfia e gonfiandosi si ripartisce in
quattro o sei sezioni. Poi il
volto si contrae in smorfie
o in espressioni dolorose.
Allora l’icona perde il suo
carattere modellistico ed è
il pittore che interpreta,
dapprima in modo timido,
poi sempre più liberamente, la tragedia del Golgota.
Lo stesso dicasi per la Madonna: dalla stilizzata forma mariana con in grembo il piccolo Messia, via,
via la pittura rivela una relazione tra madre e figlio.
La coppia non è più composta da una madre più un
figlio, ma da un tutt’uno
nella differenza dei ruoli.
La Madonna dialoga con il
figlio e il figlio le sta in
braccio assumendo posizioni diverse: si protrae in
avanti, predica, alza un
dito della mano, sorride,
beve il latte dal seno…
L’espressione iconica viene
sostituita da una relazione
a due, dove il pittore immagina forme e differenze
antropologiche. Il Rinascimento avrebbe portato a
compimento questo studio, ma la bella mostra pisana, nelle austere sale del
museo san Matteo, per
l’occasione illuminate molto adeguatamente, ci illustra quel primo passo che
va dalla teologia all’antropologia e che racchiude in
nuce un lunghissimo processo culturale. Per l’occasione sono giunte poi da
Londra e da New York due
preziose formelle di Cimabue, una Madonna in trono col bambino e la Flagellazione di Gesù alla colonna.
Quando poi s’arriva a Giotto, non è solo passato un
mezzo secolo: è l’insieme
della pittura che va mutando e maturando. L’irruzione della psicologia diventa
una ricerca nella ricerca e
ogni volto di santo acquista caratteri umani specifici. E’ di Giovanni Pisano
un Crocifisso in legno policromo (datato verso il
1300), che da solo merita
la visita della mostra. Si
tratta di un gesto artistico
rivoluzionario e geniale.
Normalmente posto nella
chiesa pisana di san Nicola, questo Crocifisso mette
in evidenza in forma scultorea quello che prima si
diceva per la pittura. E la
scultura riesce, ancor meglio dei soli colori, a illustrare la qualità dell’arte
che, assumendo Gesù
come modello, laicizza la
figura del Messia per potere studiare l’uomo. Siamo ancora in ambiente
strettamente medievale e
certi temi sarebbero maturati solamente dopo, eppure è commovente potere
capire questo movimento
dell’arte, che a Pisa e in altre città toscane (a Siena
con Duccio, a Firenze con
Giotto) avrebbero cambiato la storia dell’immagine
sacra.
❑
Illusione o rivelazione
R
icompare dopo 25
anni il volume La
fotografia. Illusione
o rivelazione (Il Mulino,
1981) ristampato dalla
Editrice Quinlan (www.
aroundphotography.it),
una giovane casa editrice
bolognese che ha il merito di riproporre un’opera
che ha segnato una svolta nel campo degli studi
fotografici, perché ha posto la fotografia in relazione con le altre arti visive, con la letteratura e
il cinema, con le maggiori teorie estetiche dell’Ottocento e Novecento. Il
volume contiene due saggi fra loro complementari: il primo è di Francesca
Alinovi, giovane e validissima studiosa di estetica
e storia dell’arte presso
l’Università di Bologna,
che purtroppo sarebbe
tragicamente scomparsa
dopo appena due anni; il
secondo è di Claudio Marra, allora giovanissimo ricercatore e oggi affermato autore di importanti
saggi, nonché docente di
Storia della Fotografia
presso il Dams di Bologna.
Nel saggio La fotografia:
l’illusione della realtà la
Alinovi, dopo una approfondita analisi rapporto
tra realtà e illusione nella
fotografia, traccia un particolare percorso storico
che parte dai ritrattisti
dell’Ottocento, i quali scoprono involontariamente
quanto l’immagine sia
lontana dalla realtà, ma
nasca da un «ibrido miscuglio surreale» di elementi diversi; segue una
rivalutazione del Pittorialismo nelle sue componenti di invenzione e di
immaginazione e una più
precisa collocazione critica della fotografia dell’età
vittoriana, che ha i suoi
maggiori esponenti in
Lewis Carroll e Julia Margaret Cameron; altrettanto interessante è la classificazione come «fabbrica dei sogni» della fotografia esotica che segue la
pittura e la narrativa sulla via dell’Oriente. Il primo Novecento si divide
tra revivalismo ed erotismo passando attraverso
neomediovalismo gotico,
Art nouveau e surrealismo. Questo percorso critico si conclude con le
opere di Duane Michals,
maestro della Narrative
Art, che riesce a materializzare sogni, pulsioni inconsce, deliri sessuali,
emozioni mistiche dell’uomo contemporaneo e
con la scoperta di Mapplethorpe, genio fotografico allora pressoché sconosciuto in Italia. Da parte sua Marra prende in
esame i legami esistenti
tra fotografia e filosofia,
letteratura e psicanalisi,
quindi analizza l’apporto
dato allo sviluppo della
fotografia da Stieglitz, dal
futurismo, dal surrealismo, dal fotomontaggio,
dall’arte concettuale, pop,
body, narrative art; quale fondamentale rapporto
vi sia infine tra invenzione e realtà in autori come
Hine, Sander, Atget, Salomon, Brassai, CartierBresson e Arbus.
❑
59
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
ARTE
TEATRO
SITI INTERNET
MUSICA
Enrico Romani
I
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
60
rivalità violenta tra le varie posse e crew, con gli
stessi interpreti di gangstarap (Tupac morirà ucciso)
che diventano interpreti di
storie reali non propriamente esemplari. C’è poco
da fare: il duro mondo dei
giovani afro-americani,
giamaicani e portoricani
dei ghetti delle grandi città statunitensi, il mondo
che già era stato descritto
efficacemente da Dennis
Hopper nel film Colors
(1987), e che viene aggiornato da 8 Mile di Curtis
Hanson (2002), con Eminem, è un mondo di degrado e povertà. Che esso sia
riuscito a far nascere ed
amare una musica dai giovani di tutto il mondo è il
consueto «miracolo» degli
emarginati a stelle e strisce, che fin dal blues, dal
jazz, riuscirono ad imporre le loro sotto-culture
musicali come dominanti.
La musica rap si è poi di
nuovo fusa con un genere
che già abbiamo visto essergli vicino in passato,
l’heavy metal, dando vita al
nu-metal di gruppi come
Korn, Limp Bizkit e Linkin
Park, ma essa stessa è divenuta un contenitore onnivoro di musica nera e
non solo, trovando poi in
ogni continente e paese risorse proprie. Pensiamo a
quanto sia diverso qui da
noi il rap di Lorenzo Cherubini, alias il già citato
Jovanotti, finalmente adulto e ultra-consapevole, con
quello di Frankie Hi NRG,
grande affabulatore, o con
quello istrionico, «zappiano» e anche un po’ glam di
Caparezza! Certo, il linguaggio del rap americano, ma anche un po’ di
quello internazionale, è
stato, è, e sarà sempre molto esplicito, e la scritta «Parental Advisory» continuerà a troneggiare sulle copertine dei dischi, ma i giovani sono così, e la gioventù si attraversa una volta
sola nella vita.
❑
Pubblicità online
I
dati più eloquenti vengono, tanto per cambiare, dagli Stati Uniti, ma
c’è da scommettere che le
tendenze là in atto siano anticipazioni di quanto succederà anche da noi: la pubblicità in Internet sta aumentando esponenzialmente i suoi volumi e, pur ancora appannaggio di televisione e giornali, si sta candidando ad essere (temibile)
alternativa o, quanto meno,
(flessibile) integrazione di
quella tradizionale.
I numeri parlano da soli: nel
2005, la pubblicità su Internet venduta negli Usa ha
raggiunto la cifra record di
12 miliardi di dollari, contro i 9,6 miliardi del 2004 e i
6 del 2002. Il dato assume
valenze considerevoli se si
tiene conto, tra l’altro, che
uno spot della durata di 24
ore sul portale Msn.com della Microsoft può costare da
diverse centinaia di migliaia di dollari fino a un milione (mentre solo 4 anni fa
costava tra i 25 e i 50 mila
dollari): per avere un parametro di riferimento, si consideri che 30 secondi di spot
nel corso delle più seguite
fiction televisive della Abc
costano 547 mila dollari,
mentre una pagina sul magazine «People» viene venduta a 228 mila dollari.
Sale la domanda, sale il
prezzo. L’appeal dello spot
online si è fatto talmente
forte che grandi protagonisti del web come Google,
Yahoo!, Aol di Time Warner,
Msn di Microsoft hanno
esaurito tutti i loro banner
per i prossimi 18 mesi. Nondimeno, il settore della pubblicità online rappresenta
soltanto il 3,7% delle spese
pubblicitarie nel mercato
americano (dati relativi al
2004), mentre le prime 50
web company raccolgono il
96% delle risorse investite in
pubblicità; a campeggiare,
su tutti, è Google, che su tali
entrate basa più del 95% del
suo fatturato.
I dati generali sono ulte-
riormente confermati da ricerche di settore, come ad
esempio quella realizzata
dall’«Economist», secondo
la quale le attività di marketing e pianificazione per i
prossimi due anni da parte
di un campione di 228
aziende di tutto il mondo
(70 delle quali fatturano
ogni anno almeno 5 miliardi di dollari) sono in netta
crescita: il 72% dei rispettivi top manager ritiene che
tra due anni Internet sarà
la piattaforma sulla quale
pianificare ed eseguire le
principali campagne di comunicazione, mentre il
30% delle aziende pensa già
di spostare parte del «budget promozione» dai media
tradizionali a Internet. Con
conseguenze non di poco
conto, visto il fiume di danaro che si riverserà in rete.
Di sicuro Internet inizia a
sovvertire già oggi modelli
e criteri, anche economici,
della pubblicità. Bill Gross,
ad esempio, ha inventato e
poi ceduto a Yahoo! il metodo dei link sponsorizzati, in forza del quale il pagamento delle inserzioni
avviene solo nel momento
in cui il visitatore clicca sul
link sponsorizzato. Offrendo un dato certo e un valore sicuro, il sistema ideato
da Gross sta attirando da 5
anni a questa parte investimenti pubblicitari crescenti, a tassi prossimi al 20%.
Senza dire che c’è chi sta
già pensando ad un sistema
di pagamento della pubblicità legato all’effettivo acquisto da parte dell’utente
della merce reclamizzata.
Afflitti come già siamo da
pubblicità che ci bombarda da ogni dove, proprio
non auspichiamo una rete
lordata di spot. Ma una
pubblicità un po’ più «intelligente», che almeno su Internet offra un briciolo di
«conoscenza», è pretesa o
aspettativa eccessiva? Ci
auguriamo che i fatti stiano dalla nostra parte.
❑
Miklós Vámos
Il libro dei padri
Einaudi, Torino 2006
pp. 453
Nell’intreccio complesso ed
avvincente del romanzo, in
cui si succedono lessici arcaici e curiose commistioni linguistiche odierne, Vamos
narra la saga di una famiglia
ebrea ungherese nel suo
comporsi e sfaldarsi e ricostituirsi dal 1700 ai giorni
nostri. Sullo sfondo l’avventuroso e drammatico svolgersi di incursioni soldatesche,
epidemie, catastrofi naturali, pogrom che costringono i
diversi membri della famiglia «sulla via delle tribolazioni» a peregrinare da un
paese all’altro dell’Europa
spingendosi perfino in America, nell’ostinata volontà di
«non rinunciare alla speranza». Con industriosa capacità essi riescono a passare dalla fame alla vita agiata, dal
carcere a incarichi politici
prestigiosi e imparano lingue
e si adattano a costumi diversi, modificano anche il cognome, ma in fondo non perdono mai i legami con la propria origine, grazie alla puntuale registrazione di eventi
familiari, gioie e lutti, affari
e paure curata dai primogeniti della famiglia che si tramandano di padre in figlio il
compito di annotarli nel misterioso «Libro dei padri»,
volume che si conserva indenne nonostante le avversità che si abbattono sulla famiglia. Ogni primogenito è
dotato di memoria prodigiosa e, nei momenti clou della
vita, ha in visione i ricordi del
passato e la premonizione
del futuro . Fatti ed eventi apparentemente insignificanti
vengono così ricomposti alla
luce di tali squarci di chiarezza e restano vivi oltre lo
spazio del tempo e al di là
della caducità della vita. Abile e attento descrittore di ambienti e di caratteri, Vámos
conduce il lettore nell’atmosfera stregata di orizzonti fiabeschi e affascinanti.
Luigina Morsolin
Luca Bressan e Luca
Diotallevi
Tra le case degli uomini
presente e “possibilità” della parrocchia italiana
Cittadella Editrice, Assisi
2006, pp. 358
Per noi, reduci da una lunga
e accesa campagna elettorale e quasi assuefatti alle
«semplificazioni terribili»
della propaganda, questo
saggio rappresenta un bagno
benefico e ristoratore perché
non solo non ci nasconde la
complessità della situazione
pastorale, ma la considera
una sfida da raccogliere, fino
in fondo, senza cedere ai
«luoghi comuni».
La diversa competenza dei
due Autori, sociologo l’uno
(Luca Diotallevi), teologo e
pastoralista l’altro (Luca
Bressan), adusi entrambi ad
un lavoro multidisciplinare,
dà vita ad un percorso di ricerca che ha come oggetto la
parrocchia italiana, letta nel
suo presente, ma anche scandagliata nelle «possibilità»
che si intravedono.
Il metodo scelto è quello di
una ricerca sociologica e teologica, in cui le due discipline, «diverse ed irriducibili
l’una all’altra», rispettano i
confini delle proprie competenze, ma nello stesso tempo
si avvantaggiano dei risultati reciproci.
Una prima parte si occupa
del «significato socioreligioso della»vertenza-parrocchia» nel cattolicesimo italiano contemporaneo e quindi
offre, in successione, una veloce ricognizione su alcune
situazioni ed alcune dinamiche in atto nel sistema religioso in Italia, un’analisi dei
modelli di parrocchia, un’interpretazione del significato
sociologico della crisi della
parrocchia cattolica di oggi
in Italia. Le chiavi di lettura
prescelte si rivelano, al proposito, molto feconde. La logica di appartenenza «inclusiva» della parrocchia fa infatti emergere ancor più la
logica «esclusiva» dei nuovi
movimenti ecclesiali. Nasce
da qui una domanda fondamentale: che cosa si intende
per esperienza di una religio-
ne «di chiesa»? Scartare la
vecchia contrapposizione tra
«chiesa» e «sette» non significa rinunciare ad identificare un’appartenenza religiosa
«di chiesa», distinguendola
da altri tipi di appartenenza
religiosa. Questo itinerario,
in effetti, permette di riconoscere le diverse idee di parrocchia e di cogliere il conflitto di culture e di poteri che
è all’origine della «vertenzaparrocchia». La parrocchia,
ad una lettura sociologica,
appare infatti in buona salute: essa svolge nel sistema religioso dell’Italia contemporanea il ruolo di principale e
più diffuso sportello cui ci si
rivolge per il consumo di beni
religiosi ed uno dei principali riferimenti di identificazione religiosa. Dove sta allora
il problema? Davanti alla diversificazione della domanda
religiosa la strategia adottata è stata quella di una diversificazione dell’offerta, ma
dentro un sistema che prevedeva una «prima gamba» (la
parrocchia) e molte «seconde gambe» (tra cui i «nuovi
movimenti ecclesiali»). Ora si
tratta di decidere se questa situazione deve essere conservata o se – seguendo la metafora – la «prima gamba» diventa una qualsiasi delle «seconde gambe» e ancora se,
davanti al proliferare delle
«seconde gambe» si debba
adottare l’ipotesi di tagliare
e limare alcune di esse. Il sociologo, da parte sua, deve rilevare che «la rete parrocchiale è oggi in Italia il più
diffuso e consistente network
di produzione e di regolazione dei flussi di identificazione e di partecipazione religiosa». È questa realtà che «garantisce al cattolicesimo italiano, anche oggi, di essere
un fenomeno religioso del
tipo ‘di chiesa’» (pp.200-201).
Nella seconda parte del saggio a prendere la parola è il
pastoralista che offre una
lettura teologica dei cambiamenti, illustra la identità
multidimensionale della parrocchia italiana (come appare, come si autointerpreta,
come si autogestisce e come
si orienta), e si concentra infine sulla prospettive per il
futuro. È indubbio che le trasformazioni avvenute obbligano la parrocchia a non fun-
zionare più come prima. La
maggior parte della gente, infatti, ha realizzato percorsi
autonomi per istituire la propria relazione personale col
divino: i fedeli sono diventati
pellegrini, i praticanti regolari
si sono trasformati in ospiti
più o meno occasionali , i parrocchiani si sono trasformati
in pendolari , che partecipano per qualche tempo, per poi
allontanarsi e tornare più
avanti. In questo contesto
solo la parrocchia sembra
rappresentare uno «strumento» capace di dare visibilità al
cristianesimo dentro la società, di rappresentarlo sul territorio, di assicurargli un’anima popolare e di offrire capillarmente l’annuncio del
messaggio evangelico. Proprio perché «non settaria»
per definizione, essa presenta un carattere debole e poco
marcato a livello identitario.
Ma, paradossalmente, non è
proprio questa «debolezza» il
suo punto di forza? Non è
grazie a questa che essa «realizza la convivenza e il riconoscimento reciproco di
molte diversità, sia sociali che
ecclesiali»? Istituzione ambivalente, essa è costretta così
a vivere stabilmente in equilibrio precario. Ma è proprio
questo il segno della sua eccezionale vitalità perché le
consente di essere avamposto, luogo di integrazione,
spazio sociale in cui si radica
la memoria cristiana, forte e
totalizzante, spazio attivo in
cui viene resa presente e fatta vivere l’esperienza cristiana. Trasmettere, istituire ed
abitare sono allora i tre verbi
che rendono ragione della dinamicità della parrocchia,
che è al tempo stesso una memoria, un corpo e una rete di
processi di localizzazione.
Tutto dipenderà, naturalmente, dalla «conversione pastorale» di cui sarà capace: se diventerà autentico spazio di
relazione, se saprà parlare i
diversi linguaggi della tradizione cristiana, se saprà accogliere, incontrare e accompagnare, ascoltare i bisogni
della gente e dare una risposta concreta, essa apparirà
come un «laboratorio ecclesiale del futuro».
Roberto Laurita
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
Giovanni Ruggeri
Il rap attuale
l campionamento anche di singoli segmenti
sonori tratti da brani
già editi poneva ovviamente una questione di natura
legale, essendo tutte le canzoni nella loro interezza
coperte da copyright. Nel
1988 ci fu la svolta: James
Brown, il «padre» in qualche modo dell’hip hop
(questo termine viene alla
fine usato come sinonimo
di rap) e il più «saccheggiato», vince la causa contro
Erik B. & Rakim che in
Paid In Full del 1987 lo avevano «citato» a dismisura.
Va ricordato comunque
che i due ebbero il grande
merito di introdurre il jazz
nelle basi rap. Il conseguente pagamento dei diritti di tutti i dischi rap incredibilmente ampliò, invece di diminuire, il successo del genere, tanto che
le major finirono col gestirlo in prima persona. La valanga hip hop cominciò a
trovare proseliti in tutto il
mondo (da noi un Jovanotti imberbe e stucchevole), e pur restando gli Usa
all’avanguardia in tutto, il
rap viene assorbito e proposto ovunque. Nei primi
anni ’90 l’hip hop subisce
poi la grande innovazione.
Dee-jay che diventano sinonimo di garanzia qualitativa e commerciale come
Dr. Dre (il guru di Eminem), RZA e il suo gruppo
di rapper denominati WuTang Clan, ma anche vecchi MC come Ice-T e Ice
Cube, il gangsta-rap di
Snoop Dogg e Tupac (che
deve il suo nome alle storie noir e malavitose declamate), in pratica tutta la
scena «losangelina», introduce parzialmente, oltre
alla batteria tornata di
moda già anni prima, anche linee sonore finalmente create (elettronicamente e con strumenti tradizionali), e in più parti cantate. È il rap che conosciamo oggi, il rap che ha scatenato e scatena ancora la
LIBRI
Nello Giostra
Si stanno «spegnendo»
Mongolia
ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
S
tato dell’Asia centrale, privo di sbocchi
sul mare, la Mongolia
confina a nord con la Russia e a est, sud e ovest con
la Cina. Grande tre volte la
Francia, ha un’altitudine
media di 1580 metri. E’ un
Paese arido e povero d’acqua, ma con un ampia varietà di ecosistemi naturali
diversi fra loro per clima,
flora, fauna e terreni. Si
passa infatti dalla montagna alla foresta, dalla steppa al deserto. Quasi un terzo del Paese è occupato dal
Deserto di Gobi. Marco
Polo ne «Il Milione» raccontava di una terra
d’oriente abitata da nomadi e abili guerrieri che a
cavallo conquistarono il
mondo, arrivando fino alle
porte dell’Occidente. Era il
regno del leggendario Gengis Khan e del nipote Kublai, che riuscirono ad unificare tutti i clan presenti
nel territorio creando
un’entità politica che raggiunse il suo apogeo con la
nascita dell’Impero mongolo nel 1206. Kublai Khan,
una volta portata a termine la conquista della Cina,
assunse il titolo di imperatore della dinastia cinese
Yuan. L’impero mongolo, il
più vasto che il mondo
avesse mai conosciuto, si
estendeva dalla Corea all’Ungheria e a sud fino al
Vietnam. Verso la metà del
XIV secolo i mongoli vennero cacciati da Pechino
dal primo imperatore della
dinastia Ming. La Mongolia venne così divisa in due
regioni. La Mongolia orientale divenne dominio della
dinastia Manciù che regnava sulla Cina nel XVII secolo. In seguito anche la
Mongolia occidentale cad-
62
de sotto il dominio cinese.
Nel 1911, la Mongolia proclamò la propria indipendenza, divenendo un protettorato russo governato da
una monarchia teocratica,
con a capo l’ottavo Jebtzun
Damba (Buddha vivente).
La rivoluzione russa del
1917 inflisse un duro colpo
all’aristocrazia mongola.
Nel 1921, un giovane ufficiale, Sükhe-Bator, riunì intorno a sé l’opposizione nazionalista mongola, costituì il
Partito rivoluzionario mongolo, si alleò con i bolscevichi e, sostenuto dall’Armata Rossa, cacciò dal Paese le
residue truppe cinesi. Nel
1924 fu proclamata la Repubblica Popolare di Mongolia, la seconda nazione
comunista al mondo e la
capitale divenne Ulan-Bator,
«eroe rosso». La dipendenza della neonata Repubblica mongola da Mosca divenne da subito piuttosto forte.
Con l’avvento di Stalin, la
Mongolia si trovò catapultata all’interno del sistema totalitario russo, che dette inizio ad un periodo di purghe,
persecuzioni religiose, distruzione di monasteri e uccisione di migliaia di monaci. Con la disgregazione dell’Unione Sovietica, prese inizio il processo di democratizzazione del Paese, che
culminò nel luglio 1990 con
le prime elezioni multipartitiche. Da allora la Mongolia è alle prese con una difficile transizione, che vede
l’alternarsi al governo del
Partito popolare rivoluzionario mongolo e una coalizione di forze di vaga ispirazione democratica.
Popolazione: la maggioranza dei cittadini è di etnia
mongola, ma ci sono anche
minoranze di kazaki e buria-
ti. Lo stile di vita dei mongoli, costituiti da quasi 3
milioni di abitanti, è profondamente legato agli animali, considerati una ricchezza sia per il sostentamento
che forniscono alla popolazione sia per l’importanza
che ricoprono come mezzi
di trasporto. L’urbanizzazione non è riuscita a scalfire
le antiche tradizioni che
continuano a sopravvivere
nelle steppe. Persino nelle
città, un gran numero di
mongoli vive nelle ger, grandi tende di feltro bianco, facilmente trasportabili.
Religione: la fede tradizionale è il buddismo lamaista,
testimoniata anche dai solidi e antichi rapporti che
legano la Mongolia al Tibet.
Con la salita al potere del
regime comunista, migliaia
di monaci furono arrestati
e deportati nei campi di lavoro in Siberia. I monasteri
furono chiusi e saccheggiati e tutte le cerimonie e culti
religiosi dichiarati fuori legge. La libertà di culto è stata ripristinata nel 1990 e da
allora si è registrato un massiccio ritorno alla fede. Nelle regioni occidentali vive
anche una consistente minoranza di musulmani sunniti, gran parte dei quali di
etnia kazaka.
Economia: il settore dominante dell’economia è
l’agricoltura, a cui la produzione industriale è strettamente collegata. L’allevamento del bestiame rappresenta i tre quarti della produzione agricola. Il comparto industriale si concentra essenzialmente sulla lavorazioni della lana, del
cashmere (di cui il Paese
fornisce più del 25% della
produzione mondiale) e del
pellame. Di rilievo sono le
FRATERNITÀ
risorse minerali e metallifere del Paese che possiede
rame, oro, uranio, piombo
e pietre preziose. Importanti sono anche le risorse carbonifere e quelle petrolifere. Nella regione del Gobi è
stata avviata una significativa attività di estrazione di
petrolio, grazie alle trivellazioni esplorative condotte da società statunitensi,
europee, cinesi e russe.
Situazione politica e relazioni internazionali: la
Mongolia è oggi un Paese
fondato su un’economia di
mercato. Dopo la libertà economica, la popolazione ha
cominciato a richiedere
quella politica e religiosa.
Senza rivoluzioni cruente,
ma solo mediante una serie
di scioperi della fame di studenti e di intellettuali, la popolazione è riuscita a convincere il Partito comunista a
concedere libertà di stampa,
di religione e di fondazione
di partiti. In seguito alle dimissioni di dieci Ministri
appartenenti al partito principale, il Partito popolare rivoluzionario mongolo, dovute alla lenta crescita economica, all’inflazione e alla
corruzione e dopo il voto di
sfiducia del gennaio 2006
alla coalizione di governo, il
Paese sta attraversando una
forte crisi politica. La Mongolia è uno dei pochi Stati
dell’Asia centrale che ha raggiunto una democrazia abbastanza stabile dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Stretta tra Cina e Russia, è
anche alleata degli Stati Uniti, spesso definiti «il terzo vicino» politico. La Mongolia
ha anche inviato una forza
armata in Iraq, piccola ma
dalla forte valenza simbolica.
❑
In questi giorni ho potuto
rendermi conto della situazione di una bambina che il
18 giugno ha ricevuto la prima Comunione. Avevo sentito che le assenze durante
la preparazione erano dovute al fatto che veniva portata a Siena per visite agli occhi, ma solo ieri sera, la
mamma mi ha detto che ad
Antonella si stanno «spegnendo» gli occhi e che rischia sicuramente la cecità
perché le cellule «muoiono»
come è successo alla cantante Annalisa Minetti. Non
vi sto a descrivere la disperazione e le lacrime di questa mamma. Accludo alla
presente i certificati medici
richiesti e potete vedere
scritta la diagnosi: retinosi
pigmentosa. Di persona ho
potuto notare che la bambina si muove con una certa difficoltà e non riesce a
distinguere bene le cose; ha
appena dieci anni e la sua
situazione va proprio peggiorando. Le difficoltà economiche della famiglia sono
tante e mi auguro che gli
amici di «Fraternità» possano aiutarla. Solo il papà lavora! Grazie. Don V.S.
Gravi e pesanti debiti
Vi raccomando la famiglia
di Antonio. Un anno fa la
moglie è stata operata a Milano, ma la situazione è peggiorata nonostante il calvario di visite, terapie ed analisi continue molto costose
e senza alcun aiuto da parte della Asl. Il capofamiglia
è pensionato e la figlia lavora «in precariato» e si sta
preparando al matrimonio.
Se non ci fossero problemi
di salute Antonio potrebbe
vivere con una certa tranquillità la vita con i suoi cari
ma le varie preoccupazioni
scombinano il suo bilancio
familiare e la normalità della vita. I 300 euro che voi di
«Fraternità» mi avete mandato per lui sono stati una
vera manna e gli sono stati
di gran sollievo in questo
momento così particolare,
con gravi e pesanti debiti.
Conosco bene la vostra
«Ogni volta che avete fatto qualcosa
a uno dei più piccoli di
questi miei fratelli
lo avete fatto a me» Matteo 25, 40
comprensione, bontà e generosità e questo mi fa trovare il coraggio per rivolgermi ancora ai Rocchigiani.
Grazie per tutto il bene che
riuscite a fare; il Signore solo
vi potrà ricompensare di tutto. Sac. S.V.
Povertà senza fine
La nostra missione in questa zona del Brasile continua la sua opera di evangelizzazione e aiuto ai poveri con lo stesso zelo e fervore con i quali è stata iniziata 43 anni fa. La mia vocazione missionaria è nata
con me; sempre ho avuto
nel cuore questo desiderio
e sono felice di realizzarlo
come Dio vuole e dove vuole. Siamo tre religiose della missione San Giovanni
Battista felici di diffondere la parola di Gesù ai più
lontani, ai più bisognosi
della sua grazie attraverso
corsi, incontri, visite alle
famiglie, senza contare il
grande numero di poveri,
per i quali dobbiamo essere sempre disponibili. La
nostra missione vive di offerte e di donanzioni di
ogni genere. Con il passare
degli anni anche qui le cose
stanno cambiando: l’«apparente» progresso materiale non si accompagna
con quello morale e religioso che si trova in decadenza. Ho detto «apparente»
progresso materiale, perché
la ricchezza è in mano di
pochi e sotto un volto rinnovato si nascondono per
molte famiglie e con molti
figli, povertà senza fine, carenza di assistenza sanitaria, soprattutto nelle isole
circostanti e nella foresta.
Noi ci prodighiamo nel
modo migliore, ma l’estensione della Parrocchia è tale
che non si può giungere a
tutto. Avrei altri particolari
da raccontarvi, ma non voglio dilungarmi troppo. Aggiungo solo che la vita in
missione non è priva di difficoltà e fatiche, ma le affrontiamo con generosità e
con grande fede. Se i tralci
crescono rigogliosi e fruttificano signifca che il «tronco» è vivo e trasmette linfa
vitale. Nuovi tralci spunteranno se abbiamo fede e il
«tronco» sarà sempre in Cristo giovane e attivo. Sr. E.G.
Hanno bisogno di essere
impegnati
Mi rendo conto del momento difficile che stiamo attraversando. Opero da quaranta anni nello sport e nel sociale. La mia Polisportiva ha
svolto un grande servizio
per bambini e bambine (inizia con loro l’attività) per finire ai giovani; no ha mai incontrato difficoltà finanziarie, perché ha potuto contare sul contributo di alcuni
soci. L’anno sportivo che si
è chiuso in data 30 giugno,
per la prima volta ha fatto
registrare un deficit di 1.000
euro; non vorrei che questo
dato segni un ridimensionamento nelle molteplici attività della Polisportiva. Questa annovera nelle sue file
più di 350 ragazzi e ragazze. Cerco di dare loro una
formazione civica, morale e
religiosa togliendoli dalla
strada e da tanti pericoli di
cui questa zona è colma. Mi
dispiacerebbe molto smettere questo servizio utile per i
giovani che ora più che mai
hanno bisogno di essere impegnati. Offro loro la possibilità di praticare sport, ma
gestire una società di queste dimensioni ora sta diventando difficile. Per loro
è un punto di riferimento
importante ed è per questo
che mi rivolgo a voi per un
aiuto. I lettori di «Rocca»
considereranno il mio appello di poco conto nei confronti di casi penosissimi e
li capisco... se avanza qualche briciola, grazie! Don
M.M.
* * *
Ringraziamo di cuore gli
amici generosi che sempre
rispondono ai nostri appelli. Con i beneficati chiediamo al Signore ricompense
e benedizioni per tutti e auguriamo il bene più desiderato. Ecco alcune loro
espressioni di gratitutidine.
... ho ricevuto il vostro assegno di 400 euro e vi ringrazio tanto perché devo affrontare continue spese per
i viaggi per controllare lo
stato dei miei occhi; presto
dovrà affrontare un altro intervento e sono molto preoccupato, ma confido nel
Signore che so essermi sempre vicino. Vi sono infinitamente grato. N.G. «Per non
diventare cieco».
... vi ringrazio di cuore anche a nome della missionaria e di tutte le suore filippine per la somma di 250
euro. Sarà di grande aiuto
per le vittime dell’ultima
sciagura del fango che ha
causato tanti morti accaduta proprio vicino alla nostra
missione. Grazie per sostenere sempre il loro apostolico.... Sr. M.M. V. «Da offerte libere»
...ieri alle ore 13 ho ricevuto
il vostro carissimo e generosissimo aiuto di 500 euro;
quasi non credevamo ai nostri occhi! Non sapevo a chi
rivolgermi per trovare i soldi per il viaggio fino all’ospedale per esami e visite di
controllo per il male che ci
affligge a entrambi. Mi consolavano solo le preghiere e
il santo rosario che ogni notte sta nel mio braccio destro
ed è l’unica mia forza per i
dolori che sono assai forti...
Quanto grande e infinita è
la bontà di Dio. Abbiamo
pianto e pregato tanto. Grazie, grazie. E.S. «Da offerte
libere»
Si possono inviare offerte
con assegni bancari, vaglia
postali o tramite c.c.p. n.
10635068 intestato a «Fraternità» – Cittadella Cristiana –
06081 Assisi.
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ROCCA 15 AGOSTO/1 SETTEMBRE 2006
paesi
in primo
piano
Carlo Timio
rocca
schede
Rocca/foto
d’archivio
Santo Piano