27Minori di `ndrangheta

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27Minori di `ndrangheta
1 | gennaio-febbraio 2015 | narcomafie
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42
L’impero degli Ercolano
4
Minori di
‘ndrangheta
48
Desaparecidos
in Messico
Il Carnevale a Scampia
2 | gennaio-febbraio 2015 | narcomafie
numero 1 |
gennaio-febbraio 2015
Il giornale è dedicato a Gian­carlo Siani
simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie
Fondatore Luigi Ciotti
Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile)
Livio Pepino (condirettore)
Redazione
Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Davide Pati (Roma)
Comitato scientifico
Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo,
Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini,
Marcello Ravveduto
Collaboratori
Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi,
Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Piero Innocenti,
Alison Jamieson, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Marco Nebiolo, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio
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Questo numero è stato chiuso in redazione il 5/03/2015
L’elenco delle librerie in cui è possibile acquistare narcomafie
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www.narcomafie.it
3 | gennaio-febbraio 2015 | narcomafie
Un
nuovo
corso
A partire da questo numero, «Narcomafie» si presenta ai lettori con
una nuova periodicità e nuove
pubblicazioni collegate, che avranno una propria e specifica
veste grafica. La rivista, nel suo
ventitreesimo anno di uscita, avrà
infatti cadenza non più mensile,
ma bimestrale, e ad essa si accompagneranno alcuni supplementi
curati da esperti del settore esterni alla redazione, ma da sempre
vicini alla testata.
Il nuovo corso nasce per rispondere ai cambiamenti registrati nel
mercato editoriale, in particolare
nel settore specifico di nostra
competenza, sia sul piano dei
contenuti sia sul piano della sostenibilità.
Sotto il primo profilo abbiamo
sentito l’esigenza di tornare a interrogarci su che cosa significhi
informare sui temi di mafia alla
luce degli scenari attuali. «Narcomafie» è nato nel 1993, all’indomani delle stragi di Capaci e di
via D’Amelio, quando un attacco
senza precedenti al cuore della
parte sana dello Stato evidenziò
l’inadeguatezza dei media nel cogliere il grado di pervasività del
fenomeno mafioso, nella società
e nelle istituzioni. Mancava, allora, uno strumento che tenesse i
riflettori accesi sulle questioni
criminali in modo costante, e non
solo ciclicamente, a seguito di
fatti eclatanti o di omicidi eccellenti. «Narcomafie» volle dunque
proporsi come collettore di analisi, inchieste, riflessioni, cronache.
Oggi, a oltre vent’anni di distanza,
lo scenario è completamente mutato e assistiamo, al contrario, a
una sovrapproduzione di notizie
sull’argomento, che risultano però troppo spesso superficiali e
approssimative. L’intenzione è
allora quella di caratterizzare ancora di più il nostro progetto sul
versante dell’analisi e della denuncia di quegli aspetti meno
osservati dalle cronache quotidiane, interpellando giornalisti di
inchiesta, analisti, studiosi, ma
anche giovani ricercatori dell’ambito accademico: una realtà, quella universitaria, che negli ultimi
anni registra (grazie alla sensibilità di una nuova generazione di
docenti motivati) un fervore inedito degli studi sul crimine organizzato, capaci di produrre approfondimenti in grado di evidenziare i nodi di intervento e di prefi-
gurare gli scenari possibili di evoluzione.
Sulle pagine del nuovo «Narcomafie» ancora maggiore spazio
verrà dedicato alla proposta –
tratto che da sempre ci caratterizza – e alla valorizzazione di esperienze costruttive. Nasce da qui
l’introduzione di alcune nuove
rubriche, che si aggiungeranno a
quelle ormai storiche: “I nasturzi”
(dal nome di un fiore particolarmente tenace), curato da Rosario
Esposito La Rossa, in cui leggeremo storie di riscatto, di chi con il
crimine ha dovuto convivere, ma
è riuscito a trovare un’altra strada,
un modo per tentare di arginarlo;
e “Riparte il futuro”, di Leonardo
Ferrante, in cui verremo costantemente aggiornati sui risultati
della più grande mobilitazione
civile sui temi dell’anticorruzione,
in atto da un paio d’anni e promotrice di importanti campagne
di sensibilizzazione.
Sotto l’aspetto della gestione del
nuovo progetto, la considerazione
che ci ha portati a ritenere inevitabile il cambiamento di periodicità è dettata dalla necessità, non
più prorogabile, di considerare la
crisi strutturale che attanaglia il
mondo dell’editoria, che in questi
anni abbiamo affrontato grazie al
coraggioso impegno del Gruppo
Abele e all’immancabile appoggio
di Libera. Associazioni, nomi e
numeri contro le mafie, che hanno creduto nell’importanza di
uno strumento a cui collaborano,
in un dialogo virtuoso, giornalisti,
studiosi, ricercatori, magistrati,
avvocati, esponenti delle forze di
polizia e operatori del sociale.
La scelta controcorrente compiuta nel 2005 di abbassare il prezzo dell’abbonamento alla rivista
da 39 euro a 30 euro (15 per
l’edizione online), e di mantenerlo invariato per dieci anni,
intendiamo rinnovarla ancora
oggi, per permettere a un pubblico più vasto possibile di investire una piccola somma in un
progetto che documenta aspetti
inediti e poco esplorati del crimine organizzato.
A tutto questo continueranno ad
affiancarsi il sito www.narcomafie.
it – attraverso cui vi terremo aggiornati sull’attualità con i resoconti quotidiani dei fatti più importanti e di quelli meno battuti
– e la nostra newsletter settimanale. Continuate a seguirci!
4 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Mafia a Catania
L’impero degli
Ercolano
L’operazione Caronte della Dda di Catania ha riportato al
centro dell’attenzione uno dei cognomi importanti di Cosa
nostra catanese: Ercolano. Dal padre Pippo ai figli Enzo,
ritenuto il nuovo capo dell’organizzazione, e Aldo, uno
degli esecutori dell’omicidio dell’intellettuale Pippo Fava.
Una storia di vecchi e nuovi assetti mafiosi
di Saul Caia e Dario De Luca
5 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
«Chi è, il dottor Enzo, Enzo
Ercolano in persona […] da
Catania, il numero uno di Catania! Il numero uno siciliano!».
Un imprenditore bolognese,
senza sapere di essere intercettato dagli uomini del Ros dei
Carabinieri, pronuncia non un
nome qualsiasi, ma quello del
figlio di Giuseppe Ercolano: un
cognome che “conta”, ai piedi
dell’Etna, non solo in ambito
imprenditoriale ma soprattutto
all’interno di Cosa nostra.
Conosciuto con il diminutivo
di Zio Pippo, Giuseppe Ercolano è morto per un male
incurabile il 29 luglio 2012,
all’età di 76 anni; per decenni
ha occupato il ruolo di uomo
illustre della famiglia mafiosa
Santapaola-Ercolano, un doppio cognome sancito da un
vincolo parentale nel segno di
un patto mafioso fatto di sangue e affari. Uno dei figli dello
zio è infatti l’ergastolano e
“uomo d’onore” Aldo, fratello
di Enzo, ormai da anni recluso
al 41bis per essere stato uno
degli esecutori dell’omicidio
del giornalista Giuseppe Fava,
ucciso il 5 gennaio 1984. Aldo
e Pippo sono anche le più fidate
spalle di Benedetto “Nitto”
Santapaola, il capo dei capi
della mafia in Sicilia orientale,
di cui lo zio ha sposato una
sorella, Grazia.
Enzo, conosciuto con il diminutivo di Enzuccio, ha ereditato dal padre Giuseppe non solo
la fiorente attività del trasporto
su gomma ma, secondo i magistrati della Procura di Catania
guidata da Giovanni Salvi, anche un peso importante dentro
Cosa nostra. Ercolano è stato
arrestato lo scorso novembre,
nell’ambito dell’operazione antimafia denominata “Caronte”,
insieme ad altre 22 persone.
L’indagine – coordinata dalla
Procura etnea e dal Ros dei
Carabinieri del comandante
Mario Parente – è il prosieguo
dell’inchiesta “Iblis” del 2010,
in cui ad essere coinvolti furono non solo boss di primo
piano ma anche imprenditori
e politici: su tutti, l’allora presidente della Sicilia, Raffaele
Lombardo, condannato nel
febbraio 2014 in primo grado
a 6 anni e 8 mesi per concorso
esterno in associazione mafiosa
e voto di scambio aggravato.
Il blitz scattato all’alba del
21 novembre 2014 prefigura
l’infiltrazione della famiglia catanese nei settori dei trasporti
e della distribuzione di carne
negli hard discount, oltre ai
collaudati rapporti con le famiglie mafiose di Agrigento e con
quella di Belmonte Mezzagno
(provincia di Palermo), guidata
dai Pastoia. Vincenzo Ercolano,
secondo quanto messo nero
su bianco nell’ordinanza di
custodia cautelare, “sarebbe il
principale esponente dell’organizzazione”, forte “di uno spessore criminale elevatissimo”,
con un modus operandi “da
vero e proprio capo”. Non un
semplice imprenditore per gli
investigatori, ma “un soggetto
abituato a fare tutto ciò che
vuole in nome e per conto della
famiglia mafiosa SantapaolaErcolano”. Enzuccio non è
nuovo a inciampi giudiziari,
fino ad oggi risoltisi in suo
favore: nel 2009 era stato assolto dal Tribunale di Catania
dall’accusa di associazione
mafiosa percependo anche
un maxi rimborso per ingiusta detenzione. Il suo nome,
insieme a quello del padre,
rientrò anche nell’operazione
“Sud Pontino” condotta dalla
Dia di Napoli e dalla Squadra
mobile di Caserta in merito
all’alleanza tra mafia siciliana
e camorra per la gestione del
mercato strategico di Fondi, in
provincia di Latina. Nonostante gli Ercolano furono assolti
con formula dubitativa, secondo i magistrati etnei i siciliani
avevano consolidati “rapporti
economici con esponenti della
camorra nel casertano”.
Un vero e proprio impero imprenditoriale, quello della famiglia Ercolano, che coinvolge
a 360 gradi i suoi componenti:
dal padre Giuseppe, titolare
negli anni 80 della ditta Avimec (poi confiscata e messa in
liquidazione nel 2000), fino ad
Enzo appunto, che ereditò la
Geotrans Srl insieme alla sorella. Con quest’ultima società
– dal marzo 2014 confiscata
con provvedimento ancora
non definitivo – Vincenzo
Ercolano si sarebbe imposto
sul mercato con il ruolo di
dominus, stringendo alleanze
e accordi commerciali, come
quello con Amadeo Matacena, ex parlamentare di Forza
Italia trapiantato in Calabria e
attualmente latitante a Dubai
dopo essere stato condannato
per concorso esterno in associazione mafiosa dal Tribunale
di Reggio Calabria (è di questi
giorni la notizia che gli Emirati
Arabi potrebbero accordarsi
con l’Italia per l’estradizione
di Matacena, n.d.r.).
Business via mare. Il settore
dei trasporti, marittimi e su
gomma, è dunque la miniera
d’oro per gli Ercolano. L’inchiesta “Caronte” ha svelato
i retroscena degli affari tra la
famiglia e l’imprenditore etneo
Tra l’ottobre 2005
e il gennaio 2006,
la Athos Matacena,
la Amedeo
Matacena e la
Ladies Matacena
caricano e scaricano
tir e camion facendo
da spola tra le due
estremità di Sicilia e
Calabria, mentre
il Consorzio
autotrasportatori
italiani Service Srl
(Cai) di Giuseppe e
Salvatore Scuto si
occupa della
documentazione
e della gestione
delle pratiche per
accedere agli
incentivi
6 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
In vista delle
elezioni europee
del 2009, Vincenzo
Caruso e Giuseppe
Scuto cercarono
di accreditarsi
con il loro “Partito
nazionale degli
autotrasportatori”
all’interno del
mondo politico
siciliano, che
all’epoca aveva in
Raffaele Lombardo
l’uomo di punta.
Grazie all’intesa
elettorale con il
partito dei tir, il
logo del movimento
autonomista di
Lombardo finì sui
camion degli
autotrasportatori:
un vero e proprio
accordo politico
Francesco Caruso, titolare della
società Servizi Autostrade sul
Mare Srl (Sam Srl) specializzata
nel trasporto marittimo. Obiettivo: usufruire degli eco bonus,
gli incentivi erogati agli autotrasportatori che privilegiano il
movimento via mare rispetto a
quello via terra. Caruso, infatti,
ne aveva già usufruito quando faceva parte del consorzio
Setra, in cui risultava socio di
Filippo Giuseppe Spina, cugino di Rosario e Filippo Riela,
uomini d’onore dell’omonima
famiglia mafiosa catanese poi
condannati per mafia.
Per il collegamento MessinaReggio Calabria, Caruso si rivolge direttamente all’ex forzista
Amedeo Matacena, che insieme
al fratello Elio aveva fondato nel
1966 la Caronte Spa. L’affare è
siglato nel 2005, con la stipula
di un contratto che prevede
un corrispettivo di 120 mila
euro al mese, e l’impegno della
Amadeus Spa di Matacena a
fornire tre navi alla Sam Srl per
il trasporto marittimo dei tir.
Tra l’ottobre 2005 e il gennaio
2006, la Athos Matacena, la
Amedeo Matacena e la Ladies
Matacena caricano e scaricano
tir e camion facendo da spola
tra le due estremità di Sicilia e
Calabria; il Consorzio autotrasportatori italiani Service Srl
(Cai) di Giuseppe e Salvatore
Scuto (entrambi indagati nell’operazione “Caronte”) si occupa
intanto della documentazione
e della gestione delle pratiche
per accedere agli incentivi.
Sembra andare tutto liscio, fino
a quando sorge un problema:
mancano le autorizzazioni nella gestione, in comune con le
Ferrovie dello Stato, delle banchine di approdo per l’attracco
delle navi a Villa San Giovanni,
in Calabria. Per risolvere la
questione, il presidente del Cda
dell’Amadeus Sergio Giordano
si muove prontamente, provando a rassicurare tutti e prospettando anche l’attivazione di
una nuova tratta che colleghi
la Sicilia direttamente a Reggio
Calabria. Passano alcuni mesi
ma (non è ancora chiaro il motivo), Giordano decide di fare
un passo indietro e dimettersi
dalla società, compromettendo
gli accordi. Nonostante l’aumento di capitale, la Sam Srl
fallisce alcuni mesi più tardi.
Eppure, “l’affare delle navi”,
come viene chiamato in gergo
dagli stessi indagati, è decisamente al centro degli interessi
dell’organizzazione, che decide
di ripartire nello stesso anno con
una nuova società. All’azienda
Sam Srl di Francesco Caruso subentra quindi il consorzio Lo.Tr.
As. di Campobello di Licata,
in provincia di Agrigento. Gli
inquirenti sostengono che dietro l’azienda ci sia l’ombra dei
fratelli Vincenzo e Alfio Aiello,
figure di spicco di Cosa nostra
etnea in ottimi rapporti con quella agrigentina, nonostante alla
presidenza e alla vice presidenza
del Cda del consorzio risultano
esserci rispettivamente Tommaso Lo Coco e Domenico Rizzo.
«Da ieri è ripartito il traghetto,
Matacena line, quello là che
abbiamo [...] spostato e poi si
è bloccato e ora è ripartito.
Ora aspettiamo che, ci sono
una corsa ogni due ore». A
parlare – sempre intercettato
dai Ros – è Vincenzo Ercolano
che, telefonando a un’azienda
a lui vicina, fa presente che il
servizio di logistica via mare
per la tratta Messina-Villa San
Giovanni è ricominciato. In più,
l’organizzazione ha deciso di
fare le cose in grande e allargare le offerte di mercato per
gli autotrasportatori; è lo stesso
Ercolano a spiegare ad un suo
interlocutore che il gruppo sta
studiando «un traghettamento
Messina-Reggio e TremestieriReggio», perché in questo modo
si risparmia tempo e «non c’è
confusione». Ercolano chiama
le aziende a lui vicine, organizza volantinaggi e pubblicizza
le nuove rotte, eppure le cose
lentamente si complicano. La
gestione degli Aiello non convince, ci sono pochi clienti e
gli affari non decollano, quindi
tutto torna a bloccarsi nuovamente. Francesco Caruso,
che era stato quasi costretto a
farsi da parte per volere della
cupola, in un’intercettazione
ambientale con Giuseppe Scuto
spiega la nuova fase di stallo:
«Mi pare ca, che navi semu a
moddu!! Che navi a misunu a
moddu». Le navi le hanno messe a mollo, è un chiaro riferimento all’impasse del rapporto
tra il gruppo e Matacena, e solo
con l’intervento de «i testi di
l’acqua», come Caruso chiama
i “padroni”, la situazione può
essere risolta. Alla fine però
tutto salta inesorabilmente e la
caccia all’eco bonus è rimandata di qualche anno. Ercolano
ci riprova usando come cavallo
di troia la Boccardi Srl, società
acquistata e poi trasformata in
Geotrans Logistica Frost Srl,
che prova ad aderire al Consorzio Ruote sul Mare, controllata
dal gruppo Fita-Log. Quello che
però Ercolano non sa è che il
consorzio è già in liquidazione
e in seguito all’inchiesta “Sud
Pontino”, che lo coinvolge direttamente, è accantonata anche
la sua richiesta di accedere agli
incentivi.
7 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Il partito degli autotrasportatori. Secondo gli inquirenti
etnei, per accaparrarsi i tanto
agognati finanziamenti per il
mondo dei tir, Cosa nostra aveva deciso anche di scendere in
maniera diretta in politica con
la creazione del Partito nazionale degli autotrasportatori. Come
ideatori e promotori ritroviamo
due tra i nomi caldi finiti al
centro dell’inchiesta “Caronte”:
Vincenzo Caruso, ex consigliere
comunale del comune etneo
di Misterbianco, e il suo socio
Giuseppe Scuto. Nell’estate del
2006, entrambi rimasero vittime
di un attentato nelle strade della
provincia etnea, quando vennero raggiunti da alcuni colpi di
pistola. A distanza di due anni,
in vista delle elezioni europee
del 2009, Caruso e Scuto cercarono di accreditarsi con il loro
movimento al mondo politico
siciliano, che all’epoca aveva
in Raffaele Lombardo l’uomo di
punta. Una macchina di voti,
quella dell’autonomismo, che
aveva consentito a Lombardo
di essere il successore alla presidenza della Sicilia di Totò
Cuffaro, caduto in disgrazia
dopo essere stato condannato
per favoreggiamento aggravato
a Cosa nostra, passando dai
salotti di palazzo d’Orléans,
sede del parlamento isolano,
alle celle del carcere romano di
Rebibbia. Il logo del movimento autonomista di Lombardo,
proprio alle europee del 2009,
finì sui camion degli autotrasportatori, grazie all’intesa
elettorale con il partito dei
tir. Un vero e proprio accordo
politico, sancito con tanto di
comunicato stampa. A fare
da intermediario per il buon
esito dell’accordo, secondo
gli investigatori, sarebbe stato
Giovanni Cristaudo, all’epoca
dei fatti deputato regionale
proprio del partito di Lombardo. Il suo nome finirà successivamente nel calderone
dell’inchiesta “Iblis”, sfociata
nella recente condanna in appello per concorso esterno in
associazione mafiosa. Dal canto suo Lombardo, dopo il blitz
“Caronte” (in cui non risulta
indagato), a distanza di anni
dall’accordo con Caruso e con
una condanna in primo grado
sulle spalle per aver favorito
la famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano, ha replicato
tramite un comunicato stampa: «Il Caruso mi parlò del
suo fantomatico partito, con
“decine di migliaia di iscritti”,
della cui inconsistenza, per mia
consolidata esperienza, mi resi
subito conto».
Le mani sulla città
8 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
di Saul Caia
e Dario De Luca
Gli affari di Vincenzo Ecolano e delle aziende a lui riconducibili non
si limitano ad operare solamente
nel settore dei trasporti alimentari
e ortofrutticoli, ma riescono a partecipare, spesso in sub-appalto, a
grandi opere pubbliche e private
realizzate sia nella provincia di
Catania sia nel resto dell’isola.
A cominciare dal “Parco Commerciale La Tenutella”, meglio noto
come Centro Sicilia, a ridosso
dell’uscita autostradale San Giorgio di Catania. Il progetto è della
società sarda Coalbo, che affida i
lavori a tre aziende consorziate tra
loro: Sant’Agostino Scarl, Home
Progetti Srl e la Industria e Costruzioni Spa. I materiali arrivano dalle
cave della Co.p.p. Srl, di proprietà
di Cosima Palma Ercolano e Distefano Concetto, rispettivamente
sorella e cognata di Enzuccio Ercolano. Come già emerso nel corso
dell’inchiesta giudiziaria “Iblis”,
anche il trasporto del materiale è
avvenuto con i mezzi della società
di famiglia, la Geotrans Srl.
Dagli accertamenti svolti dagli inquirenti, risultano diversi versamenti nei conti correnti, tra il 2010
e il 2011, delle società di Ercolano,
che ha ricevuto un compenso di
quasi due milioni di euro per i
lavori svolti.
Il business del movimento terra è
da sempre considerato dalla magistratura a rischio infiltrazione
mafiosa, e anche i maggiori centri
commerciali di Catania e provincia
hanno subìto, come già dimostrato
ampiamente da inchieste giudiziarie, la presenza di Cosa nostra. Con
un ipermercato, centocinquanta negozi e circa cinquemila posti auto,
“Le Porte di Catania” – a pochi passi
dal quartiere periferico di Librino
e dall’aeroporto Fontanarossa – è
una delle più grandi gallerie commerciali della città. Anche questa
vicenda è stata oggetto d’indagine
della Procura e ampiamente dibattuta nel processo Iblis. I terreni su
cui sorge la struttura avevano una
destinazione agricola, poi convertita dall’amministrazione comunale
in commerciale, e sono di proprietà
di Mario Ciancio Sanfilippo, editore
di diversi quotidiani ed emittenti
televisive, che tramite la sua società Icom Srl si è occupata anche
della progettazione. I lavori sono
stati realizzati dalla Sicep e dalle
imprese riconducibili a Vincenzo
Basilotta, condannato in primo
grado per mafia nell’inchiesta Dionisio; anche in questo caso, viene
scelta la Geotrans per il trasporto
dei prefabbricati. Ercolano lavora
nuovamente con Basilotta anche
nel cantiere per il tratto autostradale Caltanissetta-Agrigento, con
la Geotrans incaricata del trasporto
di alcuni materiali.
Stesso discorso per la costruzione
del mercato ortofrutticolo e ittico
di Catania, realizzato dalla Mercati
agro-alimentari Sicilia S.C.p.A.
(Maas), società consortile di proprietà della Regione Sicilia. I lavori
sono appaltati alla Cooperativa di
Muratori e Cementisti (Cmc) di
Ravenna, che a sua volta li affida
alla Intercor e Judica Appalti di
Basilotta e alla Icob dell’imprenditore ennese Mariano Incarbone, già
condannato in appello a 5 anni per
concorso esterno in associazione
mafiosa. A trasportare i materiali,
sempre i camion della Geotrans di
Enzuccio Ercolano.
Altro cantiere, altro affare. Per il
parco commerciale “Sicily Outlet”
di Agira in provincia di Enna, i
lavori sono realizzati dalla Sicep,
mentre Ercolano trasporta i prefab-
bricati; la storia si ripete a Palermo
per il parcheggio multipiano sorto
vicino al Tribunale. Un sodalizio
tra i due imprenditori che troviamo
anche in un’altra opera, attualmente posta sotto sequestro dalla
magistratura: il cinema multi sala
in zona San Gregorio. In questo
caso, la Sicep mette a disposizione
i propri prefabbricati ma utilizza i
camion di Ercolano per trasportarli.
Infine, c’è l’autostrada CataniaSiracusa, di cui si era occupato il
giornalista Sigfrido Ranucci nella
puntata “Il Progetto” trasmessa dalla trasmissione televisiva «Report».
La società parmense Pizzarotti & C.
vince l’appalto di circa 750 milioni
di euro, in gran parte provenienti da
fondi Fas, per realizzare 27 km di
superstrada, affidandosi alla Unical
Spa per il materiale. Quest’ultima a
sua volta usa le cave e i mezzi della
Co.p.p. degli Ercolano. La Pizzarotti sigla il protocollo di
legalità con il quale si impegna a
sospendere eventuali forniture di
aziende legate alla mafia, e invia
alla Prefettura di Catania l’elenco
delle ditte che operano nel cantiere,
tra cui figura anche la ditta di Ercolano. I lavori proseguono senza
intoppi, fino a quando l’Ufficio
territoriale del Governo chiede
la sospensione della Co.p.p. Srl.
L’azienda incriminata però decide
di fare ricorso, che porterà a nuovi
accertamenti. Dopo alcuni mesi, la
Prefettura etnea dichiara di essersi
sbagliata e garantisce che l’azienda
degli Ercolano è provvista della
certificazione antimafia.
9 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Stili di vita mafiosi
Il culto del lusso
nei mafiosi
Tradizionalmente capimafia e adepti siciliani e calabresi erano
attenti a esibire una falsa povertà in pubblico, mostrandosi morigerati e dimessi. L’ostentazione è invece sempre stata caratteristica del camorrista. A partire dalla seconda metà degli anni
Settanta esplodono i consumi vistosi degli appartenenti alle
organizzazioni criminali. Breve analisi sul rapporto tra mercato
del lusso, appartenenza alla classe agiata e affiliazione mafiosa
Roberto Ferrari
di Amedeo Paparoni
10 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Se prendiamo in considerazione lo stile di vita di mafiosi,
’ndranghetisti e camorristi incontriamo casi molto diversi
tra loro. Alcuni affiliati preferiscono una vita all’insegna
del lusso più sfrenato, altri un
basso profilo; non mancano casi
intermedi.
I consumi vistosi hanno assunto
una connotazione più esplicita
dopo che le organizzazioni criminali hanno trovato nel narcotraffico un redditizio business.
Dunque nell’analizzare queste
tendenze appare opportuno
distinguere i dati precedenti al
1975, data puramente indicativa, da quelli posteriori.
Tra i camorristi è
abbastanza comune
ostentare ricchezza
anche tramite il
possesso di animali
Camorra, esibirsi non rinnegarsi. Gli affiliati della camorra
sono noti per la loro propensione a consumi vistosi particolarmente ostentati. Ne è la
prova una recente asta giudiziaria che ha avuto come oggetto
beni sequestrati alla camorra.
In un articolo pubblicato su «La
Repubblica», Patrizia Capua
riporta di gioielli in vendita
per un valore stimato intorno
al milione di euro: un orologio
marca Rolex daytona con cassa
in oro bianco e chiusura in
oro è in vendita a 8mila euro,
un Rolex Date Just, quadrante
blu e lunetta incastonata sarà
offerto a 12mila euro, 11mila
ne servono per entrare in possesso di un paio di orecchini
pendenti incastonati e pavé
di 196 brillanti per un totale
di 16 carati. La stessa cifra è
stimata per un collier di tre fili
di perle e ciondolo in lapis con
diamanti incastonati. Un altro
Daytona in oro e cinturino in
pelle, completo di astuccio e
garanzia è in vendita per 8mila
euro. Si sale con l’orologio Car-
tier da donna in oro massiccio
che va all’incanto per 24mila
euro. Un solitario, un diamante
di sei carati, è valutato 50mila
euro. Per collezionisti e antiquari c’è un blocco di cinque
orologi della seconda metà del
Settecento, con meccanismi a
catena, a partire da 6.250 euro.
Per incentivare gli acquisti il
tesoro della camorra è stato
suddiviso in piccoli lotti, anche
da mille euro l’uno (1).
Le ostentazioni dei camorristi
non si limitano certo a orologi e preziosi: altro motivo di
vanto sono per loro le abitazioni. Emblematico il caso del
boss Walter Schiavone, fattosi
costruire una villa uguale a
quella di Tony Montana, narcotrafficante protagonista del
film Scarface. Interessanti da
questo punto di vista anche
i sontuosi banchetti con cui
viene festeggiato l’ingresso
nell’associazione camorristica.
Il sociologo statunitense
Thorstein Veblen aveva già
teorizzato nel secolo scorso
che anche gli animali domestici costituivano una forma di
consumo vistoso. Il sociologo
sosteneva, infatti, che cani,
gatti e cavalli, soprattutto se
di razza pregiata, rappresentavano una forma di sciupìo
vistoso. Questi, infatti, non
possono ritenersi utili e, al pari
di servi o dame di compagnia,
rappresentano per chi li mostra
in società un’espressione del
proprio status. Tra i camorristi
è abbastanza comune esercitare
i propri consumi vistosi anche
tramite il possesso di animali.
Benché nella maggior parte dei
casi non si tratti di animali
domestici, questi sono spesso
rinchiusi in gabbie e tenuti
nelle abitazioni dei criminali
campani. Francesco Schiavone,
per esempio, pare tenesse una
tigre in casa. Emblematica in
questo senso una scena del
film “Luna Rossa” di Antonio
Capuano, in cui il boss Antonino Cammarano – personaggio fittizio costruito sulla
base dello stereotipo del boss
campano degli anni Settanta –
viene raffigurato nel suo salotto
in compagnia di una pantera
nera. Anche animali feroci più
comuni, come i cani da guardia,
e in particolare i rottweiler,
sono abbastanza comuni in
questi ambienti criminali. Se
però gli animali esotici, soprattutto se detenuti illegalmente,
sono da un lato una forma di
consumo vistoso, dall’altro la
loro ferocia è espressione del
potere criminale e del coraggio
del suo possessore. Non solo
la ferocia ma anche la rarità di
questi animali è caratteristica
ricercata. Non stupisce dunque
che un commerciante di Napoli, intervistato dalla giornalista
Sabrina Nobile per la trasmissione televisiva Le Iene, abbia
raccontato che per il proprio
cardellino, un esemplare molto raro, gli siano stati offerti
50mila euro e che a seguito
del suo diniego abbia subito,
pochi giorni dopo, una rapina
a mano armata che mirava al
furto dell’uccellino. Lo stesso
commerciante sostiene che sia
altamente probabile che il cardellino fosse nelle mire di un
qualche camorrista e che fosse
molto desiderabile proprio per
la sua rarità e il suo alto valore.
Altro oggetto di ostentazione
di alcuni criminali è l’arte: il
camorrista Tommaso Prestieri, secondo indiscrezioni, si
circondava di tele di Giorgio
De Chirico e Mario Schifano.
11 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Pasquale Galasso, boss legato
alla nuova famiglia di Carmine
Alfieri, aveva nella sua villa
un museo privato di circa trecento pezzi d’antiquariato. Tra
questi primeggiava il trono di
Francesco I di Borbone. Luigi
Vollaro, detto ‘o califfo, boss
dell’omonimo clan, possedeva
invece una tela di Botticelli.
Il sociologo Isaia Sales, in una
puntata del programma televisivo Blu Notte, spiega che
è caratteristica propria della
camorra quella di mostrarsi,
esibirsi e non rinnegarsi: «Un
mafioso non si dichiara, un
camorrista invece sì» (2). L’origine di questo comportamento
è dettata dal sovraffollamento
di Napoli, città in cui è nata la
camorra. Qualora un camorrista avesse subito un’ingiuria,
avrebbe dovuto vendicarla
uccidendo chi lo aveva ferito
nell’onore. Data l’alta densità
di popolazione della città, non
era pensabile che tutti i suoi
cittadini riconoscessero i volti
dei camorristi senza che questi
portassero un segno distintivo.
Non a caso nei quadri e nelle
cartoline che rappresentano la
Napoli della prima metà del
Novecento, i camorristi sono
rappresentati come elemento
caratteristico del paesaggio. Li
si riconosce dal vestire appariscente, con pantaloni larghi
e giacchetta corta, fascia rossa
in vita, anelli, catene e altri
accessori, il cappello portato
storto, il bastone che ruota, i
tatuaggi (spesso d’ispirazione
sacra). Oltre che fare uso di un
gergo che pochi capiscono, i
camorristi hanno un modo
particolare di camminare, con
le mani dietro la schiena o
con il pollice allacciato alla
falda della giacca. Tuttavia il
motivo di queste ostentazioni
potrebbe essere dettato da altre
circostanze. Se si visitano le
aree ad alta densità camorristica, paesi come San Cipriano
D’Aversa o Casal di Principe
(CE), si nota che i cartelli stradali sono stati vandalizzati da
diversi colpi di proiettile. Il
motivo di ciò è da riscontrarsi
nella necessità di mettere in
mostra un potere che non si
riesce a manifestare diversamente. Il prestigio criminale
della camorra è in questo senso minore di quello di Cosa
nostra, che non ha bisogno di
questi mezzi per mostrare la
sua presenza e il suo controllo
sul territorio. Analogamente, il mafioso tradizionale è
austero e non ha bisogno di
ostentare il suo ruolo attraverso consumi vistosi, né ha
l’inclinazione a farlo. Possiamo quindi ipotizzare che un
ulteriore motivo per cui si
riscontrano comportamenti
ostentatori tra i camorristi è
la “debolezza” del loro prestigio criminale. Analogamente
a queste manifestazioni di
potere, il consumo vistoso
dei camorristi sembrerebbe
essere una dichiarazione di
appartenenza alla camorra
e a un rango sociale elevato.
Tra le attività criminali dei
camorristi c’era (e c’è tuttora) anche l’usura, che veniva
esercitata anche tra affiliati.
L’usuraio-camorrista era solito
trattenere un oggetto in pegno
a seguito del prestito erogato
e nel caso si fosse trattato di
un gioiello lo avrebbe portato addosso. Possiamo quindi
ipotizzare che questi oggetti
fossero funzionali anche a
dichiarare la propria attività
di usurai.
‘Ndranghetista: alberghi,
ristoranti, auto blindate. I
consumi vistosi sembrano essere meno rilevanti all’interno
dell’organizzazione criminale
calabrese. Un esempio è dato da
Giovanni Strangio, condannato
all’ergastolo nel 2011 perché
considerato il principale organizzatore ed esecutore della
strage di Duisburg del 2007.
Questi era solito spostarsi a
bordo di una Fiat Panda Bianca.
Sembra così tradito l’immaginario collettivo, legato a vicende
di cronaca e a immagini cinematografiche, che vuole i boss
edonisti e amanti del lusso. La
discrezione è tipica dei vecchi
capiclan, che negli anni Sessanta abitavano case fatiscenti,
spesso senza intonaco, esibendo nelle piazze una finta povertà. Negli anni Settanta però, in
coincidenza con la prima guerra
L’ostentazione del
benessere e l’effetto droga
12 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Nelle tre organizzazioni criminali di
cui si è trattato è presente, seppure
in misura diversa, una certa propensione ai consumi vistosi. Tuttavia
questi assumono significati diversi
a seconda di chi li ponga in essere.
Possiamo affermare che, in linea
generale, questi sono subordinati
a una precisa volontà di dichiarare
un’appartenenza. Ma sarebbe scorretto affermare che con i consumi
vistosi si dichiari necessariamente
l’appartenenza alla classe agiata
vebleniana. Basti pensare che la
ricchezza si concentra ai vertici
delle organizzazioni criminali,
lasciando ai livelli medio-bassi
percentuali irrisorie. Tuttavia un
muschillo, nonostante sia il più
basso dei gradi di appartenenza alla
camorra, riesce a guadagnare più di
un direttore di filiale di banca. Un
tempo questi ragazzi provenivano
solo da famiglie povere. Oggi invece
la scelta di intraprendere una carriera criminale viene presa anche da
ragazzi provenienti da famiglie in
ottime condizioni economiche. Così
facendo, scrive Nanni Balestrini in
“Storie di Camorra”, si sentono forti
o più potenti pur rischiando serie
incriminazioni.
In generale si riscontra che i consumi vistosi della manovalanza
mafiosa sono più evidenti, spesso
ostentatati ed eccessivi. Questo è
particolarmente evidente tra siciliani e campani ma, per quanto
riguarda i calabresi, si riscontra
solo tra picciotti insediati al Nord
d’Italia. Tuttavia determinati status
symbol sono finalizzati a dichiarare
l’appartenenza all’organizzazione e non a una classe sociale. La
carriera criminale di molti viene
bruscamente interrotta dalle azioni giudiziarie o dal fuoco cui si
espongono entrando a far parte
dell’organizzazione. Eppure l’estrema povertà di determinate aree, il
mito del successo e l’esaltazione
derivante dalla scarsa istruzione, o
più banalmente dal carattere, spinge
centinaia di ragazzi a guardare con
ammirazione al mondo criminale,
nella speranza di potere un giorno
raggiungere una posizione sociale
proprio grazie all’organizzazione. La
storia della mafia è colma di esempi di nullatenenti diventati ricchi
e potenti grazie alle loro attività
criminali mafiose. Un esempio ci
è dato dal boss calabrese Vincenzo
Mammoliti. In pochi anni egli è
riuscito a cambiare status, passando
dall’essere un guardiano abusivo di
agrumeti, che percepiva un compenso irrisorio, al potersi permettere di
viaggiare con automobili di lusso. A
ogni livello l’appartenenza a queste
organizzazioni criminali assicura un
reddito consistente. Perfino quando
scontano pene detentive, i picciotti
e i muschilli godono di benefici
economici, come l’assistenza legale
e la “mesata”, sostegno economico
fatto percepire alla famiglia del detenuto. Questa apparente generosità
da parte delle organizzazioni è in
realtà finalizzata ad alimentare la
fedeltà degli affiliati sotto pressione,
i quali si sentono strettamente vincolati all’organizzazione e avranno
dunque una minore propensione a
collaborare con la giustizia.
Tuttavia nell’affermare che la mafia
è interclassista è necessario specificare che, anche se prendiamo in
considerazione i boss, si riscontrano figure molto diverse tra loro.
Alcuni boss infatti tendono – ove
e quando possibile – a mascherare
loro ferocia, apparendo come eleganti uomini d’affari, altri invece
sono semianalfabeti e propendono a un consumo meno calcolato.
Scrive, per esempio, il pm Pasquale
Maresca: «Oggi invece Pasquale
Zagaria può presentarsi al mondo
dell’economia e della finanza con
le credenziali di un abile e facoltoso
imprenditore» . In quest’ottica non
sorprende che Pino Arlacchi abbia
scritto che il modo di vestire e di
presentarsi del mafioso imprenditore non fa pensare alla mafia. Il
mafioso imprenditore si caratterizza per un preciso stile di vita,
dominato dai simboli dell’agiatezza
e del potere vistosi: alberghi di
lusso, ristoranti di lusso, automobili di lusso. Guardie del corpo e
automobili blindate cominciano a
diffondersi, a partire dal 1973-1974,
anche tra i più importanti imprenditori mafiosi. Prosegue Arlacchi:
«I più potenti tra i giovani boss
frequentano il bel mondo romano
e milanese. Quando sono a Roma,
li si incontra nei locali alla moda,
dove si incontrano con i grandi truffatori e speculatori internazionali,
con la malavita italo-francese, con
esponenti della razza padrona» . Per
questo Pasquale Zagaria, quando
incontrava gli imprenditori che
taglieggiava, o con cui faceva affari,
sapeva come vestire, apparendo a
prima vista come uno di loro. Infatti,
scrive ancora Maresca, «nessuno
sicuramente lo prenderebbe per il
fratello del capo dei Casalesi». I boss
possono aspirare a fare parte della
classe agiata, anche se difficilmente
potranno raggiungerne i vertici.
Oltre ai manifesti deficit culturali,
gli affiliati non godono del prestigio,
spesso legato a cariche istituzionali,
degli esponenti più in vista della
classe agiata. Inoltre quando i boss
sono costretti a darsi alla latitanza hanno non pochi problemi a
frequentare gli eventi, i luoghi e i
circoli mondani tanto cari alla classe
agiata. Per questo motivo un pericoloso boss come Matteo Messina
Denaro, che non a caso orienta i
suoi consumi verso oggetti di lusso
e può vantare un’istruzione e una
padronanza dell’italiano superiore
ai suoi omologhi, poteva aspirare a
fare parte della classe agiata, ma la
latitanza lo ha reso riconoscibile e
non più frequentabile (rari i casi di
boss, come Raffaele Cutolo, che non
hanno rinunciato all’aspirazione di
appartenere a una classe elevata
pure dopo essere stati arrestati).
Eppure abbiamo potuto constatare,
in relazione alle famiglie che esercitano la funzione socialmente più
rilevante in un dato periodo storico,
13 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
che le famiglie mafiose possono
trovarsi perfettamente integrate con
i vertici ufficiali o in una posizione
parallela, in relazione al riconoscimento – o all’ostilità – ricevuto
dall’ordinamento socioculturale.
Avviene però che ricchi e potenti
boss preferiscano condurre una vita
di basso profilo. Interessante, in questo senso, il caso del boss Domenico
«Mimmo» Gangemi, originario di
Reggio Calabria, professione «fruttivendolo» e titolare della bottega
«da Mimmo» di piazza Giusti a
Genova. Dietro questa attività il
boss poteva nascondere la sua vera
identità di pericoloso criminale. Al
momento dell’arresto, avvenuto nel
2010, era considerato il punto di
riferimento per le ’ndrine reggine a
Genova. Nonostante la sua attività
apparentemente legale fosse solo
una copertura, Gangemi si era dovuto calare nella parte e non poteva
dunque andare a “lavoro” con il
doppiopetto o spostarsi in Ferrari.
Potere e ricchezza non sono dunque
sufficienti a fare accedere un boss
alla classa agiata. L’austerità era
inoltre tipica dei boss siciliani (e
calabresi) prima del salto di qualità
che la mafia ha potuto compiere trafficando in stupefacenti. Per questo
non stupisce che Giuseppe Genco
Russo, potentissimo boss di Mussomeli (CL), fosse semianalfabeta,
non avesse i sanitari in casa e fosse
solito tenere il proprio mulo tra le
mura domestiche (come in quegli
anni succedeva in molte abitazioni
contadine). Bizzarro pensare che
Genco Russo fosse considerato un
ricco proprietario terriero e un potente politico della Dc e che spesso
si fosse fatto fotografare in presenza di vescovi, banchieri e uomini
politici. Anche Salvatore Riina e
Bernardo Provenzano erano ben
lungi dall’avvicinarsi alla classe
agiata. Basti pensare che il pentito
Carmine Schiavone, intervistato
da Francesca Nardi per il giornale
telematico «Lunaset», esprime non
poco disprezzo per i due boss più
potenti della storia di Cosa nostra:
«Due pecorai come a quelli […]
erano due poveri disgraziati […] a
Casale gente più intelligente di loro
guarda le pecore». Li attacca anche
sul piano del prestigio criminale e
su quello intellettivo, spiegando che
i Casalesi non avevano bisogno di
uccidere uomini delle istituzioni
perché erano capaci di farli trasferire
quando davano troppo fastidio.
Empiricamente si osserva che i
consumi vistosi sono più evidenti
quando posti in essere da individui
che godono di un minore prestigio
criminale. Questo si può riscontrare
sia all’interno delle singole organizzazioni, sia se le confrontiamo tra
di loro. Non mancano eccezioni a
quanto appena affermato, come il
caso di Matteo Messina Denaro.
La camorra non ha mai goduto del
prestigio criminale associato a Cosa
nostra e di fatto ha sempre avuto
bisogno di ostentare la propria potenza e il proprio ruolo sul territorio. Il fatto che i Casalesi, gruppo
camorristico egemone in Campania,
abbiano una certa propensione a non
mostrarsi in pubblico confermerebbe la nostra ipotesi. Costoro infatti
sembrano avere acquisito sufficiente
potere e prestigio criminale da non
sentire più la necessità di ostentarlo, apparendo quindi diversi dalla
chiassosa camorra dell’hinterland
napoletano.
Nonostante nelle sue caratteristiche
chiave il modello mafioso di centocinquanta anni fa non differisca
da quello odierno, dobbiamo ammettere che l’antropologia culturale
del mafioso, dello ’ndranghetista
e del camorrista ha subito delle
modifiche. Se prendiamo in considerazione la criminalità organizzata
campana dal punto di vista dei consumi vistosi, ci rendiamo conto che
all’interno di questa si riscontrano
dei comportamenti tutto sommato
uniformi e che, rispetto alle altre organizzazioni criminali sotto esame,
le eccezioni sono numericamente
e qualitativamente meno rilevan-
ti. Appare però opportuno tenere
presente che i guappi di quartiere
e i camorristi odierni, pur avendo
degli interessanti punti di contatto,
si mostrano differenti nei costumi.
Notiamo che questi criminali hanno,
e hanno sempre avuto, la tendenza
a ostentare un vestiario sgargiante,
gioielli e tatuaggi.
Gli odierni camorristi, però, non si
limitano a questo e orientano i propri consumi anche verso abitazioni
lussuose, automobili di grossa cilindrata e animali esotici. Le cause di
questa evoluzione sono molteplici.
La più evidente riguarda il contesto
sociale: l’evoluzione della società
modifica i consumi e i comportamenti dei suoi componenti, dunque
anche dei camorristi. Il rapporto che
i camorristi hanno con la droga e con
la prostituzione, per esempio, cambia da una generazione criminale
all’altra anche perché cambia nella
società. Carmine Schiavone racconta, infatti, che con i suoi enormi
profitti poteva permettersi automobili di lusso, cameriere, uno yacht e
molti divertimenti – a tale proposito
la giornalista Francesca Nardi parla
di «una vita sentimentale allegra».
Schiavone ha inoltre dichiarato,
in riferimento alla prostituzione,
che è facile diventare schiavi di
certe abitudini. I consumi vistosi
non sono diffusi solo tra i grandi
boss ma anche tra i più giovani. È
abbastanza facile immaginare quali
siano i meccanismi mentali che influenzano i più giovani delinquenti:
in una società dove il consumo è
diventato quasi compulsivo si è
portati a determinati modelli e tale
propensione viene accentuata dal
rischio. Non varrebbe la pena di correre il rischio per un profitto di cui
non si possa disporre liberamente.
La gestione di una consistente fetta
del mercato della droga da parte
dell’organizzazione e la transizione
al modello mafioso – come dimostra
la storia della NCO e l’affermazione
del gerarchizzato clan dei casalesi –
sono fattori estremamente rilevanti.
14 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
1 Maresca C., Neri F., L’ultimo bunker, La vera storia della cattura di
Michele Zagaria, il più potente e
feroce boss dei Casalesi, p.39
2 Arlacchi P., La mafia imprenditrice, Dalla Calabria al centro
dell’inferno, Il Saggiatore, Milano,
2007, p.126
3 Maresca C., Neri F., L’ultimo bunker, La vera storia della cattura di
Michele Zagaria, il più potente e
feroce boss dei Casalesi, p.39
4 Nardi F., Nuova intervista al pentito Carmine Schiavone in esclusiva
per il gruppo Lunaset, in onda il
16/09/13, http://www.youtube.com/
watch?v=vV-7qWg-jOU
Il fiume di denaro che passa per
le mani dei camorristi grazie ai
traffici di stupefacenti permette al
camorrista di compiere un salto di
qualità dal punto di vista economico
e dunque anche dei consumi, facendolo emergere dal suo ambiente
sociale, storicamente legato ai ceti
subalterni.
Per quanto riguarda la ’ndrangheta
dobbiamo tenere presente che sul
fenomeno esiste una letteratura
meno cospicua rispetto a mafia e
camorra. Di fatto però riscontriamo
una frattura tra il rigore culturale
dei boss dell’onorata società (come
veniva chiamata l’organizzazione
calabrese prima del salto di qualità
compiuto con il traffico di stupefacenti) e quelli odierni. Basti pensare
all’avversione che i primi avevano
nei confronti dei sequestri di persona e del commercio di stupefacenti:
discordie che porteranno, di fatto,
alla prima guerra di ’ndrangheta.
Nonostante alcuni filoni di pensiero
siano orientati verso una visione
romantica dell’onorata società –
attenta ai problemi sociali e non
solo al profitto – non esiste una vera
frattura tra questa e la ’ndrangheta
odierna. Eppure sappiamo che prima degli anni Ottanta, gli ’ndranghetisti erano attenti a esibire povertà in
pubblico. Oggi il lusso è esibito nello
spazio privato, ma è evidente una
minore rigidità nei comportamenti.
Interessante pensare che la maggior
parte delle eccezioni si riscontra tra
gli ’ndranghetisti insediati al nord
Italia, in un contesto più ricco e più
incline al lusso.
La frattura più evidente è quella
che si riscontra nella storia di Cosa
nostra. Se prendiamo in considerazione la mafia contadina delle
origini, l’austerità è caratteristica
preponderante degli affiliati. Inoltre la socializzazione al ruolo del
mafioso è attentamente studiata,
suddivisa in tappe e inizia in giovanissima età. Ancora oggi questa
ha una sua fondamentale importanza, ma le logiche disordinate
conseguenti all’effetto droga e alla
seconda guerra di mafia hanno fatto
sì che saltassero le complesse fasi di
apprendimento di molti rampolli.
Dunque se da un lato la droga ha
fatto sì che la mafia siciliana si arricchisse come mai prima di allora,
dall’altro ha modificato l’antropologia culturale degli uomini d’onore.
Anche se già negli anni Cinquanta
Cosa nostra aveva orientato i propri affari verso la spesa pubblica
e l’edilizia, allontanandosi perciò
dallo stereotipo della mafia rurale,
è con l’ingresso nel mercato della
droga, a partire dalla metà degli
anni Settanta, che compie il vero
salto di qualità.
Se dunque prendiamo in considerazione Cosa nostra, una volta
compiuto questo repentino salto
di qualità, ci accorgiamo che le
abitudini degli uomini d’onore sono
profondamente cambiate. Non solo
abbandonano la tradizionale austerità, ma si premurano anche di
mostrare il proprio benessere in
pubblico. Infatti i mafiosi siciliani
orientano i propri consumi vistosi verso ristoranti e discoteche di
lusso e abiti di alta moda. Se da
un lato la mafia odierna è rimasta
profondamente maschilista, come
da tradizione, dall’altro è molto più
comune oggigiorno che gli uomini
d’onore sposati siano soliti intrattenere relazioni extraconiugali senza
curarsi di nasconderle in pubblico.
Infatti la compagnia di belle donne
è motivo di vanto e, anche quando
non si tratta di escort ma di amanti,
rappresentano per questi criminali
una forma non convenzionale di
consumo vistoso.
Non è un caso che tra i consumi
vistosi dei figli dei boss spicchino
le discoteche. Questi luoghi di aggregazione, giovanile e non, sono
infatti utilizzati strumentalmente
dai boss per educare i propri figli
al ruolo, insegnando dunque ai
rampolli a costruirsi la propria rete
di relazioni personali e rapportarsi
con la gente.
di ‘ndrangheta, e quindi con
una serie di avvicendamenti al
vertice dei vari “locali”, i boss
cambiano costumi e abitudini.
Molti capobastone escono allo
scoperto e diventano imprenditori. Lo stile di vita cambia,
inizia a essere dominato dai
simboli del potere e di una
ricchezza sempre più esibita,
fatta di alberghi, ristoranti e
automobili di lusso blindate. I
giovani rampolli si concedono
pure uscite notturne nei locali
della movida milanese, quali la
discoteca Tocqueville, il Santa
Tecla Cafè, il Caffè Dalì, e nei
luoghi simbolo della “dolce
vita” romana.
Pertanto possiamo affermare
che anche all’interno della
’ndrangheta il consumo vistoso
ha un ruolo importante. Infatti,
se da un lato nella quotidianità
pare essere attenuato, dall’altro non si bada a spese per i
banchetti, che costituiscono
occasione per consolidare l’amicizia e l’ideologia, rafforzando le alleanze. Tali occasioni
spesso coincidono con cresime,
battesimi e matrimoni. Il lusso
barocco in queste occasioni ha
una profonda importanza ai fini
dell’organizzazione: come per
la camorra e per Cosa nostra, i
matrimoni sono spesso combinati al fine di stringere alleanze
tra le famiglie e quindi sono
momenti cruciali per la vita
della ‘ndrangheta. Il lussuoso
King Rose Hotel di Reggio Calabria, recentemente confiscato
a Vincenzo Barbieri – referente
della cosca Mancuso di Limbadi (VV), ucciso nel 2011 a San
Calogero di Calabria (VV) – è
stato scenario di svariati ricevimenti nuziali di questa natura.
Neppure in carcere gli ‘ndranghetisti si privano di pasti or-
15 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
dinati nei migliori ristoranti,
rifiutando il vitto carcerario,
“il pane del governo”. Paolo De
Stefano, durante i suoi periodi
detentivi presso il penitenziario
di Reggio Calabria, riusciva
addirittura a far introdurre nel
carcere casse di champagne.
Inoltre ci sono boss che in carcere ricevono in vestaglia di seta
picciotti e amici e le infermerie
spesso divengono luoghi d’incontro tra falsi malati.
Anche Pasquale Condello, detto
U Supremu, amava il lusso e
la bella vita: quando nel 2008
venne arrestato, dopo dieci anni
di latitanza, stava cenando con
ostriche e champagne.
È interessante notare che la
classe agiata vebleniana utilizza la proprietà di beni di
lusso come segno di distinzione rispetto alla società.
Nella ’ndrangheta, oltre alla
proprietà, per farsi riconoscere
è comune ostentare un proprio
modo di camminare, tatuaggi
su petto e braccia e segnalare il
proprio ruolo con un fazzoletto
colorato, rigirato con molta cura
intorno al collo.
Una maggiore ostentazione di
beni si ravvisa tra gli ’ndranghetisti che hanno messo radici
nel Nord Italia. Paolo Martino,
boss calabrese vicino a Pepè
Flachi, boss di Bruzzano e della
Comasina, e al figlio Davide, si
muoveva in Jaguar, indossava
abiti di sartoria e frequentava politici e imprenditori. Ma
anche in Calabria macchine di
grossa cilindrata sfrecciano per
le strade, come per esempio la
Mercedes di Nicola Gattuso,
boss di Reggio Calabria.
Un altro esempio di consumo
vistoso può essere offerto dalle
case, a volte ville-bunker, degli
’ndranghetisti. L’abitazione di
Giuseppe Ferraro, ’ndranghetista legato alla cosca rosarnese
dei Pesce, confiscata nel 2006,
e adibita dal Comune di Milano
a casa di permanenza temporanea per anziani in difficoltà, è
emblematica. Superata la porta
blindata bianca, lo scenario è
suggestivo: l’appartamento è
interamente rivestito di marmo
bianco, nero, verde e azzurro
che dà un effetto lussuoso e
barocco. Svariati dettagli fanno
intuire che nulla è lasciato al
caso: il caminetto, i rubinetti vistosamente decorati, una
grande veranda coperta e l’incisione sul marmo del pavimento
in omaggio a Giuseppe Ferraro
detto Mussuni, ’ndranghetista
ex proprietario della casa, e a
Vincenzo Pesce detto U Babbu, suo capomafia di Rosarno
(Rc). Anche nelle abitazioni
degli ’ndranghetisti insediati tra
Corsico e Buccinasco, comuni
dell’hinterland milanese, si ravvisano manifestazioni di lusso.
Le loro case dall’esterno appaiono fatiscenti, ma all’interno
sono arredate in modo ricercato
e lussuoso. Nello specifico sono
parecchio comuni rubinetti in
oro, vasche in marmo, televisori giganteschi, statue e opere d’arte. Le dichiarazioni di
alcuni agenti di polizia, che a
seguito di indagini hanno fatto
irruzione in queste case, sono
orientate a sottolineare che per
questi ’ndranghetisti non serve
esibire lo sfarzo al di fuori delle
mura domestiche, ma che esso
assume un suo peso nell’intimità del nucleo famigliare. Ma
non tutti i boss ’ndranghetisti
residenti al Nord Italia hanno
arredato le proprie abitazioni
in modo lussuoso e ricercato.
Infatti in una puntata di Presa
Diretta, trasmissione televisiva
condotta da Riccardo Iacona,
andata in onda nel gennaio del
2012, sono state mostrate alcune abitazioni che confermano
quanto appena affermato. Per
esempio, ad Alessandria, la
villa di Bruno Pronestì, capo
locale della ’ndrangheta del
basso Piemonte, originario di
Cinque Fondi (Rc), pur essendo molto grande e pur avendo
il pavimento in parquet, era
arredata con mobili comuni,
non ricercati. Lo stesso si può
dire dell’abitazione di Benito
Pepè a Bordighera (IM) e di Fortunato Barillaro a Ventimiglia.
Al momento dell’arresto del
Barillaro nella sua abitazione
erano presenti fiori di plastica.
Dunque si ravvisa una certa
propensione all’austerità da
parte degli ’ndranghetisti. Non
a caso Roberto Saviano, nel
suo ultimo libro ZeroZeroZero,
scrive che da alcune intercettazioni emerge che gli ’ndranghetisti non solo ci tengono a
distinguersi dai camorristi, ma
che addirittura li disprezzano.
Preferiscono tenere un basso
profilo e reputano i colleghi
campani “gente che si scanna troppo spesso per troppo
poco, troppo chiassosa, troppo
disordinata” (3). In particolare
non sono visti di buon occhio
i boss per la loro abitudine a
ostentare macchine e donne,
sempre azzimati e griffati dalle
scarpe alle magliette intime.
Il mafioso: dal cliché hollywoodiani ai pizzini. Giovanni
Falcone, intervistato da Enzo
Biagi, affermava che il mafioso è
colui il quale presta giuramento
e diventa quindi affiliato di
Cosa nostra. Cosa nostra è la più
nota della organizzazioni criminali italiane. La sua struttura
Nella ’ndrangheta,
oltre alla proprietà,
per farsi riconoscere
è comune ostentare
un proprio modo
di camminare,
tatuaggi su petto e
braccia e segnalare
il proprio ruolo con
un fazzoletto
colorato, rigirato
con molta cura
intorno al collo
16 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Un esempio di
consumo vistoso
sono i viaggi
intrapresi dai boss
di Cosa nostra:
la scelta dei loro
alloggi ricade
spesso su lussuosi
alberghi. Proprio
in un lussuoso
albergo nel 2009
è stato arrestato
Salvatore Miceli,
che dal 2000 era
stato investito
da Bernardo
Provenzano
dell’incarico di
gestire il traffico
internazionale
di stupefacenti
di Cosa nostra
piramidale fa eco alla divisione
del lavoro interna alla classe
agiata vebleniana: più si scala
la piramide e più aumentano
agiatezza e consumi vistosi. La
divisione dei compiti, in linea
di principio, si relaziona alla
posizione occupata dall’uomo d’onore. Per esempio, se
la riscossione del pizzo è affidata alle leve più giovani, le
decisioni più importanti sono
prese dalla cupola regionale,
quando convocata. Ai vertici
si concentrano maggiore potere
e ricchezza.
Nonostante il mondo criminale
non si basi su regole fisse, si riscontrano alcuni atteggiamenti
comuni tra i potenti boss di
Cosa nostra. Sebbene il boss
tradizionale sia austero nei
modi e nel presentarsi all’ambiente esterno, sovente questi
viene accompagnato da guardaspalle. Alcune abitudini che
sembrano essere rappresentate
in modo grottesco e ironico
dalle pellicole hollywoodiane
hanno un effettivo riscontro
nella realtà. Per esempio anche
nelle giornate invernali più
fredde il cappotto non viene
indossato, ma appoggiato sulle
spalle: così facendo il boss ha
maggiore mobilità e contestualmente mette in mostra la sua
prestanza fisica, ostentando di
non soffrire il freddo. Infatti
in Cosa nostra si dà una forte
rilevanza alla socializzazione
e all’educazione dei giovani
rampolli al ruolo che dovranno
svolgere. In una battuta del film
“Donnie Brasco”, Benjamin
Lefty Ruggiero, interpretato
da Al Pacino, rivolgendosi a
Donnie gli spiega che se vuole
entrare a far parte di Cosa nostra
americana è necessario che si
comporti in un determinato
modo: «I soldi non si tengono
nel portafoglio. Si tengono a
rotolo con i pezzi da 100 all’esterno». Tuttavia la profonda
frattura relativa ai consumi
vistosi che si riscontra tra il
mafioso tradizionale e quello
contemporaneo non permette
di disegnare un identikit unico
e completo di tutti i mafiosi.
Infatti, se passiamo in rassegna
i capi storici di Cosa nostra,
non solo troviamo conferma
di questo divario, ma ci rendiamo anche conto che alcuni
boss sembrano occupare delle
posizioni intermedie. Essi, pur
essendosi notevolmente arricchiti, non sempre si discostano
dai tratti austeri tipici della
tradizione. I consumi vistosi
di questi boss sono parecchio
limitati e raramente se ne ha
notizia. Nel raccontare dell’ascesa dei corleonesi, Giuseppe
Fava, giornalista ucciso dalla
mafia, passa in rassegna la storia dei più importanti boss di
Cosa nostra. Michele Navarra,
chirurgo, medico primario e
direttore dell’ospedale di Corleone, oltre a possedere una
grande cultura letteraria, era
ricchissimo. La sua potenza
era tale da non dover uccidere
nessuno per esercitare il suo
potere. Anche i suoi uomini
più fedeli si erano arricchiti
tantissimo (Veblen in questo
caso parlerebbe di ricchezza
derivata). Navarra rappresenta
dunque un esempio di boss
della mafia tradizionale (nacque nel 1905 e morì nel 1958).
Bisogna tenere presente che
un medico, soprattutto se si
parla di uno stimato primario, rappresenta un potenziale
esponente della classe agiata.
Navarra inoltre non aveva umili
origini. Tuttavia egli non era
solito distinguersi per consumi vistosi e ostentati. Non era
sua abitudine mostrarsi ben
vestito in pubblico, ma tra le
sue passioni figuravano le carte
e la caccia.
Il suo posto fu preso dal suo assassino, Luciano Liggio. Questi
era ricchissimo, aveva costruito
la sua fortuna dal nulla (era
un bracciante rimasto orfano)
e vantava un “feudo” a Piano
della Scala. Contestualmente aveva acquistato palazzi e
aveva centinaia di milioni di
lire depositati in varie banche.
Liggio, in un’intervista televisiva concessa a Enzo Biagi
nel 1989, pur essendo recluso
portava al dito un grosso anello
e, durante l’intervista, poteva
permettersi di fumare un sigaro di grosso calibro. Anche
in un documentario della Rai
sul maxiprocesso Liggio viene
immortalato mentre fuma un
grosso sigaro in aula, nonostante poco prima un imputato si
fosse lamentato con il giudice
del fatto che in aula non era
possibile fumare nemmeno una
sigaretta. Sebbene Liggio abbia
potuto accumulare una ricchezza spaventosa, fu anch’egli un
boss tradizionalista. Fatta dunque qualche eccezione, come
l’anello d’oro e il sigaro, non
notiamo una particolare propensione ai consumi vistosi.
Dopo l’arresto di Liggio ai vertici dell’organizzazione troviamo
Salvatore Totò Riina e Bernardo
Zu Binnu Provenzano. Riina
tra i suoi beni poteva vantare
una collezione di gioielli che
per un certo periodo pare sia
stata custodita da Francesco
Geraci, gioielliere e amico d’infanzia del boss Matteo Messina Denaro. Questa collezione
comprendeva orologi, circa
17 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
quattrocento monete, brillanti,
lingotti d’oro e un crocefisso
tempestato di diamanti per un
valore complessivo di due miliardi di lire. La villa a due piani
in cui Riina era solito vivere
da latitante è probabilmente
la manifestazione di lusso più
esplicita del boss. L’edificio di
via Bernini, situato al centro del
quartiere Uditore (Palermo),
permise a Riina di trascorre
una latitanza agiata. Oltre alla
grande ed elegante piscina, poteva vantare parecchie stanze,
tutte pavimentate con parquet.
Nonostante la villa sia stata
vandalizzata dagli stessi uomini
di Cosa nostra, questi hanno
risparmiato un lampadario di
cristallo. I cocci di ceramica
dei sanitari divelti fanno intuire che si trattasse di oggetti
di materiale pregiato. Tuttavia
Riina, al momento dell’arresto,
e successivamente durante le
udienze nelle aule di tribunale,
non indossava abiti ricercati e
curati. Non a caso una scena
della fiction televisiva Il capo
dei capi mostra Riina mentre
esprime il suo disprezzo nei
confronti di alcuni boss, tra cui
Tommaso Buscetta, che sono
soliti indossare collanine, braccialetti o anelli d’oro. Sempre
nella stessa fiction, viceversa,
viene mostrato come i corleonesi, prima di raggiungere
una posizione di predominio
dentro Cosa nostra, venissero
sbeffeggiati per le loro origini
contadine. Vengono chiamati
“chiddi chi peri ncritati” (quelli
con i piedi sporchi di terra) e
“viddani” (villani) (5).
A un prestanome di Provenzano
sono stati sequestrati beni per
il valore di circa 150 milioni di
euro: il patrimonio sequestrato
comprende aziende operanti
nell’edilizia e nell’estrazione
di materiale da cava, complessi
industriali, capannoni, terreni, beni mobili, conti correnti,
depositi e titoli per un valore
complessivo di un milione
e mezzo di euro, e un complesso turistico-residenziale
a San Vito Lo Capo, costituito
da numerosi appartamenti e
alcune villette. Tuttavia quando
venne arrestato nell’aprile del
2006 il rifugio del boss risultò
essere tutt’altro che lussuoso.
Lo scovarono in un casolare di
campagna dove conduceva una
vita piuttosto spartana. La sua
sistemazione consisteva in un
letto, un armadio, un cucinino, un bagno con la doccia e
un frigo: essenziale, senza accorgimenti tecnici particolari.
Alcune pareti dell’edificio non
erano nemmeno intonacate.
Un vero e proprio esempio di
consumo vistoso sono i viaggi intrapresi dai boss di Cosa
nostra: la scelta dei loro alloggi ricade spesso su lussuosi
alberghi. Ed è proprio in un
lussuoso albergo che nel 2009 è
stato arrestato Salvatore Miceli,
che dal 2000 era stato investito da Bernardo Provenzano
dell’incarico di gestire il traffico
internazionale di stupefacenti
di Cosa nostra. Nel febbraio
del 1992 Cosa nostra decise
di uccidere Maurizio Costanzo e gli incaricati di portare a
termine questo delitto erano
Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mario Geraci,
Renzino Tinnirello, Giuseppe
Graviano e Cristoforo Cannella.
Arrivati a Roma, i sei uomini
d’onore potevano già vantare
un guardaroba da 12 milioni
di lire tra camicie, pantaloni e abbigliamento sportivo,
acquistati nelle boutique più
esclusive del centro storico di
Palermo. Lo shopping proseguì
a Roma e i commessi di via
Condotti probabilmente ancora
si ricordano di quei clienti che
compravano camicie in blocco,
spendendo fino a tre milioni
di lire in un colpo solo e che
lasciavano anche laute mance.
Per l’occasione poterono anche
permettersi di frequentare i
locali più alla moda, gli stessi
dove si possono incontrare i
vip romani.
Quando il 2 giugno 1993 Giuseppe Pulvirenti, braccio destro
del capomafia Nitto Santapaola,
fu arrestato, aveva al dito un
anello con dodici diamanti e
con al centro un rubino. Alcuni
pentiti lo hanno indicato come
l’anello dei dodici capi, riservato ai capi mandamento di Cosa
nostra. Se questa indicazione
venisse confermata ci troveremmo davanti al perfetto esempio
di consumo vistoso subordinato
al riconoscimento di un ruolo
all’interno dell’organizzazione.
Empiricamente tra i mafiosi
siciliani si può notare un certo
apprezzamento per gli orologi
costosi e gli abiti di marca:
oltre al caso di Matteo Messina
Denaro, di cui parleremo più
avanti, c’è quello del boss Domenico Raccuglia, arrestato nel
novembre del 2009. Raccuglia
poco prima del suo arresto si
era concesso una vacanza nella
cittadina di Calatafimi (TP) in
un casolare immerso nel verde e
dotato di una dozzina di stanze.
La scelta era ricaduta su questo
stabile perché la posizione gli
permetteva di coltivare una
vecchia passione, ovvero la
caccia nei boschi della zona.
Il boss Francesco Di Fresco,
invece, in quindici anni di latitanza non aveva mai smesso
18 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Matteo Messina
Denaro si distingue
da Totà Riina e
Bernardo
Provenzano. In lui
ogni dettaglio o
scelta stilistica
sembra ponderato
con cura.
di coltivare la passione per le
automobili di lusso. Di Francesco Pace, ritenuto il capo mandamento di Trapani, si racconta
che, il giorno della sua nomina,
aveva organizzato una cena
memorabile a base di aragosta
e champagne, in uno dei ristoranti più lussuosi di Trapani.
Interessante anche il caso del
boss italo-canadese Beniamino
Zappia, oggi in carcere. Questi
possedeva due case, una a Milano e l’altra a Cattolica Eraclea
(Ag), che sembravano veri e
propri musei. Gli agenti della
Dia di Roma hanno sequestrato
345 dipinti – tra i quali opere
di Guttuso, De Chirico, Dalì,
Sironi, Morandi, Campigli, De
Pisis, Boldini, Guidi – gioielli,
preziosi reperti archeologi e 200
orologi antichi.
Matteo Messina Denaro, cliente
numero uno. Matteo Messina
Denaro si distingue dai suoi predecessori, Totò Riina e Bernardo
Provenzano, sotto vari aspetti.
Giacomo Di Girolamo racconta
a tale proposito che Messina
Denaro è molto attento alla scelta
del vestiario e a tenersi in forma.
A ciò si aggiunge l’abitudine di
frequentare i locali più in voga
e a partecipare a cene eleganti.
Negli anni Ottanta guidava una
Porsche per le strade di Selinunte
e al Paradise Beach, lido della
Trapani bene, era solito offrire
“giri da bere”, tanto da essere
considerato il cliente numero
uno. Appena entrato nei locali
era sua abitudine ordinare una
bottiglia di Cristal, lo champagne
per eccellenza nelle discoteche.
Come se non fosse sufficientemente noto alla popolazione locale, sfoggiava vestiti e accessori
che sembrano diventare il suo
marchio di fabbrica: l’orologio
d’oro al polso, abiti di alta moda,
come i pantaloni comprati nelle
boutique più esclusive, eleganti
foulard di seta al collo e occhiali
da sole Ray-Ban. Ogni dettaglio o
scelta stilistica sembra ponderato
con cura: l’amore per le auto scattanti e veloci condiziona anche
la scelta dell’orologio, il Rolex
Daytona, “l’orologio dei piloti”.
I pantaloni, in tessuto gessato
in rilievo nero su nero, portano
il marchio Versace all’interno e
hanno i bottoni con il simbolo
dello stilista. Le camicie di Armani devono avere le maniche
lunghe, collo all’italiana, polsini
con un bottone e il taschino con il
logo ricamato a mano. Gli occhiali da sole poi non sono uno status
symbol qualsiasi: in primo luogo
sono funzionali a nascondere lo
strabismo del boss, in secondo
luogo sono funzionali a coltivare
il proprio carisma, accentuando
la voluta somiglianza con i boss
rappresentati al cinema.
Non a caso Messina Denaro in
gioventù aveva una certa passione per il cinema, e in particolare
per i film western, che era solito
chiamare «i film da sparare». Il
suo guardaroba, acquistato in
gran parte nei negozi di via
Condotti, a Roma, vanta abiti
ricercati e poco comuni in Sicilia. Ma il consumo vistoso di
Messina Denaro trovava espressione anche nella sua tenuta
1 Capua P., Napoli, all’asta i gioielli della camorra.
Rolex e diamanti per un milione di euro, in «La Repubblica», 20/02/2013
2 Lucarelli C., Catamo G., Storia della Camorra, in
onda il 7/ 11/2004
di contrada Zangara, 33 ettari
tra uliveti e vigneti, oltre a un
immobile, sequestrata nel 1997.
Anche durante la latitanza la
discrezione non è una priorità:
nell’estate del 1993, sotto il falso
nome di Paolo Forte, Messina
Denaro trascorse l’estate in una
villa lussuosa di Forte dei Marmi.
In particolare era solito frequentare lo stabilimento balneare di
Bagno Rossella. Questo può vantare ampie piscine, sala giochi,
campo da calcetto, campo da
bocce, spinning, piscina, ristorante con bar, tabaccheria, ampio
parcheggio coperto e scoperto.
Nonostante i consumi di Messina Denaro sembrino essere
calibrati con cura, si riscontrano
alcuni eccessi: la passione per
Diabolik, fumetto italiano che
ha per protagonista un inafferrabile criminale, spinse il boss a
desiderare una Jaguar con mitra
montati sul cofano.
Probabilmente i gusti del boss
sono stati influenzati dalla cultura paterna: il padre Francesco, boss potentissimo e vicino a Totò Riina, era amante
dell’arte e ne sapeva intuire il
valore. Si dice che un sacerdote, ora deceduto, ospitasse la
collezione di preziosi e reperti
archeologici di Matteo, mentre
un’altra parte della collezione,
comprendente un’anfora d’oro, sia tuttora nascosta in un
caveau svizzero.
In un pizzino il boss si è vantato di essere un intenditore e
che sarebbe in grado di mantenersi anche solo con i traffici
di pezzi d’arte.
3 Saviano R., ZeroZeroZero, Feltrinelli, Milano, 2013,
p. 398
4 Newell N., Donnie Brasco, 1997
5 Monteleone E., Sweet A., Il Capo dei Capi, 2007
19 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
brevi di mafia
Il clan Marando
dietro il rapimento
Coluccio
È stato arrestato il 3 marzo a
Roma, con l’accusa di sequestro
di persona aggravato da metodo mafioso, Rosario Marando,
appartenente all’omonima cosca originaria di Platì (Rc) da
decenni operante tra Piemonte
(Volpiano), Lazio e Calabria.
L’uomo, secondo le accuse, è
responsabile, insieme a Geremia Orlando Barbuto, del
rapimento di uno studente di
ventitré anni figlio del boss
di un clan rivale, i Coluccio,
operanti a Roccella Jonica (Rc),
specializzati nel narcotraffico
internazionale.
Il rapimento, per il quale un
terzo sequestratore, Salvatore
Ammazzagatti, è stato individuato e arrestato nel maggio
del 2014, risale al 27 novembre
del 2013 e il motivo secondo
gli inquirenti è da attribuirsi ad
alcuni conti lasciati in sospeso:
i Coluccio non avrebbero consegnato ai Marando il ricavato di
alcuni investimenti in strutture
alberghiere della costa jonica
acquistate anche tramite i capitali accumulati dagli stessi
Marando con il contrabbando
di droga e i sequestri di persona
avvenuti negli anni 90.
La vittima era stata aggredita in
strada, in pieno giorno, da un
gruppo di uomini che l’avevano caricata a forza su un’auto.
Alcuni passanti, vedendo la
scena, avevano subito allertato
i Carabinieri, consentendo l’avvio immediato delle ricerche,
precedute nelle conclusioni
dallo spontaneo rilascio del
giovane che, rintracciato dalle
autorità, negò di conoscere i
suoi aggressori e fornì una versione dei fatti molto reticente.
Su Rosario Marando pende una
condanna all’ergastolo in primo
grado (emessa il 19 marzo 2014)
per il triplice omicidio avvenuto a Volpiano (To) nel giugno
del 1997, in cui vennero uccisi
Antonio e Antonino Stefanelli e
Francesco Mancuso (i cui corpi
non sono mai stati ritrovati) per
vendicare l’omicidio, avvenuto
l’anno precedente, di Francesco
Marando, il cui cadavere fu
dato alle fiamme nei boschi di
Chianocco, in Val di Susa (To).
Rosario Marando è invece stato
assolto in primo grado dall’accusa di associazione mafiosa
nel processo Minotauro, di cui
è in corso l’appello. Il pronunciamento della sua assoluzione
è avvenuto presso il tribunale
di Torino proprio nel giorno in
cui a Roma si portava a termine
il rapimento Coluccio.
Rosario Marando si trovava
in libertà, benché con obbligo di firma, perché i giudici
di Torino avevano accettato
la sua richiesta di revoca di
custodia cautelare. Non erano sufficienti a trattenerlo in
carcere, secondo il loro parere, le accuse di affiliazione
all’organizzazione criminale
dell’uomo testimoniate dai
due pentiti Rocco Varacalli e
Rocco Marando (rispettivamente amico stretto e fratello)
e della testimone di giustizia
Maria Stefanelli, sua cognata.
a cura di Manuela Mareso
“Fai la fine del capretto
a Pasqua”: minacce al
referente di Libera Calabria
Una lettera di tre pagine, scritta a mano, è stata
recapitata nel mese di febbraio al sindaco di
Palizzi (Rc) Walter Scerbo, che nello scorso
dicembre aveva insignito del titolo di cittadino
onorario il destinatario della missiva, Domenico
Nasone (nella foto, ndr.), coordinatore regionale
di Libera Calabria e i volontari dell’associazione. «Porco, ti scrivo
per avvertirti che fai la fine del capretto a Pasqua, se ancora respiri è
perché lo vogliamo noi», si legge nella lettera indirizzata a Nasone,
già in passato bersaglio di alcune minacce. «Vi sciogliamo nell’acido, a te Nasone e a tutti i porci senza ritegno di Libera, dovete
saltare in aria tutti». I motivi dell’intimidazione vanno ricollegati
secondo agli inquirenti proprio alle attività dell’associazione sul
territorio. La cooperativa agricola “Terre greganiche”, che aderisce
a Libera, è riuscita a trovare una collocazione nel mercato vinicolo,
e recentemente i soci avevano deciso di acquistare altri terreni per
incrementare la produzione. Evidentemente la cosa non è stata ben
accolta dai clan locali – riporta il giornalista Peppe Baldessarro su
«Repubblica» – tanto che a gennaio erano stati vittima di alcuni
danneggiamenti e furti in stile mafioso.
Mario Ciancio,
trovati 52 milioni
in Svizzera
Neanche gli scudi fiscali avevano
convinto Mario Ciancio Sanfilippo, editore della catanese “La
Sicilia”, indagato dalla procura
di Catania per concorso esterno
in associazione mafiosa, a riportare in Italia 52 milioni di euro
che ora gli investigatori hanno
rintracciato in Svizzera.
Il 14 gennaio la procura guidata
da Giovanni Salvi – scrive Giuseppe Pipitone su «Ilfattoquotidiano.it» ha emesso l’avviso di
conclusione delle indagini, e dagli atti è emersa la rivelazione sul
“tesoretto”, la cui provenienza
l’editore, in fase di interrogatorio,
non era riuscito a giustificare. Si
vedrà se per Ciancio si arriverà
alla richiesta di rinvio a giudizio, dopo che la sua posizione è
stata archiviata già quattro volte,
l’ultima richiesta nel 2012, poi
respinta dal gip Luigi Barone.
Ora nuove prove e testimonianze
sono state raccolte a suo carico, tra cui le motivazioni della
sentenza di primo grado che
ha condannato l’ex governatore
Raffaele Lombardo a sei anni e
otto mesi per concorso esterno
in associazione mafiosa.
Secondo le indagini, Ciancio
avrebbe intrattenuto attività imprenditoriali con esponenti di
Cosa nostra palermitana. Che
spiegherebbero i ricavati di quei
depositi in Svizzera.
20 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
brevi di mafia
Processo Meta,
passato il vaglio
della Cassazione
Ha retto anche al vaglio della
Cassazione l’impianto del procedimento “Meta”, l’inchiesta
con cui il pubblico ministero
Giuseppe Lombardo ha ricostruito gli assetti della ’ndrangheta di Reggio Calabria. Una
sentenza storica, che sancisce
che a governare il Mandamento di centro – in un patto di
sangue con profonde ripercussioni sull’economia della città,
strettamente controllata – era un
direttorio composto dalle cosche
più influenti della città (Libri,
Condello, Tegano, De Stefano)
che si erano ricomposte all’indomani della guerra di mafia
che dal 1985 al 1991 aveva
visto versare il sangue di oltre
700 persone. I principali reati
contestati sono stati associazione a delinquere, estorsione,
intestazione fittizia di beni patrimoniali e turbativa d’asta.
Vescovi
calabresi, un
documento contro
la ’ndrangheta
A sei mesi dalle parole del Papa
dalla Piana di Sibari, quando
aveva apertamente scomunicato i mafiosi, i vescovi calabresi hanno prodotto una nota
pastorale in cui dichiarano la
posizione della Chiesa nei confronti delle cosche calabresi.
«La mafia è un fenomeno opera
Emilia Romagna, maxioperazione anti
’ndrangheta Un’operazione dei Carabinieri, denominata “Aemilia”, coordinata dalla Dda di Bologna, ha portato
a 117 richieste di custodia cautelare per associazione di tipo
mafioso, estorsione, usura, detenzione illegale di armi da
fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di
fatture false.
Sotto i riflettori degli inquirenti è finito il clan dei Grande
Aracri di Cutro (Kr) da tempo operante in territorio emiliano. Sono stati arrestati Ernesto e Domenico Grande Aracri
(quest’ultimo avvocato penalista), i fratelli del boss già detenuto
Nicolino Grande Aracri, detto “Mano di gomma”.
Parte dell’inchiesta riguarda la ricostruzione per i danni causati
dal terremoto del 2012. Come per il terremoto dell’Aquila del
2009, anche in questo caso alcuni degli indagati sono stati intercettati mentre ridevano
del sisma. Anche la politica locale è risultata coinvolta nell’inchiesta. Gli inquirenti
hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenza delle elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell’Emilia
(Parma, Salsomaggiore, Sala Baganza, Brescello).
I Grande Aracri avevano messo in atto una serie di intimidazioni in territorio emiliano: imprenditori, istituzioni, ma anche giornalisti, come la corrispondente dell’Ansa
Sabrina Pignedoli. Proprio un giornalista è anche tra gli arrestati: secondo l’accusa
Marco Gibertini, cronista di TeleReggio, avrebbe dato una mano agli affiliati della
cosca emiliana offrendo loro spazi mediatici. Agli arresti anche alcuni informatori
del clan: tre carabinieri in congedo e tre poliziotti.
Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti (nella foto, ndr.) ha definito l’intervento «storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario
alla mafia al nord». Altri 46 provvedimenti sono stati emessi contestualmente dalle
procure di Catanzaro e Brescia. L’operazione ha impiegato un migliaio di militari.
del maligno. La ’ndrangheta
non ha nulla di cristiano. […]
è altro dal cristianesimo e dalla
Chiesa – si legge nel documento –. Non è solo un’organizzazione criminale che, come
tante altre, vuole realizzare i
propri illeciti affari con mezzi
altrettanto illeciti e illegali,
ma, attraverso un uso distorto
e strumentale di riti religiosi e
di formule che scimmiottano il
sacro, si pone come una vera
e propria forma di religiosità
capovolta, di sacralità atea, di
negazione dell’ultimo vero Dio.
L’appartenenza a ogni forma di
criminalità organizzata non è
titolo di vanto o di forza, ma
titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. La
’ndrangheta è una struttura di
peccato che stritola il debole e
l’indifeso, calpesta la dignità
della persona, intossica il corpo
sociale. […] Esortiamo il popolo
di Dio a compiere ogni sforzo
per rinunciare ad atteggiamenti che possono alimentare il
fenomeno mafioso. E ciò non
solo mediante la condanna di
tutte le forme di violenza, ma
anche avendo presente che la
risoluzione dei problemi personali non va affidata al padrino
di turno ma a chi è preposto
dall’autorità dello Stato». Precisano però i vescovi: «La Chiesa
ricorda che la sua missione
non sempre può coincidere con
l’azione inquirente o punitiva,
propria dello Stato. La necessaria collaborazione tra Chiesa e
magistratura segue le singolari
dinamiche dell’una e dell’altra,
21 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
brevi di mafia
e trova il suo limite (per la
natura stessa della Chiesa) in
tutto ciò che riguarda il “foro
interno” delle persone in cui la
Chiesa si accosta come Madre,
particolarmente nell’intimità
del segreto confessionale che,
mai, a costo perfino della vita,
nessun ministro di Dio può
tradire».
Dia: “Allarme
penetrazione
‘ndrangheta
nella pubblica
amministrazione”
Nella relazione semestrale della
Direzione investigativa antimafia al parlamento riguardante
il primo semestre del 2014 si
sottolinea la capacità della
’ndrangheta di infiltrarsi sempre di più nella sfera politicoamministrativa degli enti locali,
non solo calabresi.
Se i comuni calabresi sono
quelli maggiormente colpiti dai
provvedimenti di scioglimento,
il dato può essere legato «oltre
ad una particolare virulenza del
fenomeno, anche ad una più
accentuata sensibilità ed incisività delle istituzioni preposte
al mantenimento dell’ordine e
della sicurezza pubblica, nel
penetrare e vigilare sulle realtà
locali, individuandone eventuali distorsioni». Dunque, si
legge ancora nella relazione,
«non deve essere sottovalutata la specifica capacità della
criminalità calabrese di infiltrare enti ubicati in aree anche
lontane sfruttando presenze
consolidatesi da decenni».
Comune di Sedriano,
confermato lo scioglimento per mafia Nell’ottobre del
2013, primo caso in Lombardia, era stato sciolto per mafia, su richiesta del
prefetto, il comune di Sedriano, 11mila
abitanti a nord di Milano. A gennaio
2015 è arrivata anche la conferma del
Tar del Lazio, dopo il ricorso di alcuni
amministratori dell’ente locale. «Gli elementi sono concreti – scrivono i giudici del Tribunale amministrativo –, in
quanto fondati su esame documentale,
evidenze probatorie acquisite nelle indagini penali e audizione dei diretti
interessati». Aveva invece urlato al complotto l’ex sindaco Alfredo Celeste (Forza Italia, nella foto, ndr.), primo cittadino dalla primavera del 2009, insegnante
di religione (e per questo si era rifiutato
di celebrare matrimoni civili, scrive
Ersilio Mattioni sull’«Espresso») in contatto con personaggi definiti dagli investigatori vicini alla ’ndrangheta, a cui avrebbe
promesso affari e favori. È acclarato che Celeste, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avesse una gestione della cosa pubblica piegata a fini privatistici. La Curia, intanto, non gli ha fatto nessun richiamo e pertanto l’ex sindaco può continuare a insegnare
la sua materia nelle scuole superiori in cui è di ruolo.
I fondi per la Terra dei fuochi per Expo
«Il Governo ha svuotato i fondi
per il pattugliamento delle
Forze Armate nella terra dei
fuochi appena approvati nella
legge di stabilità, trasferendoli
ad altre operazioni di vigilanza tra le quali, principalmente,
quelle di Expo 2015. Si utilizza lo strumento del Milleproroghe per aggirare e svuotare
la volontà del Parlamento».
Così hanno denunciato, in
una nota stampa, i deputati
della commissione Difesa del
M5S. «Dei 10 milioni di euro
stanziati per il 2015 per la
terra dei fuochi ben 9,7 milioni di euro vengono dirottati
altrove. Noi non siamo contrari a che eventi a rischio
terrorismo come l’Expo 2015
godano del servizio di vigilanza straordinario delle
nostre Forze Armate, ma chie-
diamo che questo non avvenga
a discapito delle operazioni
di contrasto della criminalità
organizzata in Campania. Per
questo avevamo proposto di
finanziare la nuova operazione attingendo risorse dai
fondi destinati alle missioni
militari internazionali, ma la
nostra proposta emendativa
non è stata neanche presa in
considerazione».
22 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
storie di riscatto a cura di Rosario Esposito La Rossa
i nasturzi
I nasturzi,
simbolo di chi
non si arrende
I nasturzi sono fiori coloratissimi che arrivano dal Perù. Sono
piccoli, crescono dovunque. I
nasturzi sono il simbolo di chi
non si arrende, il simbolo della
lotta. Abbiamo scelto questo
fiore per raccontarvi storie di
riscatto, storie di chi rimane, di
chi crede nella propria terra, di
chi lotta. Fiori rampicanti sparsi nella nostra Italia sommersa
dalle brutte notizie. Questa rubrica è innanzitutto una boccata
d’ossigeno, la testimonianza
scritta che qualcosa si muove. I
nasturzi italiani sono i giovani
che da Sud a Nord inventano,
creano, si ribellano, si oppongono, sanno fare delle proprie
difficoltà sfide e opportunità.
Pochi conoscono questi fiori
a forma di elmetto, non sono
narcisi e rose, non sono fiori
nobili, costosi, ma sono piante
perenni, che non appassiscono.
Piante che ancora oggi vengono utilizzate per curare, per
rivitalizzare chi ha carenza di
vitamina C. In questa rubrica
vi doneremo dosi massicce di
vitamina C, C come creatività,
C come capacità e caparbietà,
C come crederci. Io vengo da
un quartiere dove la C sta per
camorra. Vengo da Scampia,
una realtà che negli ultimi anni
è stata crivellata di piombo e
cronaca nera. Dieci anni fa,
avevo quindici anni, mio cugino Antonio Landieri, disabile venticinquenne, veniva
ucciso in un conflitto a fuoco
tra scissionisti e Di Lauro, durante la famigerata Faida di
Scampia. Come molte vittime
innocenti è stato definito uno
spacciatore, il suo nome è
stato infangato. Gli sono stati
negati i funerali pubblici, è
stato seppellito come un boss.
Ci sono voluti più di tre anni
per avere una tomba, che gli
spettava di diritto, in quanto
vittima innocente di camorra.
Insieme ad altri ragazzi del
mio quartiere abbiamo fondato
un’associazione in memoria di
Antonio: Vo.di.Sca, acronimo
di Voci di Scampia. Avevamo
15 anni. Ci siamo messi insieme in un quartiere di 100mila
abitanti in piena emergenza
criminalità organizzata. Oggi,
sono passati 10 anni, Antonio
è stato ufficialmente dichiarato dallo Stato italiano una
vittima innocente di camorra.
Nel frattempo, quel gruppo
di quindicenni ha aperto a
Scampia una casa editrice, una
compagnia teatrale, la prima
libreria del quartiere. Pensa-
te, ci sono voluti 37 anni per
aprire una libreria a Scampia,
un quartiere che conta 30mila
studenti. Dal luogo dove è stato ucciso Antonio all’ingresso
della libreria ci sono 1001 passi. Li abbiamo contati. Ci son
voluti dieci anni per percorrere
quei 1001 passi, ma credo sia
stata la più bella risposta di un
gruppo di giovani all’omicidio
efferato di un disabile di 25
anni. Dove fu ucciso Antonio
c’era una macchia di sangue
enorme. Ne hanno buttata di
segatura e acqua su quella macchia, ripetutamente. A noi piace
pensare che siamo riusciti a far
fiorire il sangue sull’asfalto.
A noi piace pensare che da
quel sangue siano nati nasturzi.
Per questo oggi raccontiamo
queste storie, per questo, con
una penna, gireremo l’Italia per
scrivere di resilienza e riscatto.
Storie colorate e coerenti, come
i nasturzi, che mai si piegano
all’acqua e la respingono, sui
petali e le foglie. I fiori della
lotta si mangiano, uno dei pochi fiori al mondo. In questi
mesi assaggeremo un’insalata
di nasturzi. Tutti sono invitati al
banchetto. Perché queste storie
non vanno via con l’acqua e la
segatura.
Poco distante dal quartiere in cui i resti della testimone di giustizia furono ritrovati, sorgerà un’area di verde pubblico a lei intitolata. Un bene della collettività, per una memoria collettiva.
di Marika Demaria
“Migliorare lo spazio urbano
dando l’occasione ad anziani e
giovani di collaborare a creare
un’area piacevole da un punto
di vista estetico, utilizzabile per
il tempo libero e la didattica per
i bambini; un’area dove produrre
e raccogliere frutta e verdura”.
Poche righe per spiegare un progetto importante per il comune di
Monza. Frasi inserite all’interno
di una delibera approvata il 30
dicembre 2014 e che prevede la
concessione di un’area all’interno del parco della Boscherona
per la realizzazione di un orto
didattico e di un giardino per la
floricoltura. Fin qui l’impegno,
portato avanti dalle organizzazioni sindacali Spi-Cgil, Fnp-Cisl,
Uilp-Uil di Monza san Fruttuoso,
in collaborazione con le associazioni locali Auser e Anteas
e in accordo con Libera Monza
e Brianza. Ad esso si affianca la
memoria, legata alla figura della
testimone di giustizia Lea Garofalo, uccisa il 24 novembre 2009
a Milano. Non sarebbe potuto
essere diversamente, considerato
che i resti della donna furono
ritrovati – grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Carmine Venturino, condannato
in primo grado all’ergastolo e in
secondo grado a 25 anni di pena
in virtù della sua collaborazione
(condanna confermata in Cassazione lo scorso 18 dicembre
2014) – su un terreno privato
a San Fruttuoso, a distanza di
poche centinaia di metri dal
cimitero monzese, all’interno del
quale è stata apposta una targa
in ricordo del coraggio di una
donna e mamma capace di ribellarsi alla cultura ’ndranghetista.
La delibera di fine 2014 sancisce
l’assegnazione dell’area – di circa
200 metri quadrati – ai sindacati;
a breve dovrebbero iniziare i
lavori di riqualificazione e risistemazione, per un valore di
circa 20 mila euro che, allo stato
attuale dei fatti, risultano a carico
degli assegnatari.
«Questo progetto – spiega Pietro
Albergoni, segretario generale
dello Spi-Cgil di Monza-Brianza
– ha un target eterogeneo: si
rivolge infatti alle persone più
adulte ma anche ai giovani, agli
studenti e agli abitanti del quartiere, con l’intento di coinvolgerli
in maniera attiva; l’obiettivo
infatti è di affidare la gestione
dell’orto biologico agli stessi
cittadini, in modo che si inneschi un meccanismo virtuoso
di responsabilità e di presa di
coscienza di un bene che coniuga
la memoria e l’impegno». L’area
si trasformerà in un giardino per
il tempo libero, con uno spazio
dedicato alla coltivazione di
piante ornamentali ed un altro
dedicato ai “giochi “ per i bambini del quartiere. Ci sarà inoltre
spazio per la didattica. Secondo
la delibera comunale, infatti, “un
altro obiettivo che il progetto si
propone di concretizzare è quello
prettamente didattico rivolto
alle scuole di primo e secondo
livello con corsi teorici e pratici
sulla conoscenza del mondo del
verde, con la creazione di un
laboratorio di orto e giardinaggio
da proporre ai dirigenti scolastici
delle scuole di Monza”.
Pietro Albergoni conclude
sottolineando la motivazione
– espressa anche all’interno della
richiesta avanzata al Comune
– che ha spinto i promotori ad
intitolare l’area alla memoria
di Lea Garofalo: «Abbiamo il
desiderio di formare e informare
i giovani in merito al sacrificio di
questa giovane donna, in modo
che esso non sia vano e che sia di
esempio per tutti. Per combattere
le mafie non bastano le parole,
ci vuole una nuova cultura della
legalità che deve coinvolgere in
questo processo di sensibilizzazione principalmente le nuove
generazioni».
l’antimafiacivile
Un giardino per
Lea Garofalo
cosenostre
23 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
24 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
mafia e sanità
a cura di Corrado De Rosa
Quando si ammala
un territorio
Un comune sciolto tre volte
per mafia in dieci anni, dove in
occasione del ventennale della
morte di don Peppe Diana – il
prete ucciso nel 1994 a Casal
di Principe – qualche vandalo
ha ben pensato di danneggiare
la statua dedicata alle vittime
innocenti di camorra. Una terra cablata clandestinamente
per consentire al boss Michele
Zagaria di proseguire una latitanza senza stress in un bunker
supertecnologico costruito nelle
viscere del paese. E di comunicare, con gregari e familiari,
attraverso una rete di citofoni al
sicuro da intercettazioni indiscrete: un sistema più affidabile
di smartphone e computer, più
sicuro dei pizzini. Un paese a
trenta chilometri da Napoli e
Caserta dove la mafia è riuscita
a diventare Stato perché lo Stato
non è riuscito ad assicurare la
sua presenza. Un non-luogo
dove tutto doveva procedere
senza clamori per lasciar tranquilli i casalesi ai loro affari.
Benvenuti a Casapesenna, dove,
dal 2007 e per sei anni, non
è stata elevata nemmeno una
contravvenzione ai cittadini
per violazione del codice della
strada. Dove chi si è avvicendato
alla guida della polizia locale
non ha chiesto i bollettini necessari per irrogare le sanzioni,
e di fronte alle obiezioni mosse
ha risposto cadendo dalle nuvole: “Ma noi non le sappiamo
fare, le multe”. Benvenuti in un
paese dove si coglie con mano
il significato di “controllo del
territorio”, un dogma prioritario
per i clan. Quando avevi un
problema a Casapesenna, lo
racconta un collaboratore di
giustizia, ti rivolgevi a Zagaria
e lui risolveva tutto. Perché
tutto si svolgeva sotto il suo
controllo. Un lembo di terra
dove tutti sapevano tutto di
tutti, dove si doveva far meno
rumore possibile, dove ogni
cosa doveva procedere secondo
le indicazioni dei boss senza che
nessuno facesse rumore. Dove
non c’era rete sociale ma controllo senza solidarietà, dove
il giorno dell’arresto del capo
dei Casalesi, che ormai risale a
più di tre anni fa, una ragazza
intervistata disse: “Da oggi c’è
anche da aver più paura. Perché
qui, fin quando tutti sapevano
che c’era Zagaria, nessuno si
azzardava a chiedere il pizzo
ai commercianti, a fare furti
nelle case. Insomma, si stava
sicuri”. Ecco il corto-circuito
psicologico che illude chi va
in giro a dire che la mafia dà
lavoro e lo Stato no, che in
terra di camorra si vive tranquilli perché la camorra sana
le contraddizioni e protegge i
cittadini. Naturalmente non c’è
nessuna sicurezza nei territori
militarizzati dalle mafie. Da
queste parti i rapporti sociali si
fondano su coercizione, ritorsione, ricatto; il tessuto sociale è
gravido di frustranti sensazioni
di insicurezza, impotenza e legami sociali impoveriti. Tra chi
vive nei territori su cui imperversano, i clan creano sfiducia,
insonnie, ansie quotidiane, solitudine, isolamento, sospettosità
e rabbia, pensieri ricorrenti su
eventi traumatici di cui si è
sentito dire, a cui si è assistito
o di cui si è rimasti vittima.
Sfiducia e diffidenza riducono
i livelli di coesione e partecipazione sociale, facilitano
tensioni che hanno importanti
ripercussioni di salute. Paura e
insicurezza si associano a problemi di salute mentale e a una
peggiore qualità della vita. La
tipica risposta comportamentale
che sollecitano è l’evitamento.
Chi è preoccupato esce meno di
casa, riduce le opportunità di
costruzione di legami, contrae
le proprie attività sociali. L’insicurezza può diventare un fattore
di stress per sistema nervoso e
immunitario, può aumentare il
rischio di abuso di sostanze e
promuovere conflittualità relazionale, paure e fobie, disturbi emotivi comuni e disturbi
psichiatrici maggiori. Ora il
boss è in carcere, e risponderà
davanti alla legge dei reati che
ha commesso. Ma le persone
per bene di Casapesenna e chi
vive in terra di mafia – colpevole solo di abitare una terra
sbagliata, involontariamente
esposto a povertà, esclusione,
emarginazione, a fattori psicosociali che promuovono disagio
e sofferenza – dovrebbero chiedere il conto a Michele Zagaria e ai suoi sodali dei danni
psicologici che ha prodotto
l’occupazione del territorio
da parte del suo clan.
25 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
glorioso situato tra gli anni Trenta
e Sessanta del Novecento. Le
storie sono quasi tutte ambientate
negli Stati Uniti e i protagonisti
sono prevalentemente affiliati
di Cosa nostra americana. Gli
obiettivi principali riguardano
in gran parte la costituzione e
l’espansione di clan mafiosi e
si progredisce eliminando una
serie innumerevole di avversari: il ritmo del gioco è scandito dalla monotona successione
delle vittime in un crescendo di
azioni competitive molto spesso
prive di senso. Il protagonista
è un maschio adulto secondo
la cristallizzazione operata dai
luoghi comuni: dal boss elegante
e raffinato al delinquente di strada
trasandato e maledetto. Il personaggio interpretato dal giocatore,
quindi, è quasi esclusivamente un
criminale dichiarato che non ha
doti eccezionali ma che stimola
identificazione attraverso un processo di “normalità” deviante.
Una normalità che implica la
scelta di stare dalla parte del
male per ottenere potere, denaro
e vendetta contro i clan avversari
e le forze di polizia. I videogiochi
trasmettono quelli che nel contesto mafioso sono valori ma che
nella società civile sono disvalori.
Ma come vengono accreditati
questi “valori”? I giochi fondano
la loro narrazione sugli stereotipi
cinematografici che a loro volta
trovano sostanza nell’immaginario collettivo popolare. È qui che
alcuni disvalori diventano valori
agli occhi della platea suggestionabile dalla giustizia rapida, dalla
scorciatoia per l’ottenimento del
benessere, dalla potenza del comando e della violenza, dall’opulenza di una smisurata ricchezza
e dalla condizione di impunità
collettiva. La replicazione di
alcuni cliché cinematografici,
i cosiddetti mafia movies, ha
standardizzato alcuni topos rendendoli facilmente riconoscibili
in base ad una precedente esperienza visiva. La trasmigrazione
nei videogiochi tende a ripetere
apparentemente lo stesso percorso, ma non è così. In primo luogo
i videogames fanno perno su un
immaginario già formato che concorre ad accrescere, quasi come
una strategia di marketing, la
fascinazione di un gioco rispetto
ad un altro. Non si crea nulla ma si
potenzia lo stereotipo stabilendo
connessioni con il sostrato della
distorsione valoriale che viene
incorporato e annacquato nella
prospettiva di una “normalità”
deviante (ognuno di noi convive
con un criminale interiore potenzialmente sempre attivo) a cui si
attribuisce l’aurea del fantasmagorico. In secondo luogo cambia
l’audience. Il dato più lampante
è l’elemento fisico: nel primo
caso scelgo di andare al cinema e
vedere un film di mafia in mezzo
ad altre persone (di cui ascolterò
i commenti); nel secondo caso si
è da soli davanti ad un computer
per giocare e provare le proprie
abilità o capacità strategiche. A
quel punto, senza la possibilità
di confronti “realmente umani”
esterni all’ambiente ludico (il
tutto è ridotto allo scambio di
trucchi tra giocatori), il sistema
dei disvalori viene scaricato individualmente sul protagonista
del gioco che lo considera assodato e normale proprio perché
ha già introiettato l’immaginario
collettivo prodotto. Ma se questo discernimento può valere (e
non sempre) in un adulto, vale
anche per i bambini e i ragazzi
che sono i principali fruitori di
questo intrattenimento?
a cura di Marcello Ravveduto
Da anni si registra un aumento progressivo del numero di
bambini che usano i videogiochi
quotidianamente e del tempo
impiegato in questa attività. Che
cosa accade quando un bambino/
ragazzo rimane esposto per tanto
tempo in una dimensione virtuale di questo tipo? Si entra a far
parte di un mondo autoreferenziale fantastico e malleabile alle
proprie aspettative in cui poter
agire senza entrare in contatto
ed essere condizionati (almeno
in apparenza) dal mondo degli
adulti. I videogames hanno già
superato il cinema per quote di
mercato e si stanno avvicinando
a superare anche la televisione.
La crescita ha comportato un’inversione di tendenza: in passato
i programmatori replicavano le
trame dei film cult per attirare il
pubblico degli appassionati, oggi
è il cinema che ripropone i videogames più popolari per conquistare il pubblico degli adolescenti
(ma anche degli adulti visto che
la fascia principale di utenza è
dai sei ai quarantacinque anni).
«L’ultima generazione di giochi
– si legge nel volume La mafia
allo specchio – imita fortemente
i linguaggi cinematografici per i
dettagli delle scene e per le storie.
Più del cinema coinvolgono però,
perché comportano emozioni
paragonabili a quelle di una partita di poker, dove all’impegno
emotivo si affianca la capacità
strategica, in un sistema dinamico pieno di partecipazione che
nessuna altra rappresentazione
della realtà può offrire». Tra i più
praticati, neanche a dirlo, sono
i mafia games, divisi in giochi
online e per Pc o consolle. Nella
maggior parte dei casi lo scenario
è il presente, in alcuni l’azione,
invece, si svolge in un passato
dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale
Mafia games
27 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori
di ’ndrangheta
inchiesta
Crescono in famiglie in cui la violenza è il pane quotidiano, con
padri e fratelli in carcere o morti ammazzati, e madri piangenti
e gridanti vendetta. È il destino dei bambini della ’ndrangheta.
Sulla loro tutela occorre intervenire, per spezzare il vincolo di
sangue che alleva nuove reclute dell’organizzazione
28 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori di ‘ndrangheta
Cresciuti
a pane e
’ndrangheta
I destini dei figli cresciuti in famiglie mafiose dipendono anche
dagli insegnamenti delle loro madri. Rinnegare la ’ndrangheta
è la più grande lezione di vita che una mamma può offrire ai
suoi ragazzi.
di Michela Mancini
Sotto i piedi hanno tatuate facce di carabinieri, camminano
calpestando lo Stato. Uno Stato che non conoscono. Vivono
una guerra permanente, in un
mondo diviso da una trincea.
Schierati come soldati: da una
parte ci sono loro, dall’altra
c’è l’Italia. Si sentono parte di
una nazione a sé stante, che si
regge su miti e codici antichi.
Pensano di essere valorosi,
giusti, migliori, perché così
è stato raccontato loro dalla nascita. Educati in nome
dell’onore, sono cresciuti imparando una sola “regola”,
quella dell’omertà. Prima d’ogni altra cosa viene la famiglia,
che nelle loro terre vuol dire
’ndrangheta. A quattordici
anni sono già uomini fatti.
Sono i ragazzi della mafia. In
pochi si sono occupati di loro.
Cercare di portarli dall’altra
parte della trincea a molti
pareva una partita persa in
partenza. Quando nasci in una
famiglia di ’ndrangheta, il tuo
destino è scritto in calce. La
mafia calabrese, pur crescendo
all’ombra di Cosa nostra, è
diventata una delle organizzazioni criminali più potenti al
mondo. La ragione che ne ha
determinato la fortuna si deve
cercare nella sua struttura. La
’ndrangheta si basa sulla famiglia. I legami di sangue sono
stati il collante che ha tenuto
i pezzi insieme per quasi due
secoli. A differenza di Cosa
nostra, l’organizzazione calabrese non ha avuto stagioni
di “pentitismo”. Tradire, nella
’ndrangheta, significa rinnegare tuo padre, tua madre, i
tuoi figli. Parlare, oltrepassare
la trincea, significa abbandonare la propria identità,
significa perdere se stessi, la
propria vita, i propri affetti.
È stata questa la campana di
vetro che ha protetto finora
la mafia calabrese. Per i figli
della ’ndrangheta, che sono
cresciuti all’ombra di una sola
certezza, c’è solo un modo di
vivere ed è quello che i genitori gli hanno insegnato. Per
conto dei loro padri, latitanti
o in galera, hanno chiesto il
pizzo ai commercianti, hanno
trafficato droga, hanno ucciso.
Fa parte delle regole. Alla
mafia si ubbidisce, in silenzio.
Per la mafia ci si annulla, si
diventa automi.
Quanto pesano i cognomi.
Maria Concetta Cacciola e
Giusy Pesce lo avevano capito subito che alzare la testa
significava morire. Entrambe,
poco più che trentenni, sono
nate e cresciute a Rosarno,
si sono sposate a quattordici
anni con due uomini che poco
dopo il matrimonio sono finiti
in carcere per associazione
mafiosa. Cetta e Giusy hanno
due cognomi importanti, appartengono alle due famiglie
più potenti del paese. I Pesce
29 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Obbedienza e silenzio. Bastava che Cetta tornasse poco
più tardi dell’orario stabilito
per essere picchiata dal padre,
perché le donne si devono
comportare in una certa maniera, non possono fare di
testa loro. Devono ubbidire,
stare zitte, essere mogli, ma
soprattutto madri. A loro spetta il compito di educare i figli
alle regole della “famiglia”. La
reputazione della famiglia, e
quindi della ’ndrina, è legata
alla condotta delle donne,
da loro dipende l’onore dei
membri maschi, dei soldati
di ’ndrangheta. L’onore diventa un’ossessione, il perno
dell’ideologia mafiosa. Lo si
evoca di continuo, di giorno,
di notte, nelle piccole attività
quotidiane. Le donne se lo
portano sulle spalle come un
fardello: sono loro le responsabili della reputazione e quindi
della strategia di comando.
«In effetti, le donne non assumono nessuna funzione
specifica e diretta in seno
alle cosche, che sembrano
basarsi esclusivamente su di
una partecipazione maschile
per il loro esercizio e sviluppo. Malgrado questa assenza
di partecipazione femminile,
l’ideologia mafiosa fa spesso riferimento alla purezza
femminile»(Renate Siebert,
Le donne, la mafia). Se una
di loro sgarra, se tradisce, gli
uomini perdono prestigio e
quindi potere. Il matrimonio,
nella ’ndrangheta, è per sempre. Innamorarsi di un altro
uomo significa condannarsi a
morte. Così è stato per Cetta,
che di prendere botte non ne
poteva più.
Lei, nell’ottica mafiosa, ha
“tradito” due volte, prima il
marito, poi, quando ha deciso
di collaborare con lo Stato, la
’ndrangheta. Sono cose che
non si perdonano, lei l’ha sempre saputo e infatti è scappata
dalla Calabria, scortata dal
servizio di protezione. Cetta
ha fatto un errore: nella fuga,
ha lasciato i suoi tre bambini
alla madre, bambini che la
nonna ha poi usato per ricattarla. Le ha telefonato più e
più volte per farle ascoltare
il pianto disperato della più
piccola: “Senti come piangono – le diceva – vogliono
la madre”. Cetta ha ceduto
ed è tornata in Calabria. Lì è
stata costretta dalla famiglia a
ritrattare le dichiarazioni fatte
ai magistrati. Il 20 agosto del
2011 l’hanno trovata morta nel
bagno di casa. L’acido muriatico le aveva bruciato la gola.
Per un futuro migliore. Un
anno prima a Rosarno è stata
arrestata Giusy Pesce con l’accusa di aver fatto da intermediaria tra il padre, in carcere,
e gli uomini del clan. Dopo
sei mesi di agonia, lontana dai
suoi bambini, Giusy ha deciso
di collaborare: «Lo faccio per
loro, per i miei figli, per dar
loro un futuro migliore». Come
storie scritte con le stesse parole, la vita di Giusy e quella
di Cetta si specchiano l’una
nell’altra. Entrambe hanno
deciso di oltrepassare quella
linea, entrambe hanno ceduto
al ricatto e sono tornate indietro. La figlia di Giusy è stata
costretta dai familiari a scrivere
delle lettere alla madre in cui
affermava di non condividere
la sua scelta di collaborare
con lo Stato. La reazione è
stata immediata: Giusy ha ritrattato le dichiarazioni fatte
ai magistrati. Ma il destino
ha voluto che capisse in tempo l’errore commesso. Dopo
poco, ha scritto una lettera ai
magistrati reggini, chiedendo
di ritornare sotto regime di
protezione.
La strategia della ’ndrangheta
questa volta ha fallito. I suoi
figli ora sono con lei, in località protetta. Giusy è una donna libera. Le trame di queste
due storie si incontrano e si
scontrano come in una danza
antica. Entrambe celebrano la
vita, la speranza del futuro. Un
futuro che esiste solo in virtù
dei propri figli. Sono loro a
ricevere in eredità la forza delle
proprie madri. Sono loro che
possono determinare un vero
Minori di ‘ndrangheta
e i Bellocco (a cui il padre di
Maria Concetta è strettamente
imparentato) si dividono il
territorio di Rosarno e ne controllano ogni anfratto. Le due
’ndrine si spartiscono i soldi
guadagnati col narcotraffico,
con gli appalti pubblici, con
il riciclaggio di denaro, l’estorsione e l’usura.
I Pesce possedevano anche
due squadre di calcio locali.
Le strategie della ’ndrangheta
per conquistare il consenso
sono raffinate. Per garantirsi
il potere e per evitare troppi
controlli, i Pesce si sono infiltrati anche nella pubblica
amministrazione. Sono riusciti persino a mettere le
mani sulla politica rosarnese
piazzando uomini di fiducia
nel consiglio comunale e nella macchina amministrativa.
Quando i Pesce e i Bellocco
camminano per strada anche
i muri si zittiscono. Tutti li rispettano, abbassano gli occhi,
li temono. Fuori come in casa.
Minori di ‘ndrangheta
30 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
cambiamento in quella terra
divorata dalla ’ndrangheta.
Qualcuno l’ha capito. In un
piccolo Tribunale di trincea, in
questi ultimi due anni, lo Stato
sta combattendo una battaglia
nel silenzio dei media nazionali. La storia della Cacciola,
accendendo i riflettori sull’uso dei minori da parte delle
famiglie di ’ndrangheta, ha
dato l’impulso a una piccola,
grande rivoluzione. Sono molte
le donne che in Calabria hanno
deciso di rinnegare l’universo
totalitario della ’ndrangheta.
Nei colloqui che le collaboratrici/testimoni hanno avuto
con i magistrati è emersa la
motivazione principale che le
ha spinte a un atto di ribellione
così profondo: la volontà di
garantire un futuro migliore
ai propri figli. Queste donne
hanno capito che pochi di loro
faranno carriera nei ranghi
dell’organizzazione criminale, la maggior parte finirà per
essere uccisa in qualche agguato, oppure sconterà gli anni
migliori in galera. La sorte che
toccherebbe alle figlie femmine
non è migliore: condannate a
servire la famiglia, pedine di
scambio per alleanze militari,
subordinate alla legge mafiosa
che le vuole zitte, omertose, ma
soprattutto fedeli all’organizzazione e, spesso, ad un marito
che non hanno mai amato.
Un destino non più ineluttabile. Può una madre volere
questo per i propri figli? La
risposta non è scontata, perché
per decenni quello mafioso è
stato un destino ineluttabile,
che va accettato così come si
accettano le calamità naturali.
Il fatalismo, tipico del meridione, è stato strumentalizzato
dalla ’ndrangheta, diventandone il principale alleato.
Come fa notare la sociologa
Renate Siebert, che ha fatto
dell’analisi di genere del fenomeno mafioso il cardine della
sua ricerca, il sistema mafioso
condivide molti aspetti dei regimi totalitari. La ’ndrangheta
avvolge le persone svuotandole della propria individualità,
riconoscersi come individui
autonomi e quindi capaci
di autodeterminarsi significherebbe astrarsi dai vincoli
dell’organizzazione e quindi
smettere di considerarla come
la radice prima di tutte le cose.
Il fatalismo ha accompagnato
la mafia a braccetto per le
strade del Sud, convincendo
la parte della popolazione
meno alfabetizzata che “ciò
che accade deve accadere”.
Chi si azzarda a scegliere con
la propria testa, avanzando
interessi personali – tanto più
se affettivi – non è uomo, quindi non è degno di far parte
dell’Onorata Società. Nessuno
si è ribellato. I pochissimi
che l’hanno fatto hanno pagato con la vita. Non è quindi
scontata la risposta al quesito di cui sopra. Centinaia di
donne hanno guardato i loro
figli cadere sul fronte, come
soldati di una guerra giusta.
Morti ammazzati sull’asfalto
dissestato, latitanti costretti a
nascondersi come topi nelle
minuscole stanze dei bunker
sotterranei, giovani condannati al carcere duro che le mani
delle loro madri non le hanno
toccate per decenni. Ci sono
madri che però quel fatalismo
l’hanno abbandonato. Sono
andate in regime di protezione
lontano dalla ’ndrangheta e
hanno portato i figli con sé.
Hanno deciso di scegliere, così
che un giorno quelli che ora
sono bambini possano vivere
liberi dalle regole mafiose. La
’ndrangheta teme più queste
donne delle operazioni della magistratura e delle forze
dell’ordine. Non solo per la
reputazione dei clan: ciò che
più spaventa l’organizzazione
criminale calabrese è l’allontanamento dei minori dalle
famiglie d’origine.
Senza soldati, la ’ndrangheta
che esercito è? In una delle
intercettazioni relative al caso
Cacciola, il padre di Maria
Concetta, Michele, dice: «Avevo una famiglia che... che me
la invidiavano. Guarda questi
indegni di merda, guarda! Mi
divertivo a guardarli a questi nipoti. Il giorno chi c’era
più contento di me, chi c’era
più contento di me. Almeno
mi hanno lasciato questi, ma
mi hai preso la figlia. Oh indegni gli prendete i figli ai
padri, ai padri... ai padri gli
prendete i figli, dov’è questa
legge? Questa legge è? Per
combattere a me mi prendi
la figlia?! Per combattere a
me?!».Verrebbe da rispondere:
è la legge di uno Stato che ha il
dovere di garantire al minore
condizioni di vita degne di
un paese democratico, contrapponendo alla “pedagogia
mafiosa” la pedagogia della
legalità. Ebbene, questo Stato
si è palesato nel Tribunale dei
minori di Reggio Calabria. Un
Tribunale di trincea, dove
passano giornalmente decine di minori assoldati dalla
’ndrangheta, alcuni colpevoli
di gravi delitti. È lì che è in
atto una rivoluzione. L’unica vera rivoluzione che può
sconfiggere la mafia calabrese.
La rivoluzione
silenziosa di
un tribunale
di frontiera
Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria, su iniziativa del
presidente Roberto Di Bella, ha stanziato alcuni provvedimenti
per allontanare provvisoriamente alcuni minori dalle famiglie
di ’ndrangheta. Un modo – controverso e dibattuto – per dare a
questi ragazzi un’alternativa alla mafia.
di Michela Mancini
Minori di ‘ndrangheta
31 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori di ‘ndrangheta
32 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Tutto ha inizio nel 2011, dopo
la morte di Maria Concetta
Cacciola. È stata proprio la
sua storia a convincere il Tribunale dei minori di Reggio
Calabria, guidato dal giudice
Roberto Di Bella, a prendere
dei provvedimenti per allontanare provvisoriamente
alcuni minori dalle famiglie
di ’ndrangheta. Queste misure
– adesso se ne contano più di
una ventina – vengono adottate solo in casi particolarmente
gravi ovvero quando l’interesse del minore non è stato
tutelato dai propri familiari.
Lo Stato non agisce in maniera
preventiva, ma solo quando
riscontra la possibilità che
la sopravvivenza del minore
venga messa in pericolo dall’inasprirsi delle condizioni di
vita in cui è immerso.
Perché sottrarre i minori
alle famiglie? Togliere i figli
ai mafiosi non solo è un atto,
ai loro occhi, inaccettabile,
ma è anche l’unico modo – in
situazioni limite – di salvare
dei bambini il cui destino è
segnato alla nascita. A decidere per loro, a segnare le tappe
fondamentali della crescita
e dell’adolescenza, sarebbe,
infatti, il proprio cognome. La
volontà di scegliere strade differenti da quelle mafiose non
è neppure tenuta in considerazione: l’alternativa non esiste
perché non la si conosce. Sostituire negli affari i membri
adulti della propria famiglia,
spesso in carcere o latitanti,
è un dovere, un privilegio e
un imperativo. Il presidente
Roberto Di Bella, prima gip
nella stessa struttura, ha visto
passare in quelle stesse stanze
i padri e i fratelli maggiori
dei ragazzi che ora si trova
davanti. L’amara conferma
che la ’ndrangheta si eredita:
le famiglie si assicurano il
potere sul territorio grazie
alla continuità generazionale. È una spirale che bisogna
interrompere. Il tentativo, che
ha già portato buoni risultati,
non è la mera sottrazione di
questi ragazzi ai boss. Una
volta emanato il provvedimento di allontanamento, i
minori vengono ospitati in
case-famiglia, dove educatori
e psicologi creano dei percorsi
di rieducazione individuali.
Come a dire: spostarli non
basta, bisogna che lo Stato si
impegni a fornire una valida
alternativa al contesto mafioso
da cui provengono. Proporre
un’altra strada, cercare di far
intravedere loro che esiste un
altro modo di vivere, in cui
non è il cognome che porti a
scegliere per te, bensì la tua
coscienza.
Quei tre bambini di una donna “ribelle”. La storia della
Cacciola e dei suoi tre bambini
è un caso limite – come tutti
quelli presi in esame – che ha
puntato i riflettori sull’uso che
le famiglie di ’ndrangheta fanno dei minori. I figli di Maria
Concetta sono stati utilizzati
come merce di scambio per far
ritornare la donna a Rosarno.
Hanno subito forti violenze
psicologiche dai loro nonni
diventando protagonisti di
una storia così tanto più grande di loro. In un’interrogazione parlamentare, sollevata
dalla deputata del Pd Laura
Garavini dopo la morte di
Maria Concetta Cacciola, si fa
riferimento in modo preciso
ai tre minori coinvolti nella
vicenda. Nell’interrogazione
si chiede di sapere «quali
ragioni abbiano determinato
l’allontanamento di Maria
Concetta Cacciola dalla località protetta in cui si trovava;
quali iniziative siano state
adottate dal Servizio centrale
di protezione per assicurare
l’incolumità della Cacciola
in Rosarno e, in particolare, se sia stata data informazione alla locale prefettura
della situazione di rischio
della donna; quali iniziative
siano state assunte presso il
Tribunale dei minorenni per
garantire alla Cacciola l’affidamento dei bambini nella
località protetta e il ricongiungimento del nucleo familiare;
quali iniziative il ministro
dell’Interno intenda adottare
al fine di assicurare che la
Commissione centrale di protezione modifichi la propria
determinazione circa lo status
di collaboratore di giustizia e
ammetta chi intende, come la
Cacciola, riferire fatti appresi
incolpevolmente nel proprio
contesto familiare al regime di
favore dei testimoni di giustizia; quali iniziative il ministro
della Giustizia intenda adottare al fine di accertare che la
vicenda di Giuseppina Pesce
e quella drammatica di Maria
Concetta Cacciola si siano
svolte nella piena osservanza
delle disposizioni di legge
che regolano il trattamento,
anche processuale, di quanti
intendono collaborare con la
giustizia ai sensi della legge
82 del 1991».Dopo l’interrogazione, il Tribunale dei minori ha richiesto un’indagine
da parte dei servizi sociali
in casa Cacciola – dove in
quel momento risiedevano i
genitori di Cetta – per valutare le condizioni in cui i tre
ragazzini vivevano. I servizi
non annotarono nessun caso
di maltrattamento. L’indagine
fu archiviata. La verità si apprese solo dopo che il gip di
Palmi Fulvio Accursio emise
l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Michele
Cacciola, sua moglie Anna
Rosalba Lazzaro e il figlio
Giuseppe. Era il 4 febbraio
del 2012. Un mese dopo con
un provvedimento a firma dei
giudici Francesca Di Landro e
Roberto Di Bella, i tre minori
furono allontanati.
Si legge nel provvedimento:
«[...] i minori F.A., G. e A.R.
hanno subito maltrattamenti e vessazioni da parte dei
nonni con i quali convivevano, i quali non si sono fatti
scrupolo alcuno di utilizzare
i medesimi bambini come
strumento di ricatto sulla
congiunta che si trovava nel
luogo di protezione, nell’assenza di alcuna attenzione
per i loro delicati equilibri
emotivi. Addirittura, L.A.R.
e C.M. – unitamente ad altri
familiari – non hanno esitato
a condurre la minore F.G. a G.,
località dove M.C.C. si trovava
in regime di protezione, con
il palese obiettivo di indurla
– anche attraverso la presenza
dissuasiva della figlia – a rientrare a R.. Conferma di tale
condotta strumentale – gravemente pregiudizievole per i
minorenni – si trae poi dalle
stesse confidenze (captate nel
corso di una conversazione)
fatte da C.M.C. all’amica E.G.
(“Io li ho cercati e non me
li hanno dati..hai capito? I
figli non me li mandano..non
vedi che non me li hanno
mandati... loro hanno capito
che se mi mandano i figli è
finita, non torno più”). L’inadeguatezza del contesto
familiare – permeato da una
soffocante cultura mafiosa
– emerge poi dalla stessa lettera manoscritta che M.C.C.
manda nel maggio 2011 alla
madre prima di iniziare il suo
percorso di collaborazione.
Con la drammatica missiva
la donna si preoccupa di affidare i suoi figli alla madre,
scongiurandola di non fare
con loro “l’errore” che aveva fatto con lei (“Non fare
l’errore a loro che hai fatto
con me...dagli i suoi spazi..
se la chiudi è facile sbagliare,
perché si sentono prigionieri
di tutto. Dagli quello che non
hai dato a me”) e, soprattutto,
di non lasciare i suoi figli “a
loro”, riferendosi agli altri
componenti della sua famiglia
(padre incluso), perché “non
degni” (“Non darglieli a suo
padre non è degno di loro..
parla di me non lasciarli a
loro.. non sono degni di loro
di nessuno”). [...] Il diretto
coinvolgimento dei figli in
dinamiche “ambigue”, dalle
quali dovrebbero rimanere
estranei i minori, emerge in
modo univoco dalla conversazione telefonica intercorsa
tra F.S. in stato di detenzione,
marito della C., e la figlia G..
Nell’occasione (verificatasi
il giorno successivo alla registrazione sopra indicata, in
cui la C. ritrattava le accuse al
padre e al fratello asserendo
di avere agito per vendetta e
per l’effetto dei psicofarmaci utilizzati), la minore F.G.
(non ancora quattordicenne)
comunicava al padre detenuto
che la madre il giorno prima
si era recata dall’avvocato
“P.” per registrare e poi dal
magistrato, “da Pignatone,
che gli ha detto che lei è una
donna libera ..che lei non ha
fatto niente”. [...] Un ulteriore riscontro del pesante
clima esistente all’interno del
nucleo familiare, con dirette
ripercussioni sull’equilibrio
psicologico dei minori si
trae dalla conversazione tra
presenti intercettata tra F.S.
e il figlio A.. Nel corso del
colloquio il detenuto chiede
al figlio minorenne il motivo dell’allontanamento della
madre da casa e quest’ultimo,
palesando evidente malessere,
risponde che era “tutta colpa
del nonno” che non esitava
a maltrattarla davanti ai figli (F.A.:“... Io ho perso una
madre...guarda qua, arriva
fino al limite della gelosia
per non farla uscire con la
macchina..per noi, ah, che
cosa erano queste..che poi i
Carabinieri hanno fatto la loro
parte, però la base principale
è stato lui, io sono rimasto
quando ho detto alla mamma:
o mamma, perché sei andata
via? E lei: non hai visto come
mi trattavano?....La mamma
mi ha detto di essere tornata
per me, per G., per R. ...”.
F.S.:” Ma la picchiavano? Chi
la picchiava?. F.A.:” Il nonno, ma per spavalderia che è
un pagliaccio di merda, vedi
come il signore lo ha castigato? ..Adesso ti dico una cosa;
perché la trattavano male ed
è voluta andare via, gliel’ha
fatta pagare al nonno così...
per come ragiono io è sbagliato come faceva lui, poi dopo
che è tornata si è sentita in
colpa...”). La condizione di
sofferenza del minore emerge
Minori di ‘ndrangheta
33 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori di ‘ndrangheta
34 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
in modo ancora più netto nel
seguito della conversazione,
allorquando il medesimo si
giustifica per non essere intervenuto a difesa della madre,
ammettendo la sua totale e
comprensibile sudditanza nei
confronti del nonno (“Al nonno cosa posso dirgli? Questo
qua mi sta mantenendo..non
è che posso fare qualcosa?)».
Gli elementi sono sufficienti
per comprendere che allontanare i figli della Cacciola da
quel contesto familiare era l’unica soluzione per proteggerli.
Salvatore Figliuzzi ha perso
la sua potestà genitoriale. I
tre bambini sono stati in un
primo momento ospitati in
una casa-famiglia, in un secondo momento sono andati
a vivere con alcuni parenti.
Le due bambine, affiancate da
uno psicologo, stanno facendo
un percorso di rieducazione.
Il figlio maggiore di Cetta,
ormai maggiorenne e quindi
libero di scegliere, è ritornato
a vivere nel suo paese. Lo
stesso provvedimento è stato emesso dal Tribunale dei
minori di Reggio per i figli di
Giusy Pesce, per consentire ai
tre bambini di raggiungere la
madre in una località protetta.
In questo caso la decisione
dei magistrati reggini è stata
fondamentale, non solo per la
tutela dei minori, ma anche
per garantire il proseguimento
della collaborazione a queste
donne. Sapere di poter portare i figli con sé incoraggia
molte di loro ad affrancarsi
dalla famiglia d’origine. Se
una donna decide di collaborare con la giustizia in nome
dell’amore per i suoi bambini,
è compito dello Stato – con
le dovute valutazioni – per-
mettere il congiungimento
tra la madre e i figli, così da
sottrarli ai contesti mafiosi da
cui provengono, evitando che
diventino materia di ricatto.
Una vita rubata alla ’ndrangheta. Un’altra storia che aiuta
a capire l’assoluta necessità
della procedura inaugurata a
Reggio Calabria riguarda un
ragazzo di nome Riccardo, il
suo cognome è quello di una
delle più potenti famiglie di
’ndrangheta del reggino. Quando aveva sedici anni, Riccardo
è stato sorpreso insieme con
altri amici attorno a un’auto
danneggiata della Polizia ferroviaria di Locri. Il processo
per furto e danneggiamento si
è concluso con l’assoluzione
per carenza di prove, tuttavia
quell’indagine ha permesso
al Tribunale di ricostruire la
sua storia familiare. Riccardo
sembrava essere condannato
a un destino ineluttabile. Il
padre fu ucciso in un agguato
mafioso quando il ragazzo era
ancora piccolo, i fratelli sono
stati arrestati per omicidi e
associazione mafiosa. Uno di
loro è al 41 bis, la madre non
lo tocca da dieci anni. Riccardo
recitava il ruolo che la ’ndrangheta gli aveva assegnato, si
preparava alla stessa sorte
scontata dai fratelli maggiori.
Passava la notte in compagnia
di pregiudicati, a scuola non
ci andava mai. Era lui stesso
a parlare della propria vita
con rassegnazione, pensava
che quella fosse l’unica strada
percorribile. La madre «non
appariva idonea a contenerne la pericolosità come comprovato dalla sorte degli altri
figli», e «neppure il contesto
parentale allargato offriva ga-
ranzie per l’educazione del
giovane», poiché la «famiglia»
di appartenenza aveva «un ruolo di spicco nella criminalità
organizzata del territorio di
residenza». I giudici Roberto
Di Bella e Francesca Di Landro,
su richiesta del pm minorile
Francesca Stilla, decisero di
emettere un provvedimento
– d’urgenza e inaudita altera
parte (senza contradditorio
con la famiglia contro parte,
rimandato ad un secondo momento) – con il quale Riccardo
«veniva affidato al servizio
sociale per inserirlo subito in
una comunità da reperirsi fuori
dalla Calabria, i cui operatori
professionalmente qualificati
siano in grado di fornirgli una
seria alternativa culturale». In
un primo momento la madre
oppose resistenza, non voleva che anche questo figlio le
venisse portato via. Presentò
anche un reclamo poi respinto
in Corte d’Appello. Quando
le spiegarono che l’allontanamento del ragazzo non era
punitivo ma volto ad evitare
che il figlio subisse la sorte dei
fratelli e del padre, accettò di
seguire il percorso di recupero
delle sue competenze genitoriali presentandosi presso il
consultorio familiare territoriale, ma soprattutto non si
oppose a quello programmato
nell’interesse del figlio, nella
speranza – inconfessata – di
evitare quello che anche a lei
sembrava un destino ineluttabile. Paradossalmente, il
percorso programmato venne
accettato anche dai fratelli più
grandi del giovane che, sofferenti per le restrizioni carcerarie, incoraggiarono la madre
a seguire “la strada nuova”
indicata da “un giudice che
per una volta si interessava di
loro”. Per il giovane l’apertura
ad un nuovo “mo(n)do” è stata
graduale; ha avuto inizio nel
momento in cui ha capito che
qualcuno si stava prendendo
cura di lui e che quel qualcuno rappresentava lo Stato,
lo stesso nel quale Riccardo
intravedeva il principale antagonista. La legge mafiosa non
permette di abbandonarsi alle
cure altrui, a slanci affettivi,
essa impone esclusivamente il
freddo riconoscimento dell’autorità. Riccardo, all’inizio del
suo percorso, voleva essere
invisibile, agli sguardi, ai sentimenti, si nascondeva agli
altri e a se stesso. Nel corso
del tempo ha partecipato agli
eventi organizzati dalle associazioni antimafia del territorio
in cui risiedeva. Eventi legati
alla commemorazione di personalità o di fatti che hanno
segnato la storia della lotta
alla criminalità organizzata.
Ha cominciato anche a lavorare come volontario in una
struttura che si prende cura di
bambini disagiati, li aiutava a
fare i compiti, giocava con loro.
Aveva anche ripreso a studiare.
Periodicamente andava a trovare la madre; i loro percorsi
procedevano parallelamente, quando si incrociavano le
loro mani, la speranza di un
cambiamento non era più solo
immaginazione. Adesso Riccardo è maggiorenne, da tempo
ormai non ha problemi con la
giustizia. Lo scorso maggio ha
scritto una lettera al Corriere
della Sera per raccontare la
sua storia. «Ho deciso che la
mia vita deve essere diversa.
Voglio ritornare a Locri, ma
non voglio più avere problemi
con la giustizia. Non perché
non mi conviene, ma anche
perché voglio vivere sereno.
Voglio essere pulito. Prima
di vivere questa esperienza,
credevo che allo Stato non
gliene importasse niente delle
persone. Lo Stato era quello
che ti portava via da casa. E
non sapevi se tornavi e quando tornavi. In questi mesi ho
conosciuto uno Stato diverso,
che non mi ha voluto cambiare
a tutti i costi ma che per una
volta ha cercato di capire chi
ero io davvero. E chi sono io
davvero? Un ragazzo di diciotto anni, un ragazzo come gli
altri». Il percorso di Riccardo
non è però tutto in discesa,
né risolto: a febbraio 2015 è
stato emesso un Daspo nei suoi
confronti per lancio di lacrimogeni e oltraggio agli agenti
durante una partita di calcio.
Un “inciampo” su cui ulteriori
riflessioni sono necessarie.
Un protocollo fondamentale.
I provvedimenti di allontanamento emanati dal Tribunale
dei minori da soli non sono
sufficienti. Per contrastare
le ’ndrine, bisogna renderli
organici, bisogna alzare il tiro:
il Tribunale deve diventare
una macchina efficiente, deve
dotarsi di una lente d’ingrandimento che scovi i ragazzi
in odor di mafia, un universo
sommerso difficile da indagare. Con questi presupposti
nasce il 21 marzo del 2013
un protocollo d’intesa a firma
degli uffici giudiziari del Distretto della Corte d’Appello
di Reggio Calabria, destinato
a rappresentare, per l’innovativa strategia di rete e le finalità perseguite, un precedente
assoluto. Tale documento è
stato sottoscritto sulla scia
dei provvedimenti adottati
dal Tribunale per i minorenni
e muove i suoi passi dalla
considerazione di fondo che
l’indispensabile repressione
penale o patrimoniale non
è da sola idonea a sradicare il fenomeno ’ndrangheta.
Fenomeno che è soprattutto
culturale e si autoalimenta
all’interno dei nuclei familiari, in una spirale perversa che
è difficile intaccare, anche per
la scarsa incidenza del pentitismo. Obiettivo dell’intesa è
quello di realizzare interventi
giudiziari coordinati a tutela
dei minorenni disagiati, autori
o vittime di reati della provincia di Reggio Calabria. Negli
ultimi venti anni il Tribunale
per i minori ha trattato circa
100 procedimenti per associazione mafiosa e più di 50
procedimenti per omicidi e
tentati omicidi nei confronti
di minori, molti dei quali –
ormai maggiorenni – sono
sottoposti al 41 bis o sono stati
uccisi nel corso di faide tra
’ndrine. Sono numeri rilevanti
confermati da diverse fonti.
Ne parlano, ad esempio, il
magistrato Nicola Gratteri e
lo storico Enzo Ciconte: «Dai
dati è emerso che il 59% degli
affiliati alla ’ndrangheta alla
fine del 2005 aveva un’età
inferiore a 45 anni, a conferma della facilità con cui le
’ndrine riescono a rinnovare
i propri organici. Enzo Ciconte ha esaminato 52 sentenze
pronunciate in Calabria dal
1884 al 1915, rilevando che gli
imputati di un’età compresa
tra i 14 e i 30 anni rappresentavano il 71,58 % del totale.
[...] Nel corso della seconda
guerra di mafia a Reggio Calabria sono stati impiegati
Minori di ‘ndrangheta
35 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori di ‘ndrangheta
36 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
come sicari molti minorenni,
alcuni dei quali sono rimasti
uccisi. Una delle famiglie che
ha dimostrato di poter contare di più sui giovani è stata
quella dei De Stefano Tegano»
(Nicola Gratteri, Antonio Nicaso, Fratelli di Sangue). Un
fenomeno, quello dei minori
di ’ndrangheta, che per troppo
tempo è stato sottovalutato. Il
protocollo nasce per questo.
Nel dettaglio, innanzitutto
introduce una rinnovata metodologia operativa nel contrasto a determinati sistemi
criminali, proponendosi di
arginare in via preventiva il
fenomeno mafioso attraverso
le necessarie “infiltrazioni”
culturali. L’obiettivo principale è quello di offrire adeguate
tutele e proposte pedagogiche
alternative ai minorenni delle
’ndrine così da evitarne la
strutturazione criminale. In
altri termini, le significative
assenze educative con violazione degli obblighi di assistenza familiare (ad esempio
per latitanza) di determinati
soggetti, la connivenza dei
loro congiunti e la trasmissione di modelli culturali di
stampo mafioso ai figli minori
– i quali sono spesso cooptati
in attività illecite – sono tutte
circostanze ormai note nel
territorio reggino. Un quadro
che ha suggerito di istituire
un circuito comunicativo tra
la Procura della Dda, gli altri
uffici inquirenti e giudicanti
del Distretto e gli uffici giudiziari minorili (Procura della
Repubblica e Tribunale per i
minorenni), finalizzato alla
segnalazione di tutte le situazioni di concreto “pregiudizio
familiare”, con l’obiettivo di
attivare le preventive inizia-
tive di tutela. Un circuito comunicativo indispensabile
per rendere la macchina della
giustizia rapida ed efficiente
nell’indagare quell’universo
sommerso di cui si accennava sopra. Gli interventi
civili minorili – da adottare
nel rispetto della normativa
interna e internazionale in
materia – consistono, nei casi
di riscontrato pregiudizio, in
provvedimenti di limitazione
o decadenza della potestà genitoriale (art. 330 e seguenti
del codice civile) e/o in misure amministrative per minori
con condotta irregolare, con
affidamento etero-familiare,
a strutture comunitarie (nei
casi estremi o di rischio per
l’incolumità psico-fisica anche fuori dalla Calabria) o
ai Servizi Sociali. L’obiettivo di tali misure è quello di
fornire ai minori coinvolti
adeguate tutele per una regolare crescita psico-fisica e,
nel contempo, la chance di
sperimentare alternative culturali funzionali ad evitarne
la definitiva strutturazione
delinquenziale. Si tratta di
ragazzi che provengono da
contesti particolarmente degradati oltre che contrassegnati da devastanti dinamiche
criminali dalle quali è quasi
impossibile uscire quando
gli unici modelli sono quelli dei genitori o dei parenti
stretti. Nell’ambito di tali
procedure, il Tribunale per i
minorenni potrà impartire ai
minori interessati e, quando
possibile, ai genitori le necessarie prescrizioni per il
recupero delle competenze
educative, da acquisire attraverso attività di volontariato,
incontri con le vittime e corsi
di educazione alla legalità da
istituire nei locali confiscati
alle organizzazioni criminali.
Tuttavia l’obiettivo degli uffici
giudiziari reggini è quello
di sperimentare dei percorsi rieducativi sia in ambito
civile che in ambito penale,
limitando gli inserimenti in
comunità. La speranza è di
poter affidare i “minori di
’ndrangheta” a famiglie di
volontari (appartenenti alle
associazioni come Libera, Gerbera Gialla, Addio Pizzo), così
da far loro sperimentare contesti di vita diversi e contatti
con coetanei di altre realtà. In
secondo luogo, il protocollo
disciplina un circuito comunicativo tra uffici finalizzato
a fornire un’immediata tutela
giuridica ai figli di coloro
che intraprendono percorsi di collaborazione con la
giustizia, con l’obiettivo di
evitare strumentalizzazioni di
minorenni e consentirne un
rapido ricongiungimento con
il familiare sotto protezione
(con affido giuridico esclusivo
ed eventuale provvedimento di decadenza o limitazione della potestà genitoriale
nei confronti del familiare
non incluso nella proposta
di protezione per contiguità
criminale o perché la rifiuta).
Il protocollo d’intesa, oltre che costituire un valido
strumento per gli operatori
giudiziari in un ambito dove
non vi sono precedenti consolidati, può fungere da volano
per nuove collaborazioni da
parte di soggetti che vogliano
intraprendere un percorso
di legalità a fianco e a tutela
dei propri figli. In particolare, quel che si augurano
i firmatari del protocollo è
che la diffusione e la conoscenza di tale prassi diventi
presupposto per una scelta
scevra da condizionamenti,
incentivando il fenomeno della collaborazione delle donne
di ’ndrangheta. In una società
patriarcale, con regole rigide e
dove i matrimoni sono imposti a donne giovanissime che
spesso si trovano sole con figli
minori (per la detenzione o la
morte dei mariti “caduti sul
campo”) e “imprigionate” dalla famiglia di appartenenza,
l’informazione “correttamente
veicolata” sull’opportunità di
una nuova vita, insieme ai
propri figli, potrebbe produrre
effetti imprevedibili.
Le critiche al progetto. La
principale critica che è stata
rivolta all’iniziativa dei magistrati reggini è che questi non
dovrebbero intervenire all’interno dei contesti familiari e
censurare i modelli educativi,
anche se intrisi dei disvalori
propri delle organizzazioni
criminali, perché la società
civile deve maturare da sé gli
anticorpi necessari. Si è detto
che la famiglia, la scuola, la
chiesa, i servizi sociali, il volontariato e tutte le altre agenzie deputate alla formazione
dei minori possono invertire
il sistema anche in Calabria e
non necessitano di interventi
dell’autorità giudiziaria. Si
tratta di un’argomentazione
corretta sul piano teorico,
ma purtroppo viene smentita
dall’amara realtà dei fatti. La
necessità di intervenire per via
giudiziaria, nei casi di riscontrato pregiudizio ai danni del
minore e non solo perché la famiglia è mafiosa, nasce proprio
dal fatto che da sole scuola,
chiesa, servizi sociali e volontariato non sono sufficienti a
garantire – in quelle estreme
circostanze – il sano sviluppo
dei ragazzi. Basti aggiungere le difficoltà riscontrate ad
esempio da parte di alcuni
assistenti sociali nell’eseguire
i provvedimenti. Schierarsi
contro la ’ndrangheta, seppur
per conto dello Stato, fa paura. La presenza sul territorio
delle stesse “famiglie” da oltre
quaranta anni e l’avvicendarsi
costante presso il Tribunale
per i minorenni dei soliti nomi
sono una diretta riprova della
buonafede dei provvedimenti.
Enza Rando, avvocato di Lea
Garofalo e responsabile legale
di Libera, spiega l’assoluta
necessità di queste misure
giuridiche per contrastare il
fenomeno mafioso: «Se uno
Stato è credibile e forte, questa
cosa la deve fare. Quand’è che
scatta per un minore lo stato
di adottabilità? Ad esempio,
quando per ragioni economiche una famiglia non riesce
a garantire al bambino una
vita degna. Ci sono persone
costrette a lasciare i propri figli perché non hanno soldi. In
questi casi lo Stato dovrebbe
essere più umano. Dovrebbe
dire: io ti accompagno economicamente così ti permetto
di crescere il tuo bambino.
Eppure non sempre lo fa. La
povertà non è un reato eppure
ti può far perdere i figli. Come
mai davanti ai veri reati ci
scandalizziamo tanto se un
minore viene allontanato dalla propria famiglia? Prendiamo il caso di un padre a cui
decade la patria potestà dopo
che è stato condannato all’ergastolo. È probabile che sua
moglie diventerà l’elemento
di collegamento tra la galera
e il gruppo mafioso. Questa
donna chiederà a suo figlio di
vendicare il padre. Lo Stato
come fa a tutelare questo ragazzo? Può solo allontanarlo
dalla famiglia. Chiaramente
le famiglie sono cellule privatistiche ma hanno anche la
mano pubblica a sostenerle.
Perché lo Stato non dovrebbe
intervenire nelle famiglie in
cui i bambini sono educati
già da piccoli alla violenza
come sistema? Se lo Stato
c’è, deve prevalere l’interesse del minore. Tempo fa ho
conosciuto una testimone di
giustizia calabrese che parlava
il linguaggio della ’ndrangheta. Rincontrandola dopo
qualche anno, quel modo di
esprimersi era quasi sparito;
suo figlio sembrava nato in
un altro luogo. Il ragazzo ora
studia all’università. Vuole
fare il magistrato».
I casi di collaborazione femminile, che negli ultimi anni
stanno creando la prima vera
crepa nella struttura della mafia calabrese, non sono però
sufficienti a scardinare l’intero
sistema. Se queste donne decidono di rinnegare la ’ndrangheta in nome dei propri figli,
è a loro che bisogna pensare
affinché il virus venga debellato alla radice.
Ecco perché è necessario raccontare quel che sta accadendo a Reggio Calabria. Le donne
devono sapere che, se lasciano
la famiglia, possono portare
con sé i propri bambini e lo
Stato ha il dovere di dare a
questi giovani una possibilità.
Ma i giudici da soli non possono vincere. Bisogna creare
una rete che sostenga questi
ragazzi.
Minori di ‘ndrangheta
37 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
38 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Minori di ‘ndrangheta
Liberi di
scegliere
È un progetto che coinvolge magistratura, psicologi, educatori
e volontari di Libera, della Caritas italiana, dell’associazione
Giovanni XXIII e di Addio Pizzo Sicilia. Tutti insieme per
un unico obiettivo: creare una rete di sostegno per i ragazzi
appartenenti a famiglie mafiose
di Michela Mancini
Nascono adulti i bambini della
’ndrangheta. La loro è un’infanzia negata. A quindici anni
chiedono il pizzo per conto
dei loro padri in carcere, a
diciassette già uccidono. Non
conoscono il valore di “una
vita”, premono un grilletto
e perdono un’innocenza negata dalla nascita. Eseguono
ordini che arrivano dall’alto e
ne vanno fieri. Perché essere
“uno di loro” è un privilegio.
Vuoi mettere essere un uomo
d’onore rispetto al non contare
nulla? Mario Nasone, presidente del centro comunitario
Agape di Reggio Calabria, di
questi ragazzi ne ha conosciuti
tanti. Sono passati in quelle
stanze dove équipe di educatori e volontari hanno cercato
di indicare loro un’altra strada, diversa dalla ’ndrangheta.
Nasone racconta: «Una volta
ho chiesto a un ragazzo di San
Luca perché fosse entrato in
quel giro. Lui mi ha risposto
“prima, quando giravo per
strada nessuno mi calcolava,
adesso se passo io, si tolgono
il cappello”. Ecco questa è
la mafia. Ti fanno credere di
essere temuto e rispettato, ti
convincono che è grazie a loro
che la gente ti considera. Ma
la ’ndrangheta non fa volontariato: tutto quello che fa, lo
rivuole indietro. Ti legano a
loro per sempre, non sei più
padrone della tua vita». Smettono di scegliere e si lasciano
condannare ad un’esistenza
misera questi ragazzi. Non
sospettano nemmeno che a
un passo da quelle strade c’è
un mondo che funziona con
altre regole, dove ogni tanto
puoi cedere e comunque rimanere uomo.
Un’alternativa esiste. Il Tribunale dei minori reggino,
l’associazione Libera-Calabria,
AddioPizzo Messina e la camera minorile di Reggio Calabria hanno deciso di puntare
in alto, presentando un progetto organico al ministero della
Giustizia. Lo scopo è avviare,
attraverso i fondi dell’Unione
europea, un piano di azione
sistematico nei confronti dei
minori appartenenti a famiglie di ’ndrangheta. Il nome
spiega già tutto: “Liberi di
scegliere”, così si chiama il
progetto, coinvolge un’équipe
multidisciplinare che vede
schierata non solo la magistratura e gli Uffici di Servizio
Sociale per i minorenni, ma
anche psicologi, educatori e
volontari di Libera e di Addio
Pizzo. Questo gruppo di lavoro, appositamente selezionato,
avrà il compito di individuare
il percorso personale per ogni
minore. Per avere risultati
concreti è necessario che alle
spalle del singolo ragazzo/a ci
sia una vera e propria “rete” di
sostegno. Una struttura organizzativa che si basi sull’impegno congiunto di istituzioni
e privato sociale. La specificità del progetto, inoltre, è
caratterizzata dalla prosecuzione dell’intervento oltre il
compimento del diciottesimo
anno di età. Infatti, occorre
predisporre un continuum
operativo che includa l’accompagnamento del minore,
ormai divenuto maggiorenne,
all’autonomia esistenziale,
ovvero economica, affettiva
e sociale: prospettiva realizzabile solo con l’ausilio delle
risorse del privato sociale. Per
questo fra i firmatari compaiono anche sigle importanti
dell’imprenditoria italiana,
come ad esempio Confindustria e Lega delle Cooperative
Nazionali. Aziende che fanno
capo a queste organizzazioni
dovrebbero impegnarsi a fornire borse-lavoro o, comunque, opportunità lavorative
ai soggetti meritevoli inclusi
nel progetto.
La pedagogia contro la
’ndrangheta. Trovarsi davanti
ad un adolescente cresciuto in
contesti mafiosi non è certo
la stessa cosa di avere a che
fare con un minore che si è
macchiato di reati ascrivibili
alla criminalità comune. Le
esperienze accumulate hanno
permesso agli assistenti sociali
e agli psicologi di rilevare
“costanti” comportamentali
osservate su minori allontanati dal contesto familiare e
inseriti in comunità. Si legge
nel progetto “Liberi di Scegliere”: «Nei confronti della
famiglia appaiono evidenti:
atteggiamento di dipendenza;
forte identificazione con le
figure parentali; propensione
a replicare i codici paterni e
materni; attaccamento originario e conformità ai (dis)valori
trasmessi. La sottomissione
nei confronti di figure autoritarie, con socializzazione
prevalentemente verticale e
ricerca di una gerarchia, de-
termina una censura (emotiva)
ed un controllo opprimente
orientato, inevitabilmente,
alla solitudine. Difatti, la famiglia, estremamente pervasiva
nelle regole e legami impartiti,
disconosce il mondo interiore
dei propri figli, a vantaggio
di un mondo esterno solido,
rigido, seducente e violento. In
essa esistono legami parentali
freddi, sacri e intoccabili, a
fronte della profonda ignoranza della vita interiore dei
figli, dei loro problemi, sogni
e desideri, lavorando semmai
a trasformare l’affetto in fedeltà. Chiari gli effetti sulla
struttura personologica del
minore e sulle prospettive
esistenziali future: difficoltà
di apprendimento, insuccesso scolastico e precoce
uscita dal circuito formativo
che sanciscono il fallimento
del rapporto tra il minore e
la scuola; percezione di controllo e necessità di superare
il limite per dimostrare a sé
e agli altri di essere in grado
di dominare e gestire la propria vita senza la guida degli
adulti; difficoltà a proiettarsi
nel futuro; scarsa capacità
di riflettere su se stessi e
sulle conseguenze dei propri
comportamenti; difficoltà a
cambiare il proprio schema mentale nell’affrontare
situazioni problematiche o
impegnative; incapacità di
tollerare le frustrazioni; forte apatia e demotivazione;
fobie e vissuti depressivi;
trasgressione e superamento dei limiti; scarsa fiducia
nelle proprie capacità; bassa
autostima; desiderio di contrapporsi all’ordine costituito;
incapacità di fare investimenti
a lungo termine».
Strategie di intervento. Educare i minori provenienti da
contesti criminali non significa reprimere. Spiegano gli
psicologi: «Occorre mettersi
in ascolto, comprendere il loro
linguaggio e i valori di riferimento. Necessita cogliere i
loro bisogni, entrare in dialogo
con le loro emozioni, interessi e desideri, ma soprattutto
è indispensabile sviluppare
relazioni significative». Gli
interventi, individualizzati in
base alle specificità di ciascun
minore interessato e alla gravità delle situazioni familiari,
sono più d’uno: la “semplice”
imposizione di un progetto
individuale di recupero/educazione alla legalità senza allontanamento dal contesto
familiare o un inserimento del
minore in casa-famiglia o in
una struttura a semiconvitto
nella regione Calabria; oppure,
nei casi più gravi, sarebbe possibile ricorrere al temporaneo
allontanamento dal contesto
familiare con inserimento in
un nucleo familiare o in una
casa-famiglia collocata in un’
altra regione, da individuarsi
preferibilmente nell’ambito
delle rete associativa. In entrambi i casi, dovrà consentirsi
il coinvolgimento di figure
familiari che abbiano messo in discussione il sistema
criminale ’ndranghetista. Attraverso questo processo di
diversificazione (distacco) e
futura identificazione (non
omologata) del minore potranno ricomporsi i bisogni e
le esigenze tipiche dell’adolescenza rimasti soffocati sotto
il peso dei condizionamenti
ambientali. L’inevitabile passo
successivo dovrà offrire alternative economiche, sociali,
Minori di ‘ndrangheta
39 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
40 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
culturali, affettive, mediante
la promozione di valori antagonisti alla cultura mafiosa.
Minori di ‘ndrangheta
Parola d’ordine: “insieme”.
Quel che preme sottolineare
è che “Liberi di scegliere”
vuole coinvolgere soggetti
pubblici e privati. La scelta
è precisa: lo sforzo deve essere
congiunto per vincere questa
sfida lanciata dal Tribunale
dei minori. Una sfida che ha
bisogno di tutta l’attenzione
della politica e di fondi che
la sostengano. La rivoluzione
iniziata in quel piccolo Tribunale di frontiera potrebbe davvero essere letale per la mafia
calabrese. Per ridare vita alla
Calabria bisogna restituirle la
sua gioventù: ragazzi e ragazze
che imparino a scegliere cosa
vogliono diventare.
«Della ’ndrangheta, degli uomini e
delle donne che ne fanno parte si
sa molto di più rispetto al passato. Ma c’è una grande lacuna, ieri
come oggi, e riguarda i figli. Bambini
cresciuti in un clima di violenza,
omertà e sopraffazione: uno sfondo
costante, un destino già stabilito, al
quale difficilmente possono opporsi. Bambini che invece di giocare
vanno a trovare il padre nascosto
in un bunker, invece di sbucciarsi
le ginocchia imparano a sparare.
Bambini che poi crescono e, a 14
anni, non corteggiano le amiche a
scuola, ma vengono affiliati con il
rito del battesimo per poter diventare
futuri uomini d’onore. Ma come
vivono da giovani mafiosi? C’è chi
è affascinato dal potere, chi cresce
convinto che sia la violenza l’arma
giusta, e la padroneggia senza battere
ciglio; ma c’è anche chi rinnega la
scia di sangue che il proprio nome
si porta dietro. Come aiutarli? È
difficile entrare nei loro pensieri,
comprenderne esigenze, intime
necessità e desideri inespressi. Ma
una domanda è d’obbligo: se conoscessero un altro modo di crescere
cosa accadrebbe? E cosa è accaduto
a chi ci ha provato?»
Questa la presentazione di Bambini
a metà. I figli della ’ndrangheta,
della giornalista Angela Iantosca
(Giulio Perrone Editore, 15,00 euro).
Attraverso le carte giudiziarie e le
parole di pubblici ministeri, giudici,
psicologi, educatori, Angela Iantosca
tratteggia un mondo inesplorato,
raccontando storie e analizzando
i possibili scenari di intervento a
tutela dei minori prigionieri della
’ndrangheta. Con la prefazione di
Enzo Ciconte.
41 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Riparte il futuro, la campagna
apartitica e trasversale di Gruppo Abele e Libera che ha per
obiettivo quello di contrastare il
fenomeno della corruzione attraverso l’agire della società civile,
a gennaio ha compiuto due anni.
Forte di quasi 800mila firmatari che la rendono l’iniziativa
online più partecipata d’Italia,
è una campagna di successi e
di sconfitte, più in generale di
qualche buona notizia in una
stagione di terribile cronaca:
Mose, Expo, Mafia capitale sono
solamente i casi più noti degli
ultimi mesi.
L’obiettivo più ambizioso di Riparte il futuro non è raggiungere
un milione di firme, mantra che
ripetiamo spesso per far comprendere quanto sia importante
essere in molti; ma è morire,
scomparire, smettere di avere
un ruolo.
Ci auguriamo che nel prossimo
domani non si renda più necessaria un’iniziativa dal basso
per evidenziare la più banale
e lampante delle verità: che la
corruzione distrugge l’economia
sana, i diritti sociali, la stessa
convivenza umana, e non conviene mai.
Solamente in un Paese in costante emergenza morale è necessario che sia la cittadinanza a ricordarlo. Sino a quando
però la lotta alla corruzione sarà
percepita come sola battaglia
di qualcuno “più etico” degli
altri, Riparte il futuro dovra
continuare a esistere.
Riparte il futuro ha scelto un
nome senza alcun rimando alla
corruzione: perché vogliamo già
pensare a un mondo senza corrotti, corruttori e clan criminali.
Quanto all’advocacy verso le
istituzioni nazionali, dopo aver
raggiunto nel 2014 l’obiettivo
della riforma del voto di scambio politico-mafioso, abbiamo
proposto lo stop ai vitalizi per ex
deputati e senatori condannati
per mafie e corruzione (www.
riparteilfuturo.it/stopvitalizio),
poi la modifica del meccanismo della prescrizione (www.
riparteilfuturo.it/prescrizione),
e il miglioramento di tutta la
disciplina anticorruzione.
Siamo quindi saliti sino all’Unione Europea, chiedendo tramite www.restartingthefuture.
eu una direttiva europea per il
whistleblowing, affinché in tutti
i 28 Paesi comunitari, Italia in
primis, sia difeso chi “fischia”
contro la corruzione segnalando
illeciti. Proprio in dicembre
abbiamo presentato un report
al Parlamento europeo.
Nel 2014 ci siamo concentrati
anche sui Comuni, con l’iniziativa #electionday2014, proponendo l’adozione della delibera “trasparenza a costo zero”
(www.riparteilfuturo.it/elezioni-2014/delibera-trasparenza-acosto-zero/), per moltiplicare
e diffondere a macchia d’olio
efficaci politiche anticorruzione.
Abbiamo dunque chiesto trasparenza e integrità a specifici
mondi di pubblica amministrazione, sostenendo il monitoraggio civico della rete Illuminiamo
la salute (www.illuminiamolasalute.it) attiva sui temi sanitari,
e chiedendo alle 66 Università
pubbliche italiane le massime
tutele per chi segnala episodi
di corruzione (con www.riparteilfuturo.it/istruzione).
Abbiamo raccolto, dal dialogo
con i territori di Libera, proposte nate dal basso, come nel
caso della richiesta, accordata,
dell’audizione del maresciallo
Nistri a Pompei, o per chiedere
un fondo speciale trasparente
per la ricostruzione della Liguria
post-alluvione.
Quanto compiuto è e resta troppo poco rispetto a quanto ancora
da compiere.
Ci sentiamo rafforzati dalle parole del neoeletto presidente
Sergio Mattarella, secondo cui
«la lotta alle mafie e alla corruzione è priorità assoluta e
richiede persone oneste, competenti, tenaci».
Anche per questo, il migliore
augurio per il 2015 che si possa
fare alla campagna è che sia
l’anno della sua conclusione.
È un ottimo augurio per l’Italia
intera, perché, finalmente senza
Riparte il futuro, significherà
che in questo Paese il futuro è
davvero ripartito.
a cura di Leonardo Ferrante
Una battaglia
di tutti
altarisoluzione
42 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
“Gridas”
di riscatto
Colori, maschere, percussioni e balli tra
i palazzi e il cemento grigio di Scampia.
Sul viale principale, nei cortili delle Case
dei Puffi, tra le Vele che tutti in quartiere
vorrebbero abbattere, il 33esimo carnevale
organizzato dal GRIDAS (Gruppo di Risveglio
Dal Sonno, richiamo a una delle incisioni
della “quinta del sordo” di Francisco Goya:
“el sueño de la razon produce monstros”) il
15 febbraio scorso ha attraversato Scampia
per riportare attenzione e visibilità su un
territorio abbandonato a se stesso, preda di
istituzioni assenti o distratte.
«Per cambiare questo Paese e risvegliare
le coscienze – ha spiegato Mirella, ex insegnante di Lettere e promotrice del carnevale
GRIDAS – è necessario partire dal basso,
dalle periferie come Scampia e dalla scuola», ed è per questo che il tema centrale cui
quest’anno si è ispirato il corteo è stato proprio la qualità delle istituzioni scolastiche.
di Emilio Fabio Torsello – foto di Rosita Rijtano e E.F. Torsello
43 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
44 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
A dare il “titolo” al carnevale, lo slogan:
“«CIUCCI PER CHE E PER CHI ovverossia
SCUOLA/Scuola MAL-TRATTATA», in
riferimento – si legge sul sito del GRIDAS
– alla pessima situazione in cui versa la
scuola pubblica al pari degli altri servizi
pubblici in Italia, ma con l’aggravante che
la scuola deve (o dovrebbe) formare il futuro
del paese. Tagli, precarietà, incompetenze
e favoritismi vari contro chi combatte ogni
giorno per riaffermare diritti che si credevano
ormai acquisiti. Di contro, esperienze di lotta
e resilienza dal basso che «fanno scuola” e
che possono insegnare a chi fa della scuola
“un mestiere”».
Senza dimenticare la questione sociale direttamente legata all’urbanistica: le Vele.
Quell’alveare grigio di esistenze stipate va
abbattuto e riprogettato in un’ottica di socialità costruttiva, assicurando alle famiglie una
casa e una vita dignitosa. Perché la dignità
di un quartiere passa anche e soprattutto
attraverso le abitazioni. Quello delle Vele è
un problema vecchio di decenni, emblema
di un Paese immobile, dimentico di vite ed
esistenze lontane dai Palazzi della politica.
altarisoluzione
45 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
46 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
47 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Tre reati all’ora
«Nelle banche straniere transitano soldi accumulati trafficando
rifiuti», scrive Lagambiente, ed
è paradigmatico il caso dello
smaltimento di sostanze tossiche
nella tristemente nota Terra dei
fuochi, con il loro interramento
nei campi coltivati, nelle cave e lo
sversamento nei fiumi compiuto
con l’intermediazione di società
controllate dai boss.
Oggi il migliore alleato di chi
inquina continua ad essere la prescrizione. L’estinzione del reato
ha interessato molti dei più importanti processi penali italiani
su crimini e disastri ambientali,
come accaduto nel maxi-processo
scaturito dall’operazione “Cassiopea” sul traffico illecito dei
rifiuti speciali sversati in alcune
regioni del Sud o nell’inchiesta
“Artemide” sui materiali interrati
nella piana di Sibari. Ma il filo
rosso dell’archiviazione ha unito
anche le sentenze sui disastri
ambientali per le discariche di
rifiuti tossici della Montedison
di Bussi, dell’Eternit di Casale
Monferrato e dell’ex colorificio
Marlane di Praia a Mare. Eppure,
negli ultimi vent’anni, le commissioni parlamentari d’inchiesta
sulle ecomafie hanno evidenziato
più volte come questa “falla” del
nostro codice penale permetta
agli inquinatori di farla franca. La
giustizia dispone di armi spuntante, mentre in alcune zone
del paese l’ecomafia continua
a uccidere e a far ammalare le
persone. Delitti contro l’ambiente e tumori, un legame messo
spesso in dubbio anche dalle più
alte cariche governative, ma che
appare drammaticamente reale
in alcune zone del Paese come
la Campania. Lo ha ricordato
recentemente sul «Corriere del
Mezzogiorno» don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano, in
prima linea nella lotta ai pirati
ambientali nella terra dei Fuochi,
portando come esempio il triste
dato del suo paese: «Il 70% delle 300 persone che muoiono a
Caivano in un anno, muore per
cancro. Tra questi, purtroppo,
la maggior parte in giovane o
giovanissima età».
Tra vittime e carnefici poi, come
capita in ogni guerra, anche quella contro l’ecomafia ha i suoi eroi.
Persone semplici e coraggiose
come Natale De Grazia, morto
nel 1995 per «causa tossica»,
quindi avvelenato, mentre indagava sulle cosiddette navi dei
veleni, o come Roberto Mancini
il poliziotto ucciso nel 2014 da
un tumore provocato dalle sostanze tossiche sprigionate dalla
terra. Non ultimo, è giusto ricordare anche Michele Liguori, il
vigile urbano di Acerra sconfitto
da due tumori a 59 anni dopo
essersi battuto a lungo contro
il proliferare delle discariche
abusive.
Compito di questa rubrica
sarà dunque quello di fornire
ai lettori una rassegna stampa
che faccia il punto su nuove e
vecchie inchieste riguardanti
i delitti contro l’ambiente, un
quadro d’insieme che bimestre
dopo bimestre serva a ribadire
l’assoluta necessità di varare al
più presto delle leggi capaci di
far fronte a questa grave emergenza criminale dopo anni di
attese infruttuose.
a cura di Massimiliano Ferraro
A partire da questo numero una
nuova rubrica vi farà compagnia
sulle pagine di «Narcomafie».
Sarà uno spazio interamente dedicato all’ecomafia e all’illegalità
ambientale, una piaga che nel
nostro paese è sempre più in
preoccupante espansione. Infatti,
mentre l’attuale codice penale
ignora i crimini contro l’ambiente e la nuova legge in materia
è ancora ferma in Parlamento,
non passa settimana senza che
vengano aperte nuove inchieste
giudiziarie per questo genere di
reati. Da Nord a Sud le mafie
e i poteri corrotti inquinano e
deturpano. A confermarlo c’è
l’ultimo rapporto sull’ecomafia
di Legambiente, con dati che
lasciano pochi dubbi sul dilagare
incontrollato del fenomeno: 80
reati al giorno, più di tre l’ora.
Rifiuti, agroalimentare, ciclo del
cemento e fauna sono i settori che
permettono agli eco-criminali di
mettere le mani su un business
gigantesco, stimabile in ben 15
miliardi di euro all’anno. A fare
affari d’oro, anche a costo di
mettere a rischio la salute dei
cittadini, sono soprattutto le organizzazioni criminali, in particolare la camorra e la ’ndrangheta,
anche se mai come attraverso il
sistema ecomafioso la linea di
confine tra il potere mafioso
e il mondo politico-economico appare incerta. Decine di
processi hanno individuato le
collusioni esistenti tra i clan
ecocriminali e i personaggi
della politica e della pubblica
amministrazione, senza dimenticare il ruolo nefasto ricoperto
degli imprenditori-criminali.
48 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Messico
Desaparecidos,
la piazza si
mobilita
In Messico la linea che divide l’autorità statale dalla mafia
si è fatta troppo sottile. Il caso dei 43 studenti desaparecidos
porta a galla le contraddizioni di un paese in grave emergenza democratica. E la popolazione inizia a dire “basta”
di Orsetta Bellani
49 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
La sera del 20 novembre scorso
non c’era un angolo libero nello
Zócalo di Città del Messico,
una delle piazze più grandi del
mondo. Tre cortei sono confluiti
nel centro della metropoli, marciando al seguito dei genitori
dei 43 studenti della scuola
normal rural di Ayotzinapa
(stato di Guerrero) di cui non
si hanno notizie dallo scorso
26 settembre. Insegnanti, studenti, organizzazioni popolari
e per i diritti umani, cittadini di
ogni tipo hanno sfilato per ore
nelle vie del centro, gridando
slogan e mostrando striscioni,
mentre azioni di solidarietà si
svolgevano in più di 200 città
di tutto il mondo.
«Oggi il popolo messicano si
trova qui per pretendere chiarezza dallo stato assassino»,
ha dichiarato al termine della
manifestazione Felipe de la
Cruz, padre di uno studente
desaparecido, davanti a una
piazza che era già colma di
persone quando la coda dei
tre cortei non l’aveva ancora
raggiunta.
Manifestazioni senza sosta.
Dal giorno della sparizione degli
studenti, il Messico non smette
di marciare. Nel giro di due mesi
sono stati convocati quattro
scioperi generali in solidarietà
con gli studenti desaparecidos
di Ayotzinapa, e ogni giorno
nella capitale si assiste a una
manifestazione. In tutto il paese
vengono bloccate autostrade,
aeroporti, municipi.
«Settori della popolazione che
normalmente non sono organizzati stanno dimostrando la
loro indignazione; si avverte la
voglia di protestare e occupare
le strade – racconta a «Narcomafie» un’integrante del Colectivo
Acción Feminista Antisistémica
– sono due mesi che manifestiamo senza sosta».
Non si tratta solo dei 43 studenti
di Ayotzinapa ma, secondo dati
del Sistema Nacional de Seguridad Pública (SNSP), di circa
100mila morti e quasi 24mila
desaparecidos dal 2006 ad oggi,
da quando l’ex presidente Felipe Calderón lanciò la “guerra al
narcotraffico”. Allora l’esercito
venne inviato a presidiare le
strade il paese per combattere la
criminalità organizzata e, invece
di mettere un freno alla sua
espansione, iniziò il silenzioso
massacro di un popolo.
Le scuole normali rurali. In
Messico le scuole normales rurales, come quella in cui studiavano i ragazzi scomparsi,
sono istituti magistrali delle
zone rurali, in cui i figli di piccoli agricoltori studiano per
diventare maestri delle nuove
generazioni di contadini. Sono
solo 15 in tutto il paese e sono
note per l’impegno politico e
sociale dei suoi studenti. Nella
scuola normale rurale del paese
di Ayotzinapa, nel meridionale
stato di Guerrero, hanno studiato Lucio Cabañas Barrientos e
Genaro Vázquez Rojas, leader
contadini che impulsarono la
lotta armata negli anni ’60 e ’70.
Secondo il governo, l’istituto è
ancora un nido di guerriglieri.
Lo scorso 26 settembre, un
gruppo di ragazzi della scuola
di Ayotzinapa si trovava nella
vicina Iguala a raccogliere fondi
per partecipare alle celebrazioni
dell’anniversario del massacro
che avvenne a Tlatelolco (Città
del Messico) il 2 ottobre 1968,
quando l’esercito sparò contro un’assemblea di studenti.
Di ritorno dalla loro attività, i
giovani occuparono tre autobus
e furono attaccati dalla Polizia
Municipale di Iguala e Cocula,
che fece fuoco contro di loro.
Poco più tardi, mentre stavano
improvvisando una conferenza
stampa nel luogo dell’aggressione, un commando di civili
attaccò nuovamente gli studenti
magistrali, con le stesse armi in
dotazione alla polizia locale.
In seguito la polizia sparò anche contro un autobus di una
squadra di calcio, pensando che
fosse un autobus di studenti,
uccidendo l’autista, un ragazzo
di 15 anni e una passante.
In totale, il saldo dell’aggressione fu di sei morti, 33 feriti
e 43 studenti desaparecidos,
spariti nel nulla. A Julio César
Mondragón, uno ragazzo del
primo anno, sono stati asportati
gli occhi e la pelle dal viso, ed è
rimasto solo il cranio ricoperto
di sangue; il suo compagno di
stanza è riuscito riconoscere il
suo cadavere solo grazie alla
maglietta rossa che indossava il
cadavere, la stessa che portava
il primo giorno di scuola.
Non lontano dalla sparatoria si
trovava una base militare, ma
l’esercito è intervenuto solo
dopo due ore dall’attacco e,
secondo la testimonianza di
Omar García, uno studente
sopravvissuto all’aggressione,
una volta arrivato ha picchiato
e arrestato i ragazzi.
«Finalmente è stato fatto ordine», ha titolato il giorno seguente il quotidiano «Diario de
Guerrero».
Il ruolo del sindaco e sua moglie. La versione diffusa dalla
procura per spiegare i fatti è che
quando i ragazzi occuparono gli
autobus si trovavano vicini a un
incontro pubblico in cui María
50 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
de los Ángeles Pineda, moglie
dell’ex sindaco di Iguala José
Luis Abarca del Partido de la
Revolución Democrática (PRD,
centro-sinistra), stava esponendo i risultati del suo lavoro per
il municipio. Secondo i servizi
di intelligence messicani, il sindaco Abarca avrebbe ordinato
alla polizia locale di impedire
agli studenti di raggiungere la
piazza, chiedendo di «perseguitarli, arrestarli e dare loro
una punizione». Il sindaco e
la moglie sono vicini al cartello
criminale dei fratelli Beltrán
Leyva e la procura li considera
autori intellettuali dell’attacco. I due coniugi, ribattezzati
dai media “coppia imperiale”
a causa dello strapotere che
esercitavano nella zona, sono
stati profughi per 34 giorni e
arrestati il 5 novembre in una
casa di Città del Messico.
Il 23 ottobre la tensione irrespirabile spinse il Governatore di
Guerrero, Ángel Aguirre Rivero,
ad abbandonare il suo incarico.
Pochi giorni dopo Sidronio Casarrubias Salgado, leader del
cartello Guerreros Unidos – nato
da una costola di quello dei
Beltrán Leyva –, lo ha accusato
di fronte a un giudice di essere
l’amante della moglie dell’ex
sindaco di Iguala. Secondo il
narcotrafficante, la donna sarebbe a capo dell’organizzazione criminale e i Guerreros
Unidos avrebbero finanziato
la campagna elettorale dell’ex
governatore Aguirre Rivero.
Il narcotrafficante al momento
si trova in carcere insieme ad
altre 80 persone, ma 42 studenti
risultano ancora desaparecidos.
Quarantadue famiglie ogni giorno sperano di vedere tornare a
casa i propri figli, nell’attesa
costante di qualcuno che non
si sa se è vivo o morto.
Prove troppo deboli. Solo un
corpo – ridotto in polvere – è
apparso finora. È di Alexander
Mora Venancio, 19 anni, i cui
resti bruciati sarebbero stati
trovati in una borsa rinvenuta
nel fiume San Juan, vicino alla
discarica di Cocula, nei pressi di
Iguala. L’identità del cadavere
carbonizzato è stata stabilita
dai periti dell’Università di
Innsbruck (Austria) dopo aver
analizzato il contenuto della
borsa. Gli esperti hanno avvisato che sarà difficile ottenere
altri risultati dalle analisi, visto
lo stato in cui si trovano i resti.
La scoperta dell’Università austriaca conferma la versione
offerta dalla procura, secondo
cui la notte del 26 settembre
la Polizia Municipale avrebbe
sequestrato i 43 studenti per
consegnarli al cartello criminale Guerreros Unidos, che li
avrebbe portati alla discarica di
Cocula per ucciderli e bruciarli.
Questa versione è basata unicamente sulla testimonianza di
due criminali e contiene varie
incongruenze.
Il rogo dei 43 corpi – bruciati
con legna, plastica e pneumatici
per circa 14 ore, secondo la
testimonianza dei due narcos –
avrebbe dovuto produrre molto
fumo e incendiare gli alberi
circostanti, ma la gente che vive
nella zona non si è accorta di
nulla e la vegetazione è rimasta
intatta. Inoltre, secondo ricercatori dell’Universidad Nacional
Autónoma de México (UNAM)
e dell’Universidad Autónoma
Metropolitana (UAM), è scientificamente impossibile che i due
uomini abbiano potuto cremare
in loco i corpi dei ragazzi. Come
se non bastasse, secondo un
reportage della giornalista messicana Marcela Turati, quella
notte pioveva nella discarica
di Cocula mentre i corpi dei
ragazzi venivano bruciati. E un
gruppo indipendente di periti
forensi argentini avverte che
non esiste nessuna prova che i
resti rinvenuti nella borsa e analizzati ad Innsbruck provengano
davvero da quella discarica.
«Ho imparato a non credere
alle versioni governative anche
quando sembrano verosimili»,
ha dichiarato al Manifesto Anabel Hernández, autrice di saggi
sulla criminalità organizzata in
Messico.
Mafia, politica e militari. Ci fu
un grande clamore intorno al
ritrovamento, il 4 ottobre scorso,
di una fossa comune nei pressi
di Iguala dove si pensava potes-
51 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
sero essere stati gettati i ragazzi.
Gli abitanti della zona erano
però scettici riguardo al fatto
che fossero proprio i 43 studenti
di Ayotzinapa, e riferirono alla
stampa che spesso davanti alle
loro case passavano camion
maleodoranti che sospettavano
trasportassero cadaveri. Dall’inizio delle operazioni di ricerca
nel Municipio di Iguala e nelle
zone limitrofe le fosse comuni
spuntano come funghi, e finora
sono stati rinvenuti 55 cadaveri.
Di chi sono tutti questi corpi
senza vita?
A metà novembre, più di 70 persone risposero a un appello pubblicato in un periodico locale,
che chiedeva a tutti coloro che
avessero un famigliare desaparecido nella zona di presentarsi
nella chiesa San Gerardo María
Mayela di Iguala per consegnare
un proprio campione di Dna.
Queste persone confessarono
alla stampa locale che per loro
era una tortura vedere l’accanimento con cui le autorità si
concentravano nella ricerca dei
43 studenti di Ayotzinapa, come
se fossero più importanti dei
loro famigliari scomparsi.
«Padre Alejandro Solalinde,
difensore di diritti umani, descrive il Messico in modo contundente: è una grande fossa
comune», ricorda a «Narcomafie» il giornalista e scrittore
messicano Gaspar Morquecho
Escamilla. «In particolare, lo
stato di Guerrero ha una lunga
storia di violenza. Non molto
tempo fa scoprirono delle fosse
comuni dove vennero gettati dei
guerriglieri negli anni ’70, dopo
averli sequestrati ed uccisi».
Secondo il libro di Diego Osorno
Il cartello di Sinaloa, una storia
dell’uso politico del narco, negli
anni ’70 il capo del narcotraffico
Alberto Sicilia Falcón e un gruppo di alti ranghi militari portarono nello stato di Guerrero le
coltivazioni di oppio e marijuana. Gli studenti di Ayotzinapa
sono stati vittime delle buone
relazioni fra mafia, politica e
militari che quattro decadi fa
crearono le basi dell’impunità,
convertendo Guerrero in uno
stato in cui il tasso di omicidi
è quasi il triplo del nazionale.
Ma la collusione tra le istituzioni e la criminalità organizzata
non è un problema solo dello
stato di Guerrero. Non è certo
un caso se il Messico viene
definito un “narcostato”, ovvero un sistema politico in cui
la linea che divide le autorità
dalla mafia si è fatta così sottile
da rendersi invisibile.
Se l’impunità regna sovrana.
I manifestanti che da più di
due mesi riempiono le strade
di tutto il Messico chiedono
le dimissioni del presidente
Enrique Peña Nieto, considerato
responsabile della situazione di
estrema violenza in cui versa
il paese. Dal giorno della sua
entrata in carica, due anni fa,
sono state assassinate più di
41mila persone, e a seguito della sparizione degli studenti di
Ayotzinapa la sua immagine risulta gravemente compromessa,
anche a livello internazionale.
Il New York Times ha definito
“fallimentare” la politica di
sicurezza di Enrique Peña Nieto, e ricordato l’impunità che
vige in Messico. «Quando il
crimine organizzato o le forze
di sicurezza commettono un
omicidio, sanno che ci sono
molte probabilità che il delitto
rimanga impune», scrive l’autorevole quotidiano statunitense.
Più prudenti sono stati il go-
verno degli Stati Uniti, che
ha offerto al presidente tutto il suo appoggio in materia
di sicurezza, e il Parlamento
Europeo, che a novembre ha
manifestato la sua solidarietà al
governo messicano definendo
“inaccettabile” la sparizione
degli studenti magistrali. Poi,
il 9 dicembre, il parlamento
di Bruxelles ha aperto la porta
a un gruppo di attivisti che
hanno esposti i ritratti dei 43
ragazzi scomparsi nell’emiciclo,
e hanno denunciato le incongruenze della versione della
procura messicana e l’impunità
che regna nel paese.
Anche Jim Yong Kim, presidente
della Banca Mondiale, ha detto la sua durante una visita in
Messico, dove ha manifestato
solidarietà con le famiglie degli
studenti scomparsi e ha chiesto
che venga fatta giustizia. Ma
è soprattutto la società civile
a mobilitarsi per Ayotzinapa,
oltre che in Messico, nei quattro angoli del pianeta. In Italia
sono state numerose le manifestazioni e Libera ha proposto
la creazione di una commissione internazionale di ricerca
e cooperazione tecnica per la
ricerca degli studenti scomparsi,
che conterebbe sull’assistenza
dell’Alto Commissariato per
i Diritti Umani delle Nazioni
Unite e specialisti dell’Unione
Europea.
Gli occhi del mondo sono quindi
puntati sul Messico, dove Enrique Peña Nieto sta reagendo
con violenza alle proteste, reprimendo le marce e incarcerando
i manifestanti. Se i messicani
non si stancheranno di scendere in strada e le pressioni
internazionali continueranno,
probabilmente sarà costretto ad
abbandonare la presidenza.
Intervista a
Román Hernández
52 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
di Orsetta Bellani
Le manifestazioni della società civile
messicana a seguito della sparizione
dei 43 studenti ad Iguala hanno
fatto conoscere all’opinione pubblica internazionale la brutalità della
violenza in Messico e la corruzione
della sua classe politica, ma anche
la capacità di mobilitazione di un
popolo stanco. A Città del Messico
abbiamo incontrato Román Hernández Rivas del Centro di Diritti Umani
Tlachinollan, che lavora a tu per tu
con gli studenti di Ayotzinapa e con
le famiglie dei ragazzi scomparsi.
Perché la guerra al narcotraffico
promossa dal governo messicano
nel 2006, invece di sconfiggere la
criminalità organizzata, ha causato
violazioni ai diritti umani?
Nel 2000, quando il Partido Revolucionario Institucional (PRI) perse
la presidenza della repubblica ed
entrò Vicente Fox del Partido de
Acción Nacional (PAN), s’interruppe
l’egemonia che il PRI aveva da circa
80 anni. Non si trattava solo di egemonia politica, ma di controllo della
produzione e distribuzione di droga:
negli anni ’70 lo stato messicano produceva eroina e oppio che vendeva
agli Stati Uniti. Esisteva un’industria statale della droga, è un fatto
documentato. Queste coltivazioni
non vennero mai sradicate e con gli
anni lo stato perse il dominio sulla
produzione della droga, lasciando
spazio ai cartelli criminali.
Quando il PAN arrivò al governo si
crearono divisioni tra i gruppi del
narco nella lotta per il controllo territoriale. La situazione peggiorò nel
2006, quando il governo annunciò
la guerra al narcotraffico, e l’esercito
iniziò ad operare frontalmente come
attore armato all’interno dello stesso
territorio. Non capiamo esattamente
quale sia il gioco dell’esercito, se
sta appoggiando uno dei cartelli,
se nel tentativo di indebolire uno
finisce per rinforzare un altro, o se
sta attaccando tutti allo stesso modo.
La situazione di crisi attuale che vive
il Messico, di violazione dei diritti
umani commessa da servitori dello
stato, si aggravò ulteriormente nel
2008 con la Iniziativa Mérida, un
piano di sicurezza progettato dagli
Stati Uniti, che si concretizza nella
militarizzazione del paese. La società
civile si trova al centro di questa
disputa per il controllo territoriale
tra cartelli del narco, e tra di essi
e l’esercito, e cerca di difendere il
territorio conteso.
Perché lo stato decide di far sparire
le persone invece di ucciderle?
Non possiamo dire perché lo fa, ma
possiamo parlare delle conseguenze
generate dalla desaparición forzada.
Quando una persona scompare i suoi
cari sentono ansia, paura e incertezza, non sanno cosa sta succedendo.
L’omicidio e la desaparición forzada
– che per definizione viene operata
da servitori dello stato – si toccano
nel punto che rappresenta la frontiera
fra la delinquenza organizzata e lo
stato messicano, come attori che sono
impregnati l’uno dell’altro.
Perché considerate il presidente
Enrique Peña Nieto responsabile
dei fatti di Iguala? Il crimine è stato
commesso dalla Polizia Municipale, non potrebbe essere stato un
ordine del sindaco di Iguala, José
Luis Abarca, senza l’intervento
del governo federale?
Il vincolo tra il narco e lo stato non
inizia ad Iguala il 26 settembre. Il
Messico si può definire un “narcostato” perché la criminalità organizzata
ha tanto potere da poter fare eleggere i sindaci, iniettando soldi alle
campagne elettorali. Lo stato non
è intervenuto per rispondere alle
denunce che indicavano alcuni
sindaci come parte del crimine
organizzato, la sua responsabilità
è quindi per omissione e Peña
Nieto è responsabile essendo il
titolare dell’esecutivo federale. Ma
la delinquenza organizzata non è
iniziata con lui, lo stato ha creato le
condizioni perché fatti come quello di Iguala potessero accadere. La
criminalità organizzata è un’inerzia
che lo stato sta trascinando da più
di 40 anni, che è prodotto delle sue
azioni e omissioni.
Con un panorama come questo, le
famiglie degli studenti di Ayotzinapa credono che lo stato possa
fare giustizia?
Le rivendicazioni dei genitori dei
ragazzi sono cambiate dal 26 settembre ad oggi. All’inizio pretendevano che il governo dello stato
di Guerrero riportasse a casa i loro
figli, poi chiesero l’intervento del
governo federale. In questo momento
non hanno più fiducia in nessuno
e sono convinti che Peña Nieto stia
solo cercando di “ripulire” la sua
immagine, per continuare a girare
il mondo svendendo agli investitori
stranieri le risorse naturali del paese.
Il movimento che si è formato in
solidarietà con Ayotzinapa chiede
la rinuncia di Peña Nieto. Che
cosa vi aspettate da un’eventuale
uscita di scena del presidente?
Considerate che la sua rinuncia
potrebbe portare a un cambio reale
nel paese?
Il movimento chiede la rinuncia
del presidente perché è considerato
responsabile della violenza di stato,
e quindi di quello che è successo ai
ragazzi. Ad ogni modo gli studenti di
Ayotzinapa affermano che il problema
non è Peña Nieto in sé, ma la struttura
su cui si sostiene il sistema politico,
che permette a una figura come la
sua di stare al potere. Gli studenti
stanno cercando reali garanzie di non
ripetizione di quello che è successo,
e non le possono chiedere allo stato
messicano visto che lui stesso commette violazioni ai diritti umani. Per
questo la popolazione ha occupato
una ventina di municipi nello stato di
Guerrero, dove si sono formati consigli
popolari con l’idea di generare un processo di costruzione politica dal basso,
che stabilisca spazi donde si possano
prendere decisioni collettivamente
e fuori dalla politica partitica. È un
esperimento che prende ad esempio
le Giunte di Buon Governo presenti
in territorio zapatista.
53 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
ricalcano in qualche modo le
regioni della Tripolitania e della
Cirenaica – è compromessa dal
controllo territoriale esercitato
qua e là da numerose milizie,
alleate dell’uno o dell’altro “governo” oppure combattenti in
proprio: in particolare, sono presenti sulle coste mediterranee
centrorientali gruppi jihadisti,
tra cui l’IS, in espansione anche
altrove nel Paese.
Da anni, in Libia, chi ha il potere
delle armi cerca di controllare
le aree estrattive, e le relative
infrastrutture. Ma per ognuno dei
due “governi” qualsiasi ipotetica
idea di cercare di trincerarsi nella
propria sfera d’influenza al fine di
sfruttarne le risorse energetiche
è sinora apparsa impraticabile.
Se oggi in Libia coesistono, con
paradossali esiti, due ministeri
del petrolio in lizza tra loro, la
presenza a Tripoli della sede principale della Banca centrale libica
(a cui affluiscono gli introiti del
settore energetico e a cui fanno
capo le restanti riserve estere) e
del Noc (National Oil Corporation, la compagnia petrolifera di
Stato) hanno spinto sinora i due
“governi” ad infruttuosi tentativi
di contendersi la gestione delle
risorse libiche, accelerando così
un prossimo dissesto finanziario
del Paese.
Che in Libia la diplomazia abbia
successo o no, che l’Is dilaghi
o venga contenuto, che prenda
il via una missione Onu o l’ennesima iniziativa armata altrui,
occorre farsi trovare pronti ad
ogni evenienza. E questo pare
essere, nella situazione presente,
un altro cruciale significato del
termine prudenza.
criminalità e dintorni
Mezzi e risorse inadeguati penalizzano invece l’Agenzia dell’Unione
per il controllo delle frontiere esterne, Frontex (il cui nuovo direttore esecutivo è il francese Fabrice
Leggeri, ex capo della divisione
“Lotta all’immigrazione clandestina” del ministero degli Interni
dell’Esagono): tale ente sovrintende
al programma europeo Triton, che
ha fatto seguito (senza poterla e
volerla sostituire) alla precedente
operazione italiana Mare Nostrum,
che si avvaleva di mezzi maggiori
ma con costi molto superiori e
giudicati non sostenibili per l’Italia. Dovrebbe pure far riflettere,
in merito al potenziale pericolo
IS, quanto avvenuto di recente a
sud di Lampedusa, dove quattro
scafisti a bordo di un barchino,
minacciando con i kalashnikov
guardacoste italiani disarmati, impegnati a soccorrere e trasbordare
migranti da un barcone, hanno
ottenuto la pronta restituzione
dell’imbarcazione.
Nel frattempo, l’inviato Onu Bernardino León tenta per l’ultima
volta di portare al negoziato le
principali parti belligeranti libiche. Ma è ancora possibile la
rapida creazione di un governo
di unità nazionale?
L’iniziativa diplomatica è ostacolata dall’intransigenza di parti
combattenti quali i due “governi”
libici nemici – quello legittimo,
scaturito dalle elezioni del 2014,
oggi riparato a Tobruk, e quello
filo-islamico insediatosi con la
forza a Tripoli – finora restii a
compromessi e negoziati.
Persino la spartizione, da parte
dei due “governi”, della Libia
centrosettentrionale in due aree
di influenza est ed ovest – che
cronachesommerse
Con la mobilitazione delle forze
speciali italiane in prossimità
delle acque libiche (e in particolare di quelle coste tripolitane
da cui i trafficanti fanno partire
i barconi dei migranti e presso
le quali si trovano le maggiori
infrastrutture Eni, incluse quelle,
offshore, con nostri connazionali)
il governo sembra avere scelto –
lungi da interventismi bellicisti
irragionevoli – la via della difesa
prudente della sicurezza, nonché
di importanti realtà economiche
italiane in Libia.
Il nostro Paese è, in Europa, quello
più immediatamente esposto,
specie in termini di sicurezza, alle
minacce del conflitto libico. Eppure, in una simile congiuntura,
il presidente della Commissione
Europea, Jean-Claude Juncker, ha
nominato di recente il francese
Michel Barnier consulente speciale su difesa e sicurezza europee, sminuendo di fatto il ruolo
dell’italiana Federica Mogherini,
Alto rappresentante dell’Unione
per gli affari esteri e la politica di
sicurezza.
Proprio la Francia dispiega oggi
un forte contingente militare antijihadista in Mali, Ciad e Niger,
dove dispone di una base a soli
100 km dal territorio libico. L’Esagono spalleggia la linea interventista in Cirenaica (dove ha con
Total interessi in aree petrolifere)
dell’Egitto, a cui venderà 24 aerei
da caccia Rafale: lo stesso tipo di
veivoli che, con i Super Étendard,
si trovano a bordo della portaerei
Charles de Gaulle, ora nel Golfo
Persico per i raid aerei contro l’IS
(Stato islamico), scortata da un
sottomarino nucleare d’attacco
e navi d’appoggio.
di Andrea Giordano
Libia, la via della prudenza
rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
54 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Brasile,
scandalo
corruzione
Rio de Janerio Lo scorso 4 febbraio, Maria Graça Foster, presidentessa del colosso energetico statale Petrobras, e l’insieme
della direzione generale della
società hanno annunciato in
blocco le dimissioni. «Petrobras
informa che il suo consiglio di
amministrazione si riunirà per
scegliere una nuova direzione
dopo la rinuncia della presidente e dei suoi cinque dirigenti»,
ha dichiarato il gruppo in un
comunicato ufficiale ai mercati.
Dall’autunno scorso, Petrobras
è stata investita da un clamoroso scandalo di corruzione con
ramificazioni politiche: secondo gli inquirenti solo nell’arco di 10 anni almeno quattro
miliardi di dollari sarebbero
stati dirottati dalle casse della
società alle tasche di dirigenti
e parlamentari della coalizione
di maggioranza.
I nomi dei coinvolti sono coperti dal segreto d’inchiesta,
anche se lo scorso 4 marzo
il procuratore brasiliano ha
chiesto alla Corte suprema di
aprire un’inchiesta al fine di
processare i 54 politici accusati
di aver intascato le mazzette
di Petrobas, tra cui il presidente della Camera e quello
del Senato.
La popolarità di Dilma Rousseff
– presidentessa del Brasile,
rieletta lo scorso ottobre 2014
per il secondo mandato – già in
grosso calo a causa del peggioramento delle stime di previsione
di crescita del Paese, ha subito
un peggioramento netto dopo lo
scandalo dei fondi neri di Petrobras, che ha irritato l’opinione
pubblica e intaccato l’immagine
del Partito dei lavoratori (Pt),
che secondo le indiscrezioni
avrebbe ricevuto centinaia di
milioni di euro in fondi neri.
L’inchiesta include anche alcune delle più importanti aziende
del Brasile che avrebbero versato tangenti a Petrobras per
ottenere contratti.
Foster è una stetta conoscente
della Presidente, ha svolto la
sua carriera alla Petrobras, alla
cui guida Dilma Rousseff l’aveva nominata nel 2007.
Secondo la stampa nazionale,
da tempo Rousseff meditava di
allontanare Foster dall’incarico:
la goccia che ha fatto traboccare
il vaso sarebbe arrivata a fine
gennaio quando, dopo diversi
rinvii, è stato pubblicato il bilancio del terzo trimestre 2014,
senza che fosse certificato da un
audit esterna e che vi fossero
menzionate le perdite dovute
alla corruzione. Dati che tuttavia Foster ha ammesso a voce,
stimando in 88,6 miliardi di
reais (circa 32,8 miliardi di
dollari) i danni inflitti all’azienda da malaffare ed errori
amministrativi.
Da settimane tutti i media nazionali sono concentrati ad
analizzare e commentare il
giudizio su Dilma Rousseff,
perché lo scandalo per corruzione oltre ad aver implicato
la rinuncia dei vertici di Petrobras ha comportato il fermo del
tesoriere del suo partito (Pt),
João Vaccari Neto, chiamato
a deporre perché sospettato
di aver “sollecitato donazioni legali e illegali” a diverse
imprese partner di Petrobras,
adesso sotto inchiesta. Secondo
il sondaggio di Datafolha, il
52% degli intervistati pertanto
ritiene che Rousseff, avendo
anche guidato il consiglio di
amministrazione di Petrobras
quando era ministro dell’Energia del governo di Luiz Inácio
Lula da Silva (2003-2010), fosse
perfettamente a conoscenza
della rete di corruzione.
Desaparecidos
la “verità”
non convince
Città del Messico La versione
ufficiale è che i 43 studenti
allievi della Escuela Normal
Rural de Ayotzinapa, «desaparecidos» dallo scorso 26
settembre a Iguala, nello stato
di Guerrero (sud del Messico), siano stati uccisi da sicari
del gruppo di narcotrafficanti
Guerreros Unidos, e i loro corpi
bruciati, alcuni mentre erano
ancora vivi, in una discarica
della vicina località di Cholula. Questa la versione fornita
dal procuratore generale Jesus
Murillo Karam. «Sono conscio
dell’enorme dolore che produce
questa notizia», ha detto a tutti
i media presenti in conferenza
55 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
stampa a Chilpancingo, capitale
di Guerrero, lo stesso Murillo,
sottolineando che formalmente
gli studenti saranno considerati
«desaparecidos» finché non
si potranno identificare i loro
resti. Lavoro, quest’ultimo,
particolarmente arduo perché,
dopo averli uccisi, i sicari dei
narcos hanno ricevuto l’ordine di spezzare le ossa delle
loro vittime in piccole parti
al fine di cancellare ogni traccia della strage. Il procuratore
federale ha inoltre dichiarato
che le persone arrestate hanno confessato di aver ucciso
gli studenti, precedentemente
attaccati e poi detenuti dalla
polizia municipale di Iguala, su
ordine del sindaco della cittadina, Josè Luis Abarca (ad oggi
considerato il mandante della
strage insieme con la moglie,
Angeles Pineda Villa, e al suo
responsabile della sicurezza
pubblica, tuttora latitante).
Il procuratore Murillo ha riportato che i sicari hanno confessato di aver preso in consegna
gli studenti e averli portati
alla vicina località di Cholula.
Stando alla confessione, oltre
una decina sarebbe morta per
asfissia prima di arrivare alla
discarica di rifiuti di Chocula.
Ai sopravvissuti avrebbero anche domandato a quale gruppo
(criminale) appartenessero. Le
risposte erano «non apparteniamo a nessuna banda». Questo
perché dalla cittadina teatro del
sequestro, Iguala, arrivavano
informazioni che in quel gruppo si erano infiltrati uomini di
Los Rojos, fazione avversa di
trafficanti collegati al cartello
del Golfo. I sicari hanno confessato di aver finito in quella
discarica i soppravvissuti e di
aver buttato i loro corpi nella parte bassa della discarica,
dove li hanno poi bruciati. Le
fiamme avrebbero bruciato tutta
la notte e l’indomani le ossa
rimaste sarebbero state raccolte
in sacchi per la spazzatura gettati nel vicino fiume San Juan,
dove effettivamente la polizia
ha ritrovato dei resti.
Murillo ha aggiunto che a causa
dello stato in cui si trovano i
resti degli studenti uccisi la loro
identificazione si rende difficile
per cui le ceneri saranno inviate
a un laboratorio specializzato in
Austria per analizzare le tracce
di Dna.
«Non crediamo alla versione
ufficiale». I genitori dei 43 studenti «desaparecidos» hanno
dichiarato di non accettare le
dichiarazioni del procuratore
generale Jesus Murillo Karam:
«In quanto genitori degli studenti, non accettiamo in nes-
sun modo quanto ha detto (il
procuratore), perché tra l’altro
lui stesso dice che non ha la
certezza che sia la verità. Vogliamo risultati, ma con prove»,
ha detto la madre di uno dei
«desaparecidos», citata dalla
testata digitale SinEmbargo.
Secondo Amnesty International
la Procura generale del Messico
manifesta una opaca volontà
di chiudere repentinamente
un caso che ha fatto il giro del
mondo; ecco perché l’ong lancia un’accusa diretta e precisa,
avvertendo che l’inchiesta potrebbe rivelarsi una “copertura”.
Amnesty ha lanciato l’appello
dopo che una squadra di patologi forensi argentini, incaricata
di analizzare i resti rinvenuti
nella discarica di Cocula, vicino
Iguala, ha accusato la Procura
generale di aver effettuato una
“lettura parziale” delle prove,
preferendo privilegiare elementi più vicini alla versione ufficiale. Secondo questa versione
dei fatti, la Procura sarebbe
anche incorsa nell’errore di
non rivelare in tempi utili per
le indagini che la discarica
dove i ragazzi furono uccisi
e bruciati è rimasta a lungo
incustodita: «le prove rinvenute sul posto – osservano da
Amnesty – potrebbero essere
alterate».
«L’intenzione del governo di
chiudere il caso basandosi su
una posizione parziale e carente
di prove comincia a sembrare
in modo preoccupante a un
tentativo di occultamento» ha
protestato Erika Guevara Rosas, responsabile di Amnesty
per le Americhe. Gli ha fatto
eco il portavoce dei genitori
dei desaparecidos, Felipe de
la Cruz: «Non ci fidiamo della
versione del governo».
India, primi
passi contro
la schiavitù
minorile
Mumbai «Hanno malattie croniche della pelle e sono denutriti. Sono traumatizzati e
visibilmente scossi» ha detto
la polizia del commissariato
di Hyderabad, città a sud-est
di Mumbai, annunciando la
scoperta di 120 bambini lavoratori durante un’ispezione
in laboratori che producono
braccialetti e altri monili di
ornamento. L’operazione fa parte di un giro di vite in tutta la
città contro il lavoro minorile
e la schiavitù. I bambini hanno
lamentato di essere costretti a
lavorare 16 ore al giorno, senza
pause e minacciati di violenza
o di restare senza cibo se avessero disubbidito agli ordini.
«Molti sono stati trasportati
dal nord dello stato del Bihar,
lo scorso anno, dopo che i
loro genitori li hanno dati ai
trafficanti per 5.000-10.000
rupie (circa 100-200 dollari)
e tenuti in stanze squallide
senza ventilazione ed esposti a gas nocivi» ha riferito
la polizia, sottolineando che
la campagna contro il lavoro
forzato e la tratta continuerà.
La polizia ha iniziato un massiccio giro di controlli e irruzioni in decine di laboratori
nascosti nei vicoli più stretti
della città, dopo aver ricevuto
informazioni da attivisti per i
diritti dei bambini. Altri 220
bambini sono stati salvati, nei
mesi scorsi, quando la polizia
ha fatto simili irruzioni nel sud
rassegna stampa internazionale
56 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
della città. «Finora 31 trafficanti
sono stati arrestati e accusati di
schiavitù minorile e la polizia
sta facendo sforzi per riunire i
bambini con le loro famiglie»
ha aggiunto il commissario.
«Questa è un’ottima iniziativa.
Il salvataggio di bambini schiavi è all’inizio. Dobbiamo fare in
modo che vengano riabilitati e
compensati per il loro lavoro.
Inoltre i trasgressori devono
essere condannati per il loro
crimine» hanno affermato attivisti e legali del Movimento
per salvare l’infanzia (Bachpan
Bachao Andolan).
Nel paese, ogni ora, undici bambini spariscono e quasi il 40%
resta rintracciabile. Molti sono
vittime di bande e costretti alla
prostituzione, al lavoro minorile e alla schiavitù, secondo fonti
della polizia e degli attivisti
per i diritti dei minori. Nelle
mega città indiane come Delhi,
Kolkata e Mumbai i minori
sono un particolare obiettivo
per i trafficanti che ingannano
poveri genitori provenienti da
aree rurali con la promessa di
un posto di lavoro e di retribuzioni mensili, ma poi vedono
i bambini ai lavori forzati. La
maggior parte di loro finisce in
lavori di costruzione o lavori
domestici, altri nei lavori agricoli e in settori come i fuochi
d’artificio, tabacco, chincaglieria e tessitura di tappeti.
Il Chavismo
allo specchio
Caracas Crisi economica e
scandali politici, questo è
oggi il quotidiano del Venezuela. Dopo vani tentativi di
ottenere finanziamenti per
tamponare la crisi economica
che ha messo a terra il Paese,
il neo presidente Nicolas Maduro deve affrontare un nuovo scandalo che ha coinvolto
Diosdado Cabello, presidente
dell’Assemblea nazionale del
Venezuela e numero due del
chavismo, formalmente accusato di coinvolgimento nel
narcotraffico.
Testimone chiave è Leamsy
Salazar, ex capo della sicurezza dello stesso presidente
dell’assemblea venezuelana,
già assistente personale di
Chavez, protagonista alcuni
giorni fa di una vera e propria
diserzione con successiva fuga
negli Stati Uniti. Secondo Salazar – che è diventato guardia
del corpo di Cabello dopo la
morte del presidente Chavez
– lo speaker del Parlamento
rappresenterebbe addirittura
un fulcro del traffico di droga
che coinvolge il Venezuela.
L’ex guardia del corpo – al
momento la più alta carica
dell’esercito a rompere con il
chavismo – è pronta a testimoniare all’interno dell’indagine
degli Stati Uniti sugli intrecci
tra il governo di Caracas e le
associazioni di narcotrafficanti. Cabello, secondo le parole
attribuite all’ex responsabile
della sicurezza da quotidiani
come lo spagnolo El Nuevo Herald, sarebbe un vero e proprio
“capo dei capi” del cartello
di narcotraffico denominato
“Los Soles”, tra i più potenti
del Venezuela.
Cabello – già accusato di aver
distratto fondi pubblici per
uso personale – ha replicato
alle accuse in un’intervista
concessa alla rete colombiana
Blu Radio, ritenendole frutto di
una strategia volta ad attaccare
e delegittimare la rivoluzione
bolivariana. Tuttavia, le accuse
di Salazar coinciderebbero con
le indagini portate avanti negli
ultimi dieci anni dagli Stati
Uniti, come confermato da
William Brownfield, segretario
aggiunto dell’Inl, l’Ufficio del
Dipartimento di Stato degli
Usa che si occupa della lotta
al narcotraffico.
Intanto per ripare al gravissimo
danno d’immagine che ha fatto
il giro del mondo il governo
del Venezuela ha comunicato
di aver abbattuto nei giorni
scorsi un piccolo aereo civile,
utilizzato dai narcotrafficanti,
al largo dell’isola di Aruba,
nel mar dei Caraibi. Vladimir Padrino Lopez, ministro
della Difesa, ha spiegato che
il velivolo aveva sconfinato,
violando lo spazio aereo venezuelano, e che non aveva
obbedito all’ordine di atterrare impostogli da due caccia
che lo avevano affiancato.
Non si tratta certo del primo
episodio del genere nell’area
caraibica né nel Paese. Nel
passato spesso aerei militari venezuelani hanno avuto
l’ordine di abbattere aerei
utilizzati dai narcos per trasportare droga dalla Colombia
agli Stati Uniti. Il ministro
della Difesa ha in seguito precisato che sarà prassi che tutti
i piccoli aerei che entrano
nello spazio aereo del Paese e
non rispettano le regole aeronautiche saranno considerati
“adibiti al trasporto di droga”.
Successivamente, il ministro
della Giustizia Arthur Dowers ha comunicato che la
Guardia costiera di Aruba ha
localizzato il relitto dell’aereo
e alcuni corpi in mare.
57 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Dove le
stesse mani
Uno spettacolo godibile, che regala un’ora di sorrisi ma anche
di riflessioni. Un tema importante come quello della mafia siciliana affrontato non con superficialità ma con leggerezza, mettendo in risalto la spensieratezza degli individui in contrapposizione con le difficoltà della vita e la presenza del malaffare
Due sedie. Due lumini da cimitero. Luci in penombra. L’allestimento del palcoscenico è
essenziale, minimale. Dario
Muratore e Dario Mangiaracina, calcano insieme la scena,
accomodandosi sulle sedie.
Sono loro gli autori e gli attori
di “Dove le stesse mani”, diretto
da Dario Muratore – che ne è
anche il protagonista – e con le
musiche di Dario Mangiaracina,
liberamente ispirato al testo
scritto da Luciano Violante ed
intitolato “Ballata per la festa
dei bambini morti di mafia”.
L’inizio racconta di un omicidio, di due killer che individuano il proprio bersaglio
e che, a distanza, puntano la
pistola, preparandosi a sparare;
uno dei due ha un attimo di
titubanza – “Ma è iddu?”, si
chiede – ma il suo complice
lo esorta a premere il grilletto:
“Spara! Spara! Spara!”. Il ritmo
è incalzante, battuto da Mangiaracina – che in diverse scene
rappresenta anche la voce fuori
campo – con il piede.
Pino, il protagonista, si accascia
sulla sedia, ad occhi chiusi.
Segnali
di Marika Demaria
Segnali
58 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Quando li riapre, ha inizio il
suo monologo, indirizzato al
cugino Tanino: Pino lo chiama
sottovoce, lasciando intendere
che gli è apparso in sogno, consapevole del fatto che sia l’unico veicolo di comunicazione
ormai possibile. Lo rassicura:
“Io adesso qui sto bene, certo,
sbagliarru, però ormai...io qui
sto bene!”. Così Pino, ucciso
per errore dalla mafia, rievoca
i tempi spensierati ed allegri
dell’infanzia trascorsa con suo
cugino, addentrandosi sempre
più nel dialetto isolano. Una
tecnica efficace, che permette di
avvicinare lo spettatore ai racconti dell’attore, con la musica
di sottofondo di Mangiaracina.
Si sorride, si ride, ma c’è spazio
anche per le riflessioni. Il tema
della criminalità organizzata
non viene mai affrontato direttamente ma viene lambito
dai racconti portati in scena
da Muratore.
Pino racconta, in questa comunicazione immaginaria con il
cugino, di vivere in un posto
abitato anche da tantissimi
bambini, con i quali spesso
si ritrova a giocare a calcio,
esattamente come facevano loro
due durante la loro infanzia. Il
messaggio passa, nonostante
il racconto narri di prati verdi, voci festanti e giovani che
corrono a perdifiato: quel luogo
è abitato anche dai bambini,
perché la mafia ha spezzato anche giovani vite, incidendo una
volta di più, per scardinarlo, il
falso luogo comune secondo cui
la mafia ha un proprio codice
d’onore in virtù del quale non
uccide donne e bambini.
In maniera sottile la storia giunge, partita dai ricordi infantili
di Pino che li condivide con
Tanino, alla strage di Capaci del
23 maggio 1992, raccontando del
silenzio dei bambini all’arrivo di
una persona, Giovanni; improvvisamente si interrompono le
partite di calcio (l’attore, con una
tecnica teatrale coinvolgente,
improvvisa qualche calcio ad
un pallone), le corse per i prati,
i giochi rumorosi ed allegri.
Il ritmo è davvero molto veloce,
tra Dario Muratore e Dario Mangiaracina c’è un’ottima intesa
e molta sincronia, a vantaggio
del pubblico.
La conclusione dello spettacolo
“Dove le stesse mani”, portato
in scena dalla compagnia palermitana “Quartiatri” è quanto mai inaspettata e curiosa.
All’inizio del monologo, Pino
spiega al cugino che gli dovrebbe comunicare tre cose. La
prima è una sorta di preghiera:
“Pensaci tu a mia mamma –
spiega in dialetto – dille che la
smetta di piangere, è successa
una cosa un tantino sbagliata
ma adesso qui sono allegro”.
La seconda decide di comunicargliela in un altro momento,
mentre dalla terza prende avvio
l’intero spettacolo. Al termine
di quest’ultimo, giunge quindi
il momento in cui Pino deve
comunicare a Tanino la seconda delle tre cose. “Avvicinati,
avvicinati. Ma non ti svegliare,
aspetta!”. Quale sarà la notizia
tanto attesa?
59 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
MediaMafia.
Un libro per riflettere
e interpretare
di Marcello Ravveduto
Dal 1992 ad oggi sono stati
scritti 531 libri che contengono
nel titolo la parola «mafia». In
gran parte (412) gli autori appartengono a circuiti extra accademici (giornalisti, magistrati e politici). Ma anche i testi
riferibili a docenti universitari
(119) sono spesso scritti con
uno stile accessibile ai non
addetti ai lavori, anche se basati su fonti scientifiche. La
narrazione, quindi, è tesa alla
costruzione di una public history (ovvero una divulgazione
professionale di accadimenti
e processi legati al conteso mafioso) in cui la criminalità organizzata è un elemento centrale all’interno delle vicende
politiche, economiche e sociali che hanno caratterizzato la
storia italiana e in particolare
quella repubblicana. Una narrazione che ha sedimentato
topos letterari, stratificato luoghi comuni e creato miti condizionati dagli automatismi
replicanti e incontrollabili
dell’immaginario collettivo
mafioso. Questa è la materia
incandescente trattata da Andrea Meccia nel suo MediaMafia. Cosa Nostra fra cinema e
Tv, pubblicato dalla casa editrice trapanese Di Girolamo. I
media sono il lievito che gonfia l’impasto narrativo della
mafia. Riferendosi alle opere
cinematografiche Umberto Santino, nella prefazione al testo,
ha scritto: «Quel che è certo è
che nel cinema la mafia ha
fatto da padrona, rispetto alla
camorra e alla ‘ndrangheta, e i
film di maggiore successo in
Sicilia sono stati quelli meno
buoni, e bisogna chiedersi perché gli spettatori vedono “celebrate” sullo schermo violenze e ingiustizie che la
spettacolarizzazione induce a
farle considerare “altro” da
quello che sono nella vita reale. Queste considerazioni ci
portano a porci un interrogativo: nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto
il cinema? E la televisione?».
L’osservazione di Santino è
vera se guardiamo alla storia
del cinema a partire dal secondo dopoguerra: Cosa nostra è
il paradigma del medium mafioso, il metro di paragone per
definire i parametri sociali e
culturali entro cui iscrivere una
fenomenologia criminale tipicamente italiana. Tuttavia se
accorciamo lo sguardo e andiamo a vedere i film aventi per
argomento storie di mafie, realizzati dal 2007 ad oggi, noteremo che, su 28 pellicole (ovvero una media di quattro
all’anno), ben 17 sono dedica-
te a Napoli e la camorra. Ho
scelto come anno di riferimento il 2007, avendo come punto
cardinale il successo di Gomorra (pubblicato nel 2006), che
sposta l’attenzione mediatica
dalla Sicilia alla Campania, per
dimostrare come letteratura,
cinema e televisione (non a
caso il testo di Saviano ha attraversato le tre diverse forme)
si influenzino vicendevolmente e potenzino, amplificando il
messaggio di passaggio in passaggio (tra citazioni, intrecci e
metafore), un rinnovato immaginario collettivo mafioso che
usa come piedistallo di emersione il patrimonio già lungamente accumulato e sedimentato dai mass media non solo
nazionali (basti pensare agli
effetti de “Il Padrino” sulla
formazione di stereotipi mafiosi per comprendere quanto
l’agire dell’immaginario sia
liquido, se non gassoso, riuscendo a penetrare in ambienti inimmaginabili, al di là della volontà autoriale). Andrea
Meccia è consapevole della
impossibilità di sistematizzare
e di definire compiutamente
in una forma solida l’immaterialità scivolosa della pulsione
mediale, eppure prova, a partire dagli anni Settanta, a far
dialogare storia nazionale e
60 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
immaginario collettivo mafioso.
La scelta del punto di partenza
non è casuale. L’autore vuole
trovare, nel momento in cui la
violenza politica si accosta alla
violenza criminale, l’origine di
una crisi repubblicana narrata
dall’intersecazione tra cinema
d’autore e neotelevisione. Non
a caso, partendo dalla definizione di Baudrillard, «lo spirito del terrorismo» si manifesta proprio «attraverso
l’irruzione di una morte più
che reale: simbolica e sacrificale – l’evento veramente assoluto e senza appello», arriva
a paragonare la modernizzazione mafiosa degli ultimi quarant’anni ad un’organizzazione
terroristica. Un paragone ardito che farebbe saltare sulla sedia molti storici accademici ma
che induce a riflettere sulla
mescolanza concettuale da cui
discende una simile interpretazione. Del resto la mafia siciliana è stata anche comparata al totalitarismo (Siebert,
Marino) e al fondamentalismo
(Lo Verso). Dietro la suggestione di Meccia è possibile rintracciare alcuni elementi che
danno sostanza al nesso Cosa
nostra/terrorismo? Proviamo a
seguire questa strada prendendo spunto dall’affermazione di
Luciano Pellicani utilizzata
dall’autore: «Se per terrorismo
si intende l’uso sistematico
della violenza finalizzato a provocare una paura paralizzante»
la mafia può essere inserita in
un simile quadro concettuale.
Entrambe sono organizzazioni
violente che hanno messo in
discussione le libertà costituzionali; entrambe hanno usato,
in diversi periodi storici, la
strategia della tensione e l’omicidio selettivo: l’obiettivo di
colpire il cuore dello Stato,
realizzato dalle Brigate Rosse
con Moro, non è equivalente,
per Cosa nostra, agli assassini
di Mattarella, La Torre, Dalla
Chiesa, Chinnici e decine di
altri autorevoli rappresentanti
delle istituzioni repubblicane?
Entrambe si fondano su un’ideologia del potere antistatale
(in quanto ordinamento alternativo); entrambe hanno tessuto trattative con pezzi deviati dello Stato; entrambe sono
state parte attiva nelle relazioni occulte con poteri contrastanti e divergenti, entrambe
sono state messe in crisi dal
fenomeno del pentitismo. Sebbene in sede storiografica la
questione non sia mai stata
posta è evidente che una simile interpretazione apre il campo a una riflessione mai compiuta e che merita
considerazione scientifica,
individuando fonti qualitative
e quantitative in grado di confermarla o confutarla. Un dato
è certo: se si segue il percorso
tracciato da Meccia viene naturale pensare che in questo
paese, nella seconda metà del
Novecento, si è svolta una guerra civile silente (italiani contro
italiani). La questione, in tal
senso, non riguarda solo l’olocausto delle vittime innocenti
ma anche quelle colpevoli. Se
guardiamo ai morti dei conflitti tra bande terroristiche e clan
mafiosi arriviamo a numeri che
possiamo paragonare solo alla
guerra messicana per il controllo del narcotraffico. Ma la
differenza è che tutto questo è
accaduto in Europa, in uno
stato di diritto assurto, dopo il
miracolo economico, a potenza
industriale globale. Ritorniamo
al libro. L’autore inizia con una
veloce disamina dei film antecedenti agli anni Settanta per
poi avviare il suo approfondimento storico-mediale da Il
sasso in bocca di Giuseppe
Ferrara, messo in diretta correlazione con il concept album
de “I Giganti” Terra in bocca.
Poesia di un delitto. Un disco
del quale don Luigi Ciotti ha
scritto: «Un esempio di come
la musica possa mettersi al servizio della verità e denunciare
l’ingiustizia raccontando… una
storia di mafia». Arrivano gli
anni Ottanta con gli omicidi
seriali di Cosa nostra e la grande trama del Maxiprocesso. La
televisione segue questi sviluppi sia dal punto di vista della
cronaca, sia stabilendo nuovi
parametri narrativi: va in soffitta lo sceneggiato e prende
avvio la fiction, ovvero La Piovra. Il commissario Cattani è
la tele-rappresentazione dell’eroe solitario contro la mafia ed
è impressionate come la sua
morte nell’ultima puntata sia
associata, dai poliziotti di allora, alla tragica fine di Ninni
Cassarà. Gli instant movies
(Cento giorni a Palermo, Pizza
connection) restituiscono il
clima di un conflitto trasversale che coinvolge ampi strati
della società. Negli anni Novanta Meccia concentra particolarmente, e giustamente, la
sua attenzione su Cinico Tv di
Ciprì e Maresco: «Mentre il
cinema e la fiction post ’92-’93
sceglieranno di portare sugli
schermi gli eroi di una Repubblica positiva, Ciprì e Maresco
metteranno in scena corpi di
vittime non destinate alla morte violenta. Corpi che non riceveranno piogge di pallottole
o eruzioni di tritolo, ma che
porteranno “impressi nella car-
61 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
ne i segni della catastrofe”».
L’Italia è immersa in una nuova strategia della tensione dalla quale esce un paese privo di
speranza, attaccato all’illusione di un sempre presente costruito dai media nella loro
apparente immutabilità. E sarà
proprio dalla retorica televisiva che arriverà la nuova forma
di potere della cosiddetta seconda Repubblica. Intanto la
mafia non è più eludibile, anzi
nella narrazione mediale conquista un posto di rilievo al
punto da divenire caricatura
di se stessa trasformando la
tragedia in epopea e il dolore
in spettacolo. Meccia snocciola e intreccia le diverse e reiterate rappresentazioni arrivando a delineare un panorama
cross-mediale in cui cinema,
tv, musica, letteratura si mescolano amalgamando un “tutto” mafioso paradigmatico che
viene rovesciato e strumentalizzato da personaggi come
Cuffaro e Dell’Utri, senza dimenticare Andreotti e il suo
processo. Nella seconda parte
del libro dà spazio alle sue
personali qualità di critico cinetelevisivo proponendo al
lettore alcune “visioni”: Cadaveri eccellenti, Il ladro di bambini, Tano da morire, La nuova
500, il Divo, La mafia uccide
solo d’estate. L’analisi più originale è sicuramente quella
relativa allo spot della 500 in
cui emerge come il linguaggio
pubblicitario degli anni duemila edifichi lo spazio di un
«immaginario collettivo pacificato» in cui le contrapposizioni del Novecento sembrano
non avere cittadinanza. L’industria manifatturiera italiana
per eccellenza insiste sull’identità nazionale della “comu-
nità immaginata” per dimostrare come la sostanza del nostro
benessere si trasformi in italica morale affiancando i visi di
Falcone e Borsellino al simbolo del miracolo italiano (la 500)
rinnovato: «Comprare una
nuova Fiat 500 […] vuol dire
implicitamente avere una coscienza civile che ci fa avere a
cuore la storia e il destino del
nostro paese». Nella terza, ed
ultima, parte Meccia intervista
Letizia Battaglia e Roberto Scarpinato. La fotografa ci prende
per mano lasciandoci entrare
negli anfratti più reconditi del
suo mestiere, soprattutto quando dice: «Devo ammettere che
ho avuto problemi veri e reali
nel puntare il mio obiettivo
contro le persone ammanettate… Mi sembrava una vigliaccata riprendere un uomo stret-
to fra due o più poliziotti. Lo
sentivo un abuso vero…». Al
giudice, l’autore, riesce a carpire una riflessione che esplicita il concetto essenziale della
lettera scritta a Paolo Borsellino
nel ventennale della sua morte:
Giovanni e Paolo sono stati definiti «creatori di senso». Meccia con acume lo sollecita a
chiarirne i motivi: «Creatori di
senso in una straordinaria impresa di innamoramento collettivo… La parola amore è composta per quattro quinti dalla
parola morte che in latino si
diceva mors. Mettendo dinanzi
alla parola mors l’alfa privativo,
si crea la parola amore: a-mors
che dunque vuol dire “togliere
dal non senso della morte”».
Una risposta che giunge a conclusione di un tragitto narrativo
che merita di essere letto.
Andrea Meccia
MEDIAMAFIA
Cosa Nostra
fra cinema e TV
Di Girolamo 2014
libri
Vite dimenticate
«Con questo libro abbiamo
voluto rendere merito ai piccoli eroi quotidiani dei quali abbiamo scritto e dei tanti
altri dei quali non si è mai
scritto. Piccoli eroi morti per
caso. Piccoli eroi caduti per
una causa. Piccoli eroi perché
hanno subito il lutto, il dolore
e hanno denunciato e si sono
battuti contro la mafia. Piccoli
eroi che della loro esperienza
hanno fatto il fertile humus sul
quale una società sana può e
deve affondare le radici di una
nuova cultura antimafia, di un
nuovo modo di vivere. Se le
storie che avete letto serviranno
ad allontanare anche un solo
ragazzo da quel mostro chiamato “mafia”, ognuno dei morti
innocenti, la cui storia abbia-
SHARE
le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
62 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
mo narrato con questo
libro, guardandoci forse
da un mondo che non
è il nostro, potrà dire a
sé stesso che non una
goccia del suo sangue,
non una lacrima dei
propri cari, è andata
persa inutilmente».
A scrivere queste parole
è Gian Joseph Morici,
autore, insieme a Fabio
Fabiano, di un libro che
si pone l’obiettivo di
raccontare storie troppo spesso dimenticate.
Ecco dunque che, nelle
dense pagine del volume, affiorano i nomi di
Michele Cimminisi, Vincenzo
e Salvatore Vaccaro Notte, Paolo Ficalora, Filippo Gebbia,
Accursio Miraglia, Giuseppe
Casarrubea, Mariano Virone
e Serafino Ogliastro. Un libro
da leggere, storie da ricordare.
Fabio Fabiano, Gian Joseph Morici, “Vittime di mafia” Mreditori, 2014
Indagini e cronaca giudiziaria...a fumetti
Una graphic novel – disegnata da Valerio Chiola e scritta
da Laura Bastianetto – ricostruisce l’operazione “Sahel”,
il processo da essa scaturito
e la sentenza, esemplare. La
protagonista della storia è La-
bel, giovane donna nigeriana
che viene sfruttata, seviziata e venduta con il nome di
“Princess”. Attraverso la sua
terribile vicenda si conosceranno i dettagli e le sfumature
di un traffico orribile di esseri
umani; il saggio a margine di
Laura Bastianetto permette di
approfondire ulteriormente la
tematica, spiegando chi sono le
vittime della tratta e il percorso
che le conduce dalla Nigeria
all’Europa e, nello specifico,
all’Italia.
La sentenza è senz’altro antesignana: emessa dalla Corte di
Assise di Perugia nel novembre
2014, ha sancito il risarcimento
di 50 mila euro per le 17 donne
costrette a prostituirsi, oltre alla
confisca dei beni sequestrati
agli aguzzini.
Laura Bastianetto,
“Trattate male”
Round Robin, 2014
63 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
Centro America e narcotraffico
Dopo “Il segreto di Julia” che
raccontava la prima indagine
del protagonista della storia
– l’intendente Navarra – nel
territorio del Centro America,
arriva in libreria il suo sequel.
Questa volta Navarra deve misurarsi con la soluzione di un
caso riguardante la sparizione
di un carico di droga da un
aereo caduto sulle montagne
costaricane. L’inchiesta, che
in un primo momento sembra
di facile risoluzione, in realtà
si rivela serrata e porterà alla
scoperta di un collegamento
diretto tra i cartelli della droga e una talpa all’interno del
¨Pacto de los Caballeros¨, da
cui prende nome il libro.
Il mondo di mezzo
Il giornalista de «Il Fatto Quotidiano» Giampiero Calapà racconta per primo in un libro la
nuova mafia romana all’indomani della retata del 2 dicembre
2014, inanellando fatti e protagonisti della realtà capitolina
così come emerge dalle carte
giudiziarie: una fitta trama d’interessi criminali, economici e
politici. La Procura di Roma ha
svelato come la capitale d’Italia
si sia ritrovata sotto la cappa di
un’organizzazione criminale
unitaria con una struttura piramidale e gerarchica di stampo
mafioso. Uno scandalo che ha
certificato l’esistenza a Roma di
una mafia “originaria e originale”, come raccontano le carte
dell’inchiesta “Mafia Capitale”.
Il libro vanta la prefazione di
Gian Carlo Caselli, che ammonisce: “Attenti a negare che
questa non sia la nuova piovra” (Giampiero Calapà, “Mafia
Capitale”, La Nuova Frontiera
editore, 2015).
I lettori che invece volessero
conoscere in maniera approfondita le carte dell’ordinanza di
custodia cautelare della procura
capitolina per sprofondare nei
mondi di sopra e sotto, possono
addentrarsi nella lettura del libro curato da Gaetano Savatteri
e Francesco Grignetti, con un
indice dei nomi dei protagonisti
appartenenti ai vari mondi.
Francesco Grignetti, Gaetano Savatteri, a cura di,
“Mafia capitale. L’atto di accusa della Procura di Roma”
Melampo editore, 2015
Si scatena così la caccia alla talpa, in un intrigo internazionale
nel quale viene coinvolta anche
la Dea (Drug Enforcement Administration), che da anni cerca
di assicurare alla giustizia il
traditore. Sarà proprio Navarra
a scoprire i retroscena del patto
e la collusione di uno dei suoi
membri con il narcotraffico.
Maurizio Campisi,
“Il patto dei gentiluomini”
Vanda epublishing, 2014
iniziativa
Agricoltura e cultura
L’ultima invenzione della compagnia teatrale Vo.di.Sca. (Voci
di Scampia), in continuo e
virtuoso fermento, si chiama
“Made in Scampia”, definito
dai responsabili del progetto,
tra cui il giovane scrittore Rosario Esposito La Rossa (autore
della rubrica “I nasturzi” sulle nostre pagine), “un nuovo
marchio che ribalta il concetto
negativo di Scampia”. Il logo
è stato apposto su un pacco
contenente 3 libri, un film, 2
documentari, 3 cortometraggi
ed altrettanti cd musicali ed
audiolibri, 26 ebook, un fumetto e altro ancora. Il costo
della scatola è di soli dieci
euro: il ricavato sarà investito
nell’acquisto di un trattore per
lavorare un terreno abbandonato; il progetto prevede che, una
volta ripristinati i due ettari e
mezzo, si possano coltivare i
“Friarielli della legalità”.
Per ulteriori informazioni e per ordini
scrivere all’indirizzo: [email protected]
64 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie
L’Argentina
si guardi
dalla
“messicanizzazione”
Che l’Argentina stia attraversando uno dei periodi più negativi della sua storia recente,
il più brutto sicuramente del
decennio “kirchnerista”, è stato
papa Francesco a ricordarlo in
una lettera personale inviata,
alcune settimane fa, al parlamentare argentino Gustavo
Vera, in cui esprimeva le sue
preoccupazioni sul narcotraffico e sui pericoli di una
“messicanizzazione” del paese.
L’episodio ha creato, come era
inevitabile, qualche garbato
disappunto nel governo messicano che, stando alle notizie
di agenzia, si appresterebbe ad
inviare una nota di doglianza
alla Segreteria di Stato del Vaticano. La realtà, tuttavia, non si
può nascondere e bene ha fatto
Francesco a mettere in guardia
sullo sfilacciamento del paese
a cui, come è noto, è particolarmente legato. La corruzione
dilagante ha investito, infatti,
alcuni faccendieri vicini alla famiglia presidenziale tanto che,
un anno fa circa, la magistratura
aveva avviato un’indagine per
riciclaggio di denaro e associazione a delinquere nei confronti
di due imprenditori legati alla
presidente. Indagato anche il
Ministro per lo Sviluppo e la
Pianificazione Federale che
avrebbe agevolato appalti pubblici a società collegate sempre
alla Kirchner. Alcune inchieste
giornalistiche, piuttosto dettagliate, hanno, inoltre, evidenziato, ingenti spostamenti di
denaro pubblico (55milioni
di euro) effettuati negli anni
dal Governo dei Kirchner su
conti correnti di banche “off
shore” del Belize e di Panama.
La vicenda, poi, nel 2013, dei
110 chilogrammi di cocaina occultata nei gamberoni destinati
in Spagna e nella quale sono rimaste coinvolte persone vicine
al Ministro dell’Agricoltura, è
stato un ulteriore tassello di grave sfilacciamento istituzionale.
L’appuntamento elettorale di
fine ottobre 2013, per il rinnovo
di parte dei seggi alla Camera
e al Senato Federale, con la
sconfitta del partito Fronte per
la Vittoria, ha confermato il calo
di popolarità della presidente.
Il 2014, con l’acuirsi della
crisi economico sociale che
sta vivendo il paese, poteva
essere l’anno della sua uscita
definitiva dalla scena politica.
di Piero Innocenti
Non sarebbe stata una grossa
novità per l’Argentina visti i
precedenti. Nel giugno 2001,
dopo violenti disordini, finì
agli arresti domiciliari, per
traffico di armi, il presidente
Carlos Memem. Prima di lui,
Fernando de La Rua, eletto nel
dicembre 1999, aveva potuto
abbandonare la Casa Rosada,
da solo a bordo di un elicottero.
La posizione della Kirchner,
agli inizi del 2015, si è ulteriormente indebolita dopo il
“suicidio” del giudice Nisman
(l’inchiesta giudiziaria in corso
ha evidenziato diversi punti
oscuri) che stava preparando le
carte processuali per accusarla
formalmente di aver inquinato
le prove in una strage (85 vittime), pare ispirata dall’Iran,
avvenuta nel 1994 a danno
di un’associazione ebraica di
Buenos Aires.
Sul versante del narcotraffico, il
paese, grazie alla sua posizione
geografica, continua ad essere
uno straordinario ponte per
consistenti spedizioni di cocaina verso l’Europa lungo le rotte
aeree Buenos Aires-Madrid,
Buenos Aires- Roma e Buenos
Aire-Johannesburg. Diversi i
corrieri arrestati nel 2013 e nel
2014 su voli diretti nelle citate
capitali europee (in prevalenza
verso la Spagna), mentre vi
sono stati alcuni casi di quantitativi di cocaina occultata,
con la complicità di personale
aeroportuale, all’interno degli
aerei (nei bagni o nei sistemi
idraulici) e prelevata durante il
volo. Anche i porti di Buenos
Aires, di Mar de la Plata e di
Rosario, ben si prestano all’in-
vio di stupefacenti via mare,
utilizzando container, verso i
mercati americano ed europeo.
Dati statistici governativi indicavano, per il 2014, la stima di
un volume annuo in entrata di
cocaina di oltre 70 tonnellate e
di marjiuana di circa 100 ton.
L’azione di contrasto svolta
dalle quattro forze di sicurezza
(Polizia Federale, Gendarmeria
Nazionale, Prefettura Navale,
Agenzia delle Dogane) alle dipendenze del Ministero della
Sicurezza, ha portato al sequestro, nei primi sei mesi del 2013
(sono gli ultimi dati disponibili), di 2,38 ton di cocaina, di
50,9 ton di marjiuana, di oltre
25mila pasticche di ecstasy (a
marzo 2013, in un garage di una
villa alla periferia di Buenos
Aires, è stato smantellato un
laboratorio per la produzione di
amfetamine). 3.901 le persone
arrestate per delitti collegati al
traffico/spaccio di droghe.
A fine 2014 erano 37 i cittadini
italiani detenuti nelle carceri
argentine, non solo per fatti di
droga ma anche per omicidio,
rapina e furto. Nel 2014, a settembre, la gendarmeria argentina aveva arrestato anche un
importante boss della ’ndrangheta, Pantaleone Mancuso,
detto “Zio Luni”, ricercato in
ambito internazionale per associazione mafiosa e duplice omicidio (verrà estradato in Italia
il 20 febbraio 2015). Gli affari
con cellule della criminalità
organizzata italiana stanziali
nel paese vanno bene anche nel
commercio di droghe e alcune
indagini, passate e in corso, lo
stanno evidenziando.
numero 1 | 2015 | 3 euro
Bimestrale | Anno XXIII | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117
numero 1 | 2015
LA TUTELA DEI MINORI NELLE FAMIGLIE MAFIOSE
BAMBINI
DI ‘NDRANGHETA
SOMMARIO
3 | L’EDITORIALE
Un nuovo corso
4 | MAFIA A CATANIA
L’impero degli Ercolano
di Saul Caia e Dario De Luca
9 | STILI DI VITA MAFIOSI
Il culto del lusso nei mafiosi
di Saul Caia e Dario De Luca
19 | I GIORNI DELLA CIVETTA
Brevi di mafia
a cura di Manuela Mareso
22 | I NASTURZI
I nasturzi, simbolo
di chi non si arrende
di Rosario Esposito La Rossa
23 | COSE NOSTRE
Un giardino per Lea Garofalo
di Marika Demaria
24 | MAFIA DA LEGARE
Quando si ammala un territorio
di Corrado De Rosa
25 | STROZZATECI TUTTI
Mafia games
di Marcello Ravveduto
27 | INCHIESTA MINORI
di Michela Mancini
Cresciuti a pane e ‘ndrangheta
La rivoluzione silenziosa
di un tribunale di frontiera
Liberi di scegliere
41 | RIPARTE IL FUTURO
Una battaglia di tutti
di Leonardo Ferrante
44 | ALTA RISOLUZIONE
“Gridas“ di riscatto
di Rosita Rijtano
e Emilio Fabio Torsello
47 | ECOCRIMINI
Tre reati all’ora
di Massimiliano Ferraro
48 | MESSICO
Desaparecidos, la piazza si mobilita
di Orsetta Bellani
53| CRONACHE SOMMERSE
Libia, la via della prudenza
di Andrea Giordano
54 | OCCIDENTI
Rassegna stampa internazionale
a cura di Stefania Bizzarri
57 | SEGNALI
Dove le stesse mani
di Marika Demaria
59 | SEGNALIBRO
MediaMafia. Un libro per riflettere
e interpretare
di Marcello Ravveduto
62 | SHARE
Le segnalazioni del mese
a cura di Marika Demaria
64 | L’OPINIONE
L’Argentina si guardi
dalla “messicanizzazione“
di Piero Innocenti