Dispense chimica tessile quinte classi

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Dispense chimica tessile quinte classi
Istituto Tecnico Industriale Statale
“Quintino Sella”
Biella
Liceo Tecnico
Area Sistema Moda
Appunti del corso di
Chimica Tessile
Classi Quinte
BIELLA
A.S.2005-2006
Pagina intenzionalmente vuota
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Modulo 1
Gli ausiliari tessili
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1. Prodotti ausiliari nelle lavorazioni tessili
1.1 La definizione di ausiliario tessile
Con il termine ausiliario tessile si indicano numerose famiglie di sostanze impiegate
nelle operazioni ad umido di preparazione, tintura e nobilitazione di un prodotto
tessile. Queste sostanze non modificano direttamente caratteristiche permanenti
(quali colore o composizione chimica) del tessile, ma intervengono modificando
temporaneamente alcune caratteristiche fisiche o chimiche del manufatto.
1.2 Il potere tensioattivo
1.2.1 La tensione superficiale
Consideriamo dell'acqua contenuta in un recipiente aperto. Tra le varie molecole
all'interno della massa di liquido si formano legami che le mantengono unite tra
loro1, tra le cariche parziali positive presenti sugli atomi di idrogeno δ+ e quella
parzialmente negativa presente sull'atomo di ossigeno δ-. Differente è la situazione
che si crea sulla superficie libera del liquido. In questo caso i legami non sono
orientati in tutte le direzioni, ma solo verso la massa di liquido. Si forma sulla
superficie dell'acqua una vera e propria lamina di molecole vincolate saldamente
verso la massa liquida, quasi una pelle, in grado di sorreggere addirittura piccoli
oggetti. Questo fenomeno prende il nome di tensione superficiale, e si manifesta ad
ogni interfaccia tra liquido/liquido o liquido/gas.
1.2.2 Sostanze tensioattive
Pensiamo ad una molecola organica lineare, formata per esempio da una catena
alifatica abbastanza lunga (per esempio una catena con almeno sei - otto atomi di
carbonio, ovvero un gruppo esile od ottile) ed un gruppo polare simile all'acqua, per
esempio un ossidrile: una molecola di alcool alifatico. La molecola sarà solubile in
acqua, ma tenderà - una volta in soluzione - a disporsi in modo particolare. Il gruppo
ossidrile, polare, si orienterà verso l'acqua formando legami ad idrogeno, mentre la
Questi legami spiegano perché l'acqua - pur con una molecola tanto piccola - sia
liquida a temperatura ambiente.
1
4
catena alifatica tenderà ad allontanarsi dall'acqua, eventualmente per legarsi con
altre catene simili. In particolare, alla superficie del liquido, le catene alifatiche
tenderanno ad orientarsi verso l'alto (lontane dall'acqua) mentre gli ossidrili si
disporranno orientati verso il basso. Lo schema generale della molecola é indicato
nella figura seguente.
H3C
CH2
CH2
parte apolare
CH2
CH2
OH
CH2
parte polare
Se immaginiamo di applicare lo stesso schema alla rappresentazione dell’interfaccia
aria/acqua, le molecole di alcool si disporranno come indicato nella figura seguente.
Tutte le sostanze che hanno una struttura simile a quella appena descritta agiscono
sulla soluzione modificandone la tensione superficiale, sia aumentandola che
diminuendola,
e prendono il nome di sostanze tensioattive. La parte di catena
organica apolare prende il nome di parte idrofoba2 o lipofila3, mentre la parte polare
è detta idrofila (o lipofoba).
2
3
Dal greco, che teme l'acqua.
Dal greco, amica del grasso.
5
1.3 La classificazione chimica
Possiamo dividere le sostanze ausiliarie in base alla loro composizione chimica, che
a sua volta è alla base delle specifiche proprietà. In questo modo raggruppiamo la
maggioranza delle sostanze in sei grandi famiglie, trattate qui di seguito.
1.3.1 Sostanze anion-attive
Rientrano in questa famiglia tutte le sostanze che generano anioni (ioni negativi)
contenenti la parte idrofila della molecola. Solitamente queste sostanze sono sali di
acidi organici, siano essi acidi carbossilici o derivati solfonati.
1.3.1.a I saponi
Il caso più semplice è costituito dal sale di un acido carbossilico a catena lineare
abbastanza lunga (acidi grassi superiori, con almeno C10 nella catena). La formula
generica dell’acido grasso è:
CH3-(CH2)n-COOH
Quando l’acido è salificato con un catione sodio o potassio (raramente ammonio), il
composto prende il nome corrente di sapone; in acqua si dissocia generando un
anione solubile, secondo la reazione:
CH3-(CH2)n-COONa
CH3-(CH2)n-COO-+ Na+
La dimensione delle catene va solitamente dai dieci ai venti atomi di carbonio,
portando ad effetti differenti con l'aumentare della catena. Talvolta si usano acidi
con qualche sostituente all'interno della catena (es. acido oleico, C16 con un doppio
legame, oppure acido ricinoleico, C18 con un ossidrile sul C13) per avere effetti
particolari.
6
I saponi solo molto sensibili alla qualità dell'acqua in cui lavorano, perché piccole
quantità di ioni metallici4, come anche l'eccessiva acidità5 possono trasformare il
tensioattivo in un residuo incrostante.
1.3.1.b I derivati solfonati
Strutturalmente simili ai saponi, posseggono un gruppo acido solfonico (-SO3H) al
posto del carbossile. L'acido che ne deriva è dunque un acido forte, meno sensibile
all'idrolisi. Anch'essi in acqua si ionizzano, generando un anione solubile secondo la
reazione:
CH3-(CH2)n-SO3Na
CH3-(CH2)n-SO3-+ Na+
A differenza dei saponi, sia l’anione solfonato che i sali di calcio e magnesio sono
solubili in acqua e non creano residui incrostanti.
1.3.2 Sostanze cation-attive
Questa famiglia comprende sostanze che - sciolte in acqua – generano un catione
organico nella parte idrofila della molecola di tensioattivo. Di solito il catione è
generato a partire da un atomo che lega (con legame dativo) uno ione positivo.
1.3.2.a Sali di ammonio quaternario
Se in una molecola un atomo di azoto trivalente è legato a tre gruppi organici,
quest'atomo viene detto azoto ternario. Questo azoto può legare a sè per legame
dativo6 un catione forte, quale per esempio il protone ionizzato di un acido. Il sale
che ne deriva, quando viene sciolto in acqua, genera un catione con la carica
positiva sull'atomo di azoto, che prende il nome di sale di ammonio quaternario.
R1
Cl
H
N
R3
R2
Solitamente i sali di calcio e magnesio presenti nelle acque come durezza
reagiscono dando luogo a sali insolubili ed incrostanti.
5
Che genera un fenomeno di idrolisi, ovvero retrocessione dell'equilibrio tra sale ed
acido libero insolubile.
6
Grazie al doppietto elettronico libero.
4
7
Per la natura stessa dalla molecola cationica, questa classe di sostanze è molto
sensibile all'idrolisi ed all'eventuale presenza di anioni poco solubili (p.es. un
sapone), che la fanno precipitare rendendola insolubile.
1.3.2.b Sali di azoto quaternario aromatico
Questa famiglia di composti ha sempre un atomo di azoto trivalente legato ad un
catione, ma a differenza dai precedenti l'atomo di azoto è contenuto in un eterociclo
aromatico. Il carattere cationico è meno marcato, e la sensibilità alle interferenze
chimiche è maggiore.
R1
R2
N
H
Cl
1.3.3 Polieteri
Alcune sostanze contenenti un gruppo polare (di solito un ossidrile fenolico) sono in
grado di addizionare un certo numero di molecole di ossido di etilene, formando una
catena polietossilica come indicato in figura:
O
OH
+
2
H2C
O
CH2
CH2
CH2
O
OH
CH2
CH2
Queste sostanze non generano ioni una volta sciolte in acqua, ma hanno proprietà
tensioattive a causa delle capacità di legame dei ponti ossigeno (ponti eterei) che
fanno della catena etossilica la parte idrofila della molecola. Non avendo cariche
generate per ionizzazione (detti anche tensioattivi non ionici), questa famiglia di
composti è molto stabile sia alle variazioni di pH che alla presenza di cationi
metallici.
8
1.3.4 Polialcoli
Una catena lineare che contenga un certo numero di ossidrili ha la capacità di
sciogliersi in acqua e di modificare la tensione superficiale. Il caso più semplice è
rappresentato dalla glicerina, costituita da una catena propilica avente un ossidrile
su ogni atomo di carbonio.
OH
H2C
OH
CH
CH2
OH
Oltre ad un moderato effetto tensioattivo, i polialcoli sono usati soprattutto per la
loro viscosità elevata.
1.3.5 Derivati del silicone
Nell'industria tessile trovano sempre maggior impiego sostanze di natura oleosa
derivate dal silicone, in sostituzione di grassi di origine naturale. Il silicio,
analogamente al carbonio, può formare catene lineari o ramificate sia di solo silicio
(silani) che di silicio intervallato ad ossigeno (silossani).
SiH2
H3Si
SiH3
H3Si
SiH2
SiH2
O
SiH2
O
SiH3
O
Pur non avendo caratteristiche tensioattive, i silossani sono molto usati per le
caratteristiche lubrificanti ed idrorepellenti.
1.3.6 Esteri
Ricordando che gli esteri sono i prodotti della condensazione di un alcool e di un
acido carbossilico, in campo tessile trovano largo impiego gli esteri cellulosici
variamente modificati. In questi prodotti, ai tre gruppi OH presenti nell'anello
cellulosico vengono condensati vari prodotti, generando esteri le cui soluzioni sono
dotate di altissima viscosità e di potere adesivo.
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1.4 La classificazione d'uso
Le classi di sostanze viste nella sezione precedente vengono utilizzate - in campo
tessile - in varie situazioni a seconda degli effetti desiderati. Nella lavorazione delle
fibre naturali l'applicazione avviene di solito ad umido, sia in soluzione acquosa che
mediante trattamento a spruzzo.
1.4.1 Imbibenti – bagnanti
Molte lavorazioni richiedono che il contenuto di acqua di un tessile sia uniforme,
oppure che un passaggio in un liquido non generi zone di scarso contatto dovuto a
bolle d'aria. Una soluzione di un polietere o di un polialcol (a concentrazioni di solito
inferiori all'1%) hanno il potere di abbattere rapidamente la tensione superficiale e
di imbibire (bagnare) istantaneamente un filato od un tessuto. L'uso di queste
sostanze è vitale nei cicli di lavorazione in continuo, dove non è possibile passare il
materiale una seconda volta nello stesso bagno – in caso di trattamento non
omogeneo - senza interrompere il processo di lavorazione.
1.4.2 Detergenti ed emulsionanti
Il potere tensioattivo di un detergente si manifesta all'interfaccia tra una soluzione
ed una sostanza grassa. Le particelle di sostanza grassa (sporco) vengono avvolte
da uno strato di molecole di detergente, che ne promuovono dapprima il distacco
dal tessile (coadiuvato da una buona azione meccanica) per poi frazionare la
sostanza grassa in particelle tanto piccole e disperse nella soluzione di detergente
da poter essere allontanate senza il pericolo di riattaccarsi al tessile in posizione
differente. Il meccanismo è raffigurato nella figura seguente.
10
Nella fase 1 lo sporco attrae la parte lipofila delle molecole di tensioattivo, fino a
trovarsi rivestita con la parte idrofila del tensioattivo. A questo punto (fase 2) la
parte idrofila attira verso l'acqua l'insieme di molecole che si è formato (micella),
aiutato dal rammollimento dello sporco causato dalla temperatura e dall'azione
meccanica. Lo sporco nel frattempo si racchiude sotto forma di piccola sfera (fase
3) tanto che il tensioattivo riesce a mantenerlo sotto forma di dispersione stabile nel
liquido.
Storicamente i primi detergenti furono i saponi, ricavati direttamente dal grasso
animale o vegetale7 trattandolo con una sostanza alcalina. Usati fino all'inizio del
secolo scorso, furono soppiantati dall'introduzione dei derivati solfonati, cui si sono
affiancati nel secondo dopoguerra i polieteri. Più di rado si utilizzano sali di
ammonio quaternario, in particolare nei casi in cui è utile un potere battericida ed
antimuffa.
1.4.3 Ammorbidenti ed antistatici
In molte situazioni, soprattutto legate al finissaggio o eventualmente al lavaggio
domestico, occorre (alla fine di un trattamento ad umido) rendere il tessile il più
morbido possibile per ragioni commerciali. Per far ciò si ricorre a due sistemi. Per un
uso ordinario e domestico, si tratta il tessile con una soluzione di un sale di
ammonio quaternario (tensioattivo cationico), che si fissa sulla superficie delle fibre
con la parte polare della molecola. Così facendo l'aspetto al tatto risulta più morbido
e delicato perché la parte apolare della molecola si pone da interfaccia tra la mano
ed il tessile. Per lavorazioni industriali, si utilizzano derivati siliconici in emulsione, in
grado di rendere la mano del tessile particolarmente gradevole lubrificandone la
superficie. Mentre i prodotti cationici - che hanno anche una buona azione
antistatica su fibre sintetiche e lana - non resistono al lavaggio e vanno rimpiazzati
dopo ogni trattamento ad umido, i prodotti siliconici hanno invece una ottima
permanenza, tanto da creare semmai problemi nella comune detersione domestica
(dosi eccessive portano ad una impermeabilizzazione del tessile).
7
Il vero sapone di Marsiglia si ottiene ancora oggi a partire dall'olio d'oliva.
11
1.4.4 Schiumogeni
Per alcuni trattamenti ad umido occorre generare una schiuma forte e stabile, per
permettere il trattamento del tessile con un ridotto volume di liquido. L'aggiunta
alla soluzione di piccole quantità di polieteri a catena molto corta permette la
generazione di buone quantità di schiuma, stabile chimicamente e fisicamente.
1.4.5 Detergenti per purga
Nei processi di purga e detersione profonda, occorrono tensioattivi efficaci e soprattutto - particolarmente stabili. In queste situazioni si ricorre a detergenti non
ionici, gli unici in grado di resistere a condizioni estreme di temperatura e pH senza
perdere il potere detergente. Nei processi estremi (mercerizzazione, purga
all'ebollizione) si aggiunge eventualmente dell'antischiuma a base di silicone.
1.4.6 Appretti e bozzime
Molte lavorazioni richiedono che il tessuto sia piano e stabile (si pensi per esempio
al taglio ed alla confezione di un capo) o che un filato abbia una certa rigidità
(l'orditura di un tessuto). In questi casi si ricorre ordinariamente ad esteri di
cellulosa, facili da applicare ed altrettanto semplici da rimuovere, in grado di dare
compattezza e stabilità a filati e tessuti.
1.5 Altri ausiliari
Oltre a quelli visti in precedenza, esistono alcuni ausiliari caratteristici di specifiche
lavorazioni. Pur non essendo di diretto interesse, è bene almeno commentarne la
forma chimica, perché spesso sono causa di problemi in tintura e finissaggio.
1.5.1 Oli e ausiliari per filatura
Alcuni processi di trattamento di fibre quali filatura, ritorcitura del filato,
testurizzazione richiedono un ridotto attrito delle fibre tra loro e delle fibre con le
parti meccaniche. Un tempo si utilizzavano sostanze grasse naturali (oleine), che in ambiente debolmente alcalino - si trasformavano in saponi solubili. Oggi,
12
soprattutto per le fibre chimiche e per i trattamenti estremi (testurizzazione) si
adottano derivati del silicone, da applicarsi in emulsione.
1.5.2 Carrier ed ugualizzanti
Molto spesso - dovendo tingere in filato od in tessuto – occorrono prodotti in grado
di rallentare la migrazione del colorante dal bagno di tintura alla fibra stessa, per
permettere una migliore distribuzione del colorante sul tessile. In questo caso si
tratta di tensioattivi a molecola piccola, della stessa natura ionica del colorante
impiegato, detti appunto ugualizzanti.
Nel caso della tintura di fibre di poliestere, occorrono invece sostanze in grado di
trasportare il colorante all'interno della struttura cristallina della fibra, permettendo
di tingere senza raggiungere la temperatura di transizione vetrosa. Questi ausiliari,
detti carrier, sono chimicamente dei derivati di polieteri con particolari catene
idrofobe. Il loro uso si va riducendo sempre più, a causa della loro tossicità e degli
inconvenienti che possono generare sul prodotto finito.
1.5.3 Sequestranti
Come si è accennato trattando di agenti anionici, spesso ioni metallici hanno il
potere di trasformare l'anione del tensioattivo in un sale insolubile. Questo
problema, trascurabile a livello domestico, diventa pressante all'interno di macchine
da tintura e lavaggio, dove la grande quantità di sostanza trattata genera
incrostazioni considerevoli. Si utilizzano quindi sostanze (solitamente sali sodici di
acidi organici complessi) in grado di neutralizzare l'influsso dei metalli solitamente
interferenti, ovvero calcio e magnesio (derivante dalla durezza naturale delle
acque) nelle operazioni di lavaggio e tintura, e ferro e cromo (derivanti dalla leggera
corrosione degli apparecchi metallici) nelle operazioni di candeggio e nei
trattamenti irrestringibili per lana. Un esempio classico è rappresentato dall'acido
etilen diammino tetraacetico, il cui sale disodico è detto EDTA; questa sostanza è in
grado di bloccare (formando un complesso stabile) qualsiasi catione bi e trivalente
in soluzione acquosa.
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1.6 Compatibilità ambientale e biodegradabilità
A differenza di un normale processo domestico di detersione, dove un misurino di
detersivo per lavatrice contiene in realtà poco più di un cucchiaino da caffé di
tensioattivo utile, in un processo industriale la quantità di ausiliari in ballo è
decisamente elevata. Qualche breve riflessione su quantità e qualità può aiutarci a
comprendere come sia bene gestire alcuni meccanismi industriali.
1.6.1 Quanto ausiliare ?
In molti processi, quali tutti i passaggi di detersione di un tessile, la rapidità e la
qualità del risultato sono proporzionali (entro certi limiti) anche alla quantità di
ausiliario aggiunto. Considerando che il prezzo di questi prodotti non è banale,
occorre ricordare che l'eccesso di tensioattivo deve essere processato in un
impianto di depurazione, dove il costo del trattamento è proporzionale alla quantità
di sostanze presenti in soluzione. Ove possibile l'orientamento generale è il riciclo
dei bagni di trattamento, con eventuale integrazione del tensioattivo consumato
nella detersione. Si pensi - come caso limite - ad un bagno di mercerizzo per filati di
cotone: la quantità di ausiliario e quella di idrossido di sodio sono tanto elevate da
portare il prezzo di smaltimento a pareggiare se non superare il costo dei prodotti.
La quantità di ausiliario deve - in sintesi - essere proporzionata non solo alle
esigenze del processo, ma anche a quelle della gestione dell'intero impianto.
1.6.2 Quale ausiliare ?
Nei prodotti per uso domestico, non si pongono problemi: solitamente tutti i prodotti
sono biodegradabili8 almeno al 90 %. La questione si fa interessante scoprendo che
- su di un prodotto in polvere per uso domestico - il tensioattivo è inferiore al 10 %.
Esperienze con prodotti maggiormente concentrati hanno dimostrato che la dose
utilizzata in un lavaggio è impressa stabilmente nella mente di chi carica una
lavatrice, tanto che spesso i misurini (per polveri) o i tappi dosatori (per liquidi)
passano da un prodotto all'altro senza un particolare senso critico.
8
Ovvero trattabili ed eliminabili per via biologica.
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Nel settore industriale questo non è possibile, perché solitamente un tensioattivo
liquido od in pasta è venduto con concentrazioni attive di almeno 80-90 %. Diventa
allora vitale pensare a molecole sempre più facilmente trattabili in impianti
biologici, per essere sicuri di eliminarli e di evitare pericolosi effetti concentrazione.
Basta pensare all'impiego (come stabilizzanti del pH e come sequestranti) dei fosfati
nei detersivi domestici. Se la loro presenza non costitutiva un problema di
potabilità, si è scoperto - quando era troppo tardi - che l'accumulo in situazioni
chiuse (mar Adriatico) li trasformava in nutrimento per alghe parassite, generando il
fenomeno della mucillaggine. Il bando dei fosfati dai prodotti domestici ha richiesto
alcuni anni, e solo dopo dieci anni si sono visti i risultati.
La scelta di un tensioattivo è molto rilevante. Si pensi ad esempio che i batteri in
grado di divorare e distruggere tensioattivi anionici e non ionici vengono distrutti da
prodotti cationici (tensioattivi ma anche ammorbidenti ed ugualizzanti), azzerando
in pochi minuti impianti perfettamente efficienti. Non esistono a tutt'oggi sistemi in
grado di prevedere a priori la biodegradabilità di una molecola. Solo la ricerca sul
campo unita all'esperienza possono portare a risultati credibili.
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Modulo 2
Il colore
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1. Onde, luce e colore
1.1 Introduzione
Lo studio scientifico del colore richiede l’attenzione a tre fattori ugualmente
importanti:
-
l’oggetto colorato
-
la luce che illumina l’oggetto
-
l’osservatore che osserva l’oggetto illuminato.
La comprensione del meccanismo che porta alla percezione di un colore
coinvolge infatti le seguenti discipline:
-
fisica (interazione tra radiazione elettromagnetica e materia);
-
chimica (costituzione strutturale della materia);
-
fisiologia (funzionamento dei recettori dello stimolo luminoso);
-
psicologia (processo mentale che porta alla sensazione di colore).
Si tratta quindi di studiare e costruire il modello di un fenomeno che a noi appare
come una semplice sensazione, dandogli riproducibilità scientifica e rigore fisico –
matematico.
1.2 Definizioni
La fisica si occupa dello studio della sorgente luminosa. Una sorgente luminosa
emette radiazioni elettromagnetiche, ovvero energia che si propaga sotto forma di
onde.
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L'onda elettromagnetica si manifesta come propagazione di un campo elettrico E
e di uno magnetico B, perpendicolari tra loro.
Ad ogni radiazione è associata un’energia, e le onde sono caratterizzate a loro
volta da una propria frequenza e lunghezza d’onda.
La frequenza (ν) rappresenta il numero di onde che passano in un punto fisso
dello spazio nell'unità di tempo; l'unità di misura è l'Hertz (Hz= sec-1).
La lunghezza d'onda (λ) rappresenta invece la distanza tra due punti omologhi di
un'onda; si misura in metri (per la luce: nanometri = 10-9 m). Energia, frequenza e
lunghezza d'onda sono legate dalle seguenti relazioni:
E = h ⋅ν
c = λ⋅ν
ove h=6,626⋅10-34 j⋅s (costante di Planck)
c=300.000 km/s (velocità della luce nel vuoto).
Dalle precedenti equazioni si desume che:
E= h⋅c/λ
Per cui l'energia è direttamente proporzionale alla frequenza ed inversamente
proporzionale alla lunghezza d’onda; il che significa che le onde aventi piccola λ
sono dotate di maggior energia e dunque sono più penetranti e dannose per gli
organismi viventi.
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Esistono infatti diverse forme di radiazioni elettromagnetiche, a seconda della
lunghezza d'onda. Nella figura seguente è riportato l’insieme completo (detto
spettro) delle radiazioni elettromagnetiche.
Come noto dalle scuole medie, la luce visibile può essere scomposta nei sette
colori spettrali puri (aventi cioè ciascuno una ben precisa lunghezza d’onda) tramite
un comune prisma di vetro. La luce bianca genera uno spettro continuo, simile a
quello della figura.
Colori corrispondenti alle lunghezze
d’onda
Colore
20
Lunghezza d’onda [nm]
Da
a
Violetto
400
450
Blu
450
500
Verde
500
570
Giallo
570
590
Arancio
590
610
Rosso
610
700
1.3 Sorgenti luminose standardizzate
Ogni sorgente luminosa ha un proprio spettro, in cui prevalgono lunghezze
d'onda diverse. Le differenze – come immaginabile – sono molto forti. Per cercare di
ridurre gli elementi incerti nello studio del colore, la CIE9 ha definito quattro tipi di
illuminante.
Energia spettrale
Illuminante A: rappresenta la comune lampadina al tungsteno.
700 λ
400
Si nota la prevalenza di radiazioni nella porzione del rosso. Viene anche definita
luce calda, per l’effetto psicologico.
Illuminante
B:
riproduce
la luce
solare
diretta
di
mezzogiorno.
Appare
Energia spettrale
particolarmente ricca di radiazioni prossime al giallo.
giallo
400
700 λ
Illuminante C: riproduce la luce proveniente da nord con cielo nuvoloso. Come si
può notare la luce è particolarmente ricca di radiazioni azzurro-blu. Appare molto
Energia spettrale
più fredda rispetto alle precedenti.
400
9
blu
700 λ
Commision International de l’Eclairage, con sede a Vienna.
21
Energia spettrale
Illuminante E: rappresenta la luce bianca ideale e non esiste in natura.
700 λ
400
Esiste anche una famiglia di illuminanti D (daylight), le cui complesse
caratteristiche tecniche esulano da questo corso. Da quanto detto risulta evidente
che prima ancora di descrivere un colore, è fondamentale indicare quale tipo di
illuminante si utilizzi nella misura o nel confronto.
1.4 Riflessione ed assorbimento
Il colore di un oggetto è dovuto all’interazione tra il corpo stesso e la radiazione
visibile emessa dalla sorgente luminosa e riflessa (o trasmessa) dall’oggetto.
Possiamo schematizzare nella figura seguente i percorsi di un raggio luminoso
che colpisce un oggetto.
I0
IR
IA
IT
I0 = IA + IR + IT
dove
I0 = Radiazione incidente
IA = frazione di radiazione assorbita
IR = frazione di radiazione riflessa
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IT = frazione di radiazione trasmessa
Per i corpi trasparenti (prevale la trasmissione) la relazione diventa:
I0 = IA + IT
Per i corpi opachi (prevale la riflessione) invece la relazione diventa:
I0 = IA + IR
Ovviamente il campo tessile è interessato allo studio di quest’ultimo caso.
Se la luce che colpisce l’oggetto è bianca, e viene riflessa omogeneamente dal
corpo opaco, questo ci appare bianco; apparirà nero se tutte le radiazioni vengono
invece assorbite. Se solo una parte di radiazioni (una porzione dello spettro) viene
assorbita il corpo assume il colore "complementare" della radiazione assorbita.
Si può schematizzare con una semplice uguaglianza ciò che avviene per ogni
corpo colorato:
Radiazioni assorbite + Radiazioni riflesse (colore complementare) = Luce bianca
(Nei corpi opachi)
Radiazioni assorbite + Radiazioni trasmesse (col. complementare) = Luce bianca
(Nei corpi trasparenti)
Viene definita riflessione percentuale la percentuale di intensità di luce riflessa
per ogni lunghezza d'onda rispetto a quella incidente; si parla a volte anche di
fattore di riflessione o fattore di remissione
ρ = IR / I0.
Sfruttando la riflessione percentuale si possono costruire le curve di spettro di
colore dei corpi.
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100 %
Riflettanza, %
Blu
0%
400
700 λ, nm
100 %
Riflettanza, %
Rosso
0%
400
700 λ, nm
100 %
Riflettanza, %
Giallo
0%
400
700 λ, nm
1.5 Sintesi additiva e sottrattiva
Fin dalle scuole elementari si è appreso come la somma di alcuni colori (in questo
caso pigmenti, quali tempere, pennarelli, pastelli e matite colorate) porti a colori
differenti, se non al nero. Questo fenomeno prende il nome di sintesi. Distinguiamo
due fenomeni: la sintesi additiva (tipica delle luci) e la sintesi sottrattiva (tipica di
pigmenti e coloranti).
La formazione del colore per sintesi additiva è una somma di sensazioni luminose
colorate, cioè di luci. Mescolando più luci di colori diversi, la luminosità aumenta,
mentre scompare la colorazione definita e si tende a formare la luce bianca. La
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somma di luci, sullo spettro, tende ad aumentare l’area del grafico, giungendo alla
fine a saturarlo, ottenendo il bianco.
Si definiscono complementari quelle miscele di luci colorate che in opportuni
rapporti danno il bianco.
Il seguente cerchio cromatico delle luci aiuta a comprendere il fenomeno.
Rosso
Porpora
Giallo
Blu
Verde
Azzurro
Le luci complementari sono diametralmente opposte. Si definiscono colori primari
additivi per le luci il rosso, il blu ed il verde. Questi tre colori sono stati assunti
arbitrariamente come fondamentali, ponendo come unica condizione che nessuno
sia ottenibile come miscela di altri.
Analogamente la formazione di colore per sintesi sottrattiva è una mescolanza di
assorbimenti derivanti da corpi colorati, non più da luci. Per ogni corpo colorato
aggiunto alla miscela si ha la sottrazione di una porzione di spettro, fino a
raggiungere (con l’assorbimento completo) il nero. Si definiscono complementari
sottrattive le miscele di colori che in opportuni rapporti danno il nero.
Mescolando blu e giallo si ha il verde, infatti il blu assorbe i colori vicino
all’arancione, il giallo quelli vicino al viola e resta il verde; se si aggiunge anche il
rosso che assorbe i colori in prossimità del verde si ottiene il nero.
I colori primari sottrattivi sono il rosso, il blu ed il giallo.
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Rosso
Viola
Arancio
Giallo
Blu
Verde
Ai tintori, che usano polveri e paste colorate per tingere, come anche ai pittori ed ai
grafici interessa naturalmente la sintesi sottrattiva.
1.6 Parametri del colore
Per definire in maniera oggettiva un colore sono necessari i seguenti tre
parametri: tono, saturazione, brillanza.
Il tono è dato dalla lunghezza d'onda predominante dello spettro, quindi coincide
con la posizione del massimo della curva dello spettro di colore.
Si definiscono tinte i colori spettrali puri: viola, indaco, blu, verde, giallo,
arancione e rosso, come appaiono nello spettro della luce solare scomposta.
I colori che possiedono una tinta vengono detti colori cromatici, quelli privi di
tinta (bianco, nero, grigio) si dicono acromatici.
Rifl. %
Bianco
Rifl. %
Grigio
0%
400
Blu
Arancio
700 λ, nm
Nero
400
λ, nm
700
La saturazione è riferita invece alla singola tinta: in particolare è il grado di
purezza di una tinta. Una tinta può essere pura o opaca: più è pura, maggiore è la
sua saturazione. In altre parole un colore si dice saturo quando è uguale al colore
campione dello spettro solare, cioè quando la percentuale di bianco è nullo; si dice
26
poco saturo quando la percentuale di luce riflessa è rilevante. Ad esempio la
saturazione del blu è maggiore di quella del corrispondente azzurro. I colori
acromatici in quanto privi di tinta non hanno saturazione.
La saturazione viene misurata come la larghezza a metà altezza della curva dello
spettro.
Tono A=B
Saturazione A>B
Brillanza A=B
100%
100%
//
Rifl. %
//
Rifl. %
Saturazione
A
0%
0%
400
λ, nm
700
B
400
λ, nm
700
La brillanza o chiarezza misura l'intensità della percezione luminosa associata
alla sensazione di colore. Tramite la brillanza si possono classificare i colori
acromatici che non hanno né tinta né saturazione.
Il bianco ha la massima brillanza, ed il nero la minima; i grigi valori intermedi. I
grigi sono caratterizzati dal fatto che riflettono in modo uniforme ma non
completamente tutte le radiazioni incidenti. Nelle seguenti figure sono riportate le
curve di diversi colori ed il significato grafico dei tre parametri di colore.
Bianco (fiamma gialla)
Rifl. %
100%
Grigio ideale
50%
Grigio scuro (fiamma blu)
Nero (fiamma viola)
0%
400
λ, nm
700
27
100%
Rifl. %
0%
Brillanza
100%
Rifl. %
Esem pi di colore ideale e reale
Saturazione
0%
λ, nm
400
700
400
λ, nm
Tono
700
Bisogna aggiungere che il colore di un oggetto dipende dal tipo di luce che lo
colpisce. Un oggetto bianco colpito da luce verde, blu o rossa - ad esempio - risulta
rispettivamente verde, blu o rosso.
Un oggetto che è visto verde quando è illuminato da luce bianca risulta ancora
verde se la luce che lo colpisce è verde. Se invece viene illuminato da luce rossa
appare nero, perché questa luce, essendo complementare del verde, viene
assorbita. Per questo motivo qualsiasi osservazione di un colore va fatta in
condizioni standard, note e ripetibili.
28
Dominante Luce
Dominante Oggetto
Colore Percepito
Verde
Bianco
Verde
Bianco
Bianco
Bianco
Verde
Verde
Verde
Rossa
Verde
Nero
2. L’occhio e la visione
2.1 Introduzione
La luce dopo aver raggiunto un corpo ed aver interagito con le sue molecole sensibili,
giunge all’occhio, che trasforma la luce in segnali nervosi e li trasmette al cervello.
La funzione dell’occhio è dunque quella di una telecamera, in grado di ricevere la
luce e generare un segnale elettrico (nervoso) corrispondente all’immagine, gestendo in
tempo reale la parte relativa alla reazione alla quantità di luce ed alla messa a fuoco.
2.2 Anatomia dell’occhio
Nell'uomo, l'occhio è una formazione quasi sferica, dove la sua parte anteriore
(cornea) sporge sulla restante superficie dell'occhio. I tre diametri del globo oculare sono
perciò ineguali: il diametro trasversale misura 23.5 mm, il diametro verticale 23 mm, il
diametro antero-posteriore 26 mm circa. Il peso dell'occhio è intorno a 7 grammi e la sua
notevole consistenza è dovuta alla pressione dei liquidi10 (15 mm Hg) contenuti nella cavità
del globo oculare.
Ogni occhio è fissato nell'orbita da tre coppie di muscoli extraoculari, che
garantiscono i movimenti del bulbo oculare in uno dei tre piani perpendicolari dello spazio. Il
coordinamento dei movimenti dei due occhi, comandati dai suddetti muscoli, è talmente
preciso che qualsiasi sfasamento superiore al grado si traduce nello sdoppiamento delle
immagini.
Il globo oculare è costituito da diverse membrane, racchiuse una all’interno dell’altra.
La prima membrana, che racchiude e contiene l’occhio intero, prende il nome di
sclera. Sul davanti ha una finestra tonda trasparente, detta cornea, che permette
Umor acqueo, liquido, nella parte esterna anteriore, ed umor vitreo, gelatinoso, nel resto
del globo oculare.
10
29
l’ingresso dei raggi luminosi. Nella parte posteriore è perforata dal nervo oculare. La sua
struttura a fasci fibrosi permette all’occhio di mantenere consistenza solida.
All’interno della sclera troviamo, nella parte posteriore, la coroide. Si tratta di uno
strato di vasi sanguigni che irrorano il globo oculare, e che provvedono ad assorbire11 le
radiazioni luminose non parallele all’asse dell’occhio, che potrebbero creare problemi. Nella
sua parte anteriore la coroide termina nel muscolo dell'iride che, contraendosi od
espandendosi, agisce da diaframma e limita quindi il flusso luminoso che entra nell'occhio.
La pupilla, ovvero l'apertura centrale dell'iride, varia in diametro da 2 mm a circa 8 mm. La
contrazione della pupilla, nel passaggio repentino da un ambiente buio a uno perfettamente
illuminato, avviene in 5 secondi. La dilatazione completa della pupilla, nel passaggio da una
illuminazione ambientale di tipo diurno a una situazione di completa oscurità, si ha in circa 5
minuti.
La cavità interna del bulbo è divisa in due parti, separate tra loro dal cristallino.
Avente la forma di una lente biconvessa, esso è comandato da un sistema di muscoli che
provvedono a variare la sua curvatura ("accomodamento") per focalizzare l'immagine sulla
retina agendo sulla tensione dei bordi.
Al fondo dell’occhio troviamo infine la retina. Si tratta di una membrana sottilissima,
ricca di fibre nervose collegate al nervo ottico; essa riveste circa 2/3 della superficie interna
dell'occhio e ne costituisce la parte fotosensibile. La retina è in grado di trasformare la luce
in segnali nervosi. Essa ci permette di vedere in condizioni di illuminazione che vanno dalla
debole luce delle stelle alla violenta luce del sole. Mantiene la connessione con il cervello
attraverso un fascio di fibre nervose, il nervo ottico, il cui spessore è di circa un quarto di
millimetro. La fila di cellule nella parte posteriore della retina è costituita da due tipi di
fotorecettori (i coni ed i bastoncelli) il cui nome rimanda, sebbene in via forse troppo
semplificata, alla loro forma geometrica: coni e cilindri.
I bastoncelli, più numerosi dei coni (bastoncelli:
120 milioni, coni: 7 milioni) sono responsabili della
visione in condizioni di scarsa illuminazione (visione
notturna o scotopica), mentre non sono utilizzati in
condizioni di illuminazione diurna.
Durante la visione scotopica il massimo della
curva di sensibilità si sposta sensibilmente verso
lunghezze
scotopica
d'onda
(cioè
minori.
dopo
In
almeno
piena
30
visione
minuti
di
adattamento al buio) alcuni bastoncelli sono così
sensibili che sono sufficienti pochissimi fotoni per
stimolarne uno. In queste condizioni l'occhio si
11
30
Come avviene nelle macchine fotografiche grazie allo strato di vernice nera.
avvicina al caso ideale di un ricevitore che sia capace di rispondere a un singolo
fotone.
I coni, a differenza dei bastoncelli, si attivano solamente ad alti livelli di
illuminazione (visione diurna o fotopica), ma sono responsabili della capacità di
distinguere i dettagli più fini e della visione dei colori. La visione fotopica è di due
tipi: la visione foveale e la visione periferica. La prima si ha quando, in condizioni di
illuminazione diurna, si dirige lo sguardo su un oggetto che, se sufficientemente
piccolo, copre la regione centrale della retina quasi totalmente costituita da coni. La
visione periferica è invece poco definita e pressoché priva di tonalità cromatica,
semplicemente perché il numero dei
coni
diminuisce
progressivamente
man mano che ci si allontana dalla
fovea.
Il
diametro
dei
coni
è
compreso tra 0.0025 e 0.0045 mm.
Quelli di diametro maggiore sono
concentrati nella fovea.
I bastoncelli contengono un solo
pigmento, la rodopsina, che ricopre il
segmento esterno del fotorecettore. I
coni sono invece di tre tipi (α ο ρ, β, γ)
e ogni tipo contiene un diverso
pigmento visivo con diverse risposte
spettrali. E' proprio la diversa sensibilità dei pigmenti alle lunghezze d'onda a
rendere possibile la visione a colori.
2.3 Teoria della visione del colore
L’interpretazione del fenomeno luminoso a partire dal raggio di luce fino alla
sensazione elaborato dal cervello è stato oggetto di numerose interpretazioni, da
parte di scienziati, filosofi, medici ed artisti. Basta citare il cerchio colorato di
Newton e la psicologia del colore di Goethe. Tra le tante teorie elaborate, ricordiamo
soltanto quella a più fasi (1930) di Muller.
Muller divide il fenomeno in tre fasi successive:
Nella prima fase, la visione inizia con l'assorbimento della luce nei tre tipi di coni,
con la successiva trasformazione in segnali elettrici.
31
Nella seconda fase, i segnali generati nei coni vengono codificati da una rete
nervosa che ne genera tre nuovi, uno di tipo acromatico (brillanza, intensità della
luce) e due cromatici in opposizione (una immagine con i colori reali ed una con i
colori complementari, una sorta di immagine simile ad un negativo fotografico).
Nella terza fase, che avviene nella corteccia del cervello, i segnali vengono
interpretati in base sia alle informazioni visive ricevute che alle esperienze visive
accumulate precedentemente nella nostra memoria.
Pare evidente che la percezione del colore non è solo un problema di ricezione di
luce, ma un fenomeno culturale, che coinvolge l’educazione dell’occhio, le
sensazioni memorizzate precedentemente e la capacità di osservazione. Secondo
teorie più recenti, abbiamo non solo una linea di segnale che si occupa di rilevare
forma e colore, ma anche una seconda linea che si occupa di descrivere il
movimento sfruttando le informazioni sulla luminosità.
Due autori, nella prima metà del novecento, hanno indagato a fondo la teoria
della percezione psicologica del fenomeno visivo, elaborando la teoria della
organizzazione percettiva o Gestalt (Koffka 1935, Kohler 1947). La teoria della
Gestalt prevede alcuni principi base, che l’uomo tende ad usare in modo inconscio:
la prossimità (raggruppare oggetti vicini), la somiglianza (raggruppare oggetti
simili), la comunanza di comportamento (raggruppare gli oggetti che si muovono
insieme), la prosecuzione (completare nel modo più semplice gli oggetti incompleti),
la chiusura (scegliere la forma chiusa piuttosto che quella aperta), la dimensione
relativa (tra due oggetti sovrapposti, scegliere quello più piccolo come oggetto e
quello più grande come sfondo).
Le leggi della Gestalt sono alla base della percezione delle illusioni ottiche
(situazioni in cui la nostra sensazione è in conflitto con quello che gli occhi rilevano)
insieme al principio dell’isomorfismo sensoriale, secondo il quale ogni sensazione
rilevata dal cervello viene sovrapposta a precedenti esperienze sensoriali.
2.4 Difetti della visione
I difetti della visione del colore nascono o dalla mancanza di uno o più tipi di coni
o dall’erroneo funzionamento rispetto alla media. Soffrono di protanopia coloro che
32
sono carenti nel pigmento sensibile alle lunghezze d’onda lunghe (il rosso). Se i coni
sono funzionanti ma forniscono un segnale erroneo, si parla allora di protanomalia.
Similmente la deuteranopia è la mancanza dei coni a media lunghezza d’onda
(verde-giallo), mentre la tritanopia è dovuta al non funzionamento dei coni a
lunghezza d’onda corta (blu-viola).
Occorre chiarire che nessuna di queste condizioni può essere definita come reale
cecità verso il colore. In effetti chi ne soffre ha comunque una percezione chiara e
distinta del colore, anche se alterata rispetto ad un osservatore medio.
Il daltonismo vero e proprio dipende dal monocromatismo di coni e bastoncelli,
ed è un fenomeno decisamente raro, mentre difetti di percezione (anche lievi) sono
molto diffusi. In effetti – anche se un minimo accertamento viene effettuato all’atto
della visita per la patente di guida – chi è chiamato ad occuparsi professionalmente
di colore dovrebbe verificare almeno una volta la sua percezione cromatica con
l’ausilio di un test apposito.
33
3. Struttura chimica e colore
3.1 Introduzione
Molti oggetti presentano la caratteristica di assorbire una parte dell’energia
luminosa che li illumina, riflettendo (o trasmettendo, se trasparenti) solo una parte
della luce che li ha colpiti.
La disciplina che studia questo tipo di interazioni si chiama spettrochimica, e
si occupa sia della riflessione/trasmissione che anche della luce emessa da un
oggetto in particolari condizioni12.
Nel nostro caso ci limiteremo a brevi cenni sul meccanismo di assorbimento
di radiazioni elettromagnetiche da parte di oggetti colorati.
3.2 Strutture insature e risonanza
Alcune molecole presentano legami saturi ed insaturi vicini tra loro, in modo
che la posizione tra i due si possa alternare senza modificare la struttura della
molecola. Pensiamo ad esempio ad una molecola di SO2. Nella formula classica i due
legami sono uno doppio ed uno dativo, come indicato in figura.
O
H2O
O
S
Possiamo facilmente immaginare di mantenere fermi gli atomi e di invertire i
O
OH
O2
S
legami, generando una seconda struttura simile ma speculare.
Secondo la chimica teorica (disciplina che si occupa del calcolo e della
previsione delle proprietà delle molecole), i legami doppio e dativo comportano
differenti distanze tra i due atomi. Analizzando la struttura della molecola di SO2,
dovremmo quindi trovare due distanze differenti per gli atomi di ossigeno. Ma una
misura effettuata grazie ai raggi X dimostra che le distanze sono uguali. Questo
fatto lascia pensare che la presenza di un legame doppio intercambiabile con altri
tipi di legami possa portare ad una sorta di “via di mezzo” nella struttura reale della
molecola.
Alcuni corpi (in genere metalli od ossidi) emettono radiazioni luminose quando scaldati al
di sopra dei 600-700°C.
12
34
Proviamo ad analizzare una struttura ancora più singolare: il benzene. La
formula classica con cui possiamo descrivere la struttura nel miglior modo possibile
è quella dell’ 1,3,5-cicloesatriene, come indicato in figura.
Ma nessuno ci impone di pensare a quella specifica disposizione dei legami
nella molecola, tanto che potremmo pensare addirittura a tre formule differenti per
la stessa formula bruta C6H6, senza pensare a grandi differenze chimiche tra di loro.
CH
CH
HC
HC
CH
CH
HC
CH
HC
CH
CH
HC
CH
HC
CH
CH
CH
CH
Anche qui grazie alla chimica teorica possiamo pensare di avere differenti
distanze tra gli atomi a seconda del tipo di legame. Al solito i legami semplici più
lunghi ed i doppi più corti.
Ma l’analisi della struttura della molecola di benzene (mediante diffrazione di
raggi X) rivela alcune particolari caratteristiche:
•
la distanza tra gli atomi è costante
•
esiste una sola forma di molecola, in cui tutti i legami sono simili
•
questi legami sono più lunghi di un doppio legame ma più corti di un
legame singolo.
Questa strana struttura è quella che viene rappresentata - secondo una
convenzione - con una serie di legami singoli ed un anello all’interno della struttura.
Questa “via di mezzo” prende il nome di ibrido di risonanza, e ha in se
tutte le proprietà della tre formule viste alla pagina precedente, dette formule
limite. In particolare l’ibrido di risonanza non solo si presenta come il “riassunto”
delle formule limite, ma è soprattutto la forma più stabile di quella molecola,
avendo in se un contenuto energetico minore rispetto ad ognuna delle formule
limite.
35
Il fenomeno che ci interessa viene chiamato risonanza, e porta una molecola
(in cui sono presenti almeno dei doppi legami in strutture equivalenti) ad avere una
unica struttura in cui le insaturazioni (i doppi legami, siano essi aromatici che
lineari) si distribuiscono su tutta la molecola.
3.3 Risonanza e colore
La risonanza riveste un peso fondamentale nella teoria del colore, perché gli
elettroni delocalizzati possono interagire con radiazioni elettromagnetiche in modi
differenti. Ogni tipo di legame può assorbire una radiazione elettromagnetica di una
specifica lunghezza d’onda, assorbendo all’interno della molecola l’energia portata
dalla radiazione.
Di
solito
questi
elettroni
assorbono
l’energia
della
radiazione
elettromagnetica e la emettono istantaneamente sotto forma di calore. Il fenomeno
avviene con radiazioni ad una specifica lunghezza d’onda, tipica di ogni struttura di
risonanza. Basta pensare ai forni a microonde, che riscaldano i cibi mediante
radiazioni elettromagnetiche in grado di interagire con il legame –O-H, scaldando le
molecole contenenti acqua e non le stoviglie.
Se la molecola in questione possiede strutture ricche di doppi legami, in
grado di avere almeno due strutture in risonanza tra loro, è molto probabile che
l’assorbimento avvenga in quella fascia di radiazioni elettromagnetiche comprese
tra 400 e 700 nm di lunghezza d’onda.
La luce colpisce dunque la nostra molecola, alcune lunghezze d’onda
vengono assorbite (per essere riemesse in altra forma, per esempio come calore) e
lo spettro della luce riflessa (o trasmessa) sarà privo delle lunghezze d’onda
assorbite. Da quanto visto nelle precedenti UD, sappiamo che, eliminando una
particolare lunghezza d’onda da una radiazione luminosa bianca, il colore della
radiazione riflessa (o trasmessa) è quello del colore complementare.
In pratica, se illuminiamo con luce bianca un oggetto che assorbe radiazioni a
circa 500 nm (verde), questo trasmetterà luce povera di verde e con una dominante
a 650 nm circa (rosso). Lo vedremo quindi di colore rosso. Lo stesso avviene anche
illuminandolo con una luce rossa. Ma lo vedremo nero (o almeno molto scuro) se
illuminato con una luce verde, perché l’energia della radiazione viene assorbita per
la maggior parte. Questo fenomeno spiega anche perché gli oggetti colorati con
colori scuri tendono a riscaldarsi maggiormente di oggetti chiari quando esposti ad
una luce molto intensa. L’energia assorbita viene dispersa sul corpo come calore,
ed aumenta la temperatura dell’oggetto.
36
In alcuni casi particolari, molecole dalla struttura molto complessa possono
assorbire energia a basse lunghezze d’onda e riemetterla a lunghezze d’onda
maggiori (energie minori). Solitamente il fenomeno avviene assorbendo radiazione
al di sotto dei 400 nm ed emettendo tra i 400 ed i 500 nm circa. Questo fenomeno
prende il nome di fluorescenza ed è utilizzato in tutti quegli oggetti che debbono
essere ben visibili in condizioni di bassa luminosità, quali cartelli indicatori od
indumenti di sicurezza.
3.4 La teoria di Witt
Tra i vari tentativi di correlare la struttura chimica di una molecola ed il suo
colore, il modello a tutt’oggi maggiormente accreditato in campo tintoriale e
coloristico (soprattutto in termini di previsione) è quello elaborato da Otto Nikolaus
Witt, a soli 23 anni di età, pubblicato nel 1876.
Witt, studiando le strutture di una famiglia di coloranti di sintesi, spiegò il
fenomeno del colore di una molecola analizzando la presenza contemporanea di
due famiglie di gruppi nella stessa molecola.
La prima famiglia racchiude i gruppi cromofori (portatori di colore), ovvero
gruppi insaturi con strutture risonanti (sempre almeno un doppio legame). Tra di
essi troviamo sia strutture lineari che strutture aromatiche. A puro titolo di esempio
alcuni gruppi sono qui di seguito riportati.
Azoico
-N=N-
Azometinico
>C=N
Azossi
-N=NO-
Etilenico
>C=C<
Tiocarbonilico
>C=S
La struttura insatura risonante acquista stabilità se all’interno della molecola
è presente almeno un gruppo di una seconda famiglia, detta degli auxocromi
(aiutanti del colore). Questi gruppi hanno la caratteristica particolare di stabilizzare
le forme risonanti, aumentando la colorazione ed eventualmente abbassare
l’energia di assorbimento. Tra i principali auxocromi ricordiamo i gruppi ossidrile (OH), etereo (-OR) e amminico (NH2).
Nella realtà la presenza di gruppi aventi sia effetto cromoforo che effetto
auxocromo (quali –NO, -NO2, >CO) rende il campo di applicazione della teoria di
Witt un confine non così netto e marcato.
37
4. La misurazione del colore
4.1 Introduzione
Alla luce di quanto visto nelle precedenti UD, avendo acquisito il senso della
complessità del trattamento del colore come informazione, analizziamo ora quali
siano le possibilità di misura, analisi e confronto di un colore.
Appare evidente che la misurazione in un sistema ben definito e riproducibile
di un colore permette due grandi possibilità:
1- la comunicazione del colore, ovvero la possibilità di indicare in modo univoco
ad un interlocutore quale sia il colore di cui si sta parlando
2- la misurazione ed il confronto di un colore, per verificare se esso sia comunque
uguale al campione prefissato o – in qualche modo – gestire la differenza tra
due colori.
4.2 Sistemi di misura del colore
4.2.1 Gli atlanti
Già dal ‘700 molti studiosi – siano essi fisici o pittori – avevano tentato di rendere
comunicabile un colore. Si pensi per esempio al lavoro di Newton ed al suo cerchio
cromatico, che viene raccolto da pittori e filosofi (anche Goethe ne scrive in un suo
saggio).
L’atlante ancora oggi in uso è opera di un
pittore e docente americano, Albert H.Munsell
(1858
–
1918).
Docente
di
pittura
all’Accademia di Boston, elaborò nel 1898
(versione definitiva nel 1925) un sistema per
classificare i colori basato su di uno spazio
tridimensionale, detto Atlante di Munsell.
Il suo sistema prevede tre parametri per
indicare un colore. Il primo, la luminosità (detta Value), varia da 0 (per il nero puro)
a 10 (per il bianco puro), ed è diviso in dieci parti. La luminosità funge da albero
centrale, su cui si innestano a bandiera 100 fogli (o piani) divisi in base al tono
caratteristico (detto Hue). Questo insieme di fogli è caratterizzato da cinque toni
principali (Red – Yellow – Green – Blue – Purple) e da cinque toni intermedi (YR – GY
– BG – PB – RP) distanziati tra loro da dieci toni.
38
A sua volta ogni foglio porta una serie
di
diversi
saturazione
numerata
colori
(detta
con
ordinati
secondo
Chroma)
numeri
pari
la
crescente,
a
partire
dall’asse centrale.
Il solido che si ottiene è grossomodo
simile ad una sfera, anche se deformata
verso i verdi ed i blu. Per trovare il
complementare
sufficiente
di
cercare
un
colore
dato,
è
il
foglio
opposto.
Occorre ricordare che la distanza tra i colori è stata messa a punto per confronto
diretto, in modo che il salto (orizzontale o verticale) abbia sempre la stessa intensità
visiva. Il valore massimo di saturazione varia da foglio a foglio (ovvero da tono a
tono), e può trovarsi a differenti valori di luminosità.
Di impiego specifico in campo tessile, derivato dall’Atlante dei colori di Munsell, è
il sistema Folcolor, messo a punto da una manifattura lane italiana. Conserva lo
stesso impianto del Munsell, ma ha la caratteristica di essere prodotto direttamente
su filato. Per ogni colore la casa fornisce direttamente la ricetta di preparazione di
quel colore utilizzando coloranti presenti nel Color Index (catalogo internazionale di
coloranti, ordinati per formula e per colorazione).
Simile al Munsell nella parte concettuale, ma organizzato con criteri numerici
diversi, è il catalogo di colori Pantone per tessile ed arredo . Il solido dei colori è
ottenuto sempre a partire da un asse centrale diviso in dieci valori (11=bianco,
20=nero), circondato da 64 fogli (64 tinte, contro le 100 del Munsell) ognuno a sua
volta ordinato per 64 diversi valori di saturazione (contro i 6-10 del Munsell).
4.2.2 Gli spazi di misura
Anche se i sistemi ad atlante esauriscono la nostra necessità di colori, con essi
non è facile valutare ed esprimere la differenza tra due diversi campioni. A questa
necessità rispondono meglio gli spazi cromatici, sui quali agiscono i moderni
strumenti di misura (riflettometri e spettrofotometri).
39
La CIE elaborò nel 1931 uno spazio cromatico
all’interno del piano cartesiano, detto CIE 1931.
Alla base della misura del colore vi è il
meccanismo
di
percezione
dell’occhio,
che
analizza i colori con i tre tipi di coni generando
tre segnali specifici per differenti lunghezze
d’onda (circa prossime a RGB). Il modello
proposto
dalla
CIE
prevede
–
mediante
complessi passaggi matematici (che sarebbe
pur bello analizzare…) – la scomposizione di un
colore in tre parametri X, Y e Z, detti valori
Tristimolo, che rappresentano gli stimoli raccolti dai tre tipi di coni nell’occhio
umano. Mediante una seconda elaborazione matematica, il tutto viene normalizzato
(ponendo X2+Y2+Z2=1) e scomposto in tre indici. Due (x ed y) misurano le
componenti rossa e verde, mentre una terza (Y13) misura la luminosità del colore.
Sulla parte esterna del grafico sono raccolti i colori spettrali puri, mentre all’interno
(x=y=0,33) troviamo il bianco puro (l’illuminante C). Questo sistema – molto diffuso
ancora oggi – permette con pochi passaggi di calcolare quale sia la lunghezza
d’onda dominante di un colore e di descrivere colori anche al di fuori della terna dei
primari (soprattutto nel campo dei verdi). Contiene inoltre tutti i colori non spettrali,
ovvero i porpora (tra rosso e blu). Il grande difetto del sistema CIE 1931 è quello di
non avere uniformità negli spazi, e di non permettere la descrizione omogenea delle
differenze di colore. Basti confrontare la variazione di 0,1 unità nella zona dei verdi
con la stessa variazione nella zona dei rossi per rendersi conto che alcune zone
sono compresse ed altre fortemente espanse.
Uno spazio ulteriormente raffinato è stato proposto dalla
CIE nel 1976, e prende il nome di CIELab (anche
CIEL*a*b*). Si tratta di una sfera attraversata in verticale
dall’asse L, che misura la luminosità (nero=0, bianco=100).
All’altezza del punto L=50 si incrociano due assi ortogonali,
a (che misura il rosso da 0 a 60 ed il verde da 0 a –60) e b
(che misura il giallo da 0 a 60 ed il blu da 0 a –60). Il punto
all’incrocio degli assi avrà coordinate L=50, a=0 e b=0, e
13
Si tratta in effetti del valore Y della terna tristimolo.
40
sarà un grigio acromatico al 50% di riflettanza. Le scale di questo sistema sono
state studiate in modo da essere legate a differenze di colore costanti in qualunque
senso ci si muova; ovvero la differenza di colore che si nota da un valore a ad uno
(a+1) è la stessa che si nota tra un valore b ed un nuovo valore (b-1). Questo
permette (ricordando il teorema di Pitagora) di calcolare la differenza assoluta tra
due colori, detta ∆E, dalla formula:
∆E = (∆L) 2 + (∆a ) 2 + (∆b) 2
Per ottenere il complementare di un colore dato, basterà cambiare di segno ai
due indici a e b. Questo tipo di spazio cromatico ha trovato vasta diffusione in
campo tessile e coloristico per la semplicità di gestione, per la uniformità di risposta
e per la facilità nel calcolare correzioni di colore (utile soprattutto in campo
tintoriale).
4.3 Metamerismo
Come appare evidente dall’osservazione dello spazio CIE, spettri che hanno una
simile lunghezza d’onda dominante non giacciono necessariamente sullo stesso
punto del piano dei colori.
Immaginiamo di tracciare un segmento a partire dal punto bianco (x=y=0,33)
verso il bordo del grafico. Tutti i punti su quel segmento avranno la stessa
frequenza spettrale dominante, ma differente forma nello spettro di riflessione.
Questo comporta che, al variare della sorgente luminosa, non necessariamente i
due punti si debbano trovare ancora sullo stesso segmento.
Questo fenomeno, che consiste nelle variazioni del colore dominante al variare
dell’illuminante scelto, prende il nome di metamerismo. Dovendo realizzare un
colore partendo da un campione assegnato (sia in tintura, che in stampa che nella
colorazione in massa), quello del metamerismo è un problema che va analizzato con
molta attenzione, per evitare spiacevoli conseguenze. Immaginate ad esempio un
Twin Set (maglia e capospalla) realizzato con due differenti imitazioni della stessa
tinta: se presentano metamerismo, sarà sufficiente passare dalla luce solare a
quella artificiale (o peggio a quella a fluorescenza) per vedere i due colori
sgradevolmente diversi.
4.4 Misurazione pratica
Oggi la misurazione di un colore è resa semplice dalla disponibilità di sistemi di
misura portatili gestiti da un elaboratore, in grado di effettuare più misure in
41
contemporanea sullo stesso campione. Con un solo “scatto” di uno strumento
grande come una torcia portatile si è in grado di misurare il colore (di solito secondo
i parametri CIELab), avere la forma dello spettro e comunicare i dati ad un PC per
calcolare in tempo reale come riprodurre la tinta in esame. Se interessa confrontare
due campioni, dopo aver letto il riferimento (eventualmente memorizzabile nello
strumento) basta un solo scatto sul campione in esame per avere anche una misura
del metamerismo eventuale in presenza di altri illuminanti. Il tutto in pochi secondi,
e con una sensibilità ed una ripetibilità ben superiore a quella dell’occhio umano
medio.
42
Modulo 3
Tintura e stampa
43
1. Introduzione
1.1. Introduzione
La tintura (o stampa) di un prodotto tessile è un procedimento chimico che lega in
modo stabile molecole di una sostanza colorante a un manufatto tessile,
conferendogli stabilmente la tinta desiderata.
Questo
processo
avviene
secondo
due
tecniche
particolari:
la
tintura
ad
esaurimento (in cui il colorante è fissato sul tessile a partire da una soluzione
acquosa in cui il tessile è immerso) e la stampa (il colorante è applicato in forma
semisolida mediante applicazione diretta al tessile, e la reazione di fissazione
avviene in una fase successiva).
Il meccanismo che porta alla formazione della tinta è molto simile nei due casi, e
verrà analizzato in una sola trattazione, riservandoci di trattare gli aspetti tecnici
della stampa in una successiva unità didattica.
1.2. Il processo ad esaurimento
E’ un processo in cui il materiale da tingere viene posto in una soluzione acquosa
(bagno) contenente le molecole di colorante. La salita e la fissazione del colorante
sulla fibra avviene grazie ad alcuni passaggi intermedi, così schematizzati.
•
Adsorbimento del colorante sulla superficie della fibra
•
Diffusione del colorante sulla fibra (ugualizzazione) e penetrazione nella fibra
•
Fissazione del colorante ai siti attivi della fibra
La conoscenza di questo meccanismo permette di comprendere quali siano le
condizioni ottimali con cui gestire un processo tintoriale, ottenendo tinte solide ed
uniformi, evitando sprechi di colorante (che solitamente è più costoso della fibra).
Per la corretta gestione del processo, occorre comprendere l’influenza di quattro
fattori:
44
•
Velocità di tintura
•
Esaurimento del bagno
•
Potere migratorio del colorante
•
Temperatura
1.2.1. La velocità di tintura
La velocità di tintura è la misura del tempo necessario a raggiungere l'equilibrio tra
la quantità di colorante adsorbito sulla fibra e quello presente nel bagno. Si può
pensare anche come il tempo necessario a raggiungere un rapporto stabile tra la
concentrazione del colorante sulla fibra e quello nel bagno. Immaginiamo i passaggi
necessari ad una molecola di colorante per raggiungere il suo posto all’interno della
fibra:
•
Dapprima passa dalla soluzione alla superficie della fibra, dove viene
trattenuto mediante semplici legami intermolecolari non stabili (ponti ad
idrogeno, dipolo/dipolo, wan der Waals) [adsorbimento]. Il passaggio avviene
tanto più rapidamente quanto maggiore è l’affinità tra fibra e colorante.
•
Poi dalla superficie passa (più lentamente) alla parte interna della fibra
[penetrazione], resa accessibile al colorante dalle particolari condizioni di
tintura
(parziale
attenuazione
dei
legami
intercatena,
diminuzione
temporanea della cristallinità dovuta all’acqua). Oppure si distacca prima di
penetrare all’interno, per riattaccarsi in una zona che ha fissato un minor
numero di molecole di colorante [ugualizzazione].
•
Infine la molecola del colorante reagisce chimicamente con la fibra, dando
luogo ad un’unica molecola colorata [fissazione].
Maggiore è la velocità di tintura (che non è certo il tempo occorrente a tingere un
tessile, ma solo il tempo necessario alla prima fase chimica del processo) e
maggiore è il rischio di produrre tinture non uniformi.
1.2.2. Esaurimento del bagno
L’esaurimento del bagno è il rapporto tra il colorante impiegato e quello
effettivamente salito sulla fibra. Come ovvio, è importante operare con buoni valori
di esaurimento, per evitare di dover smaltire colorante ancora presente nel bagno e
per ridurre i costi di tintura (considerando che il colorante è quasi sempre più caro
45
della fibra su cui è applicato). Ogni fibra tessile è infatti in grado di fissare solo una
particolare quantità di molecole di colorante. Aumentando la quantità di colorante
presente nella fase liquida, non si ha un aumento proporzionale della quantità
fissata, ma solo un aumento della quantità residua nel bagno scaricato. Di solito
una tintura ad esaurimento opera con rapporti bagno (detto RB, ovvero il rapporto
tra i kg di materiale tessile ed i litri di bagno in cui è immersa) che vanno da 1:5 a
1:40. Aumentando il RB, aumenta la quantità di colorante che rimane in soluzione
alla fine del processo, ma aumenta l’ugualizzazione. A sua volta la temperatura
influisce negativamente sull’esaurimento.
Dal grafico si nota come una temperatura maggiore – sebbene favorisca
l’ugualizzazione – riduce l’esaurimento. A tale scopo si è soliti controllare il
raffreddamento con un gradiente abbastanza lento, spostandosi (giunti al punto T1)
dalla curva continua a quella tratteggiata.
1.2.3. Potere migratorio
Il potere migratorio del colorante è la sua capacità di trasferirsi – una volta
adsorbito – in quelle zone di fibra con la minor concentrazione di molecole
adsorbite, penetrate e fissate. Quando è alto, permette di ottenere tinture uniformi
sia sulla superficie che all’interno della fibra stessa, anche in zone diverse e distanti
del prodotto. Aumenta con la temperatura del bagno di tintura, anche se è legato
ad un lungo elenco di altri fattori (struttura del materiale da tingere, composizione
chimica
e
rapporto
del
bagno).
Di
solito
si
interviene
–
per
migliorare
l’ugualizzazione aumentando il potere migratorio – cercando di diminuire la velocità
di tintura.
1.2.4. Temperatura
La temperatura crescente porta ad un calo dell’affinità tra fibra e colorante,
aumentando il contenuto energetico del sistema. Ma in parallelo aumenta la
velocità di tintura (e permette di aumentare la quantità di colorante disciolto).
46
Abbiamo
dunque
un
aumento
del
potere
ugualizzante,
una
diminuzione
dell’esaurimento ma un incremento della velocità di tintura.
Nella realtà operativa la temperatura è il principale parametro che regola il
processo tintoriale. Solitamente si inizia il processo tintoriale con un aumento lento
e controllato della temperatura (si permette così la miglior diffusione del colorante
sulla fibra, ed in contemporanea si esalta l’azione dell’acqua sulle fibre naturali),
con gradienti di circa 1 – 1,5 °C/min. Quando l’ugualizzazione ha raggiunto valori
ottimali, allora si mantiene una temperatura elevata per un tempo compreso tra i
30 ed i 90 minuti. In questa fase si ha la massima penetrazione del colorante nella
fibra e la reazione di fissazione inizia e procede con regolarità. Segue poi una fase
di raffreddamento controllato, durante la quale si stabilizzano i legami tra colorante
e fibra, mentre aumenta per quanto possibile l’esaurimento del bagno di tintura.
Ovviamente una seria trattazione della parte teorica si rivelerebbe molto più
complessa, prevedendo anche lo studio dell’influenza di altre sostanze presenti nel
bagno (elettroliti, colloidi, tensioattivi) e del comportamento della fibra tessile alle
varie temperature.
1.3. Preparazione alla tintura
Le operazioni che portano al processo tintoriale sono dette genericamente
preparazione alla tintura, e prevedono fondamentalmente due processi:
•
Aumentare per quanto possibile l’efficacia dell’azione del bagno di tintura
(mediante operazioni di eliminazione di impurità proprie della fibra)
•
Ridurre al minimo la presenza di sostanze problematiche per i componenti
del bagno di tintura.
Nella prima serie di trattamenti rientrano le purghe (trattamenti di detersione
energica in grado di eliminare le impurità presenti nella fibra, quali le lignine di
cotone e lino e gli oligomeri nelle fibre sintetiche) ed i candeggi (distruzione chimica
delle impurità colorate contenute nelle fibre).
Nella seconda serie sono compresi tutti i processi di lavaggio e detersione, siano
acquosi che a base solvente.
47
1.3.1. Purga
La purga di una fibra avviene di solito a temperature elevate (ebollizione per lino e
cotone, 60°C per lana e seta, autoclave a 105-120°C per sintetici) per permettere
l’allentamento dei legami intercatena e la liberazione di tutte quelle parti di catena
che si rivelano un problema in tintura. Nel cotone e nel lino vengono eliminate le
lignine (polimeri del glucosio ad alti pesi molecolari, colorati tra il giallo ed il bruno)
mentre nelle fibre proteiche si eliminano quelle catene in qualche modo
danneggiate da agenti chimici (luce, pH, ossidanti e riducenti). Nelle fibre sintetiche
si eliminano quella catene formate da pochi monomeri (oligomeri) che sarebbe
problematico gestire nei trattamenti post tintura. Di solito si opera in ambiente
relativamente alcalino (pH 6-7 per lana, 8 per seta, 10 per cotone e sintetiche) in
presenza di detergenti stabili (non ionici) e di sequestranti (per evitare l’azione
concomitante di calcio e magnesio).
1.3.2. Candeggio
Il candeggio di una fibra si applica quando occorra migliorare il bianco della fibra
stessa, sia per utilizzi in bianco che per realizzare tinte pastello o delicate. Alla base
del processo vi è la sensibilità maggiore delle molecole colorate all’azione di un
ossidante o di un riducente (basti ricordare che gruppi cromofori ed auxocromi sono
di solito gruppi instabili chimicamente). Si opera in un ambiente in grado di
proteggere la fibra (pH debolmente acido per proteiche, alcalino per cellulosiche), in
presenza di un ossidante forte (acqua ossigenata, clorito di sodio, ipoclorito di
sodio) o più raramente (fibre proteiche) di un energico riducente (idrosolfito di
sodio). Spesso per lavori in bianco si combinano i due passaggi ossidante e
riducente, e si finisce il lavoro applicando un candeggiante ottico (una sostanza che
esalta per fluorescenza i toni azzurri della fibra, eliminando il la residua fiamma
gialla).
1.3.3. Detersione
La detersione ha lo scopo principale di aumentare la bagnabilità della fibra e di
eliminare
quelle
sostanze
(oli
di
filatura,
polveri,
sporco
inorganico)
che
risulterebbero fastidiose durante il processo tintoriale. Solitamente si opera in
condizioni più blande rispetto alla purga, con tensioattivi di tipo anionico e
temperature minori. L’azione meccanica - indifferente nella purga – ha qui una utile
azione coadiuvante.
48
1.4. Il processo di tintura
Terminate le operazioni preliminari, cui segue un buon risciacquo del tessile,
abbiamo il passaggio alla tintura vera e propria. Di norma un bagno di tintura viene
allestito preparando una soluzione a quantità nota delle sostanze necessarie allo
svolgimento del processo tintoriale. I parametri che compaiono in una ricetta di
tintura sono i seguenti.
1.4.1. Rapporto bagno (RB)
Indica il rapporto tra la massa della merce ed il volume del bagno. Lo stesso valore
vale sia in laboratorio (dove RB = g / ml) che nel reparto di produzione (dove invece
RB = kg / l). Varia tra 1:5 (bagno molto corto, per alcuni coloranti su cotone) e 1:40
(bagno molto lungo, per tinture in pezza o su fibre delicate).
1.4.2. pH
Il pH del bagno di solito è indicato in modo indiretto, segnalando quale sostanza sia
necessaria per ottenerlo e la concentrazione cui dosarla. In una ricetta per lana (con
coloranti acidi) troveremo indicato 5 g/l di acido solforico, mentre una ricetta per
cotone riporterà 10 g/l di idrossido di sodio. Raramente (coloranti reattivi o
premetallizzati) viene indicato il pH esatto, e la proporzione tra i componenti
necessari all’ottenimento del pH esatto (p.es. acido acetico / acetato di sodio).
1.4.3. Elettroliti
Molti coloranti sono soggetti ad un meccanismo antagonista da parte di anioni o
cationi semplici, che aumenta il potere migrante del colorante. Spesso le ricette
riportano direttamente la concentrazione ottimale di sostanza elettrolita, magari
specificando i limiti di un campo di variazione (p.es. solfato di sodio, da 5 a 10 g/l).
1.4.4. Il colorante
La quantità di colorante non è mai dosata – nella tintura ad esaurimento – in
relazione al bagno, ma in relazione alla massa della merce. Una tintura di solito
oscilla tra lo 0,1 ed il 3-4 % in peso di colorante (dove 1 % indica 1 kg di colorante
ogni 100 kg di merce). Si arriva in pochissimi casi estremi (nero su cotone o su lana,
tinture per abiti da lavoro) al 7-8 % di colorante.
49
La descrizione della ricetta comprende ovviamente il diagramma della temperatura
per l’intero ciclo. Un esempio è riportato qui di seguito.
Si tratta del diagramma della temperatura per una tintura di lana (tessuto) con
coloranti acidi del primo gruppo. Si noti che il riscaldamento (da 20 a 100°C)
avviene in un’ora, mentre il raffreddamento fino a 70°C a fine tintura deve avvenire
in non meno di 30’, dopodichè è possibile scaricare la merce.
50
2. Classificazione tintoriale dei coloranti
2.1. Introduzione
Le sostanze coloranti possono essere classificate e trattate secondo diversi schemi.
Possiamo
classificare
le
molecole
secondo
la
struttura,
generando
una
classificazione chimica. Possiamo anche raggrupparle in base al tipo di fibra che
tingono,
ottenendo
una
classificazione
d’uso.
Infine
si
possono
affrontare
raggruppandoli in base alle condizioni applicative, avendo una classificazione
tintoriale. Abbiamo scelto in questo corso di trattare soltanto la classificazione
tintoriale, ovvero quella che divide i coloranti secondo le modalità applicative, senza
tener conto della fibra o della formula chimica. Nella stessa classe tintoriale
troviamo coloranti in grado di tingere fibre affini (ciò che tinge la lana spesso tinge
la poliammide e la seta, come anche accade per cotone, lino e viscosa) che sono
applicati con lo stesso procedimento. Faremo spesso riferimento al concetto di
solidità di una tintura, che sarà sviluppata in un’ulteriore unità didattica, come ad
uno dei concetti chiave per gestire la scelta della classe tintoriale. Per ogni classe
tintoriale elencheremo le principali caratteristiche in relazione ad applicabilità,
solidità, caratteri generali e struttura.
In ambito scientifico la classificazione maggiormente diffusa è quella chimica, che fa
capo al Colour Index, un’opera monumentale edita nel Regno Unito che classifica le
molecole coloranti contenute nei vari prodotti commerciali.
Il nome commerciale di una molecola di colorante comprende di solito le seguenti
informazioni:
Colore
Linea
Qualifiche
Nuance
Produttore
Rosso
Lanaperla
Solido
5b
Hoechst
La linea indica la famiglia di coloranti simili dello stesso produttore, le qualifiche
aggiuntive specificano per esempio se si tratta di un colorante particolarmente
stabile o soggetto a specifici trattamenti. La nuance indica il tipo di fiamma della
tinta (di solito B=blu, G=giallo, R=rosso e sim.). Ora, nella classificazione del Colour
Index, questo colorante è indicato come Acid Red 348. Ed alla stessa voce si
trovano le equivalenze commerciali.
51
2.2 Coloranti acidi
Generalità
Il nome della classe deriva dalla natura del colorante stesso. Chimicamente si tratta
di anioni di acidi solfonici con poteri coloranti, in commercio salificati con sodio, di
formula generale
Col − SO3− Na +
Sono coloranti facilmente solubili in acqua, in grado di fornire una buona gamma
cromatica.
Applicazione
I coloranti acidi vengono applicati su lana, seta e poliammide in ambiente acido, in
presenza di solfato di sodio come ugualizzanti. Si dividono in tre gruppi a seconda
del pH di applicazione. Il 1° gruppo richiede un pH molto acido, in presenza di acido
solforico, e non fornisce mai un esaurimento completo del bagno, garantendo però
un’ottima ugualizzazione della tinta. Il 2° gruppo si usa a pH mediamente acido, in
presenza di acido formico od acetico. L’esaurimento del bagno è migliore, anche se
occorre maggior attenzione al processo di ugualizzazione. Il 3° gruppo, infine, si
tinge in ambiente quasi neutro, in presenza di piccole quantità di acido acetico o di
solfato ammonico (sale ad idrolisi acida). Il potere migrante è ancora inferiore al
precedente.
Solidità
Le solidità per i coloranti acidi vanno da medio-basse (ad umido) per i coloranti del
primo gruppo fino a valori buoni (ad umido) per i coloranti del terzo gruppo. La
solidità alla luce è generalmente buona, anche se vi sono variazioni sensibili a
seconda della tinta.
Impiego pratico
I coloranti acidi vengono utilizzati per la tintura ordinaria di lana e poliammide.
Forniscono infatti tinte normalmente solide e stabili, su fiocco, nastro, filato e pezza,
ad un prezzo contenuto. Alcuni colori selezionati possono essere usati direttamente
su miste WO / PA. Alcuni coloranti del terzo gruppo sono in grado di resistere a
processi come follatura e lavaggio a caldo (spesso indicati dall’aggettivo SOLIDO o
FOLLONE).
52
2.3 Coloranti metallizzati e premetallizzati
Generalità
Il nome della classe deriva dalla caratteristica chimica del colorante stesso, che
richiede un atomo metallico a ponte per formare un legame con la fibra. I coloranti
metallizzati – che richiedono l’impiego di sali di cromo nel bagno – sono stati
abbandonati a causa dei notevoli problemi ambientali che derivano dallo scarico dei
bagni di tintura in cui resta una parte dei sali di cromo che non hanno reagito. Al
loro posto hanno preso piede i coloranti premetallizzati, ovvero delle molecole
complesse
in
cui
il
legame
colorante/metallo
è
già
formato.
I
coloranti
premetallizzati sono meno solubili degli acidi, ma forniscono una buona gamma di
tinte, anche brillanti.
Applicazione
I coloranti premetallizzati si applicano in ambiente acido, in particolare i coloranti
premetallizzati 1:1 (con una molecola di metallo per ogni molecola di colorante)
richiedono pH molto acido per acido solforico, mentre i premetallizzati 1:2 (con una
molecola di metallo ogni due di colorante) richiedono un pH debolmente acido per
solfato ammonico. Tingono lana, seta e fibre poliammidiche, con un ottimo
esaurimento del bagno.
Solidità
La presenza dell’atomo metallico a ponte tra il colorante e la fibra conferisce una
stabilità ottima ad umido. La solidità alla luce è buona.
Impiego pratico
I premetallizzati sono utilizzati per ottenere tinte solide e brillanti su lana e
poliammide, per prodotti di qualità medio-alta, essendo decisamente più costosi di
un colorante acido. Il potere ugualizzante non elevatissimo ne limita l’uso a fiocco /
nastro / filato.
53
2.4 Coloranti basici
Generalità
Il nome della classe deriva dalla struttura chimica del colorante: si tratta di basi
organiche salificate e rese solubili con acidi (di solito cloridrico o acetico), dalla
formula generale
2O
Col − B ⋅ HCl H

→ Col − B ⋅ H + + Cl −
La parte cationica è in grado di reagire stabilmente con alcuni gruppi acidi presenti
appositamente nelle fibre acrilonitriliche, quali l’acido vinilsolfonico e l’acido acrilico.
H2C
H2C
CH
C
OH
CH
SO 2O
-
O
La reazione (salificazione) è stabile e rapida, porta a tinte brillanti e con una vasta
gamma di colori.
Applicazione
I coloranti basici si applicano in ambiente debolmente acido per acido acetico
avendo molta cura nel seguire la curva di riscaldamento. Hanno un potere migrante
scarso, e richiedono di solito la presenza di un agente ugualizzanti / ritardante.
Tingono le fibre acriliche, il poliestere modificato (CD-PES) e le fibre aramidiche, con
un ottimo esaurimento del bagno. Solo alcuni coloranti selezionati possono essere
usati per tingere miste con lana, a causa della loro tendenza a sporcarla.
Solidità
La solidità ad umido è buona. Quella alla luce è buona su tinte intense, debole su
tinte chiare. Sono coloranti facilmente aggredibili da agenti ossidanti, e si utilizzano
nella stampa per corrosione.
Impiego pratico
I coloranti basici sono utilizzati per la tintura del PAN in ogni fase di lavorazione,
anche se su tessuto non pregiato si preferisce applicarli per stampa o con processi
in continuo.
54
2.5 Coloranti reattivi
Generalità
Il nome della classe deriva dalla natura della reazione che porta alla formazione del
legame. Chimicamente si tratta di molecole coloranti legate a gruppi in grado di
reagire con la fibra stessa, sia per sostituzione che per addizione.
NH2
NH2
+
R HC
C
Col
Cl
+
R HC
C
OH
Cl
H
Cl
O
Col
O
O
H
H
N
NH2
+
R HC
C
Col
Cl
Cl
+
R HC
C
OH
Cell
O
OH
O
O
HO
HO
Cell
OH
+
Col
Cl
+
H
Cl
Col
HO
HO
Sono coloranti facilmente solubili in acqua, in grado di fornire una buona gamma
cromatica, con colori brillanti.
Applicazione
I coloranti reattivi si applicano sia su fibre cellulosiche che su fibre proteiche. Quelli
selezionati per fibre proteiche si applicano a pH 5, in presenza di acido acetico e
solfato ammonico. In questo modo al prolungarsi dell’ebollizione il pH si abbassa
leggermente e garantisce un esaurimento tra i più elevati. I coloranti per fibre
cellulosiche si tingono a temperatura bassa, in presenza di alcali e di cloruro di
sodio (come ugualizzante).
Solidità
Le solidità dei coloranti reattivi sono ottime, sia ad umido che alla luce.
Impiego pratico
Nonostante l’eccellenza del risultato ottenibile con i coloranti reattivi, la loro
diffusione è limitata fortemente dal prezzo. Vengono utilizzati per lavori di pregio e
su fibre pregiate.
55
2.6 Coloranti diretti
Generalità
Simili nella struttura ai coloranti acidi, prendono il nome dalla capacità che
possiedono di tingere direttamente le fibre cellulosiche, senza richiedere alcun
trattamento preliminare (come anticamente era richiesto per i coloranti di origine
naturale). Si fissano alla fibra tramite legami deboli (ponti a idrogeno, legami di Wan
der Waals), essendo strutturate come grosse molecole planari dall’elevato peso
molecolare. Sono poco solubili, e forniscono una discreta gamma di tinte, anche se
non troppo brillanti.
Applicazione
Si applicano in ambiente neutro, in presenza di sali inorganici (di solito cloruro di
sodio)
per
aumentare
l’esaurimento
del
bagno.
L’ugualizzazione
avviene
controllando la temperatura in fase di salita, e la si agevola aggiungendo il cloruro
di sodio frazionato nel tempo, secondo le indicazioni del produttore del colorante.
Solidità
Le solidità dei coloranti diretti sono generalmente scarse, sia ad umido sia alla luce.
Si effettuano alcuni trattamenti post-tintura (con resine o sali metallici) che ne
migliorano leggermente le solidità ad umido.
Impiego pratico
La qualità non elevata del risultato relega l’utilizzo dei coloranti diretti ad
applicazioni su merce di qualità ordinaria.
56
2.7 Coloranti a riduzione (tino, zolfo)
Generalità
Si tratta di grosse molecole prive di gruppi solubilizzanti, ottenute imitando
molecole naturali (tino) o mediante fusione di sostanze organiche con zolfo e
derivati (zolfo). Hanno la caratteristica comune di essere applicabili sulla fibra solo
in forma ridotta (detta leucoforma). Tingono le fibre cellulosiche e – in alcuni casi
selezionati – anche le fibre proteiche e poliammidiche.
Applicazione
La tintura con coloranti a riduzione richiede tre fasi distinte:
1- la preparazione di una soluzione “madre” di colorante ridotto (detta appunto
il tino)
2- l’applicazione del colorante prelevato dal tino in un bagno di tintura, a pH
neutro (lana, poliammide) o leggermente alcalino (cotone), in presenza di Sali
inorganici come ugualizzanti
3- la successiva asciugatura ed ossidazione, con il ripristino del colorante in
forma ossidata
Solidità
Le solidità sia ad umido che alla luce sono ottime, a condizione che il tessile sia
stato lavato con estrema cura dopo la fase di ossidazione, allo scopo di allontanare
il colorante non fissato. Alcuni coloranti danno luogo al fenomeno del tendering,
ovvero ad una degradazione acida in presenza di umidità e luce, portando ad un
cambiamento nella tinta.
Impiego pratico
Anche se il processo applicativo non è semplice da gestire, i coloranti al tino ed allo
zolfo sono tuttora molto utilizzati per le loro eccezionali solidità. Si pensi per
esempio all’indaco, il colorante tipico dei blue jeans. In particolare, vista la
necessita di preparare un tino madre e di procedere ad una applicazione
successiva, i coloranti a riduzione sono spesso impiegati nei processi di stampa.
57
2.8 Coloranti dispersi
Generalità
I coloranti dispersi rappresentano una particolare famiglia di coloranti, unico nel loro
genere. Si tratta infatti di molecole insolubili in acqua (che debbono per questo
motivo essere mantenute finemente disperse, da cui il nome) ma solubili nelle
molecole
di
polimero
che
compongono la
fibra
tessile
(detti
per
questo
plastosolubili). Di tutte le classi di coloranti finora viste, questa è l’unica che non
forma alcun genere di legame all’interno della fibra, per cui non si può trattare di
vera e propria tintura chimica.
Applicazione
L’applicazione su fibre sintetiche (poliestere, acrilico) e su fibre artificiali (rayon
acetato e triacetato) avviene in ambiente debolmente acido, all’ebollizione per le
fibre artificiali o sotto pressione (120°C in autoclave) per il poliestere. Esistono
coloranti selezionati predisposti per la tintura di miste (CO / PES, WO / PES), che
vanno usati all’ebollizione in presenza di carriers, ovvero molecole in grado di
dilatare la struttura cristallina della fibra senza superare il punto di transizione
vetrosa. Il loro uso è praticamene scomparso, a causa dell’elevata tossicità (sia
acuta sia ambientale) di queste molecole.
Solidità
Tutte le normali solidità (umido, sfregamento, luce) sono da buone ad ottime. Nel
caso in cui la fibra non sia stata preventivamente purgata in modo adeguato, o sia
stato adoperato un carrier in quantità eccessiva, le tinture ottenute con coloranti
dispersi portano alla sublimazione a caldo del colorante, a temperature che sono
quelle di normale stiratura.
Impiego pratico
Anche se per gli impieghi in arredamento e per usi tecnici si preferisce la tintura in
massa, per gli impieghi nel settore abbigliamento del poliestere la tintura con
coloranti dispersi è prassi ordinaria. In caso di tessuto, si opera con sistemi in
continuo ad alta temperatura specifici per coloranti dispersi (sistema Thermosol).
58
2.9. Qualche esempio
Analizziamo – per comprendere più nel dettaglio i meccanismi legati al processo
tintoriale – le fasi del processo di tintura di una fibra proteica (lana) con un
colorante acido del terzo gruppo. La molecola del colorante acido si presenta come
una struttura complessa, in cui si evidenziano le caratteristiche viste nel modulo
precedente,
O
N
N
O
S
O
O
Na
CH3
C
NH
O S O
O
Na
Quella riportata è la struttura di una molecola di Violetto Carbolan B, della ICI. Nella
struttura si possono notare i gruppi solubilizzanti (due gruppi SO3Na) che fungono
anche da punti di aggancio alla catena proteica della lana, il gruppo cromoforo
(N=N, tra due gruppi aromatici) ed i gruppi auxocromi (CONH, sulla parte
naftalenica).
La lana (schematizzata dalla formula H2N–Lana–COOH, che mette in evidenza il
gruppo acido e quello amminico) in soluzione acida tende a legare ioni H+ sui gruppi
amminici.
O
O
OH
Lana
NH2
OH
+
H
Lana
+
NH3
A questo punto, sul gruppo NH3+, si innesca la competizione tra tre differenti specie
anioniche:
v l’anione dell’acido in soluzione
v l’anione dell’ugualizzante
v l’anione del colorante
L’anione dell’acido in soluzione è in questo caso ione solfato (SO4=), che si lega per
primo alla lana, essendo il più piccolo tra i presenti e quello in maggior
concentrazione. Ma non forma un legame molto stabile. Quello con l’ugualizzante è
più stabile, e pian piano lo sostituisce. Un esempio di ugualizzante per coloranti
O
C
O
O
S
O
Na
59
acidi è la seguente molecola. Si tratta di un derivato solfonico alifatico, il Lissapol C
della ICI. L’anione è molto più grosso rispetto all’anione solfato, e forma un legame
più stabile. All’aumentare della temperatura entra in gioco il colorante, con
l’aumento della velocità di tintura. Pian piano gli anioni solfato si staccano dalla
catena, vengono rimpiazzati dagli anioni dell’ugualizzante (più stabili) e poi dalle
molecole di colorante. Questo rallentamento del processo (che è la somma di tre
reazioni differenti) porta ad una buona ugualizzazione. Calando la temperatura
aumenta l’esaurimento, l’ultimo colorante rimasto nel bagno sale sulla fibra e lì si
fissa stabilmente. Certo il meccanismo è assai complesso, ma viene regolato
soltanto con il controllo della temperatura, impostando all’inizio la quantità di sale,
di acido e di ugualizzante presenti nel bagno. A freddo la fibra viene lavata
accuratamente, allontanando l’ugualizzante (che non dà un legame stabile) e
l’anione solfato. I gruppi amminici perdono lo ione idrogeno, e la lana torna nello
stato originario.
2.10. Conclusione
Anche se ad un primo esame il panorama delle classi tintoriali è molto variegato, il
meccanismo che regola la scelta di una classe particolare di coloranti è basato su
numerosi fattori:
v la disponibilità di apparecchiature specifiche
v la fase di lavorazione in cui si interviene con la tintura
v le proprietà del prodotto tinto
v il prezzo finale del prodotto
Esistono poi classi di coloranti che non abbiamo incluso nella trattazione, perché
riservate ad impieghi specifici che ne fanno vere e proprie nicchie di mercato, quali i
pigmenti per stampa (da fissare sulla fibra con una resina legante) o i naftoli
(coloranti costruiti direttamente sulla fibra).
Nella precedente classificazione tintoriale non rientrano neppure i pigmenti
plastosolubili per la tintura in massa delle fibre sintetiche termoplastiche (PES, PA).
Si tratta di complesse molecole organiche, prive di gruppi solubilizzanti, che
vengono incluse direttamente nel polimero fuso prima dell’estrusione dalla filiera,
permettendo di ottenere tinte estremamente solide ed uniformi.
Nelle prossime unità didattiche verrà trattato il concetto di solidità, che regola la
scelta della classe di coloranti da impiegare nella maggioranza delle applicazioni.
60
3. Valutazione della solidità di una tintura
3.1 Introduzione
La realizzazione di una tintura efficace può dirsi tale quando il prodotto, omogeneo
nella distribuzione del colore e dell'intensità desiderata, è sufficientemente
resistente ad agenti esterni. L'esecuzione di questo tipo di prove è regolato da
precise norme UNI che a loro volta hanno recepito normative europee (EN) ed
internazionali (ISO), il cui scopo è la valutazione della solidità della tintura.
Per solidità del colore si intende infatti la resistenza del colore dei tessili ai diversi
agenti di alterazione ai quali i tessili possono essere esposti, sia nel corso della loro
fabbricazione, sia nel loro successivo uso. Le condizioni di prova sono state scelte in
modo da corrispondere il più possibile ad usuali trattamenti di fabbricazione ed alle
normali condizioni di impiego; nel contempo le condizioni di prova sono state
stabilite il più possibile semplici e riproducibili.
Possiamo generalizzare questo tipo di agenti di alterazione in tre tipologie ben
definite:
•
La luce
•
I trattamenti con liquidi (lavaggio, azione di solventi)
•
Le azioni meccaniche e fisiche
3.2 Valutazione della solidità
3.2.1 I campioni ed i testimoni
La misurazione pratica della solidità di una tintura si effettua solitamente mediante
confronto tra la colorazione del campione degradato (secondo le norme operative
previste dalla procedura) e quella di una porzione di campione tal quale, non
sottoposto ad alcuna azione. Nelle prove di resistenza alla luce e ad agenti
atmosferici,
si
misura
la
degradazione
di
un
(ogni)
singolo
campione,
confrontandolo con l'originale.
Nelle prove che richiedono trattamenti umidi od azioni meccaniche si opera su di
un campione (detto provetta) unito ad un campione di tessuto greggio (di tipo
indicato dalla normativa di volta in volta) detto a sua volta testimone. In questo
caso viene valutata sia la perdita del campione che lo scarico sul testimone.
61
Solitamente si opera su campioni di tessuto di cm 4 x 10 cucito con filo neutro al
testimonio su uno dei lati corti, mentre nel caso di filato o fiocco si valuta una
massa pari alla metà del peso dei testimoni, che viene racchiusa a sandwich tra i
due tessuti di prova e cucita su quattro lati.
3.2.2 Le scale di valutazione
Per misurare l'ammontare della degradazione, si effettua il confronto visivo tra
quattro campioni, così assortiti:
•
Il campione non degradato
•
Il campione degradato dopo la prova (asciutto)
•
I due valori di riferimento della scala di degradazione.
Il confronto visivo si effettua sotto una fonte di luce standard, indicata dalla
normativa.
3.2.3 Prove ad umido
Per ovviare alla differenza di interpretazione tra colori differenti, è stata messa a
punto una scala di cinque campioni14 di cui uno di colore costante ed uno
decrescente, tutti di colore grigio. In questa scala, detta appunto scala dei grigi, al
valore di massima solidità è dato il valore numerico 5, mentre al campione
maggiormente degradato è dato il valore 1. In pratica si tratta di valutare il salto di
colore tra il campione tal quale e quello degradato e di trovare a quale valore della
scala corrisponda, operando ovviamente in condizioni di illuminazione standard.
5
4
3
2
1
La valutazione si effettua sia sul provino degradato con la scala di degradazione che
sul testimonio con la scala di scarico, costituita da cinque (o nove) grigi di intensità
crescente (valore 5 al testimonio che non ha acquistato colorazione, valore 1 a
quello maggiormente colorato).
14
In alcuni casi nove, per valutare i mezzi valori.
62
5
4
3
2
1
3.2.4 Prove alla luce ed agli agenti atmosferici
In questo caso, non essendoci possibilità di trasporto di colore su di un testimonio,
la valutazione si effettua tra il campione tal quale e quello degradato, ricorrendo ad
una apposita scala (simile alla scala dei grigi di degradazione) ma costituita con
campioni blu di intensità decrescente (detta scala dei blu). La scala dei blu è
costituita da 8 campioni di lana tinta, i cui valori corrispondono a solidità crescente
(8= massima, 1=minima).
3.3 La solidità alla luce
La normativa (ISO 105-B02-1994) prevede che la fonte di luce per queste prove sia
una lampada ad arco allo xeno (con una temperatura di colore compresa tra 5500 e
6550 K15), posta in una camera di esposizione ben ventilata, dotata di due filtri per
ridurre l'irraggiamento ultravioletto e quello infrarosso. In Istituto è presente uno
strumento
di
fabbricazione
tedesca
(Xenotest)
con
lampada
allo
Xeno
e
raffreddamento ad aria.
Lo svolgimento della prova prevede l'esposizione dei campioni in parallelo ad una
scala dei blu di controllo, con meccanismi di verifica abbastanza complessi e
varianti a seconda del tipo di prova. Sia la scala di controllo che il campione
vengono parzialmente coperti, per ottenere due fasce di colore (tal quale e
degradato) sullo stesso provino. Il risultato finale si ottiene per confronto tra la
degradazione dei campioni della scala dei blu e quella del campione in esame. Il
valore 8 indica un campione con solidità eccezionale, buona per il 5 e debole per il
2. Nel caso la solidità sia intermedia tra due campioni della scala, la norma prevede
l'assegnazione del doppio valore (per esempio 5-6 oppure 2-3).
Esistono apparecchiature in grado di esporre il campione sia alla luce della lampada
che ad un getto di acqua in contemporanea, per valutare la solidità alle intemperie.
15
Ricordando che lo spettro solare ha una temperatura di colore di circa 5800 K.
63
3.4 La solidità nei trattamenti ad umido
In questo serie di prove si utilizzano provette di tessuto (o filo o fiocco) costituite
come descritto in precedenza, utilizzando o due testimoni di tessuto differente
(descritto dalla normativa) od un solo testimonio realizzato con differenti fibre
(detto testimone multifibre), fornendo come risultato sia la degradazione del
campione che lo scarico su ciascuna delle fibre del testimone.
La macchina
utilizzata per le simulazioni di lavaggio è sempre la stessa, che viene utilizzata
talvolta aggiungendo sfere o dischi metallici (acciaio inossidabile) per simulare
l'azione meccanica. Nel dettaglio di ciascuna prova verranno indicate le attrezzature
e le condizioni.
3.4.1 Prove con la macchina per lavaggio
Solidità del colore al lavaggio
La prova si effettua secondo la norma UNI EN 20105 del luglio 1994, divisa in cinque
parti (Parti C01-C02-C03-C04-C05), che prevede l'utilizzo di un apparecchio con una
serie di recipienti stagni immersi in un ambiente riscaldato, agitati secondo
particolari specifiche, del volume di circa 500 ml, in cui vengono immersi i campioni
con un rapporto bagno di 50:1 (per esempio, 250 ml per un campione di 5 g). La
soluzione da utilizzare contiene 5 g di detergente per litro d'acqua.
Portacampioni
Stufa
La tabella riporta le varie condizioni di temperatura, tempo e l'eventuale presenza
di sfere di acciaio φ 6 mm).
Prove di lavaggio(UNI EN 20105)
64
Norma
Temperatura
Tempo(min)
Aggiunte
C01
40
30
-
C02
50
30
-
C03
60
30
-
C04
95
30
10 sfere acciaio
C05
95
240
10 sfere acciaio
Al termine le provette vengono sciacquate con acqua fredda, spremute ed
asciugate all'aria (max 60°) dopo essere state aperte. Esiste anche la norma UNI EN
ISO 105-C06 del Febbraio 1999, che prevede modalità più complesse di
realizzazione, tra cui una miscela detergente simile a quelle domestiche e
l'eventuale presenza di agenti candeggianti. Tutte i campioni trattati secondo le
norme sopra indicate vanno poi esaminati per confronto con la scala dei grigi, alle
condizioni esposte in precedenza.
Solidità del colore al lavaggio a secco
La prova si effettua secondo la norma UNI EN ISO 105 DO1 del Maggio 1997, che
prevede il trattamento della provetta del campione, posta in un sacchetto di 100 x
100 mm, di cotone bianco, unitamente a 12 dischi di acciaio inossidabile ciascuno di
30 mm di diametro, con 200 ml di percloroetilene a 30° per 30 minuti. Il campione
va subito tamponato con carta assorbente ed asciugato all'aria. Si valutano il
campione ed i testimoni, e si valuta anche la colorazione del solvente attraverso un
recipiente apposito.
Solidità del colore all'acqua clorata (acqua di piscina)
La prova si effettua secondo la norma UNI EN ISO 105-E03 del Giugno 1998,
utilizzando l'apparecchiatura per la solidità al lavaggio caricata con una soluzione di
ipoclorito di sodio a varie concentrazioni di cloro attivo, con rapporto bagno 100:1, a
27°C per un'ora. Le concentrazioni di cloro attivo di 50 mg/l e 100 mg/l sono
indicate solitamente per costumi da bagno; quella di 20 mg/l è indicata per gli
accessori, quali abbigliamento da spiaggia e asciugamani. Al termine della prova si
asciuga il campione dopo spremitura, e si valutano degradazione e scarico con la
scala dei grigi.
3.4.2 Prove con il perspirometro
Solidità del colore all'acqua
Regolata dalla norma UNI EN ISO 105 E01 del maggio 1998, la prova consiste nel
trattare con normale acqua deionizzata la provetta preparata secondo quanto visto
alla sezione _ per immersione, ponendola immediatamente tra due lastre di vetro o
resina sottoposte alla pressione di 5 kg mediante un peso (perspirometro), e
ponendo il tutto in una stufa a 37°C per quattro ore. Il campione si valuta come al
solito, previa asciugatura all'aria.
65
Vetri
Campioni
Solidità del colore all'acqua di mare
Secondo la norma UNI EN ISO 105-E02 del Maggio 1998, si procede in modo
analogo alla prova precedente operando con una soluzione di cloruro di sodio a 30
g/l, ponendo poi il campione in stufa a 37 °C per quattro ore. Allo stesso modo si
asciuga il campione senza sciacquare e se ne valutano degradazione e scarico.
Solidità del colore al sudore
La norma UNI EN ISO 105-E04 del Maggio 1998 descrive la procedura, che prevede
l'immersione del campione in due diverse soluzioni. La prova al sudore alcalino
prevede l'uso di una soluzione contenente L-istidina cloridrato, cloruro di sodio,
fosfato bisodico ed idrossido di sodio, a pH circa 8 (la composizione è indicata nella
norma). La prova in ambiente acido richiede una soluzione contenente L-istidina
cloridrato, cloruro di sodio, fosfato monosodico ed idrossido di sodio a pH 5,5. Le
provette vanno trattate con le soluzioni (campioni differenti per le due prove), con
rapporto bagno 50:1, lasciandole immerse per 30 minuti a temperatura ambiente.
Scaduto il tempo, si elimina l'eccesso di liquido e si pongono nel perspirometro
(sotto il peso da 5 kg) in stufa a 37°C per 4 ore. Al solito si asciugano senza
risciacquo e si valutano separatamente.
3.5 Solidità a secco
3.5.1 Prove con il Crockmetro
Solidità del colore allo sfregamento
La norma UNI EN 105 X12 del Maggio 1997 regola la prova di sfregamento, da
realizzarsi con un apposito apparecchio (Crockmetro) che permette di far scorrere
un campioncino di tessuto apposito (cotone sbiancato 5x5 cm) fissato su di un
cilindro di 16 mm di diametro che si sposta sulla provetta con un movimento avanti-
66
indietro in linea retta per una lunghezza di 100 mm, esercitando una forza di 9N
verso il basso.
Contrappeso
Testimone
Campione
Il tessuto in prova va preparato in ritagli di cm 5x14, preparati sia in senso ordito
che in senso trama. Nel caso di campioni di filo, questo va lavorato a maglia o
avvolto su un supporto. La prova a secco si effettua sfregando il campione per dieci
volte (avanti-indietro) in dieci secondi valutando subito il campione, mentre nel
caso di prova ad umido occorre inumidire il tessuto di sfregamento con acqua
deionizzata fino a raddoppiare il suo peso. Si valuta il solo scarico sul tessuto di
sfregamento, rimuovendo eventuali peli colorati rimasti sulla provetta.
Solidità del colore allo sfregamento: Solventi organici
La norma UNI EN ISO 105 D02 del Marzo 1998 descrive la prova di resistenza allo
sfregamento con solventi organici. La prova si effettua in modo analogo allo
sfregamento ad umido, utilizzando percloroetilene sul tessuto di sfregamento
(sempre in quantità tale da raddoppiare il peso del tessuto). La valutazione avviene
in modo analogo.
3.5.2 Prove con il Fixotest
Solidità del colore alla stiratura a caldo
La prova - descritta dalla norma UNI EN ISO 105 X11 del Giugno 1998 - si effettua
con un apparecchio a piastre riscaldanti in acciaio, in grado di riscaldare una
provetta composta da un apposito tessuto di cotone cui è sovrapposto il tessuto (o
filo o fiocco) in esame. La piastra riscaldante viene abbassata sul campione per 15 s
con una pressione di 4 kPa. Si effettuano tre prove separate a 110, 150 e 200 °C. Se
interessa, si effettuano le prove anche ad umido (con il solo testimone di cotone
inumidito) o su bagnato (con un testimone asciutto, uno bagnato ed il campione
bagnato). Si valuta come al solito sia la degradazione del campione che lo scarico
67
sul testimone, ripetendo la valutazione dopo quattro ore. In modo analogo, variando
temperature e testimoni, si determinano anche le solidità alla sublimazione.
3.6 Considerazioni finali
Tanta attenzione alle normative ed al rigore richiesto nelle prove non deve far
pensare che l'obiettivo finale sia l'ottenimento sempre e comunque di una tintura
perfettamente solida. Il giusto compromesso tra solidità del risultato ed economicità
del processo tintoriale va valutato di volta in volta in funzione dell'uso cui il tessile
sarà destinato. Si consideri, ad esempio, la differente solidità richiesta ad un
costume da bagno, ad un asciugamano e ad una stoffa per cravatte. Nel primo caso
occorre valutare luce, acqua, acqua clorata, sudore, sfregamento umido. Nel
secondo caso occorre aggiungere il lavaggio domestico ad alta temperatura,
mentre nel terzo caso basteranno luce, lavaggio a secco e sfregamento con
solvente organico. Non è dunque possibile definire un criterio unitario, ma occorre
considerare attentamente le esigenze derivanti dall'impiego.
68
4. Tecnologia della tintura
4.1. Fasi di lavorazione
Il processo tintoriale può avvenire in diverse fasi della lavorazione, a seconda delle
esigenze e delle disponibilità. Qui di seguito sono elencate brevemente le fasi in cui
si può intervenire con un processo tintoriale.
Fiocco
La tintura in fiocco è quella che – da un lato – richiede la minor attenzione
nell’ugualizzazione (il tessile deve ancora affrontare tutta la lavorazione) mentre le
solidità debbono essere elevate, per resistere ai passaggi successivi di lavorazione.
Spesso a questo stadio si tingono fibre da lavorare in mista successivamente.
Nastro
Come per il fiocco, il nastro (sia che si tratti di tow sia di top) deve essere tinto in
modo solido per resistere alle lavorazioni successive. Per il top non esiste
particolare preoccupazione per l’ugualizzazione.
Filato
Il filato può essere tinto in due differenti forme merceologiche: come matassa e
come rocca. La tintura in matassa è più delicata (occorre controllare attentamente
l’infeltrimento per poter poi dipanare la matassa) ma porta a risultati di
ugualizzazione migliori. La tintura in rocca (da effettuarsi su supporti speciali, forati,
sulle quali il filato è avvolto non troppo compatto), più rapida, porta a risultati
normalmente meno qualificati.
Tessuto
Come per il filato, il tessuto può essere trattato in piano (ovvero disteso) oppure in
corda (ogni singola pezza è cucita a sacco tra le cimosse laterali - lasciando il
rovescio all’esterno -
e unita testa/coda). Di solito – nel mondo laniero – le due
lavorazioni sono riservate al ciclo pettinato ed a quello cardato. Un pettinato infatti
non resisterebbe mai allo stress meccanico derivante da un processo in corda,
mentre un cardato che richieda poi una buona follatura è già nella forma idonea per
il finissaggio. Nel caso di sintetici, si ricorre spesso al trattamento in piano mediante
stampa o foulardaggio (impregnazione in un bagno ristretto di tessuto che vi scorre
ad alta velocità) per le alte velocità di produzione.
69
4.2 Apparati a pressione statica
In questi apparati la merce è ferma, montata all’interno su di un apposito supporto,
mentre il bagno viene fatto circolare (con l’ausilio di una pompa) all’interno del
tessile. Lo schema generale è riportato in figura.
Il cestello all’interno della macchina può contenere differenti inserti, per lavorare
con prodotti diversi.
Possiamo infatti avere cestelli forati per fiocco e nastro, colonne su cui impilare
rocche, subbi forati su cui avvolgere tessuto in pezza.
Un caso particolare di apparato a pressione statica è l’armadio per matasse. Al suo
interno le matasse giacciono infilate su due supporti di acciaio, completamente
immerse nel liquido. Il bagno è mantenuto in movimento da una piccola pompa,
mentre il riscaldamento avviene mediante un serpentino a vapore sul fondo
dell’armadio.
70
4.3 Apparati a merce mobile
Sono apparati in grado di tingere un tessuto in movimento all’interno di un bagno,
che rimane sul fondo della macchina. Un esempio ne è la barca ad aspo.
Si tratta di un apparato in cui il tessuto (cucito in corda) è mantenuto in movimento
da un mulinello, mentre la maggior parte della pezza pesca in un bagno riscaldato.
4.4 Apparati a bagno e merce mobili
In questo tipo di macchinari, utilizzati esclusivamente per i tessuti, abbiamo il
movimento contemporaneo di pezza e bagno. Il principio del moto di entrambi è
riassumibile in base a due tecniche: il jet e l’overflow.
Nel caso del Jet il tessuto (in corda) è messo in moto all’interno di un tubo dal bagno
che gli viene spruzzato contro a pressione elevata. L’energia del bagno trascina il
tessuto ad alte velocità (centinaia di metri al minuto), mantenendolo irrorato
costantemente con il bagno.
Nel caso dell’overflow invece il tessuto è messo in movimento da un flusso di bagno
all’interno di un tubo che scende per gravità naturale (overflow = troppo pieno),
trascinando il tessuto a velocità molto minori rispetto al jet.
71
Le differenti applicazioni di jet ed overflow si debbono al materiale tinto.
Solitamente nel jet si opera con fibre cellulosiche o sintetiche, mentre l’overflow è
adatto a prodotti più delicati.
72
5. Stampa dei tessuti
5.1 Differenze tra stampa e tintura
Alla base dei due processi c’è sempre la formazione di un legame tra fibra e
colorante. La differenza tra i due è che nella tintura ad esaurimento il colorante
passa (in funzione delle condizioni ambientali) dalla soluzione alla fibra, dove si
diffonde e crea legami, mentre nella stampa il colorante viene applicato
meccanicamente nei punti che vanno colorati, e l’intensità della tinta è funzione
della quantità di materiale trasferito fisicamente sul tessuto.
In sintesi il colorante viene applicato come se si trattasse di una normale stampa
editoriale o di una illustrazione, e la reazione di fissazione avviene successivamente
evitando ogni tipo di migrazione.
5.2 Tecniche di stampa tessile
La stampa di un tessuto avviene secondo quattro procedimenti, a seconda del
prodotto applicato e del tipo di disegno che si ottiene.
5.2.1 Stampa diretta
Rappresenta il caso più semplice, ovvero quello in cui il colorante viene applicato la
dove occorre che sia, e viene fissato in un secondo tempo. Solitamente il colorante
si applica a partire da una soluzione acquosa concentrata che viene addensata con
amidi o colle particolari, fino a raggiungere la consistenza di un fluido molto denso,
detto pasta di stampa. Con la pasta di stampa si provvede a spalmare tutto il
tessuto uniformemente (ottenendo un colore uniforme, stampa piana) oppure ad
applicare il colore secondo uno schema prefissato (stampa a motivo). Gli addensanti
della pasta di stampa hanno solo la funzione di aumentarne la viscosità, e non
quella di “incollare” il colore sulla fibra. Vengono eliminate dopo il fissaggio con un
lavaggio energico.
5.2.2 Stampa per corrosione
In questo caso si parte da un tessuto già tinto (o stampato) in modo uniforme, e si
provvede a rimuovere (corrodere) il colorante aggredendolo chimicamente (di solito
con prodotti simili a quelli usati nel candeggio). Supponendo di avere un tessuto
tinto con una tinta scura, avremo il motivo di stampa (mediante corrosione) visibile
con una tinta più chiara sul fondo uniforme. In questo caso la pasta non contiene
73
coloranti ma solo agenti ossidanti o riducenti, opportunamente addensati e
stabilizzati.
5.2.3 Stampa per riserva
In questo caso si parte da una pasta contenente una cera od una resina in grado di
rendere impermeabile (temporaneamente) il tessuto, e si stampa il motivo in
negativo. Si tinge ( o si stampa uniformemente) il tessuto con i coloranti previsti, e –
subito dopo il fissaggio – si elimina l’agente riservante. Il colorante nelle zone
riservate non si è fissato, e queste ultime resteranno gregge su un fondo tinto. Si
usa spesso anche per mantenere gregge zone che andranno stampate con colori
differenti.
5.2.4 Stampa a transfer
Il procedimento consiste nel deporre la pasta (o le paste, nel caso di una stampa
policroma) su di un mezzo di trasporto che provvede a sua volta a depositarlo sul
tessuto. Di solito si hanno appositi nastri in gomma microporosa che fungono da
intermediari per il colore.
5.3 Apparati per stampa
Si tratta dei mezzi meccanici impiegati per distribuire il colore secondo uno schema
prefissato. Sono fondamentalmente classificabili secondo tre famiglie.
5.3.1 Cilindri di stampa
Si tratta di cilindri di metallo o gomma rigida, sulla cui superficie viene disteso il
colore mediante dei sistemi meccanici di alimentazione. Possono essere cilindri
piani, se la superficie è liscia e deposita la stessa quantità di pasta in ogni punto,
oppure incisi, se sono in grado di cedere il colore solo in alcuni punti appositamente
preparati (scavati nel metallo o resi porosi nella gomma). I cilindri incisi permettono
di trasportare il colore in base ad un motivo prestabilito (disegno oppure texture).
5.3.2 Quadri di stampa
In questo caso il tessuto è disteso su di un piano (in grado di mantenerlo teso e
liscio) e vengono spostati sulla sua superficie alcuni riquadri rigidi che contengono
una membrana di materiale semiporoso (per esempio una retina molto fine, resa
parzialmente impermeabile secondo uno schema od un motivo). Dopo aver disteso
il quadro sul tessuto, con una apposita spatola di gomma rigida (detta racla) viene
stesa una pasta colorante al di sopra del quadro, che raggiunge il tessuto solo nelle
74
zone permeabili. Il passaggio successivo di quadri con differenti motivi, o con paste
dal colore diverso, porta all’ottenimento di un vero e proprio disegno colorato sul
tessuto. Si pensi – per esempio – alla seta per cravatte o alle fantasie di alcuni
costumi da bagno.
5.3.3 Rotative
Per grandi produzioni industriali, si utilizzano macchine simili alle rotative
tipografiche, dove una sequenza di teli riporta (un colore dopo l’altro) un disegno
sul tessuto, anche con forme elaborate e sfumature di colore.
5.4 Fasi di stampa
Le fasi fondamentali di cui si compone un processo di stampa sono essenzialmente
tre.
5.4.1 Stampa
Nella prima fase viene applicata sul tessuto la pasta colorante, sia essa uniforme o
secondo un disegno. Nel caso di più tinte (più paste colorate), vengono applicate
dapprima quelle più chiare e poi quelle più scure. Se il disegno è molto complesso,
si provvede ad una prima asciugatura delle paste per evitare colature o diffusione
del colore.
5.4.2 Vaporissaggio
Normalmente le paste contengono – oltre ai coloranti - quegli ausiliari che
permettono al colore la reazione di fissazione. A questo punto è sufficiente trattare
il tessuto con calore e vapore per permettere la reazione di fissazione. La presenza
degli addensanti non impedisce la reazione chimica tra fibra e colorante.
5.4.3 Lavaggio
Dopo il vaporissaggio ed il raffreddamento, occorre lavare accuratamente il tessuto.
Lo scopo è duplice: permette di allontanare gli addensanti e gli ausiliari che hanno
permesso la fissazione, ed elimina il colorante che non ha reagito (non si è fissato),
evitando scoloriture o macchie durante i lavaggi d’uso.
75
Pagina intenzionalmente vuota
76
Modulo 4
Finissaggio
77
1. Finissaggio chimico
1.1. Introduzione
Con il termine finissaggio si è soliti intendere un complesso insieme di operazioni
successive alla tessitura che portano ad un miglioramento delle proprietà del
tessuto, modificandone proprietà chimiche, fisiche e merceologiche. Noto anche con
il termine di nobilitazione, l’insieme di operazioni è per sua natura scarsamente
assimilabile a schemi precisi, variando profondamente a seconda del risultato
desiderato e del ciclo di lavorazione. A rigor di logica, la nobilitazione dovrebbe
comprendere
anche
la
tintura;
tradizionalmente
questa
viene
trattata
separatamente, perché può essere applicata ad altri stadi di lavorazione (fiocco,
nastro, filato).
La trattazione in questo modulo sarà pertanto limitata ad indicare le principali
operazioni in modo analitico, e i processi di finissaggio di lana cardata e pettinata in
modo sintetico.
Dal punto di vista operativo, dividiamo le operazioni di finitura in tre blocchi:
•
operazioni di tipo chimico
•
operazioni fisiche ad umido
•
operazioni fisiche a secco.
1.2. Operazioni chimiche
Scopo delle operazioni chimiche di finitura è il conferimento in modo più o meno
permanente di alcune proprietà al tessuto (quali morbidezza, pienezza al tatto,
resistenza alla piega, impermeabilità, resistenza alla fiamma, capacità antistatiche
e il miglioramento del grado di bianco) mediante un trattamento ad umido con
prodotti chimici, abbastanza simile alle operazioni di tintura.
Ecco una breve analisi dei prodotti impiegati in relazione all’effetto desiderato.
Morbidezza
Si interviene sulla mano finale di un tessuto, aumentandone la morbidezza al tatto,
mediante il trattamento con un ammorbidente; queste sostanze (già viste nel primo
78
modulo del quinto anno) possono conferire proprietà permanenti (ammorbidenti
siliconici) o temporanee (tensioattivi cationici), più o meno accentuate a seconda
dell’impiego finale del tessuto. Si ricorda come un ammorbidente temporaneo
(ammonio quaternario) possa esercitare un’azione ritentiva verso sporco e sostanze
grasse, mentre un ammorbidente permanente – usato in dose impropria – possa
portare il tessuto ad una impermeabilità spesso fastidiosa.
Pienezza di mano
Alcune finitura per capi di moda (si tratta di tendenze cicliche) richiedono che
tessuti anche fini e poco consistenti acquistino una particolare pienezza (cracquant)
al tatto. Si pensi ad alcuni capi estivi in fibre vegetali (giacche, camicie) che – pur
essendo di basso peso – posseggono una certa resistenza allo schiacciamento ed
alla compressione. In questi casi si applicano piccole quantità di resine (di solito
policondensati, che reagiscono direttamente in bagno) sul tessuto, in modo da
indurire le fibre ed i filati. In alcuni casi si applicano i monomeri sul tessuto, e la
fissazione della resina avverrà solo in sede di confezione (di solito mediante
vaporizzo) ottenendo anche stabilità di forma del capo finito. Se la dose di resina è
rilevante, spesso si ha un trattamento antipiega vero e proprio. Lo stesso effetto si
ottiene (per esempio su lana) applicando anche sostanze riducenti in fase di
vaporizzo (in grado di allentare i ponti cistinici e di permetterne col raffreddamento
la fissazione).
Impermeabilità
L’impermeabilità era tradizionalmente ottenuta preparando una sostanza idrofoba
(insolubile) direttamente sul tessuto; la lavorazione classica degli impermeabili fino
agli anni ’70 prevedeva l’applicazione di un sale metallico (in genere alluminio) sul
tessuto, ed il successivo trattamento con un tensioattivo anionico, il cui sale
metallico precipitava sulla fibra, rivestendola e rendendola idrofoba. Questo
trattamento, seppur economico e veloce, era destinato a non permanere sulla fibra,
perché i lavaggi in corso d’uso lo allontanavano. Oggi le soluzioni impiegate sono
molto
differenti
(Laminature,
Spalmature,
fibre
speciali),
ed
i
trattamenti
impermeabilizzanti sono rimasti in uso per applicazioni a basso costo.
79
Resistenza alla fiamma
Ancora oggi, avendo a disposizione fibre intrinsecamente ignifughe, permane
l’utilizzo di finissaggi antifiamma per applicazioni a basso costo o in applicazioni
monouso (dai tendoni per padiglioni all’aperto fino a moquette e tessuti d’arredo
per allestimenti fieristici o teatrali). Questi processi si basano sull’aggiunta al
tessuto di sali metallici (spesso a base di alluminio) che ne ritardano l’innesco o sul
ricoprimento delle fibre con additivi (di solito resine alogenate) in grado di
aumentare la richiesta di ossigeno necessario alla combustione (rendendo quindi
difficoltosa la combustione in aria normale).
Antistatico
Come per gli ammorbidenti, i finissaggi antistatici prevedono la deposizione di uno
strato sottile di un tensioattivo poco solubile o di una resina debolmente conduttiva
sulla superficie della fibra, permettendo così alle cariche elettrostatiche di
disperdersi sul tessuto e di non accumularsi in punti specifici, generando scariche e
scintille. Anche in questo settore la presenza di fibre intrinsecamente antistatiche
ha ridotto l’impiego di questi finissaggi a fasce economiche di prodotto.
Miglioramento del grado di bianco
Tra i finissaggi chimici sono da includersi a pieno titolo anche i candeggianti ottici.
Nel caso in cui una fibra non debba essere tinta, ma venga utilizzata in bianco
(meglio, in greggio), l’ultimo passaggio dopo il candeggio (ossidante, riducente od
entrambi) è l’applicazione di un candeggiante ottico. Si tratta di una molecola del
tutto simile ad un colorante, con identici meccanismi di applicazione, in grado di
assorbire energia nella zona di spettro dei raggi UV e di riemettere la stessa energia
a lunghezze d’onda di poco superiori ai 400 nm, nel dominio dei blu. La piccola
quantità di radiazione blu emessa porta a bilanciare il naturale fondo giallo delle
fibre naturali, portando ad un leggero fondo grigio (percepito in modo armonico
dall’occhio). Trattandosi di coloranti, ed in particolare di coloranti dotati di molti
gruppi risonanti, bisogna tener presente la solidità del risultato. Un candeggiante
ottico di solito si allontana con qualche lavaggio, e viene degradato – ovviamente –
dall’esposizione alla luce. Nei tempi passati si era soliti inserire piccole quantità di
colorante azzurro nei detersivi domestici (i granelli blu, dispersi nelle polveri per
lavatrice), ottenendo un discreto effetto che durava tra due lavaggi successivi.
80
2. Finissaggio laniero ad umido
2.1. Operazioni preliminari al finissaggio ad umido
La prima operazione cui è sottoposta una pezza laniera, scaricata dal telaio, è la
verifica del suo stato mediante controllo visivo. Detto anche tribunale, questo
controllo deve evidenziare alcune situazioni che andranno corrette:
la presenza di impurità vegetali o metalliche,
la mancanza di fili o la presenza di errori di tessitura,
la presenza di difetti di tintura.
Queste situazioni vengono segnalate con un apposito contrassegno sulla cimossa,
ed andranno corrette ove possibile, migliorando lo stato della pezza.
La pinzatura è l’operazione che permette di eliminare a mano corpi estranei, fili in
eccesso e piccoli difetti. Come tutte le operazioni a mano, è riservata a prodotti di
livello elevato.
Il rammendo consiste nell’introdurre i fili mancanti secondo lo schema previsto al
telaio. La rammendatrice ha a disposizione gli stessi filati usati in tessitura, e
provvede manualmente al rammendo con uno speciale ago a punta tonda.
I difetti di tintura in pezza raramente si possono correggere (se non nelle operazioni
di follatura estrema). Di solito i tratti difettati vengono eliminati (destinati al
campionario o venduti come seconda scelta), abbassando il valore della pezza
intera.
2.2. Il carbonizzo
Nel caso in cui la lana sia ricca di residui vegetali (lappole), si sottopone ad uno
speciale trattamento in grado di carbonizzare le parti cellulosiche, senza alterare la
fibra di lana. Solitamente si tratta la pezza con un acido diluito (in genere solforico),
e la si riscalda moderatamente.
81
1-bagno acido; 2-cilindri spremitori; 3,4-camera di carbonizzo
In queste condizioni l’acqua che diluiva l’acido evapora, accentuando il potere
carbonizzante dell’acido. Quando il livello di carbonizzazione è sufficiente, si
allontanano i residui cellulosici mediante battitura, e si lava la pezza, precedendo il
lavaggio con un trattamento disacidante.
2.3. Il lavaggio
Nel finissaggio il lavaggio di una pezza assume alcuni significati specifici, più
complessi di quelli legati ad un ordinario lavaggio domestico. Non serve solo ad
eliminare
impurezze
chimiche
e
fisiche,
ma
permette
la
stabilizzazione
dimensionale della pezza. Le impurità presenti sono di differenti tipi:
gli oli di filatura, applicati sul nastro per ridurre gli attriti e preservare dall’usura le
fibre16;
le bozzime applicate sui fili d’ordito, per permetterne la lavorazione diminuendo i
problemi di rottura;
le macchie di materia grassa (olio macchina, grasso lubrificante) raccolte
incidentalmente durante la lavorazione.
Per queste sostanze l’azione tensioattiva del detergente e l’azione meccanica sono
sufficienti, senza richiedere operazioni energiche quali il lavaggio pre-tintura.In
parallelo all’azione detergente, il bagno di lavaggio esplica una interessante azione
chimica, intervenendo sui legami presenti tra le catene17. Le condizioni di lavaggio
non sono tanto estreme da creare la rottura completa dei legami, ma allentano
completamente i legami salini ed i ponti ad idrogeno. Questo fenomeno permette
alle singole fibre di eliminare la tensione meccanica accumulata in fase di
lavorazione, e di “riazzerare” la memoria elastica. Con la successiva asciugatura i
16
Occorre ricordare che tutte le fibre idrofile hanno resistenza maggiore ad umido che a secco, ad
eccezione del rayon.
17
Legame salino e ponti ad idrogeno, legame cistinico tra due catene, legame peptidico nella singola
catena.
82
legami salini ed i ponti ad idrogeno si riformeranno nelle nuove posizioni, rendendo
stabile il tessuto a fine lavaggio.
All’azione chimica si unisce una conseguente azione fisica, che si manifesta sotto
forma di variazione dimensionale della pezza dopo il lavaggio. In particolare si
hanno due azioni:
il rilassamento delle tensioni meccaniche, favorito anche dalla presenza di acqua
come mezzo viscoso tra le singole fibre, che porta ad un generale raccorciamento
del prodotto, scaricando in questo modo l’energia accumulata;
l’infeltrimento delle fibre (che si compattano in funzione della sollecitazione
meccanica, del pH e della temperatura del bagno) .
In sintesi, le condizioni di lavaggio debbono essere un compromesso tra le
condizioni estreme richieste dall’azione detergente e quelle moderate atte a
prevenire un eccessivo rientro. In funzione di queste caratteristiche, occorre anche
scegliere la tecnica di lavaggio, optando tra il processo in corda e quello in largo.
Nel lavaggio in corda la pezza viene cucita a sacco, chiudendo insieme le due
cimosse (lasciando il diritto della pezza all’interno del sacco), e viene fatta girare
nella macchina di lavaggio dopo essere stata cucita testa/coda. L’azione meccanica
cui è sottoposta (cilindri trascinatori, frizione sulle pareti della macchina) è vigorosa,
rendendo questo tipo di lavaggio adatto ad apparecchiature garzate o follate, su cui
una leggera follatura derivante dal lavaggio non porta conseguenze.
Nel lavaggio in largo la pezza passa in una serie di vasche, mantenuta distesa e
tesa da un’apposita catena tenditrice, e l’azione meccanica è limitata ai cilindri
spremitori presenti in ogni vasca. Questo lavaggio prevede la possibilità di gestire le
vasche singolarmente, in termini di pH, temperatura e ricambio del bagno. Viene
utilizzato solitamente per le apparecchiature rasate e per i pettinati in generale.
Spesso
nel
lavaggio
in
largo
si
applica
all’ultima
vasca
un
trattamento
ammorbidente.
2.4 La follatura
L’operazione di follatura consiste in una feltratura controllata estesa a tutto il
tessuto, avente lo scopo di esaltare caratteristiche quali la morbidezza e la pienezza
della mano. Si applica solitamente a lane cardate, a materiale non troppo leggero.
83
La feltratura – come noto dal programma di quarta – è una proprietà caratteristica
delle fibre di lana. Messe in particolari condizioni (pH alcalino, presenza di
detergenti, temperatura elevata ed azione meccanica), le scaglie poste sulla
superficie delle fibre si dilatano (aprendosi) e permettono di ottenere legami ad
incastro tra le fibre, che divengono poi permanenti con l’asciugatura.
In un tessuto follato è impossibile riconoscere l’armatura osservandone la
superficie, perché le fibre – legandosi tra loro – hanno ricoperto ogni traccia visibile
dei singoli filati.
Per quanto sia stata studiata, l’operazione di follatura rimane una tra le più
artigianali di tutti il ciclo laniero. In sede di progettazione del tessuto ci si limita
esclusivamente a calcolare il rientro della pezza per follatura, sia sulla lunghezza
(compattezza) che sulla larghezza (voluminosità).
In pratica il processo di follatura avviene in un apparecchio non troppo diverso da
una barca ad aspo per tintura, avente una strettoia in legno subito dopo i cilindri
trascinatori.
La pezza viene caricata in corda (cucita a sacco e chiusa testa/coda), e ruota spinta
da una serie di cilindri che la raccolgono dal fondo vasca per inviarla agli organi
follanti (tromba o ciabatta), da dove ricade sul fondo. Nella macchina è caricato un
bagno di follatura, che contiene un tensioattivo (imbibente) ad un pH particolare.
Per le lane cardate si opera a pH superiore a 9, massimizzando l’effetto follante. In
pochi casi si opera a pH acido, esaltando il rientro del tessuto. Di solito si avvia la
macchina lasciando la ciabatta aperta, per permettere l’impregnazione del tessuto,
poi si stringe la parte superiore della ciabatta fino ad avere un attrito tra tessuto e
legno tale da promuovere la feltratura della superficie del tessuto. La pressione
della ciabatta non deve essere elevata, per evitare il surriscaldamento della pezza o
84
il danneggiamento da parte dei cilindri di trascinamento. Prima dei cilindri è posta
una guida in metallo che ha il compito di distendere la corda di tessuto prima
dell’arrivo ai cilindri, per evitare bastonature o segni non omogenei.
Se il tessuto viene caricato ancora sporco (senza avere cioè subito un lavaggio) si
ha la follatura in grasso. Una volta molto usata18, è ora limitata a merce di livello
ordinario od a pezze che non debbono ricevere una follatura pesante. Diversamente
le pezze poste in follatura dopo lavaggio possono arrivare a grandi valori di rientro e
di follatura. Nelle produzioni ordinarie si adopera una unica macchina, detta
lavafolla, che permette di eseguire dapprima il lavaggio (ovviamente in corda) e poi
la follatura senza scaricare la pezza dalla macchina. Per prodotti dalla mano molto
rigida (molto battuti) è utile un breve trattamento (qualche minuto) in follone, detto
rottura al follone. Altrettanto con lo stesso procedimento si rimuovono i residui
carboniosi dopo il carbonizzo (battitura).
2.5 La fissatura
Al termine delle operazioni ad umido diviene necessario impostare la forma
definitiva della pezza prima di procedere all’asciugatura, evitando la formazione di
brutte pieghe o l’eventuale ulteriore instabilità dimensionale. A tale scopo si
effettua una fissatura ad umido sulla pezza intera, combinando l’effetto del calore e
della pressione moderata. Il trattamento avviene in due differenti modalità: in
discontinuo o in continuo.
La fissatura in discontinuo (detta fissa o crabbing) prevede l’avvolgimento della
pezza su di un apposito cilindro immerso in un bagno di acqua a 60-80 °C.
L’avvolgimento sul cilindro immerso avviene grazie ad un sistema di tenditori e di
cilindri di riscontro, regolati per distendere la pezza senza impartire una tensione
eccessiva. La pezza permane avvolta sul cilindro immerso per qualche decina di
minuti, poi viene svolta dal cilindro ed avvolta su di un subbio, dove resta a
raffreddare (ruotando per evitare segnature) per ventiquattro ore.
Per evitare
fenomeni di ammaccatura della pezza dovuti al rientro o alla pressione non
proporzionale, negli articoli di pregio si usa avvolgere – in parallelo alla pezza – un
tessuto apposito19 per fare da tampone tra due falde successive, che viene
recuperato al termine della fissatura e riutilizzato.
18
Le oleine per filatura usate nel passato erano trasformate in saponi dal bagno di follatura, e si procedeva a
lavaggio e follatura in un solo passaggio. Con l’avvento degli oleanti di sintesi, questo non è più possibile.
19
Detto mollettone.
85
La fissatura in continuo (conticrab) permette di lavorare in continuo pezze delicate
(pettinati) stabilizzandole a temperature più elevate, ed operando a buone velocità
(da 5 a 25 metri al minuto). La pezza (sempre in largo) passa a contatto con un
cilindro metallico riscaldato sopra i 100°C sotto la pressione di una contropezza.
Questa lavorazione permette di ottenere una buona stabilità dimensionale
temporanea, permettendo alcune operazioni successive (quali ad esempio tintura o
finissaggio chimico) senza correre il rischio di retrazioni o difetti dimensionali.
2.6 Idroestrazione
Terminato il processo di fissatura, occorre asciugare la pezza prima di procedere
alle operazioni fisiche di finissaggio. Solitamente il procedimento si divide in due
fasi: dapprima si elimina l’acqua per via meccanica, per poi procedere ad una
asciugatura a caldo completa.
L’idroestrazione avviene solitamente con una di queste tre tecniche:
la centrifugazione, adatta per pezze lavorate in corda, che elimina una discreta
percentuale di acqua permettendone l’apertura e la distensione;
l’aspirazione mediante ugello e sifone, da farsi sulle pezze più delicate lavorate in
largo;
la spremitura mediante coppie di cilindri a pressione, per le merci ordinarie lavorate
in largo.
L’eliminazione di buona parte dell’acqua presente sul tessuto ci permette di
risparmiare energia nella successiva fase di asciugatura.
2.7 Asciugatura
Dopo il processo di idroestrazione, le pezze arrivano ad un asciugatoio ad aria calda
in tensione, detto rameuse. All’ingresso della macchina, le cimosse sono fissate in
una speciale catena che trascina il
tessuto nelle camere ad aria calda
mantenendolo teso nelle due dimensioni.
Nel suo percorso, la pezza incontra dapprima dell’aria molto calda, che promuove
l’evaporazione dell’acqua trattenuta dal tessuto, per poi procedere verso una
camera meno calda ma più lunga, dove avviene l’eliminazione dell’acqua adsorbita
a livello molecolare.
Ovviamente il tessuto va raffreddato all’interno della rameuse, fintanto che rimane
in tensione, per stabilizzarne le dimensioni a secco. Il meccanismo di regolazione
86
della larghezza e della lunghezza (tensione) viene regolato costantemente, ed è
sorvegliato all’interno delle camere calde.
Anche le temperature dell’aria nelle varie camere sono monitorate in continuo,
assieme al contenuto in vapore d’acqua, per ottenere un asciugamento efficace
senza causare ingiallimento alla fibra.
All’uscita della rameuse, la pezza è avviata al finissaggio a secco.
87
3. Finissaggio laniero a secco
3.1. Garzatura
L’operazione di garzatura estrae dalla struttura del tessuto una quantità variabile di
fibre, che rimane esterna all’intreccio, creando un effetto peloso sulla superficie del
tessuto. L’estrazione avviene mediante l’azione meccanica di aculei, siano vegetali
(aculei sulla superficie dei frutti di Dipsacus Fullonum) che metallici (scardassi, aghi
montati su un substrato di gomma). Il tutto può avvenire con diverse varianti: si
possono innanzitutto avere aghi metallici su supporti rotanti (con velocità
controllabili autonomamente) che cardi naturali, sia montati fissi su di un supporto a
telaio, che inseriti su supporti liberi di ruotare.
L’azione della garzatrice è migliore su filati cardati lavorati con intreccio abbastanza
morbido, ma l’efficacia può variare molto a seconda della forza dell’azione garzante.
Nella figura è riportato lo schema di un garzatolo a cilindri rotanti. Il tamburo (1)
ruota nel senso del tessuto, mentre gli alberi su cui sono montati gli scardassi (2)
ruotano nel senso del pelo o contropelo a seconda dell’effetto desiderato. Alcune
spazzole (4) tengono puliti gli aculei degli scardassi mentre un apposito tenditore
meccanico (5) regola la tensione della pezza sul tamburo.
L’azione di cardi vegetali è molto delicata, e richiede costi di gestione elevati (gli
aculei dei frutti vanno controllati quasi costantemente, perché l’efficienza garzante
si modifica in continuazione a causa dell’usura). L’uso è ormai limitato a produzioni
laniere di qualità, tanto da divenire quasi un punto d’onore per molte aziende
laniere. La maggioranza della produzione (la totalità su cotone e sintetico) opera
con scardassi meccanici artificiali, molto più semplici da gestire ed assai più
versatili nella gamma di effetti ottenibili.
88
3.2. Cimatura
Può accadere che il pelo estratto dal tessuto vada regolato ad una particolare
altezza, oppure che
- non avendone estratto evitando la garzatura – quel poco
formatosi naturalmente vada eliminato. A questo fine si compie l’operazione di
cimatura.
Il principio di funzionamento di una cimatrice è rappresentato in figura. Il tessuto
(A) - mantenuto teso – scorre a discreta velocità su di un cuneo (B) che fa affiorare il
pelo perpendicolarmente al senso di scorrimento. Il pelo sollevato viene a trovarsi
tra una lama di riscontro (C) ed un cilindro guarnito di lame elicoidali (D) che ruota
ad alta velocità. L’azione di taglio avviene tra la lama rotante e quella di riscontro,
come se avvenisse tra le due lame di una forbice. Le lame sono ovviamente
mantenute pulite da un aspiratore (E), in grado di allontanare la peluria cimata,
mentre una spazzola (F) solleva ed uniforma il pelo prima del taglio.
Se si tratta di eliminare (prima di stampa o tintura) la peluria che potrebbe
disturbare nelle operazioni successive, si opera con un bruciapelo, ovvero un
apparecchio in cui l’eliminazione del pelo avviene per combustione controllata.
89
Invece di avere una lama rotante ed una fissa, nel bruciapelo un bruciatore a gas
tratta in continuo la superficie del tessuto, eliminando per combustione il pelo che si
allontana dal tessuto stesso.
Ovviamente sia la cimatrice che il bruciapelo sono dotati di congegni di sicurezza
per salvaguardare tessuto e macchina. Nelle cimatrici è presente un metal detector
(per rilevare corpi estranei in grado di danneggiare le lame) ed un sensore di
spessore (per alzare le lame all’arrivo delle cuciture), mentre nel bruciapelo un
sensore di velocità smorza la fiamma in caso di arresto del tessuto.
3.3. Operazioni complementari
Il pelo ottenuto con garzatura e cimatura può in qualche modo essere fissato o
modificato fisicamente.
Se va semplicemente orientato e lucidato, si applica un passaggio di lucidatura. Si
tratta di applicare piccole quantità di un agente brillantante (siliconico) fissando il
senso del pelo con spazzole ad alta velocità, feltri a pressione in continuo e pettini
in acciaio a denti molto fini.
Se va avvivato e ripulito, si applica una spazzolatura. Tipica dei velluti corti, si
effettua con un passaggio su una serie di spazzole rotanti ad alta velocità, sia di
setola che d’acciaio.
Se il pelo deve imitare una pelliccia si applica la ratinatura, ovvero un passaggio al
di sotto di una tavola gommata oscillante tenuta in pressione contro una seconda
tavola rivestita di feltro. L’azione meccanica combinata alla pressione può ondulare
il pelo, attorcigliarlo a formare bottoncini o legarlo strettamente in fiocchetti.
3.4. Pressatura e calandratura
Avviandoci al termine delle operazioni di finissaggio, occorre stabilizzare le
caratteristiche fisiche del tessuto, esaltarne colore e mano e dargli compattezza.
L’operazione si può svolgere in due differenti apparati, a seconda del valore del
tessuto e della finezza della lavorazione.
Se il tessuto è molto pregiato, lo si carica in una pressa a cartoni, infaldandolo
morbidamente tra fogli di Presspan20 (alcuni dei quali muniti di batterie di resistenze
elettriche) e sottoponendo la carica (contenente qualche decina di pezze per volta)
20
Cartone pressato di colore rosso, molto rigido e lucido.
90
all’azione meccanica di una pressa (da 100 a 400 kg/cm2) e al riscaldamento (circa
40°C) generato dalle resistenze. Dopo 8-12 ore, la carica si disfa e la si ricompone –
allo stesso modo – avendo cura di far scorrere il tessuto della lunghezza di mezzo
cartone, in modo da trattare in centro pressa le parti di pezza che nella prima carica
erano ai bordi dei cartoni stessi.
Dovendo operare in continuo si ricorre invece ad un passaggio in calandra. Si tratta
di un cilindro molto pesante (in ghisa e bronzo) del diametro di 40-100 cm, che
ruota trascinando la pezza, comprimendola contro una superficie metallica lucida
che lo circonda, detta bacinella, o contro un secondo cilindro. Sia il cilindro
trascinatore che la bacinella sono mantenuti caldi mediante vapore.
La mano del tessuto in questo caso è molto più lucida (viene anche detta metallica)
e si ha un leggero raccorciamento di trama ed un allungamento in ordito. L’azione
lucidante può essere mitigata dall’azione di un feltro o di un mollettone usati come
sottopezza.
L’azione di una pressa a cartoni è più stabile ma meno evidente alla vista. Dà mano
piena e corposa. L’azione della calandra porta ad una mano più nervosa e lucida,
meno stabile nel tempo.
3.5. Decatissaggio
La fissazione delle dimensioni, dell’eventuale pelo e della mano finale è lo scopo
dell’operazione di decatizzo. La pezza viene a trovarsi sotto una moderata tensione
meccanica (simile a quelle che incontrava nella rameuse) ed è oggetto dell’azione
di vapore ad elevate temperature. Si ha un complesso meccanismo di rottura e
fissazione dei vari legami presenti nelle fibre, l’annullamento delle tensioni
91
meccaniche, la fissatura dimensionale e l’esaltazione della superficie del tessuto
stesso.
Il decatizzo può avvenire in varie forme, più o meno energiche, a seconda del tipo di
prodotto e del volume di produzione. Il trattamento consiste nel far agire vapore
secco sul tessuto per qualche minuto, arrivando a temperature al di sopra dei
100°C. Si utilizza di solito una sottopezza (satino per finiture lucide o vellutino per
finiture a pelo), e si avvolge il tutto su di un cilindro di grande diametro che ha
l’albero cavo, da cui entra vapore verso la pezza.
Possiamo avere tre tipi di decatizzo, a seconda delle condizioni in cui si opera. La
pezza avvolta sul cilindro forato può essere vaporizzata in aria libera. In questo caso
il vapore tende a condensare sulla parte esterna, generando differenze di effetto tra
testa e coda della pezza. Se il cilindro viene vaporizzato con vapore saturo
all’interno di un contenitore in cui era stato fatto il vuoto, ed il vapore viene poi
aspirato sempre tramite l’albero, si ha il Decatizzo Finish o a botte, che permette
maggiore uniformità nell’effetto. In questi due casi si ha sempre la condensazione di
una parte del vapore, con conseguente modificazione dell’umidità del tessuto.
Attualmente si tende infatti a distinguere l’azione del vapore umido (detta
vaporizzazione), con effetti sulla stabilità dimensionale e sulla tensione della pezza,
da quella del vapore secco ad alta temperatura (decatizzo propriamente detto), che
interviene sulla fissazione della mano, riduce parzialmente la lucidità e genera una
finitura antigoccia.
Attualmente si preferisce un trattamento in autoclave (130 °C, pressione fino a 5
atmosfere), detto KD (o Kessel Dekatur). In questo caso la presenza del vuoto prima
dell’immissione del vapore, la presenza di una camera di condensa sulle pareti e la
maggior temperatura del vapore permettono l’azione del vapore secco senza avere
rischi di condensazione per raffreddamento. Nello schema si vede una macchina per
KD in grado di trattare (avvolgimento, svolgimento e decatizzo) tre pezze
contemporaneamente.
92
Per articoli di minor pregio e per situazioni in cui non sia richiesto un effetto di
decatizzo molto intenso, si opera con il decatizzo in continuo. In questo caso il
tessuto passa a contatto di un cilindro forato (rivestito di feltro) da cui fuoriesce
vapore saturo sotto pressione, tenuto in pressione da un feltro senza fine di
materiale sintetico.
3.6 Vaporizzatura
Al termine del finissaggio a secco, può essere necessario ammorbidire parzialmente
la mano del tessuto, oppure eliminare la lucidità eccessiva acquisita dalla
calandratura. Per far ciò la pezza passa, accompagnata un nastro trasportatore
(talvolta leggermente vibrante) in una camera dove viene esposta a vapore saturo
per tempi abbastanza lunghi (superiori al decatizzo) senza alcuna tensione
meccanica. Si ottiene il completo rilassamento, l’eccessiva compressione viene
rilasciata (aumenta il volume) e la mano si ammorbidisce. Aumenta anche il
contenuto di umidità della fibra, che si era abbassato con il decatizzo.
3.7. Condizionatura
Tessuti di elevato pregio vengono trattati per almeno dodici ore in un ambiente
condizionato (65% UR, 20°C), in modo da equilibrare il contenuto di acqua,
mantenendoli sospesi a falde in una camera condizionata. Questa operazione, detta
condizionatura o London, chiude il finissaggio a secco di un tessuto laniero.
93
4. Schemi di apparecchiature laniere
4.1. Apparecchiatura rasata
L’apparecchiatura rasata si applica solitamente a lane pettinate o semipettinate.
Non hanno ricevuto follatura, ma talvolta soltanto un passaggio di rottura al follone,
per migliorarne la mano.
La mano di solito è secca, scivolosa. L’intreccio è visibile. I tessuti ad
apparecchiatura rasata sono destinati a capi primaverili ed estivi, con eventuali
applicazioni invernali solo per il peso (e non per la mano).
4.2. Apparecchiatura follata
4.2.1 Apparecchiatura Cheviot
Si applica solitamente a tessuti di lane ordinarie cardate o semipettinate. Riceve
una follatura media (5-10% di rientro).
Il tessuto presenta una mano gonfia, ed è ricoperto da una leggera pelosità, che
non impedisce di vedere l’intreccio. Si applica a lavorazioni per capi invernali, come
gli abiti Cheviot ed i capi di Tweed.
4.2.2 Apparecchiatura Melton
Si applica solitamente a tessuti di lane fini cardate o pettinate. Riceve una follatura
medio-forte (5-20% di rientro).
La mano è schiacciata ma morbida, e la superficie è parzialmente coperta dal pelo,
tanto da non rendere sempre visibile l’intreccio. Si applica a lavorazioni invernali
(flanelle, foulè, panni).
4.3. Apparecchiature a pelo
Si applicano sia a cardati che a pettinati, eseguite con lana di varia natura.
Subiscono una pesante follatura (dal 10 al 30% di rientro) che permette, con la
garzatura, di estrarre buone quantità di pelo.
La mano è molto morbida ed il fondo non è visibile. Si impiegano in lavorazioni
autunnali ed invernali.
In particolare abbiamo:
•
94
Castorino / Drapé, con pelo rasato e direzionato;
•
Pelle di pesca, con pelo cortissimo;
•
Velour, con pelo corto vellutato;
•
Loden, con pelo lungo direzionato;
•
Mollettone (coperte), con pelo lungo non direzionato;
•
Orsetto / Peluche / Felpa, con pelo lungo sollevato.
95
4.4. Schema generale
96
97