27Minori di `ndrangheta
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27Minori di `ndrangheta
1 | gennaio-febbraio 2015 | narcomafie 27 42 L’impero degli Ercolano 4 Minori di ‘ndrangheta 48 Desaparecidos in Messico Il Carnevale a Scampia 2 | gennaio-febbraio 2015 | narcomafie numero 1 | gennaio-febbraio 2015 Il giornale è dedicato a Giancarlo Siani simbolo dei giornalisti uccisi dalle mafie Fondatore Luigi Ciotti Direzione Manuela Mareso (direttore responsabile) Livio Pepino (condirettore) Redazione Stefania Bizzarri, Marika Demaria, Davide Pati (Roma) Comitato scientifico Enzo Ciconte, Mirta Da Pra, Nando dalla Chiesa, Daniela De Crescenzo, Alessandra Dino, Sandro Donati, Lorenzo Frigerio, Tano Grasso, Leopoldo Grosso, Monica Massari, Diego Novelli, Stefania Pellegrini, Marcello Ravveduto Collaboratori Fabio Anibaldi, Pierpaolo Bollani, Ferdinando Brizzi, Maurizio Campisi, Gian Carlo Caselli, Stefano Caselli, Elena Ciccarello, Rinaldo Del Sordo, Stefano Fantino, Jole Garuti, Andrea Giordano, Piero Innocenti, Alison Jamieson, Bianca La Rocca, Davide Mazzesi, Giovanna Montanaro, Marco Nebiolo, Dino Paternostro, Davide Pecorelli, Antonio Pergolizzi, Osvaldo Pettenati, Guido Piccoli, Francesca Rispoli, Lillo Rizzo, Pierpaolo Romani, Adriana Rossi, Peppe Ruggiero, Paolo Siccardi, Elisa Speretta, Lucia Vastano, Monica Zornetta Progetto grafico Avenida grafica e pubblicità (Mo) Impaginazione WeLaika - advertising In copertina Foto Torange Fotolito e stampa La Grafica Nuova 011.60.67.147 [email protected] (Torino) Direzione, Redazione corso Trapani 91, 10141 Torino, tel. 011/3841074 fax 011/3841047, [email protected], www.narcomafie.it Registrazione al Tribunale di Torino il 18.12.1992 n. 4544 Abbonamenti Spedizione in abbonamento postale 30 euro (estero 49), 50 euro abbonamento sostenitore Bollettino postale: ccp n. 155101 intestato a Gruppo Abele periodici, Corso Trapani 95, 10141 Torino Bonifico bancario: Banca Popolare Etica - Padova IBAN: IT21S0501801000000000001803 intestato ad Associazione Gruppo Abele Onlus Online: con carta di credito (Visa-Mastercard-American Express-Aura-Postepay), tramite il servizio Paypal Ufficio Abbonamenti tel. 011/3841046 - fax 011/3841047 [email protected] Reclamo arretrati Chi non ha ricevuto un numero della rivista ha 30 giorni di tempo dal ricevimento del numero successivo per richiederlo gratuitamente, oltre dovrà acquistarlo a prezzo di copertina Informazione per gli abbonati: i dati personali sono trattati elettronicamente e utilizzati esclusivamente dall’Associazione Gruppo Abele Onlus per l’invio di informazioni sulle proprie iniziative. 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Il nuovo corso nasce per rispondere ai cambiamenti registrati nel mercato editoriale, in particolare nel settore specifico di nostra competenza, sia sul piano dei contenuti sia sul piano della sostenibilità. Sotto il primo profilo abbiamo sentito l’esigenza di tornare a interrogarci su che cosa significhi informare sui temi di mafia alla luce degli scenari attuali. «Narcomafie» è nato nel 1993, all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, quando un attacco senza precedenti al cuore della parte sana dello Stato evidenziò l’inadeguatezza dei media nel cogliere il grado di pervasività del fenomeno mafioso, nella società e nelle istituzioni. Mancava, allora, uno strumento che tenesse i riflettori accesi sulle questioni criminali in modo costante, e non solo ciclicamente, a seguito di fatti eclatanti o di omicidi eccellenti. «Narcomafie» volle dunque proporsi come collettore di analisi, inchieste, riflessioni, cronache. Oggi, a oltre vent’anni di distanza, lo scenario è completamente mutato e assistiamo, al contrario, a una sovrapproduzione di notizie sull’argomento, che risultano però troppo spesso superficiali e approssimative. L’intenzione è allora quella di caratterizzare ancora di più il nostro progetto sul versante dell’analisi e della denuncia di quegli aspetti meno osservati dalle cronache quotidiane, interpellando giornalisti di inchiesta, analisti, studiosi, ma anche giovani ricercatori dell’ambito accademico: una realtà, quella universitaria, che negli ultimi anni registra (grazie alla sensibilità di una nuova generazione di docenti motivati) un fervore inedito degli studi sul crimine organizzato, capaci di produrre approfondimenti in grado di evidenziare i nodi di intervento e di prefi- gurare gli scenari possibili di evoluzione. Sulle pagine del nuovo «Narcomafie» ancora maggiore spazio verrà dedicato alla proposta – tratto che da sempre ci caratterizza – e alla valorizzazione di esperienze costruttive. Nasce da qui l’introduzione di alcune nuove rubriche, che si aggiungeranno a quelle ormai storiche: “I nasturzi” (dal nome di un fiore particolarmente tenace), curato da Rosario Esposito La Rossa, in cui leggeremo storie di riscatto, di chi con il crimine ha dovuto convivere, ma è riuscito a trovare un’altra strada, un modo per tentare di arginarlo; e “Riparte il futuro”, di Leonardo Ferrante, in cui verremo costantemente aggiornati sui risultati della più grande mobilitazione civile sui temi dell’anticorruzione, in atto da un paio d’anni e promotrice di importanti campagne di sensibilizzazione. Sotto l’aspetto della gestione del nuovo progetto, la considerazione che ci ha portati a ritenere inevitabile il cambiamento di periodicità è dettata dalla necessità, non più prorogabile, di considerare la crisi strutturale che attanaglia il mondo dell’editoria, che in questi anni abbiamo affrontato grazie al coraggioso impegno del Gruppo Abele e all’immancabile appoggio di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, che hanno creduto nell’importanza di uno strumento a cui collaborano, in un dialogo virtuoso, giornalisti, studiosi, ricercatori, magistrati, avvocati, esponenti delle forze di polizia e operatori del sociale. La scelta controcorrente compiuta nel 2005 di abbassare il prezzo dell’abbonamento alla rivista da 39 euro a 30 euro (15 per l’edizione online), e di mantenerlo invariato per dieci anni, intendiamo rinnovarla ancora oggi, per permettere a un pubblico più vasto possibile di investire una piccola somma in un progetto che documenta aspetti inediti e poco esplorati del crimine organizzato. A tutto questo continueranno ad affiancarsi il sito www.narcomafie. it – attraverso cui vi terremo aggiornati sull’attualità con i resoconti quotidiani dei fatti più importanti e di quelli meno battuti – e la nostra newsletter settimanale. Continuate a seguirci! 4 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Mafia a Catania L’impero degli Ercolano L’operazione Caronte della Dda di Catania ha riportato al centro dell’attenzione uno dei cognomi importanti di Cosa nostra catanese: Ercolano. Dal padre Pippo ai figli Enzo, ritenuto il nuovo capo dell’organizzazione, e Aldo, uno degli esecutori dell’omicidio dell’intellettuale Pippo Fava. Una storia di vecchi e nuovi assetti mafiosi di Saul Caia e Dario De Luca 5 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie «Chi è, il dottor Enzo, Enzo Ercolano in persona […] da Catania, il numero uno di Catania! Il numero uno siciliano!». Un imprenditore bolognese, senza sapere di essere intercettato dagli uomini del Ros dei Carabinieri, pronuncia non un nome qualsiasi, ma quello del figlio di Giuseppe Ercolano: un cognome che “conta”, ai piedi dell’Etna, non solo in ambito imprenditoriale ma soprattutto all’interno di Cosa nostra. Conosciuto con il diminutivo di Zio Pippo, Giuseppe Ercolano è morto per un male incurabile il 29 luglio 2012, all’età di 76 anni; per decenni ha occupato il ruolo di uomo illustre della famiglia mafiosa Santapaola-Ercolano, un doppio cognome sancito da un vincolo parentale nel segno di un patto mafioso fatto di sangue e affari. Uno dei figli dello zio è infatti l’ergastolano e “uomo d’onore” Aldo, fratello di Enzo, ormai da anni recluso al 41bis per essere stato uno degli esecutori dell’omicidio del giornalista Giuseppe Fava, ucciso il 5 gennaio 1984. Aldo e Pippo sono anche le più fidate spalle di Benedetto “Nitto” Santapaola, il capo dei capi della mafia in Sicilia orientale, di cui lo zio ha sposato una sorella, Grazia. Enzo, conosciuto con il diminutivo di Enzuccio, ha ereditato dal padre Giuseppe non solo la fiorente attività del trasporto su gomma ma, secondo i magistrati della Procura di Catania guidata da Giovanni Salvi, anche un peso importante dentro Cosa nostra. Ercolano è stato arrestato lo scorso novembre, nell’ambito dell’operazione antimafia denominata “Caronte”, insieme ad altre 22 persone. L’indagine – coordinata dalla Procura etnea e dal Ros dei Carabinieri del comandante Mario Parente – è il prosieguo dell’inchiesta “Iblis” del 2010, in cui ad essere coinvolti furono non solo boss di primo piano ma anche imprenditori e politici: su tutti, l’allora presidente della Sicilia, Raffaele Lombardo, condannato nel febbraio 2014 in primo grado a 6 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio aggravato. Il blitz scattato all’alba del 21 novembre 2014 prefigura l’infiltrazione della famiglia catanese nei settori dei trasporti e della distribuzione di carne negli hard discount, oltre ai collaudati rapporti con le famiglie mafiose di Agrigento e con quella di Belmonte Mezzagno (provincia di Palermo), guidata dai Pastoia. Vincenzo Ercolano, secondo quanto messo nero su bianco nell’ordinanza di custodia cautelare, “sarebbe il principale esponente dell’organizzazione”, forte “di uno spessore criminale elevatissimo”, con un modus operandi “da vero e proprio capo”. Non un semplice imprenditore per gli investigatori, ma “un soggetto abituato a fare tutto ciò che vuole in nome e per conto della famiglia mafiosa SantapaolaErcolano”. Enzuccio non è nuovo a inciampi giudiziari, fino ad oggi risoltisi in suo favore: nel 2009 era stato assolto dal Tribunale di Catania dall’accusa di associazione mafiosa percependo anche un maxi rimborso per ingiusta detenzione. Il suo nome, insieme a quello del padre, rientrò anche nell’operazione “Sud Pontino” condotta dalla Dia di Napoli e dalla Squadra mobile di Caserta in merito all’alleanza tra mafia siciliana e camorra per la gestione del mercato strategico di Fondi, in provincia di Latina. Nonostante gli Ercolano furono assolti con formula dubitativa, secondo i magistrati etnei i siciliani avevano consolidati “rapporti economici con esponenti della camorra nel casertano”. Un vero e proprio impero imprenditoriale, quello della famiglia Ercolano, che coinvolge a 360 gradi i suoi componenti: dal padre Giuseppe, titolare negli anni 80 della ditta Avimec (poi confiscata e messa in liquidazione nel 2000), fino ad Enzo appunto, che ereditò la Geotrans Srl insieme alla sorella. Con quest’ultima società – dal marzo 2014 confiscata con provvedimento ancora non definitivo – Vincenzo Ercolano si sarebbe imposto sul mercato con il ruolo di dominus, stringendo alleanze e accordi commerciali, come quello con Amadeo Matacena, ex parlamentare di Forza Italia trapiantato in Calabria e attualmente latitante a Dubai dopo essere stato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dal Tribunale di Reggio Calabria (è di questi giorni la notizia che gli Emirati Arabi potrebbero accordarsi con l’Italia per l’estradizione di Matacena, n.d.r.). Business via mare. Il settore dei trasporti, marittimi e su gomma, è dunque la miniera d’oro per gli Ercolano. L’inchiesta “Caronte” ha svelato i retroscena degli affari tra la famiglia e l’imprenditore etneo Tra l’ottobre 2005 e il gennaio 2006, la Athos Matacena, la Amedeo Matacena e la Ladies Matacena caricano e scaricano tir e camion facendo da spola tra le due estremità di Sicilia e Calabria, mentre il Consorzio autotrasportatori italiani Service Srl (Cai) di Giuseppe e Salvatore Scuto si occupa della documentazione e della gestione delle pratiche per accedere agli incentivi 6 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie In vista delle elezioni europee del 2009, Vincenzo Caruso e Giuseppe Scuto cercarono di accreditarsi con il loro “Partito nazionale degli autotrasportatori” all’interno del mondo politico siciliano, che all’epoca aveva in Raffaele Lombardo l’uomo di punta. Grazie all’intesa elettorale con il partito dei tir, il logo del movimento autonomista di Lombardo finì sui camion degli autotrasportatori: un vero e proprio accordo politico Francesco Caruso, titolare della società Servizi Autostrade sul Mare Srl (Sam Srl) specializzata nel trasporto marittimo. Obiettivo: usufruire degli eco bonus, gli incentivi erogati agli autotrasportatori che privilegiano il movimento via mare rispetto a quello via terra. Caruso, infatti, ne aveva già usufruito quando faceva parte del consorzio Setra, in cui risultava socio di Filippo Giuseppe Spina, cugino di Rosario e Filippo Riela, uomini d’onore dell’omonima famiglia mafiosa catanese poi condannati per mafia. Per il collegamento MessinaReggio Calabria, Caruso si rivolge direttamente all’ex forzista Amedeo Matacena, che insieme al fratello Elio aveva fondato nel 1966 la Caronte Spa. L’affare è siglato nel 2005, con la stipula di un contratto che prevede un corrispettivo di 120 mila euro al mese, e l’impegno della Amadeus Spa di Matacena a fornire tre navi alla Sam Srl per il trasporto marittimo dei tir. Tra l’ottobre 2005 e il gennaio 2006, la Athos Matacena, la Amedeo Matacena e la Ladies Matacena caricano e scaricano tir e camion facendo da spola tra le due estremità di Sicilia e Calabria; il Consorzio autotrasportatori italiani Service Srl (Cai) di Giuseppe e Salvatore Scuto (entrambi indagati nell’operazione “Caronte”) si occupa intanto della documentazione e della gestione delle pratiche per accedere agli incentivi. Sembra andare tutto liscio, fino a quando sorge un problema: mancano le autorizzazioni nella gestione, in comune con le Ferrovie dello Stato, delle banchine di approdo per l’attracco delle navi a Villa San Giovanni, in Calabria. Per risolvere la questione, il presidente del Cda dell’Amadeus Sergio Giordano si muove prontamente, provando a rassicurare tutti e prospettando anche l’attivazione di una nuova tratta che colleghi la Sicilia direttamente a Reggio Calabria. Passano alcuni mesi ma (non è ancora chiaro il motivo), Giordano decide di fare un passo indietro e dimettersi dalla società, compromettendo gli accordi. Nonostante l’aumento di capitale, la Sam Srl fallisce alcuni mesi più tardi. Eppure, “l’affare delle navi”, come viene chiamato in gergo dagli stessi indagati, è decisamente al centro degli interessi dell’organizzazione, che decide di ripartire nello stesso anno con una nuova società. All’azienda Sam Srl di Francesco Caruso subentra quindi il consorzio Lo.Tr. As. di Campobello di Licata, in provincia di Agrigento. Gli inquirenti sostengono che dietro l’azienda ci sia l’ombra dei fratelli Vincenzo e Alfio Aiello, figure di spicco di Cosa nostra etnea in ottimi rapporti con quella agrigentina, nonostante alla presidenza e alla vice presidenza del Cda del consorzio risultano esserci rispettivamente Tommaso Lo Coco e Domenico Rizzo. «Da ieri è ripartito il traghetto, Matacena line, quello là che abbiamo [...] spostato e poi si è bloccato e ora è ripartito. Ora aspettiamo che, ci sono una corsa ogni due ore». A parlare – sempre intercettato dai Ros – è Vincenzo Ercolano che, telefonando a un’azienda a lui vicina, fa presente che il servizio di logistica via mare per la tratta Messina-Villa San Giovanni è ricominciato. In più, l’organizzazione ha deciso di fare le cose in grande e allargare le offerte di mercato per gli autotrasportatori; è lo stesso Ercolano a spiegare ad un suo interlocutore che il gruppo sta studiando «un traghettamento Messina-Reggio e TremestieriReggio», perché in questo modo si risparmia tempo e «non c’è confusione». Ercolano chiama le aziende a lui vicine, organizza volantinaggi e pubblicizza le nuove rotte, eppure le cose lentamente si complicano. La gestione degli Aiello non convince, ci sono pochi clienti e gli affari non decollano, quindi tutto torna a bloccarsi nuovamente. Francesco Caruso, che era stato quasi costretto a farsi da parte per volere della cupola, in un’intercettazione ambientale con Giuseppe Scuto spiega la nuova fase di stallo: «Mi pare ca, che navi semu a moddu!! Che navi a misunu a moddu». Le navi le hanno messe a mollo, è un chiaro riferimento all’impasse del rapporto tra il gruppo e Matacena, e solo con l’intervento de «i testi di l’acqua», come Caruso chiama i “padroni”, la situazione può essere risolta. Alla fine però tutto salta inesorabilmente e la caccia all’eco bonus è rimandata di qualche anno. Ercolano ci riprova usando come cavallo di troia la Boccardi Srl, società acquistata e poi trasformata in Geotrans Logistica Frost Srl, che prova ad aderire al Consorzio Ruote sul Mare, controllata dal gruppo Fita-Log. Quello che però Ercolano non sa è che il consorzio è già in liquidazione e in seguito all’inchiesta “Sud Pontino”, che lo coinvolge direttamente, è accantonata anche la sua richiesta di accedere agli incentivi. 7 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Il partito degli autotrasportatori. Secondo gli inquirenti etnei, per accaparrarsi i tanto agognati finanziamenti per il mondo dei tir, Cosa nostra aveva deciso anche di scendere in maniera diretta in politica con la creazione del Partito nazionale degli autotrasportatori. Come ideatori e promotori ritroviamo due tra i nomi caldi finiti al centro dell’inchiesta “Caronte”: Vincenzo Caruso, ex consigliere comunale del comune etneo di Misterbianco, e il suo socio Giuseppe Scuto. Nell’estate del 2006, entrambi rimasero vittime di un attentato nelle strade della provincia etnea, quando vennero raggiunti da alcuni colpi di pistola. A distanza di due anni, in vista delle elezioni europee del 2009, Caruso e Scuto cercarono di accreditarsi con il loro movimento al mondo politico siciliano, che all’epoca aveva in Raffaele Lombardo l’uomo di punta. Una macchina di voti, quella dell’autonomismo, che aveva consentito a Lombardo di essere il successore alla presidenza della Sicilia di Totò Cuffaro, caduto in disgrazia dopo essere stato condannato per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, passando dai salotti di palazzo d’Orléans, sede del parlamento isolano, alle celle del carcere romano di Rebibbia. Il logo del movimento autonomista di Lombardo, proprio alle europee del 2009, finì sui camion degli autotrasportatori, grazie all’intesa elettorale con il partito dei tir. Un vero e proprio accordo politico, sancito con tanto di comunicato stampa. A fare da intermediario per il buon esito dell’accordo, secondo gli investigatori, sarebbe stato Giovanni Cristaudo, all’epoca dei fatti deputato regionale proprio del partito di Lombardo. Il suo nome finirà successivamente nel calderone dell’inchiesta “Iblis”, sfociata nella recente condanna in appello per concorso esterno in associazione mafiosa. Dal canto suo Lombardo, dopo il blitz “Caronte” (in cui non risulta indagato), a distanza di anni dall’accordo con Caruso e con una condanna in primo grado sulle spalle per aver favorito la famiglia mafiosa dei Santapaola-Ercolano, ha replicato tramite un comunicato stampa: «Il Caruso mi parlò del suo fantomatico partito, con “decine di migliaia di iscritti”, della cui inconsistenza, per mia consolidata esperienza, mi resi subito conto». Le mani sulla città 8 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie di Saul Caia e Dario De Luca Gli affari di Vincenzo Ecolano e delle aziende a lui riconducibili non si limitano ad operare solamente nel settore dei trasporti alimentari e ortofrutticoli, ma riescono a partecipare, spesso in sub-appalto, a grandi opere pubbliche e private realizzate sia nella provincia di Catania sia nel resto dell’isola. A cominciare dal “Parco Commerciale La Tenutella”, meglio noto come Centro Sicilia, a ridosso dell’uscita autostradale San Giorgio di Catania. Il progetto è della società sarda Coalbo, che affida i lavori a tre aziende consorziate tra loro: Sant’Agostino Scarl, Home Progetti Srl e la Industria e Costruzioni Spa. I materiali arrivano dalle cave della Co.p.p. Srl, di proprietà di Cosima Palma Ercolano e Distefano Concetto, rispettivamente sorella e cognata di Enzuccio Ercolano. Come già emerso nel corso dell’inchiesta giudiziaria “Iblis”, anche il trasporto del materiale è avvenuto con i mezzi della società di famiglia, la Geotrans Srl. Dagli accertamenti svolti dagli inquirenti, risultano diversi versamenti nei conti correnti, tra il 2010 e il 2011, delle società di Ercolano, che ha ricevuto un compenso di quasi due milioni di euro per i lavori svolti. Il business del movimento terra è da sempre considerato dalla magistratura a rischio infiltrazione mafiosa, e anche i maggiori centri commerciali di Catania e provincia hanno subìto, come già dimostrato ampiamente da inchieste giudiziarie, la presenza di Cosa nostra. Con un ipermercato, centocinquanta negozi e circa cinquemila posti auto, “Le Porte di Catania” – a pochi passi dal quartiere periferico di Librino e dall’aeroporto Fontanarossa – è una delle più grandi gallerie commerciali della città. Anche questa vicenda è stata oggetto d’indagine della Procura e ampiamente dibattuta nel processo Iblis. I terreni su cui sorge la struttura avevano una destinazione agricola, poi convertita dall’amministrazione comunale in commerciale, e sono di proprietà di Mario Ciancio Sanfilippo, editore di diversi quotidiani ed emittenti televisive, che tramite la sua società Icom Srl si è occupata anche della progettazione. I lavori sono stati realizzati dalla Sicep e dalle imprese riconducibili a Vincenzo Basilotta, condannato in primo grado per mafia nell’inchiesta Dionisio; anche in questo caso, viene scelta la Geotrans per il trasporto dei prefabbricati. Ercolano lavora nuovamente con Basilotta anche nel cantiere per il tratto autostradale Caltanissetta-Agrigento, con la Geotrans incaricata del trasporto di alcuni materiali. Stesso discorso per la costruzione del mercato ortofrutticolo e ittico di Catania, realizzato dalla Mercati agro-alimentari Sicilia S.C.p.A. (Maas), società consortile di proprietà della Regione Sicilia. I lavori sono appaltati alla Cooperativa di Muratori e Cementisti (Cmc) di Ravenna, che a sua volta li affida alla Intercor e Judica Appalti di Basilotta e alla Icob dell’imprenditore ennese Mariano Incarbone, già condannato in appello a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. A trasportare i materiali, sempre i camion della Geotrans di Enzuccio Ercolano. Altro cantiere, altro affare. Per il parco commerciale “Sicily Outlet” di Agira in provincia di Enna, i lavori sono realizzati dalla Sicep, mentre Ercolano trasporta i prefab- bricati; la storia si ripete a Palermo per il parcheggio multipiano sorto vicino al Tribunale. Un sodalizio tra i due imprenditori che troviamo anche in un’altra opera, attualmente posta sotto sequestro dalla magistratura: il cinema multi sala in zona San Gregorio. In questo caso, la Sicep mette a disposizione i propri prefabbricati ma utilizza i camion di Ercolano per trasportarli. Infine, c’è l’autostrada CataniaSiracusa, di cui si era occupato il giornalista Sigfrido Ranucci nella puntata “Il Progetto” trasmessa dalla trasmissione televisiva «Report». La società parmense Pizzarotti & C. vince l’appalto di circa 750 milioni di euro, in gran parte provenienti da fondi Fas, per realizzare 27 km di superstrada, affidandosi alla Unical Spa per il materiale. Quest’ultima a sua volta usa le cave e i mezzi della Co.p.p. degli Ercolano. La Pizzarotti sigla il protocollo di legalità con il quale si impegna a sospendere eventuali forniture di aziende legate alla mafia, e invia alla Prefettura di Catania l’elenco delle ditte che operano nel cantiere, tra cui figura anche la ditta di Ercolano. I lavori proseguono senza intoppi, fino a quando l’Ufficio territoriale del Governo chiede la sospensione della Co.p.p. Srl. L’azienda incriminata però decide di fare ricorso, che porterà a nuovi accertamenti. Dopo alcuni mesi, la Prefettura etnea dichiara di essersi sbagliata e garantisce che l’azienda degli Ercolano è provvista della certificazione antimafia. 9 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Stili di vita mafiosi Il culto del lusso nei mafiosi Tradizionalmente capimafia e adepti siciliani e calabresi erano attenti a esibire una falsa povertà in pubblico, mostrandosi morigerati e dimessi. L’ostentazione è invece sempre stata caratteristica del camorrista. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta esplodono i consumi vistosi degli appartenenti alle organizzazioni criminali. Breve analisi sul rapporto tra mercato del lusso, appartenenza alla classe agiata e affiliazione mafiosa Roberto Ferrari di Amedeo Paparoni 10 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Se prendiamo in considerazione lo stile di vita di mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi incontriamo casi molto diversi tra loro. Alcuni affiliati preferiscono una vita all’insegna del lusso più sfrenato, altri un basso profilo; non mancano casi intermedi. I consumi vistosi hanno assunto una connotazione più esplicita dopo che le organizzazioni criminali hanno trovato nel narcotraffico un redditizio business. Dunque nell’analizzare queste tendenze appare opportuno distinguere i dati precedenti al 1975, data puramente indicativa, da quelli posteriori. Tra i camorristi è abbastanza comune ostentare ricchezza anche tramite il possesso di animali Camorra, esibirsi non rinnegarsi. Gli affiliati della camorra sono noti per la loro propensione a consumi vistosi particolarmente ostentati. Ne è la prova una recente asta giudiziaria che ha avuto come oggetto beni sequestrati alla camorra. In un articolo pubblicato su «La Repubblica», Patrizia Capua riporta di gioielli in vendita per un valore stimato intorno al milione di euro: un orologio marca Rolex daytona con cassa in oro bianco e chiusura in oro è in vendita a 8mila euro, un Rolex Date Just, quadrante blu e lunetta incastonata sarà offerto a 12mila euro, 11mila ne servono per entrare in possesso di un paio di orecchini pendenti incastonati e pavé di 196 brillanti per un totale di 16 carati. La stessa cifra è stimata per un collier di tre fili di perle e ciondolo in lapis con diamanti incastonati. Un altro Daytona in oro e cinturino in pelle, completo di astuccio e garanzia è in vendita per 8mila euro. Si sale con l’orologio Car- tier da donna in oro massiccio che va all’incanto per 24mila euro. Un solitario, un diamante di sei carati, è valutato 50mila euro. Per collezionisti e antiquari c’è un blocco di cinque orologi della seconda metà del Settecento, con meccanismi a catena, a partire da 6.250 euro. Per incentivare gli acquisti il tesoro della camorra è stato suddiviso in piccoli lotti, anche da mille euro l’uno (1). Le ostentazioni dei camorristi non si limitano certo a orologi e preziosi: altro motivo di vanto sono per loro le abitazioni. Emblematico il caso del boss Walter Schiavone, fattosi costruire una villa uguale a quella di Tony Montana, narcotrafficante protagonista del film Scarface. Interessanti da questo punto di vista anche i sontuosi banchetti con cui viene festeggiato l’ingresso nell’associazione camorristica. Il sociologo statunitense Thorstein Veblen aveva già teorizzato nel secolo scorso che anche gli animali domestici costituivano una forma di consumo vistoso. Il sociologo sosteneva, infatti, che cani, gatti e cavalli, soprattutto se di razza pregiata, rappresentavano una forma di sciupìo vistoso. Questi, infatti, non possono ritenersi utili e, al pari di servi o dame di compagnia, rappresentano per chi li mostra in società un’espressione del proprio status. Tra i camorristi è abbastanza comune esercitare i propri consumi vistosi anche tramite il possesso di animali. Benché nella maggior parte dei casi non si tratti di animali domestici, questi sono spesso rinchiusi in gabbie e tenuti nelle abitazioni dei criminali campani. Francesco Schiavone, per esempio, pare tenesse una tigre in casa. Emblematica in questo senso una scena del film “Luna Rossa” di Antonio Capuano, in cui il boss Antonino Cammarano – personaggio fittizio costruito sulla base dello stereotipo del boss campano degli anni Settanta – viene raffigurato nel suo salotto in compagnia di una pantera nera. Anche animali feroci più comuni, come i cani da guardia, e in particolare i rottweiler, sono abbastanza comuni in questi ambienti criminali. Se però gli animali esotici, soprattutto se detenuti illegalmente, sono da un lato una forma di consumo vistoso, dall’altro la loro ferocia è espressione del potere criminale e del coraggio del suo possessore. Non solo la ferocia ma anche la rarità di questi animali è caratteristica ricercata. Non stupisce dunque che un commerciante di Napoli, intervistato dalla giornalista Sabrina Nobile per la trasmissione televisiva Le Iene, abbia raccontato che per il proprio cardellino, un esemplare molto raro, gli siano stati offerti 50mila euro e che a seguito del suo diniego abbia subito, pochi giorni dopo, una rapina a mano armata che mirava al furto dell’uccellino. Lo stesso commerciante sostiene che sia altamente probabile che il cardellino fosse nelle mire di un qualche camorrista e che fosse molto desiderabile proprio per la sua rarità e il suo alto valore. Altro oggetto di ostentazione di alcuni criminali è l’arte: il camorrista Tommaso Prestieri, secondo indiscrezioni, si circondava di tele di Giorgio De Chirico e Mario Schifano. 11 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Pasquale Galasso, boss legato alla nuova famiglia di Carmine Alfieri, aveva nella sua villa un museo privato di circa trecento pezzi d’antiquariato. Tra questi primeggiava il trono di Francesco I di Borbone. Luigi Vollaro, detto ‘o califfo, boss dell’omonimo clan, possedeva invece una tela di Botticelli. Il sociologo Isaia Sales, in una puntata del programma televisivo Blu Notte, spiega che è caratteristica propria della camorra quella di mostrarsi, esibirsi e non rinnegarsi: «Un mafioso non si dichiara, un camorrista invece sì» (2). L’origine di questo comportamento è dettata dal sovraffollamento di Napoli, città in cui è nata la camorra. Qualora un camorrista avesse subito un’ingiuria, avrebbe dovuto vendicarla uccidendo chi lo aveva ferito nell’onore. Data l’alta densità di popolazione della città, non era pensabile che tutti i suoi cittadini riconoscessero i volti dei camorristi senza che questi portassero un segno distintivo. Non a caso nei quadri e nelle cartoline che rappresentano la Napoli della prima metà del Novecento, i camorristi sono rappresentati come elemento caratteristico del paesaggio. Li si riconosce dal vestire appariscente, con pantaloni larghi e giacchetta corta, fascia rossa in vita, anelli, catene e altri accessori, il cappello portato storto, il bastone che ruota, i tatuaggi (spesso d’ispirazione sacra). Oltre che fare uso di un gergo che pochi capiscono, i camorristi hanno un modo particolare di camminare, con le mani dietro la schiena o con il pollice allacciato alla falda della giacca. Tuttavia il motivo di queste ostentazioni potrebbe essere dettato da altre circostanze. Se si visitano le aree ad alta densità camorristica, paesi come San Cipriano D’Aversa o Casal di Principe (CE), si nota che i cartelli stradali sono stati vandalizzati da diversi colpi di proiettile. Il motivo di ciò è da riscontrarsi nella necessità di mettere in mostra un potere che non si riesce a manifestare diversamente. Il prestigio criminale della camorra è in questo senso minore di quello di Cosa nostra, che non ha bisogno di questi mezzi per mostrare la sua presenza e il suo controllo sul territorio. Analogamente, il mafioso tradizionale è austero e non ha bisogno di ostentare il suo ruolo attraverso consumi vistosi, né ha l’inclinazione a farlo. Possiamo quindi ipotizzare che un ulteriore motivo per cui si riscontrano comportamenti ostentatori tra i camorristi è la “debolezza” del loro prestigio criminale. Analogamente a queste manifestazioni di potere, il consumo vistoso dei camorristi sembrerebbe essere una dichiarazione di appartenenza alla camorra e a un rango sociale elevato. Tra le attività criminali dei camorristi c’era (e c’è tuttora) anche l’usura, che veniva esercitata anche tra affiliati. L’usuraio-camorrista era solito trattenere un oggetto in pegno a seguito del prestito erogato e nel caso si fosse trattato di un gioiello lo avrebbe portato addosso. Possiamo quindi ipotizzare che questi oggetti fossero funzionali anche a dichiarare la propria attività di usurai. ‘Ndranghetista: alberghi, ristoranti, auto blindate. I consumi vistosi sembrano essere meno rilevanti all’interno dell’organizzazione criminale calabrese. Un esempio è dato da Giovanni Strangio, condannato all’ergastolo nel 2011 perché considerato il principale organizzatore ed esecutore della strage di Duisburg del 2007. Questi era solito spostarsi a bordo di una Fiat Panda Bianca. Sembra così tradito l’immaginario collettivo, legato a vicende di cronaca e a immagini cinematografiche, che vuole i boss edonisti e amanti del lusso. La discrezione è tipica dei vecchi capiclan, che negli anni Sessanta abitavano case fatiscenti, spesso senza intonaco, esibendo nelle piazze una finta povertà. Negli anni Settanta però, in coincidenza con la prima guerra L’ostentazione del benessere e l’effetto droga 12 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Nelle tre organizzazioni criminali di cui si è trattato è presente, seppure in misura diversa, una certa propensione ai consumi vistosi. Tuttavia questi assumono significati diversi a seconda di chi li ponga in essere. Possiamo affermare che, in linea generale, questi sono subordinati a una precisa volontà di dichiarare un’appartenenza. Ma sarebbe scorretto affermare che con i consumi vistosi si dichiari necessariamente l’appartenenza alla classe agiata vebleniana. Basti pensare che la ricchezza si concentra ai vertici delle organizzazioni criminali, lasciando ai livelli medio-bassi percentuali irrisorie. Tuttavia un muschillo, nonostante sia il più basso dei gradi di appartenenza alla camorra, riesce a guadagnare più di un direttore di filiale di banca. Un tempo questi ragazzi provenivano solo da famiglie povere. Oggi invece la scelta di intraprendere una carriera criminale viene presa anche da ragazzi provenienti da famiglie in ottime condizioni economiche. Così facendo, scrive Nanni Balestrini in “Storie di Camorra”, si sentono forti o più potenti pur rischiando serie incriminazioni. In generale si riscontra che i consumi vistosi della manovalanza mafiosa sono più evidenti, spesso ostentatati ed eccessivi. Questo è particolarmente evidente tra siciliani e campani ma, per quanto riguarda i calabresi, si riscontra solo tra picciotti insediati al Nord d’Italia. Tuttavia determinati status symbol sono finalizzati a dichiarare l’appartenenza all’organizzazione e non a una classe sociale. La carriera criminale di molti viene bruscamente interrotta dalle azioni giudiziarie o dal fuoco cui si espongono entrando a far parte dell’organizzazione. Eppure l’estrema povertà di determinate aree, il mito del successo e l’esaltazione derivante dalla scarsa istruzione, o più banalmente dal carattere, spinge centinaia di ragazzi a guardare con ammirazione al mondo criminale, nella speranza di potere un giorno raggiungere una posizione sociale proprio grazie all’organizzazione. La storia della mafia è colma di esempi di nullatenenti diventati ricchi e potenti grazie alle loro attività criminali mafiose. Un esempio ci è dato dal boss calabrese Vincenzo Mammoliti. In pochi anni egli è riuscito a cambiare status, passando dall’essere un guardiano abusivo di agrumeti, che percepiva un compenso irrisorio, al potersi permettere di viaggiare con automobili di lusso. A ogni livello l’appartenenza a queste organizzazioni criminali assicura un reddito consistente. Perfino quando scontano pene detentive, i picciotti e i muschilli godono di benefici economici, come l’assistenza legale e la “mesata”, sostegno economico fatto percepire alla famiglia del detenuto. Questa apparente generosità da parte delle organizzazioni è in realtà finalizzata ad alimentare la fedeltà degli affiliati sotto pressione, i quali si sentono strettamente vincolati all’organizzazione e avranno dunque una minore propensione a collaborare con la giustizia. Tuttavia nell’affermare che la mafia è interclassista è necessario specificare che, anche se prendiamo in considerazione i boss, si riscontrano figure molto diverse tra loro. Alcuni boss infatti tendono – ove e quando possibile – a mascherare loro ferocia, apparendo come eleganti uomini d’affari, altri invece sono semianalfabeti e propendono a un consumo meno calcolato. Scrive, per esempio, il pm Pasquale Maresca: «Oggi invece Pasquale Zagaria può presentarsi al mondo dell’economia e della finanza con le credenziali di un abile e facoltoso imprenditore» . In quest’ottica non sorprende che Pino Arlacchi abbia scritto che il modo di vestire e di presentarsi del mafioso imprenditore non fa pensare alla mafia. Il mafioso imprenditore si caratterizza per un preciso stile di vita, dominato dai simboli dell’agiatezza e del potere vistosi: alberghi di lusso, ristoranti di lusso, automobili di lusso. Guardie del corpo e automobili blindate cominciano a diffondersi, a partire dal 1973-1974, anche tra i più importanti imprenditori mafiosi. Prosegue Arlacchi: «I più potenti tra i giovani boss frequentano il bel mondo romano e milanese. Quando sono a Roma, li si incontra nei locali alla moda, dove si incontrano con i grandi truffatori e speculatori internazionali, con la malavita italo-francese, con esponenti della razza padrona» . Per questo Pasquale Zagaria, quando incontrava gli imprenditori che taglieggiava, o con cui faceva affari, sapeva come vestire, apparendo a prima vista come uno di loro. Infatti, scrive ancora Maresca, «nessuno sicuramente lo prenderebbe per il fratello del capo dei Casalesi». I boss possono aspirare a fare parte della classe agiata, anche se difficilmente potranno raggiungerne i vertici. Oltre ai manifesti deficit culturali, gli affiliati non godono del prestigio, spesso legato a cariche istituzionali, degli esponenti più in vista della classe agiata. Inoltre quando i boss sono costretti a darsi alla latitanza hanno non pochi problemi a frequentare gli eventi, i luoghi e i circoli mondani tanto cari alla classe agiata. Per questo motivo un pericoloso boss come Matteo Messina Denaro, che non a caso orienta i suoi consumi verso oggetti di lusso e può vantare un’istruzione e una padronanza dell’italiano superiore ai suoi omologhi, poteva aspirare a fare parte della classe agiata, ma la latitanza lo ha reso riconoscibile e non più frequentabile (rari i casi di boss, come Raffaele Cutolo, che non hanno rinunciato all’aspirazione di appartenere a una classe elevata pure dopo essere stati arrestati). Eppure abbiamo potuto constatare, in relazione alle famiglie che esercitano la funzione socialmente più rilevante in un dato periodo storico, 13 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie che le famiglie mafiose possono trovarsi perfettamente integrate con i vertici ufficiali o in una posizione parallela, in relazione al riconoscimento – o all’ostilità – ricevuto dall’ordinamento socioculturale. Avviene però che ricchi e potenti boss preferiscano condurre una vita di basso profilo. Interessante, in questo senso, il caso del boss Domenico «Mimmo» Gangemi, originario di Reggio Calabria, professione «fruttivendolo» e titolare della bottega «da Mimmo» di piazza Giusti a Genova. Dietro questa attività il boss poteva nascondere la sua vera identità di pericoloso criminale. Al momento dell’arresto, avvenuto nel 2010, era considerato il punto di riferimento per le ’ndrine reggine a Genova. Nonostante la sua attività apparentemente legale fosse solo una copertura, Gangemi si era dovuto calare nella parte e non poteva dunque andare a “lavoro” con il doppiopetto o spostarsi in Ferrari. Potere e ricchezza non sono dunque sufficienti a fare accedere un boss alla classa agiata. L’austerità era inoltre tipica dei boss siciliani (e calabresi) prima del salto di qualità che la mafia ha potuto compiere trafficando in stupefacenti. Per questo non stupisce che Giuseppe Genco Russo, potentissimo boss di Mussomeli (CL), fosse semianalfabeta, non avesse i sanitari in casa e fosse solito tenere il proprio mulo tra le mura domestiche (come in quegli anni succedeva in molte abitazioni contadine). Bizzarro pensare che Genco Russo fosse considerato un ricco proprietario terriero e un potente politico della Dc e che spesso si fosse fatto fotografare in presenza di vescovi, banchieri e uomini politici. Anche Salvatore Riina e Bernardo Provenzano erano ben lungi dall’avvicinarsi alla classe agiata. Basti pensare che il pentito Carmine Schiavone, intervistato da Francesca Nardi per il giornale telematico «Lunaset», esprime non poco disprezzo per i due boss più potenti della storia di Cosa nostra: «Due pecorai come a quelli […] erano due poveri disgraziati […] a Casale gente più intelligente di loro guarda le pecore». Li attacca anche sul piano del prestigio criminale e su quello intellettivo, spiegando che i Casalesi non avevano bisogno di uccidere uomini delle istituzioni perché erano capaci di farli trasferire quando davano troppo fastidio. Empiricamente si osserva che i consumi vistosi sono più evidenti quando posti in essere da individui che godono di un minore prestigio criminale. Questo si può riscontrare sia all’interno delle singole organizzazioni, sia se le confrontiamo tra di loro. Non mancano eccezioni a quanto appena affermato, come il caso di Matteo Messina Denaro. La camorra non ha mai goduto del prestigio criminale associato a Cosa nostra e di fatto ha sempre avuto bisogno di ostentare la propria potenza e il proprio ruolo sul territorio. Il fatto che i Casalesi, gruppo camorristico egemone in Campania, abbiano una certa propensione a non mostrarsi in pubblico confermerebbe la nostra ipotesi. Costoro infatti sembrano avere acquisito sufficiente potere e prestigio criminale da non sentire più la necessità di ostentarlo, apparendo quindi diversi dalla chiassosa camorra dell’hinterland napoletano. Nonostante nelle sue caratteristiche chiave il modello mafioso di centocinquanta anni fa non differisca da quello odierno, dobbiamo ammettere che l’antropologia culturale del mafioso, dello ’ndranghetista e del camorrista ha subito delle modifiche. Se prendiamo in considerazione la criminalità organizzata campana dal punto di vista dei consumi vistosi, ci rendiamo conto che all’interno di questa si riscontrano dei comportamenti tutto sommato uniformi e che, rispetto alle altre organizzazioni criminali sotto esame, le eccezioni sono numericamente e qualitativamente meno rilevan- ti. Appare però opportuno tenere presente che i guappi di quartiere e i camorristi odierni, pur avendo degli interessanti punti di contatto, si mostrano differenti nei costumi. Notiamo che questi criminali hanno, e hanno sempre avuto, la tendenza a ostentare un vestiario sgargiante, gioielli e tatuaggi. Gli odierni camorristi, però, non si limitano a questo e orientano i propri consumi anche verso abitazioni lussuose, automobili di grossa cilindrata e animali esotici. Le cause di questa evoluzione sono molteplici. La più evidente riguarda il contesto sociale: l’evoluzione della società modifica i consumi e i comportamenti dei suoi componenti, dunque anche dei camorristi. Il rapporto che i camorristi hanno con la droga e con la prostituzione, per esempio, cambia da una generazione criminale all’altra anche perché cambia nella società. Carmine Schiavone racconta, infatti, che con i suoi enormi profitti poteva permettersi automobili di lusso, cameriere, uno yacht e molti divertimenti – a tale proposito la giornalista Francesca Nardi parla di «una vita sentimentale allegra». Schiavone ha inoltre dichiarato, in riferimento alla prostituzione, che è facile diventare schiavi di certe abitudini. I consumi vistosi non sono diffusi solo tra i grandi boss ma anche tra i più giovani. È abbastanza facile immaginare quali siano i meccanismi mentali che influenzano i più giovani delinquenti: in una società dove il consumo è diventato quasi compulsivo si è portati a determinati modelli e tale propensione viene accentuata dal rischio. Non varrebbe la pena di correre il rischio per un profitto di cui non si possa disporre liberamente. La gestione di una consistente fetta del mercato della droga da parte dell’organizzazione e la transizione al modello mafioso – come dimostra la storia della NCO e l’affermazione del gerarchizzato clan dei casalesi – sono fattori estremamente rilevanti. 14 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 1 Maresca C., Neri F., L’ultimo bunker, La vera storia della cattura di Michele Zagaria, il più potente e feroce boss dei Casalesi, p.39 2 Arlacchi P., La mafia imprenditrice, Dalla Calabria al centro dell’inferno, Il Saggiatore, Milano, 2007, p.126 3 Maresca C., Neri F., L’ultimo bunker, La vera storia della cattura di Michele Zagaria, il più potente e feroce boss dei Casalesi, p.39 4 Nardi F., Nuova intervista al pentito Carmine Schiavone in esclusiva per il gruppo Lunaset, in onda il 16/09/13, http://www.youtube.com/ watch?v=vV-7qWg-jOU Il fiume di denaro che passa per le mani dei camorristi grazie ai traffici di stupefacenti permette al camorrista di compiere un salto di qualità dal punto di vista economico e dunque anche dei consumi, facendolo emergere dal suo ambiente sociale, storicamente legato ai ceti subalterni. Per quanto riguarda la ’ndrangheta dobbiamo tenere presente che sul fenomeno esiste una letteratura meno cospicua rispetto a mafia e camorra. Di fatto però riscontriamo una frattura tra il rigore culturale dei boss dell’onorata società (come veniva chiamata l’organizzazione calabrese prima del salto di qualità compiuto con il traffico di stupefacenti) e quelli odierni. Basti pensare all’avversione che i primi avevano nei confronti dei sequestri di persona e del commercio di stupefacenti: discordie che porteranno, di fatto, alla prima guerra di ’ndrangheta. Nonostante alcuni filoni di pensiero siano orientati verso una visione romantica dell’onorata società – attenta ai problemi sociali e non solo al profitto – non esiste una vera frattura tra questa e la ’ndrangheta odierna. Eppure sappiamo che prima degli anni Ottanta, gli ’ndranghetisti erano attenti a esibire povertà in pubblico. Oggi il lusso è esibito nello spazio privato, ma è evidente una minore rigidità nei comportamenti. Interessante pensare che la maggior parte delle eccezioni si riscontra tra gli ’ndranghetisti insediati al nord Italia, in un contesto più ricco e più incline al lusso. La frattura più evidente è quella che si riscontra nella storia di Cosa nostra. Se prendiamo in considerazione la mafia contadina delle origini, l’austerità è caratteristica preponderante degli affiliati. Inoltre la socializzazione al ruolo del mafioso è attentamente studiata, suddivisa in tappe e inizia in giovanissima età. Ancora oggi questa ha una sua fondamentale importanza, ma le logiche disordinate conseguenti all’effetto droga e alla seconda guerra di mafia hanno fatto sì che saltassero le complesse fasi di apprendimento di molti rampolli. Dunque se da un lato la droga ha fatto sì che la mafia siciliana si arricchisse come mai prima di allora, dall’altro ha modificato l’antropologia culturale degli uomini d’onore. Anche se già negli anni Cinquanta Cosa nostra aveva orientato i propri affari verso la spesa pubblica e l’edilizia, allontanandosi perciò dallo stereotipo della mafia rurale, è con l’ingresso nel mercato della droga, a partire dalla metà degli anni Settanta, che compie il vero salto di qualità. Se dunque prendiamo in considerazione Cosa nostra, una volta compiuto questo repentino salto di qualità, ci accorgiamo che le abitudini degli uomini d’onore sono profondamente cambiate. Non solo abbandonano la tradizionale austerità, ma si premurano anche di mostrare il proprio benessere in pubblico. Infatti i mafiosi siciliani orientano i propri consumi vistosi verso ristoranti e discoteche di lusso e abiti di alta moda. Se da un lato la mafia odierna è rimasta profondamente maschilista, come da tradizione, dall’altro è molto più comune oggigiorno che gli uomini d’onore sposati siano soliti intrattenere relazioni extraconiugali senza curarsi di nasconderle in pubblico. Infatti la compagnia di belle donne è motivo di vanto e, anche quando non si tratta di escort ma di amanti, rappresentano per questi criminali una forma non convenzionale di consumo vistoso. Non è un caso che tra i consumi vistosi dei figli dei boss spicchino le discoteche. Questi luoghi di aggregazione, giovanile e non, sono infatti utilizzati strumentalmente dai boss per educare i propri figli al ruolo, insegnando dunque ai rampolli a costruirsi la propria rete di relazioni personali e rapportarsi con la gente. di ‘ndrangheta, e quindi con una serie di avvicendamenti al vertice dei vari “locali”, i boss cambiano costumi e abitudini. Molti capobastone escono allo scoperto e diventano imprenditori. Lo stile di vita cambia, inizia a essere dominato dai simboli del potere e di una ricchezza sempre più esibita, fatta di alberghi, ristoranti e automobili di lusso blindate. I giovani rampolli si concedono pure uscite notturne nei locali della movida milanese, quali la discoteca Tocqueville, il Santa Tecla Cafè, il Caffè Dalì, e nei luoghi simbolo della “dolce vita” romana. Pertanto possiamo affermare che anche all’interno della ’ndrangheta il consumo vistoso ha un ruolo importante. Infatti, se da un lato nella quotidianità pare essere attenuato, dall’altro non si bada a spese per i banchetti, che costituiscono occasione per consolidare l’amicizia e l’ideologia, rafforzando le alleanze. Tali occasioni spesso coincidono con cresime, battesimi e matrimoni. Il lusso barocco in queste occasioni ha una profonda importanza ai fini dell’organizzazione: come per la camorra e per Cosa nostra, i matrimoni sono spesso combinati al fine di stringere alleanze tra le famiglie e quindi sono momenti cruciali per la vita della ‘ndrangheta. Il lussuoso King Rose Hotel di Reggio Calabria, recentemente confiscato a Vincenzo Barbieri – referente della cosca Mancuso di Limbadi (VV), ucciso nel 2011 a San Calogero di Calabria (VV) – è stato scenario di svariati ricevimenti nuziali di questa natura. Neppure in carcere gli ‘ndranghetisti si privano di pasti or- 15 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie dinati nei migliori ristoranti, rifiutando il vitto carcerario, “il pane del governo”. Paolo De Stefano, durante i suoi periodi detentivi presso il penitenziario di Reggio Calabria, riusciva addirittura a far introdurre nel carcere casse di champagne. Inoltre ci sono boss che in carcere ricevono in vestaglia di seta picciotti e amici e le infermerie spesso divengono luoghi d’incontro tra falsi malati. Anche Pasquale Condello, detto U Supremu, amava il lusso e la bella vita: quando nel 2008 venne arrestato, dopo dieci anni di latitanza, stava cenando con ostriche e champagne. È interessante notare che la classe agiata vebleniana utilizza la proprietà di beni di lusso come segno di distinzione rispetto alla società. Nella ’ndrangheta, oltre alla proprietà, per farsi riconoscere è comune ostentare un proprio modo di camminare, tatuaggi su petto e braccia e segnalare il proprio ruolo con un fazzoletto colorato, rigirato con molta cura intorno al collo. Una maggiore ostentazione di beni si ravvisa tra gli ’ndranghetisti che hanno messo radici nel Nord Italia. Paolo Martino, boss calabrese vicino a Pepè Flachi, boss di Bruzzano e della Comasina, e al figlio Davide, si muoveva in Jaguar, indossava abiti di sartoria e frequentava politici e imprenditori. Ma anche in Calabria macchine di grossa cilindrata sfrecciano per le strade, come per esempio la Mercedes di Nicola Gattuso, boss di Reggio Calabria. Un altro esempio di consumo vistoso può essere offerto dalle case, a volte ville-bunker, degli ’ndranghetisti. L’abitazione di Giuseppe Ferraro, ’ndranghetista legato alla cosca rosarnese dei Pesce, confiscata nel 2006, e adibita dal Comune di Milano a casa di permanenza temporanea per anziani in difficoltà, è emblematica. Superata la porta blindata bianca, lo scenario è suggestivo: l’appartamento è interamente rivestito di marmo bianco, nero, verde e azzurro che dà un effetto lussuoso e barocco. Svariati dettagli fanno intuire che nulla è lasciato al caso: il caminetto, i rubinetti vistosamente decorati, una grande veranda coperta e l’incisione sul marmo del pavimento in omaggio a Giuseppe Ferraro detto Mussuni, ’ndranghetista ex proprietario della casa, e a Vincenzo Pesce detto U Babbu, suo capomafia di Rosarno (Rc). Anche nelle abitazioni degli ’ndranghetisti insediati tra Corsico e Buccinasco, comuni dell’hinterland milanese, si ravvisano manifestazioni di lusso. Le loro case dall’esterno appaiono fatiscenti, ma all’interno sono arredate in modo ricercato e lussuoso. Nello specifico sono parecchio comuni rubinetti in oro, vasche in marmo, televisori giganteschi, statue e opere d’arte. Le dichiarazioni di alcuni agenti di polizia, che a seguito di indagini hanno fatto irruzione in queste case, sono orientate a sottolineare che per questi ’ndranghetisti non serve esibire lo sfarzo al di fuori delle mura domestiche, ma che esso assume un suo peso nell’intimità del nucleo famigliare. Ma non tutti i boss ’ndranghetisti residenti al Nord Italia hanno arredato le proprie abitazioni in modo lussuoso e ricercato. Infatti in una puntata di Presa Diretta, trasmissione televisiva condotta da Riccardo Iacona, andata in onda nel gennaio del 2012, sono state mostrate alcune abitazioni che confermano quanto appena affermato. Per esempio, ad Alessandria, la villa di Bruno Pronestì, capo locale della ’ndrangheta del basso Piemonte, originario di Cinque Fondi (Rc), pur essendo molto grande e pur avendo il pavimento in parquet, era arredata con mobili comuni, non ricercati. Lo stesso si può dire dell’abitazione di Benito Pepè a Bordighera (IM) e di Fortunato Barillaro a Ventimiglia. Al momento dell’arresto del Barillaro nella sua abitazione erano presenti fiori di plastica. Dunque si ravvisa una certa propensione all’austerità da parte degli ’ndranghetisti. Non a caso Roberto Saviano, nel suo ultimo libro ZeroZeroZero, scrive che da alcune intercettazioni emerge che gli ’ndranghetisti non solo ci tengono a distinguersi dai camorristi, ma che addirittura li disprezzano. Preferiscono tenere un basso profilo e reputano i colleghi campani “gente che si scanna troppo spesso per troppo poco, troppo chiassosa, troppo disordinata” (3). In particolare non sono visti di buon occhio i boss per la loro abitudine a ostentare macchine e donne, sempre azzimati e griffati dalle scarpe alle magliette intime. Il mafioso: dal cliché hollywoodiani ai pizzini. Giovanni Falcone, intervistato da Enzo Biagi, affermava che il mafioso è colui il quale presta giuramento e diventa quindi affiliato di Cosa nostra. Cosa nostra è la più nota della organizzazioni criminali italiane. La sua struttura Nella ’ndrangheta, oltre alla proprietà, per farsi riconoscere è comune ostentare un proprio modo di camminare, tatuaggi su petto e braccia e segnalare il proprio ruolo con un fazzoletto colorato, rigirato con molta cura intorno al collo 16 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Un esempio di consumo vistoso sono i viaggi intrapresi dai boss di Cosa nostra: la scelta dei loro alloggi ricade spesso su lussuosi alberghi. Proprio in un lussuoso albergo nel 2009 è stato arrestato Salvatore Miceli, che dal 2000 era stato investito da Bernardo Provenzano dell’incarico di gestire il traffico internazionale di stupefacenti di Cosa nostra piramidale fa eco alla divisione del lavoro interna alla classe agiata vebleniana: più si scala la piramide e più aumentano agiatezza e consumi vistosi. La divisione dei compiti, in linea di principio, si relaziona alla posizione occupata dall’uomo d’onore. Per esempio, se la riscossione del pizzo è affidata alle leve più giovani, le decisioni più importanti sono prese dalla cupola regionale, quando convocata. Ai vertici si concentrano maggiore potere e ricchezza. Nonostante il mondo criminale non si basi su regole fisse, si riscontrano alcuni atteggiamenti comuni tra i potenti boss di Cosa nostra. Sebbene il boss tradizionale sia austero nei modi e nel presentarsi all’ambiente esterno, sovente questi viene accompagnato da guardaspalle. Alcune abitudini che sembrano essere rappresentate in modo grottesco e ironico dalle pellicole hollywoodiane hanno un effettivo riscontro nella realtà. Per esempio anche nelle giornate invernali più fredde il cappotto non viene indossato, ma appoggiato sulle spalle: così facendo il boss ha maggiore mobilità e contestualmente mette in mostra la sua prestanza fisica, ostentando di non soffrire il freddo. Infatti in Cosa nostra si dà una forte rilevanza alla socializzazione e all’educazione dei giovani rampolli al ruolo che dovranno svolgere. In una battuta del film “Donnie Brasco”, Benjamin Lefty Ruggiero, interpretato da Al Pacino, rivolgendosi a Donnie gli spiega che se vuole entrare a far parte di Cosa nostra americana è necessario che si comporti in un determinato modo: «I soldi non si tengono nel portafoglio. Si tengono a rotolo con i pezzi da 100 all’esterno». Tuttavia la profonda frattura relativa ai consumi vistosi che si riscontra tra il mafioso tradizionale e quello contemporaneo non permette di disegnare un identikit unico e completo di tutti i mafiosi. Infatti, se passiamo in rassegna i capi storici di Cosa nostra, non solo troviamo conferma di questo divario, ma ci rendiamo anche conto che alcuni boss sembrano occupare delle posizioni intermedie. Essi, pur essendosi notevolmente arricchiti, non sempre si discostano dai tratti austeri tipici della tradizione. I consumi vistosi di questi boss sono parecchio limitati e raramente se ne ha notizia. Nel raccontare dell’ascesa dei corleonesi, Giuseppe Fava, giornalista ucciso dalla mafia, passa in rassegna la storia dei più importanti boss di Cosa nostra. Michele Navarra, chirurgo, medico primario e direttore dell’ospedale di Corleone, oltre a possedere una grande cultura letteraria, era ricchissimo. La sua potenza era tale da non dover uccidere nessuno per esercitare il suo potere. Anche i suoi uomini più fedeli si erano arricchiti tantissimo (Veblen in questo caso parlerebbe di ricchezza derivata). Navarra rappresenta dunque un esempio di boss della mafia tradizionale (nacque nel 1905 e morì nel 1958). Bisogna tenere presente che un medico, soprattutto se si parla di uno stimato primario, rappresenta un potenziale esponente della classe agiata. Navarra inoltre non aveva umili origini. Tuttavia egli non era solito distinguersi per consumi vistosi e ostentati. Non era sua abitudine mostrarsi ben vestito in pubblico, ma tra le sue passioni figuravano le carte e la caccia. Il suo posto fu preso dal suo assassino, Luciano Liggio. Questi era ricchissimo, aveva costruito la sua fortuna dal nulla (era un bracciante rimasto orfano) e vantava un “feudo” a Piano della Scala. Contestualmente aveva acquistato palazzi e aveva centinaia di milioni di lire depositati in varie banche. Liggio, in un’intervista televisiva concessa a Enzo Biagi nel 1989, pur essendo recluso portava al dito un grosso anello e, durante l’intervista, poteva permettersi di fumare un sigaro di grosso calibro. Anche in un documentario della Rai sul maxiprocesso Liggio viene immortalato mentre fuma un grosso sigaro in aula, nonostante poco prima un imputato si fosse lamentato con il giudice del fatto che in aula non era possibile fumare nemmeno una sigaretta. Sebbene Liggio abbia potuto accumulare una ricchezza spaventosa, fu anch’egli un boss tradizionalista. Fatta dunque qualche eccezione, come l’anello d’oro e il sigaro, non notiamo una particolare propensione ai consumi vistosi. Dopo l’arresto di Liggio ai vertici dell’organizzazione troviamo Salvatore Totò Riina e Bernardo Zu Binnu Provenzano. Riina tra i suoi beni poteva vantare una collezione di gioielli che per un certo periodo pare sia stata custodita da Francesco Geraci, gioielliere e amico d’infanzia del boss Matteo Messina Denaro. Questa collezione comprendeva orologi, circa 17 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie quattrocento monete, brillanti, lingotti d’oro e un crocefisso tempestato di diamanti per un valore complessivo di due miliardi di lire. La villa a due piani in cui Riina era solito vivere da latitante è probabilmente la manifestazione di lusso più esplicita del boss. L’edificio di via Bernini, situato al centro del quartiere Uditore (Palermo), permise a Riina di trascorre una latitanza agiata. Oltre alla grande ed elegante piscina, poteva vantare parecchie stanze, tutte pavimentate con parquet. Nonostante la villa sia stata vandalizzata dagli stessi uomini di Cosa nostra, questi hanno risparmiato un lampadario di cristallo. I cocci di ceramica dei sanitari divelti fanno intuire che si trattasse di oggetti di materiale pregiato. Tuttavia Riina, al momento dell’arresto, e successivamente durante le udienze nelle aule di tribunale, non indossava abiti ricercati e curati. Non a caso una scena della fiction televisiva Il capo dei capi mostra Riina mentre esprime il suo disprezzo nei confronti di alcuni boss, tra cui Tommaso Buscetta, che sono soliti indossare collanine, braccialetti o anelli d’oro. Sempre nella stessa fiction, viceversa, viene mostrato come i corleonesi, prima di raggiungere una posizione di predominio dentro Cosa nostra, venissero sbeffeggiati per le loro origini contadine. Vengono chiamati “chiddi chi peri ncritati” (quelli con i piedi sporchi di terra) e “viddani” (villani) (5). A un prestanome di Provenzano sono stati sequestrati beni per il valore di circa 150 milioni di euro: il patrimonio sequestrato comprende aziende operanti nell’edilizia e nell’estrazione di materiale da cava, complessi industriali, capannoni, terreni, beni mobili, conti correnti, depositi e titoli per un valore complessivo di un milione e mezzo di euro, e un complesso turistico-residenziale a San Vito Lo Capo, costituito da numerosi appartamenti e alcune villette. Tuttavia quando venne arrestato nell’aprile del 2006 il rifugio del boss risultò essere tutt’altro che lussuoso. Lo scovarono in un casolare di campagna dove conduceva una vita piuttosto spartana. La sua sistemazione consisteva in un letto, un armadio, un cucinino, un bagno con la doccia e un frigo: essenziale, senza accorgimenti tecnici particolari. Alcune pareti dell’edificio non erano nemmeno intonacate. Un vero e proprio esempio di consumo vistoso sono i viaggi intrapresi dai boss di Cosa nostra: la scelta dei loro alloggi ricade spesso su lussuosi alberghi. Ed è proprio in un lussuoso albergo che nel 2009 è stato arrestato Salvatore Miceli, che dal 2000 era stato investito da Bernardo Provenzano dell’incarico di gestire il traffico internazionale di stupefacenti di Cosa nostra. Nel febbraio del 1992 Cosa nostra decise di uccidere Maurizio Costanzo e gli incaricati di portare a termine questo delitto erano Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori, Mario Geraci, Renzino Tinnirello, Giuseppe Graviano e Cristoforo Cannella. Arrivati a Roma, i sei uomini d’onore potevano già vantare un guardaroba da 12 milioni di lire tra camicie, pantaloni e abbigliamento sportivo, acquistati nelle boutique più esclusive del centro storico di Palermo. Lo shopping proseguì a Roma e i commessi di via Condotti probabilmente ancora si ricordano di quei clienti che compravano camicie in blocco, spendendo fino a tre milioni di lire in un colpo solo e che lasciavano anche laute mance. Per l’occasione poterono anche permettersi di frequentare i locali più alla moda, gli stessi dove si possono incontrare i vip romani. Quando il 2 giugno 1993 Giuseppe Pulvirenti, braccio destro del capomafia Nitto Santapaola, fu arrestato, aveva al dito un anello con dodici diamanti e con al centro un rubino. Alcuni pentiti lo hanno indicato come l’anello dei dodici capi, riservato ai capi mandamento di Cosa nostra. Se questa indicazione venisse confermata ci troveremmo davanti al perfetto esempio di consumo vistoso subordinato al riconoscimento di un ruolo all’interno dell’organizzazione. Empiricamente tra i mafiosi siciliani si può notare un certo apprezzamento per gli orologi costosi e gli abiti di marca: oltre al caso di Matteo Messina Denaro, di cui parleremo più avanti, c’è quello del boss Domenico Raccuglia, arrestato nel novembre del 2009. Raccuglia poco prima del suo arresto si era concesso una vacanza nella cittadina di Calatafimi (TP) in un casolare immerso nel verde e dotato di una dozzina di stanze. La scelta era ricaduta su questo stabile perché la posizione gli permetteva di coltivare una vecchia passione, ovvero la caccia nei boschi della zona. Il boss Francesco Di Fresco, invece, in quindici anni di latitanza non aveva mai smesso 18 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Matteo Messina Denaro si distingue da Totà Riina e Bernardo Provenzano. In lui ogni dettaglio o scelta stilistica sembra ponderato con cura. di coltivare la passione per le automobili di lusso. Di Francesco Pace, ritenuto il capo mandamento di Trapani, si racconta che, il giorno della sua nomina, aveva organizzato una cena memorabile a base di aragosta e champagne, in uno dei ristoranti più lussuosi di Trapani. Interessante anche il caso del boss italo-canadese Beniamino Zappia, oggi in carcere. Questi possedeva due case, una a Milano e l’altra a Cattolica Eraclea (Ag), che sembravano veri e propri musei. Gli agenti della Dia di Roma hanno sequestrato 345 dipinti – tra i quali opere di Guttuso, De Chirico, Dalì, Sironi, Morandi, Campigli, De Pisis, Boldini, Guidi – gioielli, preziosi reperti archeologi e 200 orologi antichi. Matteo Messina Denaro, cliente numero uno. Matteo Messina Denaro si distingue dai suoi predecessori, Totò Riina e Bernardo Provenzano, sotto vari aspetti. Giacomo Di Girolamo racconta a tale proposito che Messina Denaro è molto attento alla scelta del vestiario e a tenersi in forma. A ciò si aggiunge l’abitudine di frequentare i locali più in voga e a partecipare a cene eleganti. Negli anni Ottanta guidava una Porsche per le strade di Selinunte e al Paradise Beach, lido della Trapani bene, era solito offrire “giri da bere”, tanto da essere considerato il cliente numero uno. Appena entrato nei locali era sua abitudine ordinare una bottiglia di Cristal, lo champagne per eccellenza nelle discoteche. Come se non fosse sufficientemente noto alla popolazione locale, sfoggiava vestiti e accessori che sembrano diventare il suo marchio di fabbrica: l’orologio d’oro al polso, abiti di alta moda, come i pantaloni comprati nelle boutique più esclusive, eleganti foulard di seta al collo e occhiali da sole Ray-Ban. Ogni dettaglio o scelta stilistica sembra ponderato con cura: l’amore per le auto scattanti e veloci condiziona anche la scelta dell’orologio, il Rolex Daytona, “l’orologio dei piloti”. I pantaloni, in tessuto gessato in rilievo nero su nero, portano il marchio Versace all’interno e hanno i bottoni con il simbolo dello stilista. Le camicie di Armani devono avere le maniche lunghe, collo all’italiana, polsini con un bottone e il taschino con il logo ricamato a mano. Gli occhiali da sole poi non sono uno status symbol qualsiasi: in primo luogo sono funzionali a nascondere lo strabismo del boss, in secondo luogo sono funzionali a coltivare il proprio carisma, accentuando la voluta somiglianza con i boss rappresentati al cinema. Non a caso Messina Denaro in gioventù aveva una certa passione per il cinema, e in particolare per i film western, che era solito chiamare «i film da sparare». Il suo guardaroba, acquistato in gran parte nei negozi di via Condotti, a Roma, vanta abiti ricercati e poco comuni in Sicilia. Ma il consumo vistoso di Messina Denaro trovava espressione anche nella sua tenuta 1 Capua P., Napoli, all’asta i gioielli della camorra. Rolex e diamanti per un milione di euro, in «La Repubblica», 20/02/2013 2 Lucarelli C., Catamo G., Storia della Camorra, in onda il 7/ 11/2004 di contrada Zangara, 33 ettari tra uliveti e vigneti, oltre a un immobile, sequestrata nel 1997. Anche durante la latitanza la discrezione non è una priorità: nell’estate del 1993, sotto il falso nome di Paolo Forte, Messina Denaro trascorse l’estate in una villa lussuosa di Forte dei Marmi. In particolare era solito frequentare lo stabilimento balneare di Bagno Rossella. Questo può vantare ampie piscine, sala giochi, campo da calcetto, campo da bocce, spinning, piscina, ristorante con bar, tabaccheria, ampio parcheggio coperto e scoperto. Nonostante i consumi di Messina Denaro sembrino essere calibrati con cura, si riscontrano alcuni eccessi: la passione per Diabolik, fumetto italiano che ha per protagonista un inafferrabile criminale, spinse il boss a desiderare una Jaguar con mitra montati sul cofano. Probabilmente i gusti del boss sono stati influenzati dalla cultura paterna: il padre Francesco, boss potentissimo e vicino a Totò Riina, era amante dell’arte e ne sapeva intuire il valore. Si dice che un sacerdote, ora deceduto, ospitasse la collezione di preziosi e reperti archeologici di Matteo, mentre un’altra parte della collezione, comprendente un’anfora d’oro, sia tuttora nascosta in un caveau svizzero. In un pizzino il boss si è vantato di essere un intenditore e che sarebbe in grado di mantenersi anche solo con i traffici di pezzi d’arte. 3 Saviano R., ZeroZeroZero, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 398 4 Newell N., Donnie Brasco, 1997 5 Monteleone E., Sweet A., Il Capo dei Capi, 2007 19 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie brevi di mafia Il clan Marando dietro il rapimento Coluccio È stato arrestato il 3 marzo a Roma, con l’accusa di sequestro di persona aggravato da metodo mafioso, Rosario Marando, appartenente all’omonima cosca originaria di Platì (Rc) da decenni operante tra Piemonte (Volpiano), Lazio e Calabria. L’uomo, secondo le accuse, è responsabile, insieme a Geremia Orlando Barbuto, del rapimento di uno studente di ventitré anni figlio del boss di un clan rivale, i Coluccio, operanti a Roccella Jonica (Rc), specializzati nel narcotraffico internazionale. Il rapimento, per il quale un terzo sequestratore, Salvatore Ammazzagatti, è stato individuato e arrestato nel maggio del 2014, risale al 27 novembre del 2013 e il motivo secondo gli inquirenti è da attribuirsi ad alcuni conti lasciati in sospeso: i Coluccio non avrebbero consegnato ai Marando il ricavato di alcuni investimenti in strutture alberghiere della costa jonica acquistate anche tramite i capitali accumulati dagli stessi Marando con il contrabbando di droga e i sequestri di persona avvenuti negli anni 90. La vittima era stata aggredita in strada, in pieno giorno, da un gruppo di uomini che l’avevano caricata a forza su un’auto. Alcuni passanti, vedendo la scena, avevano subito allertato i Carabinieri, consentendo l’avvio immediato delle ricerche, precedute nelle conclusioni dallo spontaneo rilascio del giovane che, rintracciato dalle autorità, negò di conoscere i suoi aggressori e fornì una versione dei fatti molto reticente. Su Rosario Marando pende una condanna all’ergastolo in primo grado (emessa il 19 marzo 2014) per il triplice omicidio avvenuto a Volpiano (To) nel giugno del 1997, in cui vennero uccisi Antonio e Antonino Stefanelli e Francesco Mancuso (i cui corpi non sono mai stati ritrovati) per vendicare l’omicidio, avvenuto l’anno precedente, di Francesco Marando, il cui cadavere fu dato alle fiamme nei boschi di Chianocco, in Val di Susa (To). Rosario Marando è invece stato assolto in primo grado dall’accusa di associazione mafiosa nel processo Minotauro, di cui è in corso l’appello. Il pronunciamento della sua assoluzione è avvenuto presso il tribunale di Torino proprio nel giorno in cui a Roma si portava a termine il rapimento Coluccio. Rosario Marando si trovava in libertà, benché con obbligo di firma, perché i giudici di Torino avevano accettato la sua richiesta di revoca di custodia cautelare. Non erano sufficienti a trattenerlo in carcere, secondo il loro parere, le accuse di affiliazione all’organizzazione criminale dell’uomo testimoniate dai due pentiti Rocco Varacalli e Rocco Marando (rispettivamente amico stretto e fratello) e della testimone di giustizia Maria Stefanelli, sua cognata. a cura di Manuela Mareso “Fai la fine del capretto a Pasqua”: minacce al referente di Libera Calabria Una lettera di tre pagine, scritta a mano, è stata recapitata nel mese di febbraio al sindaco di Palizzi (Rc) Walter Scerbo, che nello scorso dicembre aveva insignito del titolo di cittadino onorario il destinatario della missiva, Domenico Nasone (nella foto, ndr.), coordinatore regionale di Libera Calabria e i volontari dell’associazione. «Porco, ti scrivo per avvertirti che fai la fine del capretto a Pasqua, se ancora respiri è perché lo vogliamo noi», si legge nella lettera indirizzata a Nasone, già in passato bersaglio di alcune minacce. «Vi sciogliamo nell’acido, a te Nasone e a tutti i porci senza ritegno di Libera, dovete saltare in aria tutti». I motivi dell’intimidazione vanno ricollegati secondo agli inquirenti proprio alle attività dell’associazione sul territorio. La cooperativa agricola “Terre greganiche”, che aderisce a Libera, è riuscita a trovare una collocazione nel mercato vinicolo, e recentemente i soci avevano deciso di acquistare altri terreni per incrementare la produzione. Evidentemente la cosa non è stata ben accolta dai clan locali – riporta il giornalista Peppe Baldessarro su «Repubblica» – tanto che a gennaio erano stati vittima di alcuni danneggiamenti e furti in stile mafioso. Mario Ciancio, trovati 52 milioni in Svizzera Neanche gli scudi fiscali avevano convinto Mario Ciancio Sanfilippo, editore della catanese “La Sicilia”, indagato dalla procura di Catania per concorso esterno in associazione mafiosa, a riportare in Italia 52 milioni di euro che ora gli investigatori hanno rintracciato in Svizzera. Il 14 gennaio la procura guidata da Giovanni Salvi – scrive Giuseppe Pipitone su «Ilfattoquotidiano.it» ha emesso l’avviso di conclusione delle indagini, e dagli atti è emersa la rivelazione sul “tesoretto”, la cui provenienza l’editore, in fase di interrogatorio, non era riuscito a giustificare. Si vedrà se per Ciancio si arriverà alla richiesta di rinvio a giudizio, dopo che la sua posizione è stata archiviata già quattro volte, l’ultima richiesta nel 2012, poi respinta dal gip Luigi Barone. Ora nuove prove e testimonianze sono state raccolte a suo carico, tra cui le motivazioni della sentenza di primo grado che ha condannato l’ex governatore Raffaele Lombardo a sei anni e otto mesi per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo le indagini, Ciancio avrebbe intrattenuto attività imprenditoriali con esponenti di Cosa nostra palermitana. Che spiegherebbero i ricavati di quei depositi in Svizzera. 20 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie brevi di mafia Processo Meta, passato il vaglio della Cassazione Ha retto anche al vaglio della Cassazione l’impianto del procedimento “Meta”, l’inchiesta con cui il pubblico ministero Giuseppe Lombardo ha ricostruito gli assetti della ’ndrangheta di Reggio Calabria. Una sentenza storica, che sancisce che a governare il Mandamento di centro – in un patto di sangue con profonde ripercussioni sull’economia della città, strettamente controllata – era un direttorio composto dalle cosche più influenti della città (Libri, Condello, Tegano, De Stefano) che si erano ricomposte all’indomani della guerra di mafia che dal 1985 al 1991 aveva visto versare il sangue di oltre 700 persone. I principali reati contestati sono stati associazione a delinquere, estorsione, intestazione fittizia di beni patrimoniali e turbativa d’asta. Vescovi calabresi, un documento contro la ’ndrangheta A sei mesi dalle parole del Papa dalla Piana di Sibari, quando aveva apertamente scomunicato i mafiosi, i vescovi calabresi hanno prodotto una nota pastorale in cui dichiarano la posizione della Chiesa nei confronti delle cosche calabresi. «La mafia è un fenomeno opera Emilia Romagna, maxioperazione anti ’ndrangheta Un’operazione dei Carabinieri, denominata “Aemilia”, coordinata dalla Dda di Bologna, ha portato a 117 richieste di custodia cautelare per associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, detenzione illegale di armi da fuoco, intestazione fittizia di beni, riciclaggio, emissione di fatture false. Sotto i riflettori degli inquirenti è finito il clan dei Grande Aracri di Cutro (Kr) da tempo operante in territorio emiliano. Sono stati arrestati Ernesto e Domenico Grande Aracri (quest’ultimo avvocato penalista), i fratelli del boss già detenuto Nicolino Grande Aracri, detto “Mano di gomma”. Parte dell’inchiesta riguarda la ricostruzione per i danni causati dal terremoto del 2012. Come per il terremoto dell’Aquila del 2009, anche in questo caso alcuni degli indagati sono stati intercettati mentre ridevano del sisma. Anche la politica locale è risultata coinvolta nell’inchiesta. Gli inquirenti hanno documentato attività di supporto e tentativi di influenza delle elezioni amministrative da parte degli affiliati al gruppo criminale in vari comuni dell’Emilia (Parma, Salsomaggiore, Sala Baganza, Brescello). I Grande Aracri avevano messo in atto una serie di intimidazioni in territorio emiliano: imprenditori, istituzioni, ma anche giornalisti, come la corrispondente dell’Ansa Sabrina Pignedoli. Proprio un giornalista è anche tra gli arrestati: secondo l’accusa Marco Gibertini, cronista di TeleReggio, avrebbe dato una mano agli affiliati della cosca emiliana offrendo loro spazi mediatici. Agli arresti anche alcuni informatori del clan: tre carabinieri in congedo e tre poliziotti. Il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti (nella foto, ndr.) ha definito l’intervento «storico, senza precedenti. Imponente e decisivo per il contrasto giudiziario alla mafia al nord». Altri 46 provvedimenti sono stati emessi contestualmente dalle procure di Catanzaro e Brescia. L’operazione ha impiegato un migliaio di militari. del maligno. La ’ndrangheta non ha nulla di cristiano. […] è altro dal cristianesimo e dalla Chiesa – si legge nel documento –. Non è solo un’organizzazione criminale che, come tante altre, vuole realizzare i propri illeciti affari con mezzi altrettanto illeciti e illegali, ma, attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi e di formule che scimmiottano il sacro, si pone come una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea, di negazione dell’ultimo vero Dio. L’appartenenza a ogni forma di criminalità organizzata non è titolo di vanto o di forza, ma titolo di disonore e di debolezza, oltre che di offesa esplicita alla religione cristiana. La ’ndrangheta è una struttura di peccato che stritola il debole e l’indifeso, calpesta la dignità della persona, intossica il corpo sociale. […] Esortiamo il popolo di Dio a compiere ogni sforzo per rinunciare ad atteggiamenti che possono alimentare il fenomeno mafioso. E ciò non solo mediante la condanna di tutte le forme di violenza, ma anche avendo presente che la risoluzione dei problemi personali non va affidata al padrino di turno ma a chi è preposto dall’autorità dello Stato». Precisano però i vescovi: «La Chiesa ricorda che la sua missione non sempre può coincidere con l’azione inquirente o punitiva, propria dello Stato. La necessaria collaborazione tra Chiesa e magistratura segue le singolari dinamiche dell’una e dell’altra, 21 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie brevi di mafia e trova il suo limite (per la natura stessa della Chiesa) in tutto ciò che riguarda il “foro interno” delle persone in cui la Chiesa si accosta come Madre, particolarmente nell’intimità del segreto confessionale che, mai, a costo perfino della vita, nessun ministro di Dio può tradire». Dia: “Allarme penetrazione ‘ndrangheta nella pubblica amministrazione” Nella relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia al parlamento riguardante il primo semestre del 2014 si sottolinea la capacità della ’ndrangheta di infiltrarsi sempre di più nella sfera politicoamministrativa degli enti locali, non solo calabresi. Se i comuni calabresi sono quelli maggiormente colpiti dai provvedimenti di scioglimento, il dato può essere legato «oltre ad una particolare virulenza del fenomeno, anche ad una più accentuata sensibilità ed incisività delle istituzioni preposte al mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, nel penetrare e vigilare sulle realtà locali, individuandone eventuali distorsioni». Dunque, si legge ancora nella relazione, «non deve essere sottovalutata la specifica capacità della criminalità calabrese di infiltrare enti ubicati in aree anche lontane sfruttando presenze consolidatesi da decenni». Comune di Sedriano, confermato lo scioglimento per mafia Nell’ottobre del 2013, primo caso in Lombardia, era stato sciolto per mafia, su richiesta del prefetto, il comune di Sedriano, 11mila abitanti a nord di Milano. A gennaio 2015 è arrivata anche la conferma del Tar del Lazio, dopo il ricorso di alcuni amministratori dell’ente locale. «Gli elementi sono concreti – scrivono i giudici del Tribunale amministrativo –, in quanto fondati su esame documentale, evidenze probatorie acquisite nelle indagini penali e audizione dei diretti interessati». Aveva invece urlato al complotto l’ex sindaco Alfredo Celeste (Forza Italia, nella foto, ndr.), primo cittadino dalla primavera del 2009, insegnante di religione (e per questo si era rifiutato di celebrare matrimoni civili, scrive Ersilio Mattioni sull’«Espresso») in contatto con personaggi definiti dagli investigatori vicini alla ’ndrangheta, a cui avrebbe promesso affari e favori. È acclarato che Celeste, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avesse una gestione della cosa pubblica piegata a fini privatistici. La Curia, intanto, non gli ha fatto nessun richiamo e pertanto l’ex sindaco può continuare a insegnare la sua materia nelle scuole superiori in cui è di ruolo. I fondi per la Terra dei fuochi per Expo «Il Governo ha svuotato i fondi per il pattugliamento delle Forze Armate nella terra dei fuochi appena approvati nella legge di stabilità, trasferendoli ad altre operazioni di vigilanza tra le quali, principalmente, quelle di Expo 2015. Si utilizza lo strumento del Milleproroghe per aggirare e svuotare la volontà del Parlamento». Così hanno denunciato, in una nota stampa, i deputati della commissione Difesa del M5S. «Dei 10 milioni di euro stanziati per il 2015 per la terra dei fuochi ben 9,7 milioni di euro vengono dirottati altrove. Noi non siamo contrari a che eventi a rischio terrorismo come l’Expo 2015 godano del servizio di vigilanza straordinario delle nostre Forze Armate, ma chie- diamo che questo non avvenga a discapito delle operazioni di contrasto della criminalità organizzata in Campania. Per questo avevamo proposto di finanziare la nuova operazione attingendo risorse dai fondi destinati alle missioni militari internazionali, ma la nostra proposta emendativa non è stata neanche presa in considerazione». 22 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie storie di riscatto a cura di Rosario Esposito La Rossa i nasturzi I nasturzi, simbolo di chi non si arrende I nasturzi sono fiori coloratissimi che arrivano dal Perù. Sono piccoli, crescono dovunque. I nasturzi sono il simbolo di chi non si arrende, il simbolo della lotta. Abbiamo scelto questo fiore per raccontarvi storie di riscatto, storie di chi rimane, di chi crede nella propria terra, di chi lotta. Fiori rampicanti sparsi nella nostra Italia sommersa dalle brutte notizie. Questa rubrica è innanzitutto una boccata d’ossigeno, la testimonianza scritta che qualcosa si muove. I nasturzi italiani sono i giovani che da Sud a Nord inventano, creano, si ribellano, si oppongono, sanno fare delle proprie difficoltà sfide e opportunità. Pochi conoscono questi fiori a forma di elmetto, non sono narcisi e rose, non sono fiori nobili, costosi, ma sono piante perenni, che non appassiscono. Piante che ancora oggi vengono utilizzate per curare, per rivitalizzare chi ha carenza di vitamina C. In questa rubrica vi doneremo dosi massicce di vitamina C, C come creatività, C come capacità e caparbietà, C come crederci. Io vengo da un quartiere dove la C sta per camorra. Vengo da Scampia, una realtà che negli ultimi anni è stata crivellata di piombo e cronaca nera. Dieci anni fa, avevo quindici anni, mio cugino Antonio Landieri, disabile venticinquenne, veniva ucciso in un conflitto a fuoco tra scissionisti e Di Lauro, durante la famigerata Faida di Scampia. Come molte vittime innocenti è stato definito uno spacciatore, il suo nome è stato infangato. Gli sono stati negati i funerali pubblici, è stato seppellito come un boss. Ci sono voluti più di tre anni per avere una tomba, che gli spettava di diritto, in quanto vittima innocente di camorra. Insieme ad altri ragazzi del mio quartiere abbiamo fondato un’associazione in memoria di Antonio: Vo.di.Sca, acronimo di Voci di Scampia. Avevamo 15 anni. Ci siamo messi insieme in un quartiere di 100mila abitanti in piena emergenza criminalità organizzata. Oggi, sono passati 10 anni, Antonio è stato ufficialmente dichiarato dallo Stato italiano una vittima innocente di camorra. Nel frattempo, quel gruppo di quindicenni ha aperto a Scampia una casa editrice, una compagnia teatrale, la prima libreria del quartiere. Pensa- te, ci sono voluti 37 anni per aprire una libreria a Scampia, un quartiere che conta 30mila studenti. Dal luogo dove è stato ucciso Antonio all’ingresso della libreria ci sono 1001 passi. Li abbiamo contati. Ci son voluti dieci anni per percorrere quei 1001 passi, ma credo sia stata la più bella risposta di un gruppo di giovani all’omicidio efferato di un disabile di 25 anni. Dove fu ucciso Antonio c’era una macchia di sangue enorme. Ne hanno buttata di segatura e acqua su quella macchia, ripetutamente. A noi piace pensare che siamo riusciti a far fiorire il sangue sull’asfalto. A noi piace pensare che da quel sangue siano nati nasturzi. Per questo oggi raccontiamo queste storie, per questo, con una penna, gireremo l’Italia per scrivere di resilienza e riscatto. Storie colorate e coerenti, come i nasturzi, che mai si piegano all’acqua e la respingono, sui petali e le foglie. I fiori della lotta si mangiano, uno dei pochi fiori al mondo. In questi mesi assaggeremo un’insalata di nasturzi. Tutti sono invitati al banchetto. Perché queste storie non vanno via con l’acqua e la segatura. Poco distante dal quartiere in cui i resti della testimone di giustizia furono ritrovati, sorgerà un’area di verde pubblico a lei intitolata. Un bene della collettività, per una memoria collettiva. di Marika Demaria “Migliorare lo spazio urbano dando l’occasione ad anziani e giovani di collaborare a creare un’area piacevole da un punto di vista estetico, utilizzabile per il tempo libero e la didattica per i bambini; un’area dove produrre e raccogliere frutta e verdura”. Poche righe per spiegare un progetto importante per il comune di Monza. Frasi inserite all’interno di una delibera approvata il 30 dicembre 2014 e che prevede la concessione di un’area all’interno del parco della Boscherona per la realizzazione di un orto didattico e di un giardino per la floricoltura. Fin qui l’impegno, portato avanti dalle organizzazioni sindacali Spi-Cgil, Fnp-Cisl, Uilp-Uil di Monza san Fruttuoso, in collaborazione con le associazioni locali Auser e Anteas e in accordo con Libera Monza e Brianza. Ad esso si affianca la memoria, legata alla figura della testimone di giustizia Lea Garofalo, uccisa il 24 novembre 2009 a Milano. Non sarebbe potuto essere diversamente, considerato che i resti della donna furono ritrovati – grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmine Venturino, condannato in primo grado all’ergastolo e in secondo grado a 25 anni di pena in virtù della sua collaborazione (condanna confermata in Cassazione lo scorso 18 dicembre 2014) – su un terreno privato a San Fruttuoso, a distanza di poche centinaia di metri dal cimitero monzese, all’interno del quale è stata apposta una targa in ricordo del coraggio di una donna e mamma capace di ribellarsi alla cultura ’ndranghetista. La delibera di fine 2014 sancisce l’assegnazione dell’area – di circa 200 metri quadrati – ai sindacati; a breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione e risistemazione, per un valore di circa 20 mila euro che, allo stato attuale dei fatti, risultano a carico degli assegnatari. «Questo progetto – spiega Pietro Albergoni, segretario generale dello Spi-Cgil di Monza-Brianza – ha un target eterogeneo: si rivolge infatti alle persone più adulte ma anche ai giovani, agli studenti e agli abitanti del quartiere, con l’intento di coinvolgerli in maniera attiva; l’obiettivo infatti è di affidare la gestione dell’orto biologico agli stessi cittadini, in modo che si inneschi un meccanismo virtuoso di responsabilità e di presa di coscienza di un bene che coniuga la memoria e l’impegno». L’area si trasformerà in un giardino per il tempo libero, con uno spazio dedicato alla coltivazione di piante ornamentali ed un altro dedicato ai “giochi “ per i bambini del quartiere. Ci sarà inoltre spazio per la didattica. Secondo la delibera comunale, infatti, “un altro obiettivo che il progetto si propone di concretizzare è quello prettamente didattico rivolto alle scuole di primo e secondo livello con corsi teorici e pratici sulla conoscenza del mondo del verde, con la creazione di un laboratorio di orto e giardinaggio da proporre ai dirigenti scolastici delle scuole di Monza”. Pietro Albergoni conclude sottolineando la motivazione – espressa anche all’interno della richiesta avanzata al Comune – che ha spinto i promotori ad intitolare l’area alla memoria di Lea Garofalo: «Abbiamo il desiderio di formare e informare i giovani in merito al sacrificio di questa giovane donna, in modo che esso non sia vano e che sia di esempio per tutti. Per combattere le mafie non bastano le parole, ci vuole una nuova cultura della legalità che deve coinvolgere in questo processo di sensibilizzazione principalmente le nuove generazioni». l’antimafiacivile Un giardino per Lea Garofalo cosenostre 23 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 24 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie mafia e sanità a cura di Corrado De Rosa Quando si ammala un territorio Un comune sciolto tre volte per mafia in dieci anni, dove in occasione del ventennale della morte di don Peppe Diana – il prete ucciso nel 1994 a Casal di Principe – qualche vandalo ha ben pensato di danneggiare la statua dedicata alle vittime innocenti di camorra. Una terra cablata clandestinamente per consentire al boss Michele Zagaria di proseguire una latitanza senza stress in un bunker supertecnologico costruito nelle viscere del paese. E di comunicare, con gregari e familiari, attraverso una rete di citofoni al sicuro da intercettazioni indiscrete: un sistema più affidabile di smartphone e computer, più sicuro dei pizzini. Un paese a trenta chilometri da Napoli e Caserta dove la mafia è riuscita a diventare Stato perché lo Stato non è riuscito ad assicurare la sua presenza. Un non-luogo dove tutto doveva procedere senza clamori per lasciar tranquilli i casalesi ai loro affari. Benvenuti a Casapesenna, dove, dal 2007 e per sei anni, non è stata elevata nemmeno una contravvenzione ai cittadini per violazione del codice della strada. Dove chi si è avvicendato alla guida della polizia locale non ha chiesto i bollettini necessari per irrogare le sanzioni, e di fronte alle obiezioni mosse ha risposto cadendo dalle nuvole: “Ma noi non le sappiamo fare, le multe”. Benvenuti in un paese dove si coglie con mano il significato di “controllo del territorio”, un dogma prioritario per i clan. Quando avevi un problema a Casapesenna, lo racconta un collaboratore di giustizia, ti rivolgevi a Zagaria e lui risolveva tutto. Perché tutto si svolgeva sotto il suo controllo. Un lembo di terra dove tutti sapevano tutto di tutti, dove si doveva far meno rumore possibile, dove ogni cosa doveva procedere secondo le indicazioni dei boss senza che nessuno facesse rumore. Dove non c’era rete sociale ma controllo senza solidarietà, dove il giorno dell’arresto del capo dei Casalesi, che ormai risale a più di tre anni fa, una ragazza intervistata disse: “Da oggi c’è anche da aver più paura. Perché qui, fin quando tutti sapevano che c’era Zagaria, nessuno si azzardava a chiedere il pizzo ai commercianti, a fare furti nelle case. Insomma, si stava sicuri”. Ecco il corto-circuito psicologico che illude chi va in giro a dire che la mafia dà lavoro e lo Stato no, che in terra di camorra si vive tranquilli perché la camorra sana le contraddizioni e protegge i cittadini. Naturalmente non c’è nessuna sicurezza nei territori militarizzati dalle mafie. Da queste parti i rapporti sociali si fondano su coercizione, ritorsione, ricatto; il tessuto sociale è gravido di frustranti sensazioni di insicurezza, impotenza e legami sociali impoveriti. Tra chi vive nei territori su cui imperversano, i clan creano sfiducia, insonnie, ansie quotidiane, solitudine, isolamento, sospettosità e rabbia, pensieri ricorrenti su eventi traumatici di cui si è sentito dire, a cui si è assistito o di cui si è rimasti vittima. Sfiducia e diffidenza riducono i livelli di coesione e partecipazione sociale, facilitano tensioni che hanno importanti ripercussioni di salute. Paura e insicurezza si associano a problemi di salute mentale e a una peggiore qualità della vita. La tipica risposta comportamentale che sollecitano è l’evitamento. Chi è preoccupato esce meno di casa, riduce le opportunità di costruzione di legami, contrae le proprie attività sociali. L’insicurezza può diventare un fattore di stress per sistema nervoso e immunitario, può aumentare il rischio di abuso di sostanze e promuovere conflittualità relazionale, paure e fobie, disturbi emotivi comuni e disturbi psichiatrici maggiori. Ora il boss è in carcere, e risponderà davanti alla legge dei reati che ha commesso. Ma le persone per bene di Casapesenna e chi vive in terra di mafia – colpevole solo di abitare una terra sbagliata, involontariamente esposto a povertà, esclusione, emarginazione, a fattori psicosociali che promuovono disagio e sofferenza – dovrebbero chiedere il conto a Michele Zagaria e ai suoi sodali dei danni psicologici che ha prodotto l’occupazione del territorio da parte del suo clan. 25 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie glorioso situato tra gli anni Trenta e Sessanta del Novecento. Le storie sono quasi tutte ambientate negli Stati Uniti e i protagonisti sono prevalentemente affiliati di Cosa nostra americana. Gli obiettivi principali riguardano in gran parte la costituzione e l’espansione di clan mafiosi e si progredisce eliminando una serie innumerevole di avversari: il ritmo del gioco è scandito dalla monotona successione delle vittime in un crescendo di azioni competitive molto spesso prive di senso. Il protagonista è un maschio adulto secondo la cristallizzazione operata dai luoghi comuni: dal boss elegante e raffinato al delinquente di strada trasandato e maledetto. Il personaggio interpretato dal giocatore, quindi, è quasi esclusivamente un criminale dichiarato che non ha doti eccezionali ma che stimola identificazione attraverso un processo di “normalità” deviante. Una normalità che implica la scelta di stare dalla parte del male per ottenere potere, denaro e vendetta contro i clan avversari e le forze di polizia. I videogiochi trasmettono quelli che nel contesto mafioso sono valori ma che nella società civile sono disvalori. Ma come vengono accreditati questi “valori”? I giochi fondano la loro narrazione sugli stereotipi cinematografici che a loro volta trovano sostanza nell’immaginario collettivo popolare. È qui che alcuni disvalori diventano valori agli occhi della platea suggestionabile dalla giustizia rapida, dalla scorciatoia per l’ottenimento del benessere, dalla potenza del comando e della violenza, dall’opulenza di una smisurata ricchezza e dalla condizione di impunità collettiva. La replicazione di alcuni cliché cinematografici, i cosiddetti mafia movies, ha standardizzato alcuni topos rendendoli facilmente riconoscibili in base ad una precedente esperienza visiva. La trasmigrazione nei videogiochi tende a ripetere apparentemente lo stesso percorso, ma non è così. In primo luogo i videogames fanno perno su un immaginario già formato che concorre ad accrescere, quasi come una strategia di marketing, la fascinazione di un gioco rispetto ad un altro. Non si crea nulla ma si potenzia lo stereotipo stabilendo connessioni con il sostrato della distorsione valoriale che viene incorporato e annacquato nella prospettiva di una “normalità” deviante (ognuno di noi convive con un criminale interiore potenzialmente sempre attivo) a cui si attribuisce l’aurea del fantasmagorico. In secondo luogo cambia l’audience. Il dato più lampante è l’elemento fisico: nel primo caso scelgo di andare al cinema e vedere un film di mafia in mezzo ad altre persone (di cui ascolterò i commenti); nel secondo caso si è da soli davanti ad un computer per giocare e provare le proprie abilità o capacità strategiche. A quel punto, senza la possibilità di confronti “realmente umani” esterni all’ambiente ludico (il tutto è ridotto allo scambio di trucchi tra giocatori), il sistema dei disvalori viene scaricato individualmente sul protagonista del gioco che lo considera assodato e normale proprio perché ha già introiettato l’immaginario collettivo prodotto. Ma se questo discernimento può valere (e non sempre) in un adulto, vale anche per i bambini e i ragazzi che sono i principali fruitori di questo intrattenimento? a cura di Marcello Ravveduto Da anni si registra un aumento progressivo del numero di bambini che usano i videogiochi quotidianamente e del tempo impiegato in questa attività. Che cosa accade quando un bambino/ ragazzo rimane esposto per tanto tempo in una dimensione virtuale di questo tipo? Si entra a far parte di un mondo autoreferenziale fantastico e malleabile alle proprie aspettative in cui poter agire senza entrare in contatto ed essere condizionati (almeno in apparenza) dal mondo degli adulti. I videogames hanno già superato il cinema per quote di mercato e si stanno avvicinando a superare anche la televisione. La crescita ha comportato un’inversione di tendenza: in passato i programmatori replicavano le trame dei film cult per attirare il pubblico degli appassionati, oggi è il cinema che ripropone i videogames più popolari per conquistare il pubblico degli adolescenti (ma anche degli adulti visto che la fascia principale di utenza è dai sei ai quarantacinque anni). «L’ultima generazione di giochi – si legge nel volume La mafia allo specchio – imita fortemente i linguaggi cinematografici per i dettagli delle scene e per le storie. Più del cinema coinvolgono però, perché comportano emozioni paragonabili a quelle di una partita di poker, dove all’impegno emotivo si affianca la capacità strategica, in un sistema dinamico pieno di partecipazione che nessuna altra rappresentazione della realtà può offrire». Tra i più praticati, neanche a dirlo, sono i mafia games, divisi in giochi online e per Pc o consolle. Nella maggior parte dei casi lo scenario è il presente, in alcuni l’azione, invece, si svolge in un passato dialogo tra antimafia virtuale e antimafia reale Mafia games 27 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ’ndrangheta inchiesta Crescono in famiglie in cui la violenza è il pane quotidiano, con padri e fratelli in carcere o morti ammazzati, e madri piangenti e gridanti vendetta. È il destino dei bambini della ’ndrangheta. Sulla loro tutela occorre intervenire, per spezzare il vincolo di sangue che alleva nuove reclute dell’organizzazione 28 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ‘ndrangheta Cresciuti a pane e ’ndrangheta I destini dei figli cresciuti in famiglie mafiose dipendono anche dagli insegnamenti delle loro madri. Rinnegare la ’ndrangheta è la più grande lezione di vita che una mamma può offrire ai suoi ragazzi. di Michela Mancini Sotto i piedi hanno tatuate facce di carabinieri, camminano calpestando lo Stato. Uno Stato che non conoscono. Vivono una guerra permanente, in un mondo diviso da una trincea. Schierati come soldati: da una parte ci sono loro, dall’altra c’è l’Italia. Si sentono parte di una nazione a sé stante, che si regge su miti e codici antichi. Pensano di essere valorosi, giusti, migliori, perché così è stato raccontato loro dalla nascita. Educati in nome dell’onore, sono cresciuti imparando una sola “regola”, quella dell’omertà. Prima d’ogni altra cosa viene la famiglia, che nelle loro terre vuol dire ’ndrangheta. A quattordici anni sono già uomini fatti. Sono i ragazzi della mafia. In pochi si sono occupati di loro. Cercare di portarli dall’altra parte della trincea a molti pareva una partita persa in partenza. Quando nasci in una famiglia di ’ndrangheta, il tuo destino è scritto in calce. La mafia calabrese, pur crescendo all’ombra di Cosa nostra, è diventata una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo. La ragione che ne ha determinato la fortuna si deve cercare nella sua struttura. La ’ndrangheta si basa sulla famiglia. I legami di sangue sono stati il collante che ha tenuto i pezzi insieme per quasi due secoli. A differenza di Cosa nostra, l’organizzazione calabrese non ha avuto stagioni di “pentitismo”. Tradire, nella ’ndrangheta, significa rinnegare tuo padre, tua madre, i tuoi figli. Parlare, oltrepassare la trincea, significa abbandonare la propria identità, significa perdere se stessi, la propria vita, i propri affetti. È stata questa la campana di vetro che ha protetto finora la mafia calabrese. Per i figli della ’ndrangheta, che sono cresciuti all’ombra di una sola certezza, c’è solo un modo di vivere ed è quello che i genitori gli hanno insegnato. Per conto dei loro padri, latitanti o in galera, hanno chiesto il pizzo ai commercianti, hanno trafficato droga, hanno ucciso. Fa parte delle regole. Alla mafia si ubbidisce, in silenzio. Per la mafia ci si annulla, si diventa automi. Quanto pesano i cognomi. Maria Concetta Cacciola e Giusy Pesce lo avevano capito subito che alzare la testa significava morire. Entrambe, poco più che trentenni, sono nate e cresciute a Rosarno, si sono sposate a quattordici anni con due uomini che poco dopo il matrimonio sono finiti in carcere per associazione mafiosa. Cetta e Giusy hanno due cognomi importanti, appartengono alle due famiglie più potenti del paese. I Pesce 29 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Obbedienza e silenzio. Bastava che Cetta tornasse poco più tardi dell’orario stabilito per essere picchiata dal padre, perché le donne si devono comportare in una certa maniera, non possono fare di testa loro. Devono ubbidire, stare zitte, essere mogli, ma soprattutto madri. A loro spetta il compito di educare i figli alle regole della “famiglia”. La reputazione della famiglia, e quindi della ’ndrina, è legata alla condotta delle donne, da loro dipende l’onore dei membri maschi, dei soldati di ’ndrangheta. L’onore diventa un’ossessione, il perno dell’ideologia mafiosa. Lo si evoca di continuo, di giorno, di notte, nelle piccole attività quotidiane. Le donne se lo portano sulle spalle come un fardello: sono loro le responsabili della reputazione e quindi della strategia di comando. «In effetti, le donne non assumono nessuna funzione specifica e diretta in seno alle cosche, che sembrano basarsi esclusivamente su di una partecipazione maschile per il loro esercizio e sviluppo. Malgrado questa assenza di partecipazione femminile, l’ideologia mafiosa fa spesso riferimento alla purezza femminile»(Renate Siebert, Le donne, la mafia). Se una di loro sgarra, se tradisce, gli uomini perdono prestigio e quindi potere. Il matrimonio, nella ’ndrangheta, è per sempre. Innamorarsi di un altro uomo significa condannarsi a morte. Così è stato per Cetta, che di prendere botte non ne poteva più. Lei, nell’ottica mafiosa, ha “tradito” due volte, prima il marito, poi, quando ha deciso di collaborare con lo Stato, la ’ndrangheta. Sono cose che non si perdonano, lei l’ha sempre saputo e infatti è scappata dalla Calabria, scortata dal servizio di protezione. Cetta ha fatto un errore: nella fuga, ha lasciato i suoi tre bambini alla madre, bambini che la nonna ha poi usato per ricattarla. Le ha telefonato più e più volte per farle ascoltare il pianto disperato della più piccola: “Senti come piangono – le diceva – vogliono la madre”. Cetta ha ceduto ed è tornata in Calabria. Lì è stata costretta dalla famiglia a ritrattare le dichiarazioni fatte ai magistrati. Il 20 agosto del 2011 l’hanno trovata morta nel bagno di casa. L’acido muriatico le aveva bruciato la gola. Per un futuro migliore. Un anno prima a Rosarno è stata arrestata Giusy Pesce con l’accusa di aver fatto da intermediaria tra il padre, in carcere, e gli uomini del clan. Dopo sei mesi di agonia, lontana dai suoi bambini, Giusy ha deciso di collaborare: «Lo faccio per loro, per i miei figli, per dar loro un futuro migliore». Come storie scritte con le stesse parole, la vita di Giusy e quella di Cetta si specchiano l’una nell’altra. Entrambe hanno deciso di oltrepassare quella linea, entrambe hanno ceduto al ricatto e sono tornate indietro. La figlia di Giusy è stata costretta dai familiari a scrivere delle lettere alla madre in cui affermava di non condividere la sua scelta di collaborare con lo Stato. La reazione è stata immediata: Giusy ha ritrattato le dichiarazioni fatte ai magistrati. Ma il destino ha voluto che capisse in tempo l’errore commesso. Dopo poco, ha scritto una lettera ai magistrati reggini, chiedendo di ritornare sotto regime di protezione. La strategia della ’ndrangheta questa volta ha fallito. I suoi figli ora sono con lei, in località protetta. Giusy è una donna libera. Le trame di queste due storie si incontrano e si scontrano come in una danza antica. Entrambe celebrano la vita, la speranza del futuro. Un futuro che esiste solo in virtù dei propri figli. Sono loro a ricevere in eredità la forza delle proprie madri. Sono loro che possono determinare un vero Minori di ‘ndrangheta e i Bellocco (a cui il padre di Maria Concetta è strettamente imparentato) si dividono il territorio di Rosarno e ne controllano ogni anfratto. Le due ’ndrine si spartiscono i soldi guadagnati col narcotraffico, con gli appalti pubblici, con il riciclaggio di denaro, l’estorsione e l’usura. I Pesce possedevano anche due squadre di calcio locali. Le strategie della ’ndrangheta per conquistare il consenso sono raffinate. Per garantirsi il potere e per evitare troppi controlli, i Pesce si sono infiltrati anche nella pubblica amministrazione. Sono riusciti persino a mettere le mani sulla politica rosarnese piazzando uomini di fiducia nel consiglio comunale e nella macchina amministrativa. Quando i Pesce e i Bellocco camminano per strada anche i muri si zittiscono. Tutti li rispettano, abbassano gli occhi, li temono. Fuori come in casa. Minori di ‘ndrangheta 30 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie cambiamento in quella terra divorata dalla ’ndrangheta. Qualcuno l’ha capito. In un piccolo Tribunale di trincea, in questi ultimi due anni, lo Stato sta combattendo una battaglia nel silenzio dei media nazionali. La storia della Cacciola, accendendo i riflettori sull’uso dei minori da parte delle famiglie di ’ndrangheta, ha dato l’impulso a una piccola, grande rivoluzione. Sono molte le donne che in Calabria hanno deciso di rinnegare l’universo totalitario della ’ndrangheta. Nei colloqui che le collaboratrici/testimoni hanno avuto con i magistrati è emersa la motivazione principale che le ha spinte a un atto di ribellione così profondo: la volontà di garantire un futuro migliore ai propri figli. Queste donne hanno capito che pochi di loro faranno carriera nei ranghi dell’organizzazione criminale, la maggior parte finirà per essere uccisa in qualche agguato, oppure sconterà gli anni migliori in galera. La sorte che toccherebbe alle figlie femmine non è migliore: condannate a servire la famiglia, pedine di scambio per alleanze militari, subordinate alla legge mafiosa che le vuole zitte, omertose, ma soprattutto fedeli all’organizzazione e, spesso, ad un marito che non hanno mai amato. Un destino non più ineluttabile. Può una madre volere questo per i propri figli? La risposta non è scontata, perché per decenni quello mafioso è stato un destino ineluttabile, che va accettato così come si accettano le calamità naturali. Il fatalismo, tipico del meridione, è stato strumentalizzato dalla ’ndrangheta, diventandone il principale alleato. Come fa notare la sociologa Renate Siebert, che ha fatto dell’analisi di genere del fenomeno mafioso il cardine della sua ricerca, il sistema mafioso condivide molti aspetti dei regimi totalitari. La ’ndrangheta avvolge le persone svuotandole della propria individualità, riconoscersi come individui autonomi e quindi capaci di autodeterminarsi significherebbe astrarsi dai vincoli dell’organizzazione e quindi smettere di considerarla come la radice prima di tutte le cose. Il fatalismo ha accompagnato la mafia a braccetto per le strade del Sud, convincendo la parte della popolazione meno alfabetizzata che “ciò che accade deve accadere”. Chi si azzarda a scegliere con la propria testa, avanzando interessi personali – tanto più se affettivi – non è uomo, quindi non è degno di far parte dell’Onorata Società. Nessuno si è ribellato. I pochissimi che l’hanno fatto hanno pagato con la vita. Non è quindi scontata la risposta al quesito di cui sopra. Centinaia di donne hanno guardato i loro figli cadere sul fronte, come soldati di una guerra giusta. Morti ammazzati sull’asfalto dissestato, latitanti costretti a nascondersi come topi nelle minuscole stanze dei bunker sotterranei, giovani condannati al carcere duro che le mani delle loro madri non le hanno toccate per decenni. Ci sono madri che però quel fatalismo l’hanno abbandonato. Sono andate in regime di protezione lontano dalla ’ndrangheta e hanno portato i figli con sé. Hanno deciso di scegliere, così che un giorno quelli che ora sono bambini possano vivere liberi dalle regole mafiose. La ’ndrangheta teme più queste donne delle operazioni della magistratura e delle forze dell’ordine. Non solo per la reputazione dei clan: ciò che più spaventa l’organizzazione criminale calabrese è l’allontanamento dei minori dalle famiglie d’origine. Senza soldati, la ’ndrangheta che esercito è? In una delle intercettazioni relative al caso Cacciola, il padre di Maria Concetta, Michele, dice: «Avevo una famiglia che... che me la invidiavano. Guarda questi indegni di merda, guarda! Mi divertivo a guardarli a questi nipoti. Il giorno chi c’era più contento di me, chi c’era più contento di me. Almeno mi hanno lasciato questi, ma mi hai preso la figlia. Oh indegni gli prendete i figli ai padri, ai padri... ai padri gli prendete i figli, dov’è questa legge? Questa legge è? Per combattere a me mi prendi la figlia?! Per combattere a me?!».Verrebbe da rispondere: è la legge di uno Stato che ha il dovere di garantire al minore condizioni di vita degne di un paese democratico, contrapponendo alla “pedagogia mafiosa” la pedagogia della legalità. Ebbene, questo Stato si è palesato nel Tribunale dei minori di Reggio Calabria. Un Tribunale di trincea, dove passano giornalmente decine di minori assoldati dalla ’ndrangheta, alcuni colpevoli di gravi delitti. È lì che è in atto una rivoluzione. L’unica vera rivoluzione che può sconfiggere la mafia calabrese. La rivoluzione silenziosa di un tribunale di frontiera Il Tribunale dei minori di Reggio Calabria, su iniziativa del presidente Roberto Di Bella, ha stanziato alcuni provvedimenti per allontanare provvisoriamente alcuni minori dalle famiglie di ’ndrangheta. Un modo – controverso e dibattuto – per dare a questi ragazzi un’alternativa alla mafia. di Michela Mancini Minori di ‘ndrangheta 31 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ‘ndrangheta 32 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Tutto ha inizio nel 2011, dopo la morte di Maria Concetta Cacciola. È stata proprio la sua storia a convincere il Tribunale dei minori di Reggio Calabria, guidato dal giudice Roberto Di Bella, a prendere dei provvedimenti per allontanare provvisoriamente alcuni minori dalle famiglie di ’ndrangheta. Queste misure – adesso se ne contano più di una ventina – vengono adottate solo in casi particolarmente gravi ovvero quando l’interesse del minore non è stato tutelato dai propri familiari. Lo Stato non agisce in maniera preventiva, ma solo quando riscontra la possibilità che la sopravvivenza del minore venga messa in pericolo dall’inasprirsi delle condizioni di vita in cui è immerso. Perché sottrarre i minori alle famiglie? Togliere i figli ai mafiosi non solo è un atto, ai loro occhi, inaccettabile, ma è anche l’unico modo – in situazioni limite – di salvare dei bambini il cui destino è segnato alla nascita. A decidere per loro, a segnare le tappe fondamentali della crescita e dell’adolescenza, sarebbe, infatti, il proprio cognome. La volontà di scegliere strade differenti da quelle mafiose non è neppure tenuta in considerazione: l’alternativa non esiste perché non la si conosce. Sostituire negli affari i membri adulti della propria famiglia, spesso in carcere o latitanti, è un dovere, un privilegio e un imperativo. Il presidente Roberto Di Bella, prima gip nella stessa struttura, ha visto passare in quelle stesse stanze i padri e i fratelli maggiori dei ragazzi che ora si trova davanti. L’amara conferma che la ’ndrangheta si eredita: le famiglie si assicurano il potere sul territorio grazie alla continuità generazionale. È una spirale che bisogna interrompere. Il tentativo, che ha già portato buoni risultati, non è la mera sottrazione di questi ragazzi ai boss. Una volta emanato il provvedimento di allontanamento, i minori vengono ospitati in case-famiglia, dove educatori e psicologi creano dei percorsi di rieducazione individuali. Come a dire: spostarli non basta, bisogna che lo Stato si impegni a fornire una valida alternativa al contesto mafioso da cui provengono. Proporre un’altra strada, cercare di far intravedere loro che esiste un altro modo di vivere, in cui non è il cognome che porti a scegliere per te, bensì la tua coscienza. Quei tre bambini di una donna “ribelle”. La storia della Cacciola e dei suoi tre bambini è un caso limite – come tutti quelli presi in esame – che ha puntato i riflettori sull’uso che le famiglie di ’ndrangheta fanno dei minori. I figli di Maria Concetta sono stati utilizzati come merce di scambio per far ritornare la donna a Rosarno. Hanno subito forti violenze psicologiche dai loro nonni diventando protagonisti di una storia così tanto più grande di loro. In un’interrogazione parlamentare, sollevata dalla deputata del Pd Laura Garavini dopo la morte di Maria Concetta Cacciola, si fa riferimento in modo preciso ai tre minori coinvolti nella vicenda. Nell’interrogazione si chiede di sapere «quali ragioni abbiano determinato l’allontanamento di Maria Concetta Cacciola dalla località protetta in cui si trovava; quali iniziative siano state adottate dal Servizio centrale di protezione per assicurare l’incolumità della Cacciola in Rosarno e, in particolare, se sia stata data informazione alla locale prefettura della situazione di rischio della donna; quali iniziative siano state assunte presso il Tribunale dei minorenni per garantire alla Cacciola l’affidamento dei bambini nella località protetta e il ricongiungimento del nucleo familiare; quali iniziative il ministro dell’Interno intenda adottare al fine di assicurare che la Commissione centrale di protezione modifichi la propria determinazione circa lo status di collaboratore di giustizia e ammetta chi intende, come la Cacciola, riferire fatti appresi incolpevolmente nel proprio contesto familiare al regime di favore dei testimoni di giustizia; quali iniziative il ministro della Giustizia intenda adottare al fine di accertare che la vicenda di Giuseppina Pesce e quella drammatica di Maria Concetta Cacciola si siano svolte nella piena osservanza delle disposizioni di legge che regolano il trattamento, anche processuale, di quanti intendono collaborare con la giustizia ai sensi della legge 82 del 1991».Dopo l’interrogazione, il Tribunale dei minori ha richiesto un’indagine da parte dei servizi sociali in casa Cacciola – dove in quel momento risiedevano i genitori di Cetta – per valutare le condizioni in cui i tre ragazzini vivevano. I servizi non annotarono nessun caso di maltrattamento. L’indagine fu archiviata. La verità si apprese solo dopo che il gip di Palmi Fulvio Accursio emise l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Michele Cacciola, sua moglie Anna Rosalba Lazzaro e il figlio Giuseppe. Era il 4 febbraio del 2012. Un mese dopo con un provvedimento a firma dei giudici Francesca Di Landro e Roberto Di Bella, i tre minori furono allontanati. Si legge nel provvedimento: «[...] i minori F.A., G. e A.R. hanno subito maltrattamenti e vessazioni da parte dei nonni con i quali convivevano, i quali non si sono fatti scrupolo alcuno di utilizzare i medesimi bambini come strumento di ricatto sulla congiunta che si trovava nel luogo di protezione, nell’assenza di alcuna attenzione per i loro delicati equilibri emotivi. Addirittura, L.A.R. e C.M. – unitamente ad altri familiari – non hanno esitato a condurre la minore F.G. a G., località dove M.C.C. si trovava in regime di protezione, con il palese obiettivo di indurla – anche attraverso la presenza dissuasiva della figlia – a rientrare a R.. Conferma di tale condotta strumentale – gravemente pregiudizievole per i minorenni – si trae poi dalle stesse confidenze (captate nel corso di una conversazione) fatte da C.M.C. all’amica E.G. (“Io li ho cercati e non me li hanno dati..hai capito? I figli non me li mandano..non vedi che non me li hanno mandati... loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita, non torno più”). L’inadeguatezza del contesto familiare – permeato da una soffocante cultura mafiosa – emerge poi dalla stessa lettera manoscritta che M.C.C. manda nel maggio 2011 alla madre prima di iniziare il suo percorso di collaborazione. Con la drammatica missiva la donna si preoccupa di affidare i suoi figli alla madre, scongiurandola di non fare con loro “l’errore” che aveva fatto con lei (“Non fare l’errore a loro che hai fatto con me...dagli i suoi spazi.. se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto. Dagli quello che non hai dato a me”) e, soprattutto, di non lasciare i suoi figli “a loro”, riferendosi agli altri componenti della sua famiglia (padre incluso), perché “non degni” (“Non darglieli a suo padre non è degno di loro.. parla di me non lasciarli a loro.. non sono degni di loro di nessuno”). [...] Il diretto coinvolgimento dei figli in dinamiche “ambigue”, dalle quali dovrebbero rimanere estranei i minori, emerge in modo univoco dalla conversazione telefonica intercorsa tra F.S. in stato di detenzione, marito della C., e la figlia G.. Nell’occasione (verificatasi il giorno successivo alla registrazione sopra indicata, in cui la C. ritrattava le accuse al padre e al fratello asserendo di avere agito per vendetta e per l’effetto dei psicofarmaci utilizzati), la minore F.G. (non ancora quattordicenne) comunicava al padre detenuto che la madre il giorno prima si era recata dall’avvocato “P.” per registrare e poi dal magistrato, “da Pignatone, che gli ha detto che lei è una donna libera ..che lei non ha fatto niente”. [...] Un ulteriore riscontro del pesante clima esistente all’interno del nucleo familiare, con dirette ripercussioni sull’equilibrio psicologico dei minori si trae dalla conversazione tra presenti intercettata tra F.S. e il figlio A.. Nel corso del colloquio il detenuto chiede al figlio minorenne il motivo dell’allontanamento della madre da casa e quest’ultimo, palesando evidente malessere, risponde che era “tutta colpa del nonno” che non esitava a maltrattarla davanti ai figli (F.A.:“... Io ho perso una madre...guarda qua, arriva fino al limite della gelosia per non farla uscire con la macchina..per noi, ah, che cosa erano queste..che poi i Carabinieri hanno fatto la loro parte, però la base principale è stato lui, io sono rimasto quando ho detto alla mamma: o mamma, perché sei andata via? E lei: non hai visto come mi trattavano?....La mamma mi ha detto di essere tornata per me, per G., per R. ...”. F.S.:” Ma la picchiavano? Chi la picchiava?. F.A.:” Il nonno, ma per spavalderia che è un pagliaccio di merda, vedi come il signore lo ha castigato? ..Adesso ti dico una cosa; perché la trattavano male ed è voluta andare via, gliel’ha fatta pagare al nonno così... per come ragiono io è sbagliato come faceva lui, poi dopo che è tornata si è sentita in colpa...”). La condizione di sofferenza del minore emerge Minori di ‘ndrangheta 33 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ‘ndrangheta 34 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie in modo ancora più netto nel seguito della conversazione, allorquando il medesimo si giustifica per non essere intervenuto a difesa della madre, ammettendo la sua totale e comprensibile sudditanza nei confronti del nonno (“Al nonno cosa posso dirgli? Questo qua mi sta mantenendo..non è che posso fare qualcosa?)». Gli elementi sono sufficienti per comprendere che allontanare i figli della Cacciola da quel contesto familiare era l’unica soluzione per proteggerli. Salvatore Figliuzzi ha perso la sua potestà genitoriale. I tre bambini sono stati in un primo momento ospitati in una casa-famiglia, in un secondo momento sono andati a vivere con alcuni parenti. Le due bambine, affiancate da uno psicologo, stanno facendo un percorso di rieducazione. Il figlio maggiore di Cetta, ormai maggiorenne e quindi libero di scegliere, è ritornato a vivere nel suo paese. Lo stesso provvedimento è stato emesso dal Tribunale dei minori di Reggio per i figli di Giusy Pesce, per consentire ai tre bambini di raggiungere la madre in una località protetta. In questo caso la decisione dei magistrati reggini è stata fondamentale, non solo per la tutela dei minori, ma anche per garantire il proseguimento della collaborazione a queste donne. Sapere di poter portare i figli con sé incoraggia molte di loro ad affrancarsi dalla famiglia d’origine. Se una donna decide di collaborare con la giustizia in nome dell’amore per i suoi bambini, è compito dello Stato – con le dovute valutazioni – per- mettere il congiungimento tra la madre e i figli, così da sottrarli ai contesti mafiosi da cui provengono, evitando che diventino materia di ricatto. Una vita rubata alla ’ndrangheta. Un’altra storia che aiuta a capire l’assoluta necessità della procedura inaugurata a Reggio Calabria riguarda un ragazzo di nome Riccardo, il suo cognome è quello di una delle più potenti famiglie di ’ndrangheta del reggino. Quando aveva sedici anni, Riccardo è stato sorpreso insieme con altri amici attorno a un’auto danneggiata della Polizia ferroviaria di Locri. Il processo per furto e danneggiamento si è concluso con l’assoluzione per carenza di prove, tuttavia quell’indagine ha permesso al Tribunale di ricostruire la sua storia familiare. Riccardo sembrava essere condannato a un destino ineluttabile. Il padre fu ucciso in un agguato mafioso quando il ragazzo era ancora piccolo, i fratelli sono stati arrestati per omicidi e associazione mafiosa. Uno di loro è al 41 bis, la madre non lo tocca da dieci anni. Riccardo recitava il ruolo che la ’ndrangheta gli aveva assegnato, si preparava alla stessa sorte scontata dai fratelli maggiori. Passava la notte in compagnia di pregiudicati, a scuola non ci andava mai. Era lui stesso a parlare della propria vita con rassegnazione, pensava che quella fosse l’unica strada percorribile. La madre «non appariva idonea a contenerne la pericolosità come comprovato dalla sorte degli altri figli», e «neppure il contesto parentale allargato offriva ga- ranzie per l’educazione del giovane», poiché la «famiglia» di appartenenza aveva «un ruolo di spicco nella criminalità organizzata del territorio di residenza». I giudici Roberto Di Bella e Francesca Di Landro, su richiesta del pm minorile Francesca Stilla, decisero di emettere un provvedimento – d’urgenza e inaudita altera parte (senza contradditorio con la famiglia contro parte, rimandato ad un secondo momento) – con il quale Riccardo «veniva affidato al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità da reperirsi fuori dalla Calabria, i cui operatori professionalmente qualificati siano in grado di fornirgli una seria alternativa culturale». In un primo momento la madre oppose resistenza, non voleva che anche questo figlio le venisse portato via. Presentò anche un reclamo poi respinto in Corte d’Appello. Quando le spiegarono che l’allontanamento del ragazzo non era punitivo ma volto ad evitare che il figlio subisse la sorte dei fratelli e del padre, accettò di seguire il percorso di recupero delle sue competenze genitoriali presentandosi presso il consultorio familiare territoriale, ma soprattutto non si oppose a quello programmato nell’interesse del figlio, nella speranza – inconfessata – di evitare quello che anche a lei sembrava un destino ineluttabile. Paradossalmente, il percorso programmato venne accettato anche dai fratelli più grandi del giovane che, sofferenti per le restrizioni carcerarie, incoraggiarono la madre a seguire “la strada nuova” indicata da “un giudice che per una volta si interessava di loro”. Per il giovane l’apertura ad un nuovo “mo(n)do” è stata graduale; ha avuto inizio nel momento in cui ha capito che qualcuno si stava prendendo cura di lui e che quel qualcuno rappresentava lo Stato, lo stesso nel quale Riccardo intravedeva il principale antagonista. La legge mafiosa non permette di abbandonarsi alle cure altrui, a slanci affettivi, essa impone esclusivamente il freddo riconoscimento dell’autorità. Riccardo, all’inizio del suo percorso, voleva essere invisibile, agli sguardi, ai sentimenti, si nascondeva agli altri e a se stesso. Nel corso del tempo ha partecipato agli eventi organizzati dalle associazioni antimafia del territorio in cui risiedeva. Eventi legati alla commemorazione di personalità o di fatti che hanno segnato la storia della lotta alla criminalità organizzata. Ha cominciato anche a lavorare come volontario in una struttura che si prende cura di bambini disagiati, li aiutava a fare i compiti, giocava con loro. Aveva anche ripreso a studiare. Periodicamente andava a trovare la madre; i loro percorsi procedevano parallelamente, quando si incrociavano le loro mani, la speranza di un cambiamento non era più solo immaginazione. Adesso Riccardo è maggiorenne, da tempo ormai non ha problemi con la giustizia. Lo scorso maggio ha scritto una lettera al Corriere della Sera per raccontare la sua storia. «Ho deciso che la mia vita deve essere diversa. Voglio ritornare a Locri, ma non voglio più avere problemi con la giustizia. Non perché non mi conviene, ma anche perché voglio vivere sereno. Voglio essere pulito. Prima di vivere questa esperienza, credevo che allo Stato non gliene importasse niente delle persone. Lo Stato era quello che ti portava via da casa. E non sapevi se tornavi e quando tornavi. In questi mesi ho conosciuto uno Stato diverso, che non mi ha voluto cambiare a tutti i costi ma che per una volta ha cercato di capire chi ero io davvero. E chi sono io davvero? Un ragazzo di diciotto anni, un ragazzo come gli altri». Il percorso di Riccardo non è però tutto in discesa, né risolto: a febbraio 2015 è stato emesso un Daspo nei suoi confronti per lancio di lacrimogeni e oltraggio agli agenti durante una partita di calcio. Un “inciampo” su cui ulteriori riflessioni sono necessarie. Un protocollo fondamentale. I provvedimenti di allontanamento emanati dal Tribunale dei minori da soli non sono sufficienti. Per contrastare le ’ndrine, bisogna renderli organici, bisogna alzare il tiro: il Tribunale deve diventare una macchina efficiente, deve dotarsi di una lente d’ingrandimento che scovi i ragazzi in odor di mafia, un universo sommerso difficile da indagare. Con questi presupposti nasce il 21 marzo del 2013 un protocollo d’intesa a firma degli uffici giudiziari del Distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria, destinato a rappresentare, per l’innovativa strategia di rete e le finalità perseguite, un precedente assoluto. Tale documento è stato sottoscritto sulla scia dei provvedimenti adottati dal Tribunale per i minorenni e muove i suoi passi dalla considerazione di fondo che l’indispensabile repressione penale o patrimoniale non è da sola idonea a sradicare il fenomeno ’ndrangheta. Fenomeno che è soprattutto culturale e si autoalimenta all’interno dei nuclei familiari, in una spirale perversa che è difficile intaccare, anche per la scarsa incidenza del pentitismo. Obiettivo dell’intesa è quello di realizzare interventi giudiziari coordinati a tutela dei minorenni disagiati, autori o vittime di reati della provincia di Reggio Calabria. Negli ultimi venti anni il Tribunale per i minori ha trattato circa 100 procedimenti per associazione mafiosa e più di 50 procedimenti per omicidi e tentati omicidi nei confronti di minori, molti dei quali – ormai maggiorenni – sono sottoposti al 41 bis o sono stati uccisi nel corso di faide tra ’ndrine. Sono numeri rilevanti confermati da diverse fonti. Ne parlano, ad esempio, il magistrato Nicola Gratteri e lo storico Enzo Ciconte: «Dai dati è emerso che il 59% degli affiliati alla ’ndrangheta alla fine del 2005 aveva un’età inferiore a 45 anni, a conferma della facilità con cui le ’ndrine riescono a rinnovare i propri organici. Enzo Ciconte ha esaminato 52 sentenze pronunciate in Calabria dal 1884 al 1915, rilevando che gli imputati di un’età compresa tra i 14 e i 30 anni rappresentavano il 71,58 % del totale. [...] Nel corso della seconda guerra di mafia a Reggio Calabria sono stati impiegati Minori di ‘ndrangheta 35 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ‘ndrangheta 36 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie come sicari molti minorenni, alcuni dei quali sono rimasti uccisi. Una delle famiglie che ha dimostrato di poter contare di più sui giovani è stata quella dei De Stefano Tegano» (Nicola Gratteri, Antonio Nicaso, Fratelli di Sangue). Un fenomeno, quello dei minori di ’ndrangheta, che per troppo tempo è stato sottovalutato. Il protocollo nasce per questo. Nel dettaglio, innanzitutto introduce una rinnovata metodologia operativa nel contrasto a determinati sistemi criminali, proponendosi di arginare in via preventiva il fenomeno mafioso attraverso le necessarie “infiltrazioni” culturali. L’obiettivo principale è quello di offrire adeguate tutele e proposte pedagogiche alternative ai minorenni delle ’ndrine così da evitarne la strutturazione criminale. In altri termini, le significative assenze educative con violazione degli obblighi di assistenza familiare (ad esempio per latitanza) di determinati soggetti, la connivenza dei loro congiunti e la trasmissione di modelli culturali di stampo mafioso ai figli minori – i quali sono spesso cooptati in attività illecite – sono tutte circostanze ormai note nel territorio reggino. Un quadro che ha suggerito di istituire un circuito comunicativo tra la Procura della Dda, gli altri uffici inquirenti e giudicanti del Distretto e gli uffici giudiziari minorili (Procura della Repubblica e Tribunale per i minorenni), finalizzato alla segnalazione di tutte le situazioni di concreto “pregiudizio familiare”, con l’obiettivo di attivare le preventive inizia- tive di tutela. Un circuito comunicativo indispensabile per rendere la macchina della giustizia rapida ed efficiente nell’indagare quell’universo sommerso di cui si accennava sopra. Gli interventi civili minorili – da adottare nel rispetto della normativa interna e internazionale in materia – consistono, nei casi di riscontrato pregiudizio, in provvedimenti di limitazione o decadenza della potestà genitoriale (art. 330 e seguenti del codice civile) e/o in misure amministrative per minori con condotta irregolare, con affidamento etero-familiare, a strutture comunitarie (nei casi estremi o di rischio per l’incolumità psico-fisica anche fuori dalla Calabria) o ai Servizi Sociali. L’obiettivo di tali misure è quello di fornire ai minori coinvolti adeguate tutele per una regolare crescita psico-fisica e, nel contempo, la chance di sperimentare alternative culturali funzionali ad evitarne la definitiva strutturazione delinquenziale. Si tratta di ragazzi che provengono da contesti particolarmente degradati oltre che contrassegnati da devastanti dinamiche criminali dalle quali è quasi impossibile uscire quando gli unici modelli sono quelli dei genitori o dei parenti stretti. Nell’ambito di tali procedure, il Tribunale per i minorenni potrà impartire ai minori interessati e, quando possibile, ai genitori le necessarie prescrizioni per il recupero delle competenze educative, da acquisire attraverso attività di volontariato, incontri con le vittime e corsi di educazione alla legalità da istituire nei locali confiscati alle organizzazioni criminali. Tuttavia l’obiettivo degli uffici giudiziari reggini è quello di sperimentare dei percorsi rieducativi sia in ambito civile che in ambito penale, limitando gli inserimenti in comunità. La speranza è di poter affidare i “minori di ’ndrangheta” a famiglie di volontari (appartenenti alle associazioni come Libera, Gerbera Gialla, Addio Pizzo), così da far loro sperimentare contesti di vita diversi e contatti con coetanei di altre realtà. In secondo luogo, il protocollo disciplina un circuito comunicativo tra uffici finalizzato a fornire un’immediata tutela giuridica ai figli di coloro che intraprendono percorsi di collaborazione con la giustizia, con l’obiettivo di evitare strumentalizzazioni di minorenni e consentirne un rapido ricongiungimento con il familiare sotto protezione (con affido giuridico esclusivo ed eventuale provvedimento di decadenza o limitazione della potestà genitoriale nei confronti del familiare non incluso nella proposta di protezione per contiguità criminale o perché la rifiuta). Il protocollo d’intesa, oltre che costituire un valido strumento per gli operatori giudiziari in un ambito dove non vi sono precedenti consolidati, può fungere da volano per nuove collaborazioni da parte di soggetti che vogliano intraprendere un percorso di legalità a fianco e a tutela dei propri figli. In particolare, quel che si augurano i firmatari del protocollo è che la diffusione e la conoscenza di tale prassi diventi presupposto per una scelta scevra da condizionamenti, incentivando il fenomeno della collaborazione delle donne di ’ndrangheta. In una società patriarcale, con regole rigide e dove i matrimoni sono imposti a donne giovanissime che spesso si trovano sole con figli minori (per la detenzione o la morte dei mariti “caduti sul campo”) e “imprigionate” dalla famiglia di appartenenza, l’informazione “correttamente veicolata” sull’opportunità di una nuova vita, insieme ai propri figli, potrebbe produrre effetti imprevedibili. Le critiche al progetto. La principale critica che è stata rivolta all’iniziativa dei magistrati reggini è che questi non dovrebbero intervenire all’interno dei contesti familiari e censurare i modelli educativi, anche se intrisi dei disvalori propri delle organizzazioni criminali, perché la società civile deve maturare da sé gli anticorpi necessari. Si è detto che la famiglia, la scuola, la chiesa, i servizi sociali, il volontariato e tutte le altre agenzie deputate alla formazione dei minori possono invertire il sistema anche in Calabria e non necessitano di interventi dell’autorità giudiziaria. Si tratta di un’argomentazione corretta sul piano teorico, ma purtroppo viene smentita dall’amara realtà dei fatti. La necessità di intervenire per via giudiziaria, nei casi di riscontrato pregiudizio ai danni del minore e non solo perché la famiglia è mafiosa, nasce proprio dal fatto che da sole scuola, chiesa, servizi sociali e volontariato non sono sufficienti a garantire – in quelle estreme circostanze – il sano sviluppo dei ragazzi. Basti aggiungere le difficoltà riscontrate ad esempio da parte di alcuni assistenti sociali nell’eseguire i provvedimenti. Schierarsi contro la ’ndrangheta, seppur per conto dello Stato, fa paura. La presenza sul territorio delle stesse “famiglie” da oltre quaranta anni e l’avvicendarsi costante presso il Tribunale per i minorenni dei soliti nomi sono una diretta riprova della buonafede dei provvedimenti. Enza Rando, avvocato di Lea Garofalo e responsabile legale di Libera, spiega l’assoluta necessità di queste misure giuridiche per contrastare il fenomeno mafioso: «Se uno Stato è credibile e forte, questa cosa la deve fare. Quand’è che scatta per un minore lo stato di adottabilità? Ad esempio, quando per ragioni economiche una famiglia non riesce a garantire al bambino una vita degna. Ci sono persone costrette a lasciare i propri figli perché non hanno soldi. In questi casi lo Stato dovrebbe essere più umano. Dovrebbe dire: io ti accompagno economicamente così ti permetto di crescere il tuo bambino. Eppure non sempre lo fa. La povertà non è un reato eppure ti può far perdere i figli. Come mai davanti ai veri reati ci scandalizziamo tanto se un minore viene allontanato dalla propria famiglia? Prendiamo il caso di un padre a cui decade la patria potestà dopo che è stato condannato all’ergastolo. È probabile che sua moglie diventerà l’elemento di collegamento tra la galera e il gruppo mafioso. Questa donna chiederà a suo figlio di vendicare il padre. Lo Stato come fa a tutelare questo ragazzo? Può solo allontanarlo dalla famiglia. Chiaramente le famiglie sono cellule privatistiche ma hanno anche la mano pubblica a sostenerle. Perché lo Stato non dovrebbe intervenire nelle famiglie in cui i bambini sono educati già da piccoli alla violenza come sistema? Se lo Stato c’è, deve prevalere l’interesse del minore. Tempo fa ho conosciuto una testimone di giustizia calabrese che parlava il linguaggio della ’ndrangheta. Rincontrandola dopo qualche anno, quel modo di esprimersi era quasi sparito; suo figlio sembrava nato in un altro luogo. Il ragazzo ora studia all’università. Vuole fare il magistrato». I casi di collaborazione femminile, che negli ultimi anni stanno creando la prima vera crepa nella struttura della mafia calabrese, non sono però sufficienti a scardinare l’intero sistema. Se queste donne decidono di rinnegare la ’ndrangheta in nome dei propri figli, è a loro che bisogna pensare affinché il virus venga debellato alla radice. Ecco perché è necessario raccontare quel che sta accadendo a Reggio Calabria. Le donne devono sapere che, se lasciano la famiglia, possono portare con sé i propri bambini e lo Stato ha il dovere di dare a questi giovani una possibilità. Ma i giudici da soli non possono vincere. Bisogna creare una rete che sostenga questi ragazzi. Minori di ‘ndrangheta 37 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 38 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Minori di ‘ndrangheta Liberi di scegliere È un progetto che coinvolge magistratura, psicologi, educatori e volontari di Libera, della Caritas italiana, dell’associazione Giovanni XXIII e di Addio Pizzo Sicilia. Tutti insieme per un unico obiettivo: creare una rete di sostegno per i ragazzi appartenenti a famiglie mafiose di Michela Mancini Nascono adulti i bambini della ’ndrangheta. La loro è un’infanzia negata. A quindici anni chiedono il pizzo per conto dei loro padri in carcere, a diciassette già uccidono. Non conoscono il valore di “una vita”, premono un grilletto e perdono un’innocenza negata dalla nascita. Eseguono ordini che arrivano dall’alto e ne vanno fieri. Perché essere “uno di loro” è un privilegio. Vuoi mettere essere un uomo d’onore rispetto al non contare nulla? Mario Nasone, presidente del centro comunitario Agape di Reggio Calabria, di questi ragazzi ne ha conosciuti tanti. Sono passati in quelle stanze dove équipe di educatori e volontari hanno cercato di indicare loro un’altra strada, diversa dalla ’ndrangheta. Nasone racconta: «Una volta ho chiesto a un ragazzo di San Luca perché fosse entrato in quel giro. Lui mi ha risposto “prima, quando giravo per strada nessuno mi calcolava, adesso se passo io, si tolgono il cappello”. Ecco questa è la mafia. Ti fanno credere di essere temuto e rispettato, ti convincono che è grazie a loro che la gente ti considera. Ma la ’ndrangheta non fa volontariato: tutto quello che fa, lo rivuole indietro. Ti legano a loro per sempre, non sei più padrone della tua vita». Smettono di scegliere e si lasciano condannare ad un’esistenza misera questi ragazzi. Non sospettano nemmeno che a un passo da quelle strade c’è un mondo che funziona con altre regole, dove ogni tanto puoi cedere e comunque rimanere uomo. Un’alternativa esiste. Il Tribunale dei minori reggino, l’associazione Libera-Calabria, AddioPizzo Messina e la camera minorile di Reggio Calabria hanno deciso di puntare in alto, presentando un progetto organico al ministero della Giustizia. Lo scopo è avviare, attraverso i fondi dell’Unione europea, un piano di azione sistematico nei confronti dei minori appartenenti a famiglie di ’ndrangheta. Il nome spiega già tutto: “Liberi di scegliere”, così si chiama il progetto, coinvolge un’équipe multidisciplinare che vede schierata non solo la magistratura e gli Uffici di Servizio Sociale per i minorenni, ma anche psicologi, educatori e volontari di Libera e di Addio Pizzo. Questo gruppo di lavoro, appositamente selezionato, avrà il compito di individuare il percorso personale per ogni minore. Per avere risultati concreti è necessario che alle spalle del singolo ragazzo/a ci sia una vera e propria “rete” di sostegno. Una struttura organizzativa che si basi sull’impegno congiunto di istituzioni e privato sociale. La specificità del progetto, inoltre, è caratterizzata dalla prosecuzione dell’intervento oltre il compimento del diciottesimo anno di età. Infatti, occorre predisporre un continuum operativo che includa l’accompagnamento del minore, ormai divenuto maggiorenne, all’autonomia esistenziale, ovvero economica, affettiva e sociale: prospettiva realizzabile solo con l’ausilio delle risorse del privato sociale. Per questo fra i firmatari compaiono anche sigle importanti dell’imprenditoria italiana, come ad esempio Confindustria e Lega delle Cooperative Nazionali. Aziende che fanno capo a queste organizzazioni dovrebbero impegnarsi a fornire borse-lavoro o, comunque, opportunità lavorative ai soggetti meritevoli inclusi nel progetto. La pedagogia contro la ’ndrangheta. Trovarsi davanti ad un adolescente cresciuto in contesti mafiosi non è certo la stessa cosa di avere a che fare con un minore che si è macchiato di reati ascrivibili alla criminalità comune. Le esperienze accumulate hanno permesso agli assistenti sociali e agli psicologi di rilevare “costanti” comportamentali osservate su minori allontanati dal contesto familiare e inseriti in comunità. Si legge nel progetto “Liberi di Scegliere”: «Nei confronti della famiglia appaiono evidenti: atteggiamento di dipendenza; forte identificazione con le figure parentali; propensione a replicare i codici paterni e materni; attaccamento originario e conformità ai (dis)valori trasmessi. La sottomissione nei confronti di figure autoritarie, con socializzazione prevalentemente verticale e ricerca di una gerarchia, de- termina una censura (emotiva) ed un controllo opprimente orientato, inevitabilmente, alla solitudine. Difatti, la famiglia, estremamente pervasiva nelle regole e legami impartiti, disconosce il mondo interiore dei propri figli, a vantaggio di un mondo esterno solido, rigido, seducente e violento. In essa esistono legami parentali freddi, sacri e intoccabili, a fronte della profonda ignoranza della vita interiore dei figli, dei loro problemi, sogni e desideri, lavorando semmai a trasformare l’affetto in fedeltà. Chiari gli effetti sulla struttura personologica del minore e sulle prospettive esistenziali future: difficoltà di apprendimento, insuccesso scolastico e precoce uscita dal circuito formativo che sanciscono il fallimento del rapporto tra il minore e la scuola; percezione di controllo e necessità di superare il limite per dimostrare a sé e agli altri di essere in grado di dominare e gestire la propria vita senza la guida degli adulti; difficoltà a proiettarsi nel futuro; scarsa capacità di riflettere su se stessi e sulle conseguenze dei propri comportamenti; difficoltà a cambiare il proprio schema mentale nell’affrontare situazioni problematiche o impegnative; incapacità di tollerare le frustrazioni; forte apatia e demotivazione; fobie e vissuti depressivi; trasgressione e superamento dei limiti; scarsa fiducia nelle proprie capacità; bassa autostima; desiderio di contrapporsi all’ordine costituito; incapacità di fare investimenti a lungo termine». Strategie di intervento. Educare i minori provenienti da contesti criminali non significa reprimere. Spiegano gli psicologi: «Occorre mettersi in ascolto, comprendere il loro linguaggio e i valori di riferimento. Necessita cogliere i loro bisogni, entrare in dialogo con le loro emozioni, interessi e desideri, ma soprattutto è indispensabile sviluppare relazioni significative». Gli interventi, individualizzati in base alle specificità di ciascun minore interessato e alla gravità delle situazioni familiari, sono più d’uno: la “semplice” imposizione di un progetto individuale di recupero/educazione alla legalità senza allontanamento dal contesto familiare o un inserimento del minore in casa-famiglia o in una struttura a semiconvitto nella regione Calabria; oppure, nei casi più gravi, sarebbe possibile ricorrere al temporaneo allontanamento dal contesto familiare con inserimento in un nucleo familiare o in una casa-famiglia collocata in un’ altra regione, da individuarsi preferibilmente nell’ambito delle rete associativa. In entrambi i casi, dovrà consentirsi il coinvolgimento di figure familiari che abbiano messo in discussione il sistema criminale ’ndranghetista. Attraverso questo processo di diversificazione (distacco) e futura identificazione (non omologata) del minore potranno ricomporsi i bisogni e le esigenze tipiche dell’adolescenza rimasti soffocati sotto il peso dei condizionamenti ambientali. L’inevitabile passo successivo dovrà offrire alternative economiche, sociali, Minori di ‘ndrangheta 39 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 40 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie culturali, affettive, mediante la promozione di valori antagonisti alla cultura mafiosa. Minori di ‘ndrangheta Parola d’ordine: “insieme”. Quel che preme sottolineare è che “Liberi di scegliere” vuole coinvolgere soggetti pubblici e privati. La scelta è precisa: lo sforzo deve essere congiunto per vincere questa sfida lanciata dal Tribunale dei minori. Una sfida che ha bisogno di tutta l’attenzione della politica e di fondi che la sostengano. La rivoluzione iniziata in quel piccolo Tribunale di frontiera potrebbe davvero essere letale per la mafia calabrese. Per ridare vita alla Calabria bisogna restituirle la sua gioventù: ragazzi e ragazze che imparino a scegliere cosa vogliono diventare. «Della ’ndrangheta, degli uomini e delle donne che ne fanno parte si sa molto di più rispetto al passato. Ma c’è una grande lacuna, ieri come oggi, e riguarda i figli. Bambini cresciuti in un clima di violenza, omertà e sopraffazione: uno sfondo costante, un destino già stabilito, al quale difficilmente possono opporsi. Bambini che invece di giocare vanno a trovare il padre nascosto in un bunker, invece di sbucciarsi le ginocchia imparano a sparare. Bambini che poi crescono e, a 14 anni, non corteggiano le amiche a scuola, ma vengono affiliati con il rito del battesimo per poter diventare futuri uomini d’onore. Ma come vivono da giovani mafiosi? C’è chi è affascinato dal potere, chi cresce convinto che sia la violenza l’arma giusta, e la padroneggia senza battere ciglio; ma c’è anche chi rinnega la scia di sangue che il proprio nome si porta dietro. Come aiutarli? È difficile entrare nei loro pensieri, comprenderne esigenze, intime necessità e desideri inespressi. Ma una domanda è d’obbligo: se conoscessero un altro modo di crescere cosa accadrebbe? E cosa è accaduto a chi ci ha provato?» Questa la presentazione di Bambini a metà. I figli della ’ndrangheta, della giornalista Angela Iantosca (Giulio Perrone Editore, 15,00 euro). Attraverso le carte giudiziarie e le parole di pubblici ministeri, giudici, psicologi, educatori, Angela Iantosca tratteggia un mondo inesplorato, raccontando storie e analizzando i possibili scenari di intervento a tutela dei minori prigionieri della ’ndrangheta. Con la prefazione di Enzo Ciconte. 41 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Riparte il futuro, la campagna apartitica e trasversale di Gruppo Abele e Libera che ha per obiettivo quello di contrastare il fenomeno della corruzione attraverso l’agire della società civile, a gennaio ha compiuto due anni. Forte di quasi 800mila firmatari che la rendono l’iniziativa online più partecipata d’Italia, è una campagna di successi e di sconfitte, più in generale di qualche buona notizia in una stagione di terribile cronaca: Mose, Expo, Mafia capitale sono solamente i casi più noti degli ultimi mesi. L’obiettivo più ambizioso di Riparte il futuro non è raggiungere un milione di firme, mantra che ripetiamo spesso per far comprendere quanto sia importante essere in molti; ma è morire, scomparire, smettere di avere un ruolo. Ci auguriamo che nel prossimo domani non si renda più necessaria un’iniziativa dal basso per evidenziare la più banale e lampante delle verità: che la corruzione distrugge l’economia sana, i diritti sociali, la stessa convivenza umana, e non conviene mai. Solamente in un Paese in costante emergenza morale è necessario che sia la cittadinanza a ricordarlo. Sino a quando però la lotta alla corruzione sarà percepita come sola battaglia di qualcuno “più etico” degli altri, Riparte il futuro dovra continuare a esistere. Riparte il futuro ha scelto un nome senza alcun rimando alla corruzione: perché vogliamo già pensare a un mondo senza corrotti, corruttori e clan criminali. Quanto all’advocacy verso le istituzioni nazionali, dopo aver raggiunto nel 2014 l’obiettivo della riforma del voto di scambio politico-mafioso, abbiamo proposto lo stop ai vitalizi per ex deputati e senatori condannati per mafie e corruzione (www. riparteilfuturo.it/stopvitalizio), poi la modifica del meccanismo della prescrizione (www. riparteilfuturo.it/prescrizione), e il miglioramento di tutta la disciplina anticorruzione. Siamo quindi saliti sino all’Unione Europea, chiedendo tramite www.restartingthefuture. eu una direttiva europea per il whistleblowing, affinché in tutti i 28 Paesi comunitari, Italia in primis, sia difeso chi “fischia” contro la corruzione segnalando illeciti. Proprio in dicembre abbiamo presentato un report al Parlamento europeo. Nel 2014 ci siamo concentrati anche sui Comuni, con l’iniziativa #electionday2014, proponendo l’adozione della delibera “trasparenza a costo zero” (www.riparteilfuturo.it/elezioni-2014/delibera-trasparenza-acosto-zero/), per moltiplicare e diffondere a macchia d’olio efficaci politiche anticorruzione. Abbiamo dunque chiesto trasparenza e integrità a specifici mondi di pubblica amministrazione, sostenendo il monitoraggio civico della rete Illuminiamo la salute (www.illuminiamolasalute.it) attiva sui temi sanitari, e chiedendo alle 66 Università pubbliche italiane le massime tutele per chi segnala episodi di corruzione (con www.riparteilfuturo.it/istruzione). Abbiamo raccolto, dal dialogo con i territori di Libera, proposte nate dal basso, come nel caso della richiesta, accordata, dell’audizione del maresciallo Nistri a Pompei, o per chiedere un fondo speciale trasparente per la ricostruzione della Liguria post-alluvione. Quanto compiuto è e resta troppo poco rispetto a quanto ancora da compiere. Ci sentiamo rafforzati dalle parole del neoeletto presidente Sergio Mattarella, secondo cui «la lotta alle mafie e alla corruzione è priorità assoluta e richiede persone oneste, competenti, tenaci». Anche per questo, il migliore augurio per il 2015 che si possa fare alla campagna è che sia l’anno della sua conclusione. È un ottimo augurio per l’Italia intera, perché, finalmente senza Riparte il futuro, significherà che in questo Paese il futuro è davvero ripartito. a cura di Leonardo Ferrante Una battaglia di tutti altarisoluzione 42 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie “Gridas” di riscatto Colori, maschere, percussioni e balli tra i palazzi e il cemento grigio di Scampia. Sul viale principale, nei cortili delle Case dei Puffi, tra le Vele che tutti in quartiere vorrebbero abbattere, il 33esimo carnevale organizzato dal GRIDAS (Gruppo di Risveglio Dal Sonno, richiamo a una delle incisioni della “quinta del sordo” di Francisco Goya: “el sueño de la razon produce monstros”) il 15 febbraio scorso ha attraversato Scampia per riportare attenzione e visibilità su un territorio abbandonato a se stesso, preda di istituzioni assenti o distratte. «Per cambiare questo Paese e risvegliare le coscienze – ha spiegato Mirella, ex insegnante di Lettere e promotrice del carnevale GRIDAS – è necessario partire dal basso, dalle periferie come Scampia e dalla scuola», ed è per questo che il tema centrale cui quest’anno si è ispirato il corteo è stato proprio la qualità delle istituzioni scolastiche. di Emilio Fabio Torsello – foto di Rosita Rijtano e E.F. Torsello 43 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 44 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie A dare il “titolo” al carnevale, lo slogan: “«CIUCCI PER CHE E PER CHI ovverossia SCUOLA/Scuola MAL-TRATTATA», in riferimento – si legge sul sito del GRIDAS – alla pessima situazione in cui versa la scuola pubblica al pari degli altri servizi pubblici in Italia, ma con l’aggravante che la scuola deve (o dovrebbe) formare il futuro del paese. Tagli, precarietà, incompetenze e favoritismi vari contro chi combatte ogni giorno per riaffermare diritti che si credevano ormai acquisiti. Di contro, esperienze di lotta e resilienza dal basso che «fanno scuola” e che possono insegnare a chi fa della scuola “un mestiere”». Senza dimenticare la questione sociale direttamente legata all’urbanistica: le Vele. Quell’alveare grigio di esistenze stipate va abbattuto e riprogettato in un’ottica di socialità costruttiva, assicurando alle famiglie una casa e una vita dignitosa. Perché la dignità di un quartiere passa anche e soprattutto attraverso le abitazioni. Quello delle Vele è un problema vecchio di decenni, emblema di un Paese immobile, dimentico di vite ed esistenze lontane dai Palazzi della politica. altarisoluzione 45 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 46 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie 47 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Tre reati all’ora «Nelle banche straniere transitano soldi accumulati trafficando rifiuti», scrive Lagambiente, ed è paradigmatico il caso dello smaltimento di sostanze tossiche nella tristemente nota Terra dei fuochi, con il loro interramento nei campi coltivati, nelle cave e lo sversamento nei fiumi compiuto con l’intermediazione di società controllate dai boss. Oggi il migliore alleato di chi inquina continua ad essere la prescrizione. L’estinzione del reato ha interessato molti dei più importanti processi penali italiani su crimini e disastri ambientali, come accaduto nel maxi-processo scaturito dall’operazione “Cassiopea” sul traffico illecito dei rifiuti speciali sversati in alcune regioni del Sud o nell’inchiesta “Artemide” sui materiali interrati nella piana di Sibari. Ma il filo rosso dell’archiviazione ha unito anche le sentenze sui disastri ambientali per le discariche di rifiuti tossici della Montedison di Bussi, dell’Eternit di Casale Monferrato e dell’ex colorificio Marlane di Praia a Mare. Eppure, negli ultimi vent’anni, le commissioni parlamentari d’inchiesta sulle ecomafie hanno evidenziato più volte come questa “falla” del nostro codice penale permetta agli inquinatori di farla franca. La giustizia dispone di armi spuntante, mentre in alcune zone del paese l’ecomafia continua a uccidere e a far ammalare le persone. Delitti contro l’ambiente e tumori, un legame messo spesso in dubbio anche dalle più alte cariche governative, ma che appare drammaticamente reale in alcune zone del Paese come la Campania. Lo ha ricordato recentemente sul «Corriere del Mezzogiorno» don Maurizio Patriciello, il parroco di Caivano, in prima linea nella lotta ai pirati ambientali nella terra dei Fuochi, portando come esempio il triste dato del suo paese: «Il 70% delle 300 persone che muoiono a Caivano in un anno, muore per cancro. Tra questi, purtroppo, la maggior parte in giovane o giovanissima età». Tra vittime e carnefici poi, come capita in ogni guerra, anche quella contro l’ecomafia ha i suoi eroi. Persone semplici e coraggiose come Natale De Grazia, morto nel 1995 per «causa tossica», quindi avvelenato, mentre indagava sulle cosiddette navi dei veleni, o come Roberto Mancini il poliziotto ucciso nel 2014 da un tumore provocato dalle sostanze tossiche sprigionate dalla terra. Non ultimo, è giusto ricordare anche Michele Liguori, il vigile urbano di Acerra sconfitto da due tumori a 59 anni dopo essersi battuto a lungo contro il proliferare delle discariche abusive. Compito di questa rubrica sarà dunque quello di fornire ai lettori una rassegna stampa che faccia il punto su nuove e vecchie inchieste riguardanti i delitti contro l’ambiente, un quadro d’insieme che bimestre dopo bimestre serva a ribadire l’assoluta necessità di varare al più presto delle leggi capaci di far fronte a questa grave emergenza criminale dopo anni di attese infruttuose. a cura di Massimiliano Ferraro A partire da questo numero una nuova rubrica vi farà compagnia sulle pagine di «Narcomafie». Sarà uno spazio interamente dedicato all’ecomafia e all’illegalità ambientale, una piaga che nel nostro paese è sempre più in preoccupante espansione. Infatti, mentre l’attuale codice penale ignora i crimini contro l’ambiente e la nuova legge in materia è ancora ferma in Parlamento, non passa settimana senza che vengano aperte nuove inchieste giudiziarie per questo genere di reati. Da Nord a Sud le mafie e i poteri corrotti inquinano e deturpano. A confermarlo c’è l’ultimo rapporto sull’ecomafia di Legambiente, con dati che lasciano pochi dubbi sul dilagare incontrollato del fenomeno: 80 reati al giorno, più di tre l’ora. Rifiuti, agroalimentare, ciclo del cemento e fauna sono i settori che permettono agli eco-criminali di mettere le mani su un business gigantesco, stimabile in ben 15 miliardi di euro all’anno. A fare affari d’oro, anche a costo di mettere a rischio la salute dei cittadini, sono soprattutto le organizzazioni criminali, in particolare la camorra e la ’ndrangheta, anche se mai come attraverso il sistema ecomafioso la linea di confine tra il potere mafioso e il mondo politico-economico appare incerta. Decine di processi hanno individuato le collusioni esistenti tra i clan ecocriminali e i personaggi della politica e della pubblica amministrazione, senza dimenticare il ruolo nefasto ricoperto degli imprenditori-criminali. 48 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Messico Desaparecidos, la piazza si mobilita In Messico la linea che divide l’autorità statale dalla mafia si è fatta troppo sottile. Il caso dei 43 studenti desaparecidos porta a galla le contraddizioni di un paese in grave emergenza democratica. E la popolazione inizia a dire “basta” di Orsetta Bellani 49 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie La sera del 20 novembre scorso non c’era un angolo libero nello Zócalo di Città del Messico, una delle piazze più grandi del mondo. Tre cortei sono confluiti nel centro della metropoli, marciando al seguito dei genitori dei 43 studenti della scuola normal rural di Ayotzinapa (stato di Guerrero) di cui non si hanno notizie dallo scorso 26 settembre. Insegnanti, studenti, organizzazioni popolari e per i diritti umani, cittadini di ogni tipo hanno sfilato per ore nelle vie del centro, gridando slogan e mostrando striscioni, mentre azioni di solidarietà si svolgevano in più di 200 città di tutto il mondo. «Oggi il popolo messicano si trova qui per pretendere chiarezza dallo stato assassino», ha dichiarato al termine della manifestazione Felipe de la Cruz, padre di uno studente desaparecido, davanti a una piazza che era già colma di persone quando la coda dei tre cortei non l’aveva ancora raggiunta. Manifestazioni senza sosta. Dal giorno della sparizione degli studenti, il Messico non smette di marciare. Nel giro di due mesi sono stati convocati quattro scioperi generali in solidarietà con gli studenti desaparecidos di Ayotzinapa, e ogni giorno nella capitale si assiste a una manifestazione. In tutto il paese vengono bloccate autostrade, aeroporti, municipi. «Settori della popolazione che normalmente non sono organizzati stanno dimostrando la loro indignazione; si avverte la voglia di protestare e occupare le strade – racconta a «Narcomafie» un’integrante del Colectivo Acción Feminista Antisistémica – sono due mesi che manifestiamo senza sosta». Non si tratta solo dei 43 studenti di Ayotzinapa ma, secondo dati del Sistema Nacional de Seguridad Pública (SNSP), di circa 100mila morti e quasi 24mila desaparecidos dal 2006 ad oggi, da quando l’ex presidente Felipe Calderón lanciò la “guerra al narcotraffico”. Allora l’esercito venne inviato a presidiare le strade il paese per combattere la criminalità organizzata e, invece di mettere un freno alla sua espansione, iniziò il silenzioso massacro di un popolo. Le scuole normali rurali. In Messico le scuole normales rurales, come quella in cui studiavano i ragazzi scomparsi, sono istituti magistrali delle zone rurali, in cui i figli di piccoli agricoltori studiano per diventare maestri delle nuove generazioni di contadini. Sono solo 15 in tutto il paese e sono note per l’impegno politico e sociale dei suoi studenti. Nella scuola normale rurale del paese di Ayotzinapa, nel meridionale stato di Guerrero, hanno studiato Lucio Cabañas Barrientos e Genaro Vázquez Rojas, leader contadini che impulsarono la lotta armata negli anni ’60 e ’70. Secondo il governo, l’istituto è ancora un nido di guerriglieri. Lo scorso 26 settembre, un gruppo di ragazzi della scuola di Ayotzinapa si trovava nella vicina Iguala a raccogliere fondi per partecipare alle celebrazioni dell’anniversario del massacro che avvenne a Tlatelolco (Città del Messico) il 2 ottobre 1968, quando l’esercito sparò contro un’assemblea di studenti. Di ritorno dalla loro attività, i giovani occuparono tre autobus e furono attaccati dalla Polizia Municipale di Iguala e Cocula, che fece fuoco contro di loro. Poco più tardi, mentre stavano improvvisando una conferenza stampa nel luogo dell’aggressione, un commando di civili attaccò nuovamente gli studenti magistrali, con le stesse armi in dotazione alla polizia locale. In seguito la polizia sparò anche contro un autobus di una squadra di calcio, pensando che fosse un autobus di studenti, uccidendo l’autista, un ragazzo di 15 anni e una passante. In totale, il saldo dell’aggressione fu di sei morti, 33 feriti e 43 studenti desaparecidos, spariti nel nulla. A Julio César Mondragón, uno ragazzo del primo anno, sono stati asportati gli occhi e la pelle dal viso, ed è rimasto solo il cranio ricoperto di sangue; il suo compagno di stanza è riuscito riconoscere il suo cadavere solo grazie alla maglietta rossa che indossava il cadavere, la stessa che portava il primo giorno di scuola. Non lontano dalla sparatoria si trovava una base militare, ma l’esercito è intervenuto solo dopo due ore dall’attacco e, secondo la testimonianza di Omar García, uno studente sopravvissuto all’aggressione, una volta arrivato ha picchiato e arrestato i ragazzi. «Finalmente è stato fatto ordine», ha titolato il giorno seguente il quotidiano «Diario de Guerrero». Il ruolo del sindaco e sua moglie. La versione diffusa dalla procura per spiegare i fatti è che quando i ragazzi occuparono gli autobus si trovavano vicini a un incontro pubblico in cui María 50 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie de los Ángeles Pineda, moglie dell’ex sindaco di Iguala José Luis Abarca del Partido de la Revolución Democrática (PRD, centro-sinistra), stava esponendo i risultati del suo lavoro per il municipio. Secondo i servizi di intelligence messicani, il sindaco Abarca avrebbe ordinato alla polizia locale di impedire agli studenti di raggiungere la piazza, chiedendo di «perseguitarli, arrestarli e dare loro una punizione». Il sindaco e la moglie sono vicini al cartello criminale dei fratelli Beltrán Leyva e la procura li considera autori intellettuali dell’attacco. I due coniugi, ribattezzati dai media “coppia imperiale” a causa dello strapotere che esercitavano nella zona, sono stati profughi per 34 giorni e arrestati il 5 novembre in una casa di Città del Messico. Il 23 ottobre la tensione irrespirabile spinse il Governatore di Guerrero, Ángel Aguirre Rivero, ad abbandonare il suo incarico. Pochi giorni dopo Sidronio Casarrubias Salgado, leader del cartello Guerreros Unidos – nato da una costola di quello dei Beltrán Leyva –, lo ha accusato di fronte a un giudice di essere l’amante della moglie dell’ex sindaco di Iguala. Secondo il narcotrafficante, la donna sarebbe a capo dell’organizzazione criminale e i Guerreros Unidos avrebbero finanziato la campagna elettorale dell’ex governatore Aguirre Rivero. Il narcotrafficante al momento si trova in carcere insieme ad altre 80 persone, ma 42 studenti risultano ancora desaparecidos. Quarantadue famiglie ogni giorno sperano di vedere tornare a casa i propri figli, nell’attesa costante di qualcuno che non si sa se è vivo o morto. Prove troppo deboli. Solo un corpo – ridotto in polvere – è apparso finora. È di Alexander Mora Venancio, 19 anni, i cui resti bruciati sarebbero stati trovati in una borsa rinvenuta nel fiume San Juan, vicino alla discarica di Cocula, nei pressi di Iguala. L’identità del cadavere carbonizzato è stata stabilita dai periti dell’Università di Innsbruck (Austria) dopo aver analizzato il contenuto della borsa. Gli esperti hanno avvisato che sarà difficile ottenere altri risultati dalle analisi, visto lo stato in cui si trovano i resti. La scoperta dell’Università austriaca conferma la versione offerta dalla procura, secondo cui la notte del 26 settembre la Polizia Municipale avrebbe sequestrato i 43 studenti per consegnarli al cartello criminale Guerreros Unidos, che li avrebbe portati alla discarica di Cocula per ucciderli e bruciarli. Questa versione è basata unicamente sulla testimonianza di due criminali e contiene varie incongruenze. Il rogo dei 43 corpi – bruciati con legna, plastica e pneumatici per circa 14 ore, secondo la testimonianza dei due narcos – avrebbe dovuto produrre molto fumo e incendiare gli alberi circostanti, ma la gente che vive nella zona non si è accorta di nulla e la vegetazione è rimasta intatta. Inoltre, secondo ricercatori dell’Universidad Nacional Autónoma de México (UNAM) e dell’Universidad Autónoma Metropolitana (UAM), è scientificamente impossibile che i due uomini abbiano potuto cremare in loco i corpi dei ragazzi. Come se non bastasse, secondo un reportage della giornalista messicana Marcela Turati, quella notte pioveva nella discarica di Cocula mentre i corpi dei ragazzi venivano bruciati. E un gruppo indipendente di periti forensi argentini avverte che non esiste nessuna prova che i resti rinvenuti nella borsa e analizzati ad Innsbruck provengano davvero da quella discarica. «Ho imparato a non credere alle versioni governative anche quando sembrano verosimili», ha dichiarato al Manifesto Anabel Hernández, autrice di saggi sulla criminalità organizzata in Messico. Mafia, politica e militari. Ci fu un grande clamore intorno al ritrovamento, il 4 ottobre scorso, di una fossa comune nei pressi di Iguala dove si pensava potes- 51 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie sero essere stati gettati i ragazzi. Gli abitanti della zona erano però scettici riguardo al fatto che fossero proprio i 43 studenti di Ayotzinapa, e riferirono alla stampa che spesso davanti alle loro case passavano camion maleodoranti che sospettavano trasportassero cadaveri. Dall’inizio delle operazioni di ricerca nel Municipio di Iguala e nelle zone limitrofe le fosse comuni spuntano come funghi, e finora sono stati rinvenuti 55 cadaveri. Di chi sono tutti questi corpi senza vita? A metà novembre, più di 70 persone risposero a un appello pubblicato in un periodico locale, che chiedeva a tutti coloro che avessero un famigliare desaparecido nella zona di presentarsi nella chiesa San Gerardo María Mayela di Iguala per consegnare un proprio campione di Dna. Queste persone confessarono alla stampa locale che per loro era una tortura vedere l’accanimento con cui le autorità si concentravano nella ricerca dei 43 studenti di Ayotzinapa, come se fossero più importanti dei loro famigliari scomparsi. «Padre Alejandro Solalinde, difensore di diritti umani, descrive il Messico in modo contundente: è una grande fossa comune», ricorda a «Narcomafie» il giornalista e scrittore messicano Gaspar Morquecho Escamilla. «In particolare, lo stato di Guerrero ha una lunga storia di violenza. Non molto tempo fa scoprirono delle fosse comuni dove vennero gettati dei guerriglieri negli anni ’70, dopo averli sequestrati ed uccisi». Secondo il libro di Diego Osorno Il cartello di Sinaloa, una storia dell’uso politico del narco, negli anni ’70 il capo del narcotraffico Alberto Sicilia Falcón e un gruppo di alti ranghi militari portarono nello stato di Guerrero le coltivazioni di oppio e marijuana. Gli studenti di Ayotzinapa sono stati vittime delle buone relazioni fra mafia, politica e militari che quattro decadi fa crearono le basi dell’impunità, convertendo Guerrero in uno stato in cui il tasso di omicidi è quasi il triplo del nazionale. Ma la collusione tra le istituzioni e la criminalità organizzata non è un problema solo dello stato di Guerrero. Non è certo un caso se il Messico viene definito un “narcostato”, ovvero un sistema politico in cui la linea che divide le autorità dalla mafia si è fatta così sottile da rendersi invisibile. Se l’impunità regna sovrana. I manifestanti che da più di due mesi riempiono le strade di tutto il Messico chiedono le dimissioni del presidente Enrique Peña Nieto, considerato responsabile della situazione di estrema violenza in cui versa il paese. Dal giorno della sua entrata in carica, due anni fa, sono state assassinate più di 41mila persone, e a seguito della sparizione degli studenti di Ayotzinapa la sua immagine risulta gravemente compromessa, anche a livello internazionale. Il New York Times ha definito “fallimentare” la politica di sicurezza di Enrique Peña Nieto, e ricordato l’impunità che vige in Messico. «Quando il crimine organizzato o le forze di sicurezza commettono un omicidio, sanno che ci sono molte probabilità che il delitto rimanga impune», scrive l’autorevole quotidiano statunitense. Più prudenti sono stati il go- verno degli Stati Uniti, che ha offerto al presidente tutto il suo appoggio in materia di sicurezza, e il Parlamento Europeo, che a novembre ha manifestato la sua solidarietà al governo messicano definendo “inaccettabile” la sparizione degli studenti magistrali. Poi, il 9 dicembre, il parlamento di Bruxelles ha aperto la porta a un gruppo di attivisti che hanno esposti i ritratti dei 43 ragazzi scomparsi nell’emiciclo, e hanno denunciato le incongruenze della versione della procura messicana e l’impunità che regna nel paese. Anche Jim Yong Kim, presidente della Banca Mondiale, ha detto la sua durante una visita in Messico, dove ha manifestato solidarietà con le famiglie degli studenti scomparsi e ha chiesto che venga fatta giustizia. Ma è soprattutto la società civile a mobilitarsi per Ayotzinapa, oltre che in Messico, nei quattro angoli del pianeta. In Italia sono state numerose le manifestazioni e Libera ha proposto la creazione di una commissione internazionale di ricerca e cooperazione tecnica per la ricerca degli studenti scomparsi, che conterebbe sull’assistenza dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e specialisti dell’Unione Europea. Gli occhi del mondo sono quindi puntati sul Messico, dove Enrique Peña Nieto sta reagendo con violenza alle proteste, reprimendo le marce e incarcerando i manifestanti. Se i messicani non si stancheranno di scendere in strada e le pressioni internazionali continueranno, probabilmente sarà costretto ad abbandonare la presidenza. Intervista a Román Hernández 52 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie di Orsetta Bellani Le manifestazioni della società civile messicana a seguito della sparizione dei 43 studenti ad Iguala hanno fatto conoscere all’opinione pubblica internazionale la brutalità della violenza in Messico e la corruzione della sua classe politica, ma anche la capacità di mobilitazione di un popolo stanco. A Città del Messico abbiamo incontrato Román Hernández Rivas del Centro di Diritti Umani Tlachinollan, che lavora a tu per tu con gli studenti di Ayotzinapa e con le famiglie dei ragazzi scomparsi. Perché la guerra al narcotraffico promossa dal governo messicano nel 2006, invece di sconfiggere la criminalità organizzata, ha causato violazioni ai diritti umani? Nel 2000, quando il Partido Revolucionario Institucional (PRI) perse la presidenza della repubblica ed entrò Vicente Fox del Partido de Acción Nacional (PAN), s’interruppe l’egemonia che il PRI aveva da circa 80 anni. Non si trattava solo di egemonia politica, ma di controllo della produzione e distribuzione di droga: negli anni ’70 lo stato messicano produceva eroina e oppio che vendeva agli Stati Uniti. Esisteva un’industria statale della droga, è un fatto documentato. Queste coltivazioni non vennero mai sradicate e con gli anni lo stato perse il dominio sulla produzione della droga, lasciando spazio ai cartelli criminali. Quando il PAN arrivò al governo si crearono divisioni tra i gruppi del narco nella lotta per il controllo territoriale. La situazione peggiorò nel 2006, quando il governo annunciò la guerra al narcotraffico, e l’esercito iniziò ad operare frontalmente come attore armato all’interno dello stesso territorio. Non capiamo esattamente quale sia il gioco dell’esercito, se sta appoggiando uno dei cartelli, se nel tentativo di indebolire uno finisce per rinforzare un altro, o se sta attaccando tutti allo stesso modo. La situazione di crisi attuale che vive il Messico, di violazione dei diritti umani commessa da servitori dello stato, si aggravò ulteriormente nel 2008 con la Iniziativa Mérida, un piano di sicurezza progettato dagli Stati Uniti, che si concretizza nella militarizzazione del paese. La società civile si trova al centro di questa disputa per il controllo territoriale tra cartelli del narco, e tra di essi e l’esercito, e cerca di difendere il territorio conteso. Perché lo stato decide di far sparire le persone invece di ucciderle? Non possiamo dire perché lo fa, ma possiamo parlare delle conseguenze generate dalla desaparición forzada. Quando una persona scompare i suoi cari sentono ansia, paura e incertezza, non sanno cosa sta succedendo. L’omicidio e la desaparición forzada – che per definizione viene operata da servitori dello stato – si toccano nel punto che rappresenta la frontiera fra la delinquenza organizzata e lo stato messicano, come attori che sono impregnati l’uno dell’altro. Perché considerate il presidente Enrique Peña Nieto responsabile dei fatti di Iguala? Il crimine è stato commesso dalla Polizia Municipale, non potrebbe essere stato un ordine del sindaco di Iguala, José Luis Abarca, senza l’intervento del governo federale? Il vincolo tra il narco e lo stato non inizia ad Iguala il 26 settembre. Il Messico si può definire un “narcostato” perché la criminalità organizzata ha tanto potere da poter fare eleggere i sindaci, iniettando soldi alle campagne elettorali. Lo stato non è intervenuto per rispondere alle denunce che indicavano alcuni sindaci come parte del crimine organizzato, la sua responsabilità è quindi per omissione e Peña Nieto è responsabile essendo il titolare dell’esecutivo federale. Ma la delinquenza organizzata non è iniziata con lui, lo stato ha creato le condizioni perché fatti come quello di Iguala potessero accadere. La criminalità organizzata è un’inerzia che lo stato sta trascinando da più di 40 anni, che è prodotto delle sue azioni e omissioni. Con un panorama come questo, le famiglie degli studenti di Ayotzinapa credono che lo stato possa fare giustizia? Le rivendicazioni dei genitori dei ragazzi sono cambiate dal 26 settembre ad oggi. All’inizio pretendevano che il governo dello stato di Guerrero riportasse a casa i loro figli, poi chiesero l’intervento del governo federale. In questo momento non hanno più fiducia in nessuno e sono convinti che Peña Nieto stia solo cercando di “ripulire” la sua immagine, per continuare a girare il mondo svendendo agli investitori stranieri le risorse naturali del paese. Il movimento che si è formato in solidarietà con Ayotzinapa chiede la rinuncia di Peña Nieto. Che cosa vi aspettate da un’eventuale uscita di scena del presidente? Considerate che la sua rinuncia potrebbe portare a un cambio reale nel paese? Il movimento chiede la rinuncia del presidente perché è considerato responsabile della violenza di stato, e quindi di quello che è successo ai ragazzi. Ad ogni modo gli studenti di Ayotzinapa affermano che il problema non è Peña Nieto in sé, ma la struttura su cui si sostiene il sistema politico, che permette a una figura come la sua di stare al potere. Gli studenti stanno cercando reali garanzie di non ripetizione di quello che è successo, e non le possono chiedere allo stato messicano visto che lui stesso commette violazioni ai diritti umani. Per questo la popolazione ha occupato una ventina di municipi nello stato di Guerrero, dove si sono formati consigli popolari con l’idea di generare un processo di costruzione politica dal basso, che stabilisca spazi donde si possano prendere decisioni collettivamente e fuori dalla politica partitica. È un esperimento che prende ad esempio le Giunte di Buon Governo presenti in territorio zapatista. 53 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie ricalcano in qualche modo le regioni della Tripolitania e della Cirenaica – è compromessa dal controllo territoriale esercitato qua e là da numerose milizie, alleate dell’uno o dell’altro “governo” oppure combattenti in proprio: in particolare, sono presenti sulle coste mediterranee centrorientali gruppi jihadisti, tra cui l’IS, in espansione anche altrove nel Paese. Da anni, in Libia, chi ha il potere delle armi cerca di controllare le aree estrattive, e le relative infrastrutture. Ma per ognuno dei due “governi” qualsiasi ipotetica idea di cercare di trincerarsi nella propria sfera d’influenza al fine di sfruttarne le risorse energetiche è sinora apparsa impraticabile. Se oggi in Libia coesistono, con paradossali esiti, due ministeri del petrolio in lizza tra loro, la presenza a Tripoli della sede principale della Banca centrale libica (a cui affluiscono gli introiti del settore energetico e a cui fanno capo le restanti riserve estere) e del Noc (National Oil Corporation, la compagnia petrolifera di Stato) hanno spinto sinora i due “governi” ad infruttuosi tentativi di contendersi la gestione delle risorse libiche, accelerando così un prossimo dissesto finanziario del Paese. Che in Libia la diplomazia abbia successo o no, che l’Is dilaghi o venga contenuto, che prenda il via una missione Onu o l’ennesima iniziativa armata altrui, occorre farsi trovare pronti ad ogni evenienza. E questo pare essere, nella situazione presente, un altro cruciale significato del termine prudenza. criminalità e dintorni Mezzi e risorse inadeguati penalizzano invece l’Agenzia dell’Unione per il controllo delle frontiere esterne, Frontex (il cui nuovo direttore esecutivo è il francese Fabrice Leggeri, ex capo della divisione “Lotta all’immigrazione clandestina” del ministero degli Interni dell’Esagono): tale ente sovrintende al programma europeo Triton, che ha fatto seguito (senza poterla e volerla sostituire) alla precedente operazione italiana Mare Nostrum, che si avvaleva di mezzi maggiori ma con costi molto superiori e giudicati non sostenibili per l’Italia. Dovrebbe pure far riflettere, in merito al potenziale pericolo IS, quanto avvenuto di recente a sud di Lampedusa, dove quattro scafisti a bordo di un barchino, minacciando con i kalashnikov guardacoste italiani disarmati, impegnati a soccorrere e trasbordare migranti da un barcone, hanno ottenuto la pronta restituzione dell’imbarcazione. Nel frattempo, l’inviato Onu Bernardino León tenta per l’ultima volta di portare al negoziato le principali parti belligeranti libiche. Ma è ancora possibile la rapida creazione di un governo di unità nazionale? L’iniziativa diplomatica è ostacolata dall’intransigenza di parti combattenti quali i due “governi” libici nemici – quello legittimo, scaturito dalle elezioni del 2014, oggi riparato a Tobruk, e quello filo-islamico insediatosi con la forza a Tripoli – finora restii a compromessi e negoziati. Persino la spartizione, da parte dei due “governi”, della Libia centrosettentrionale in due aree di influenza est ed ovest – che cronachesommerse Con la mobilitazione delle forze speciali italiane in prossimità delle acque libiche (e in particolare di quelle coste tripolitane da cui i trafficanti fanno partire i barconi dei migranti e presso le quali si trovano le maggiori infrastrutture Eni, incluse quelle, offshore, con nostri connazionali) il governo sembra avere scelto – lungi da interventismi bellicisti irragionevoli – la via della difesa prudente della sicurezza, nonché di importanti realtà economiche italiane in Libia. Il nostro Paese è, in Europa, quello più immediatamente esposto, specie in termini di sicurezza, alle minacce del conflitto libico. Eppure, in una simile congiuntura, il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, ha nominato di recente il francese Michel Barnier consulente speciale su difesa e sicurezza europee, sminuendo di fatto il ruolo dell’italiana Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Proprio la Francia dispiega oggi un forte contingente militare antijihadista in Mali, Ciad e Niger, dove dispone di una base a soli 100 km dal territorio libico. L’Esagono spalleggia la linea interventista in Cirenaica (dove ha con Total interessi in aree petrolifere) dell’Egitto, a cui venderà 24 aerei da caccia Rafale: lo stesso tipo di veivoli che, con i Super Étendard, si trovano a bordo della portaerei Charles de Gaulle, ora nel Golfo Persico per i raid aerei contro l’IS (Stato islamico), scortata da un sottomarino nucleare d’attacco e navi d’appoggio. di Andrea Giordano Libia, la via della prudenza rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 54 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Brasile, scandalo corruzione Rio de Janerio Lo scorso 4 febbraio, Maria Graça Foster, presidentessa del colosso energetico statale Petrobras, e l’insieme della direzione generale della società hanno annunciato in blocco le dimissioni. «Petrobras informa che il suo consiglio di amministrazione si riunirà per scegliere una nuova direzione dopo la rinuncia della presidente e dei suoi cinque dirigenti», ha dichiarato il gruppo in un comunicato ufficiale ai mercati. Dall’autunno scorso, Petrobras è stata investita da un clamoroso scandalo di corruzione con ramificazioni politiche: secondo gli inquirenti solo nell’arco di 10 anni almeno quattro miliardi di dollari sarebbero stati dirottati dalle casse della società alle tasche di dirigenti e parlamentari della coalizione di maggioranza. I nomi dei coinvolti sono coperti dal segreto d’inchiesta, anche se lo scorso 4 marzo il procuratore brasiliano ha chiesto alla Corte suprema di aprire un’inchiesta al fine di processare i 54 politici accusati di aver intascato le mazzette di Petrobas, tra cui il presidente della Camera e quello del Senato. La popolarità di Dilma Rousseff – presidentessa del Brasile, rieletta lo scorso ottobre 2014 per il secondo mandato – già in grosso calo a causa del peggioramento delle stime di previsione di crescita del Paese, ha subito un peggioramento netto dopo lo scandalo dei fondi neri di Petrobras, che ha irritato l’opinione pubblica e intaccato l’immagine del Partito dei lavoratori (Pt), che secondo le indiscrezioni avrebbe ricevuto centinaia di milioni di euro in fondi neri. L’inchiesta include anche alcune delle più importanti aziende del Brasile che avrebbero versato tangenti a Petrobras per ottenere contratti. Foster è una stetta conoscente della Presidente, ha svolto la sua carriera alla Petrobras, alla cui guida Dilma Rousseff l’aveva nominata nel 2007. Secondo la stampa nazionale, da tempo Rousseff meditava di allontanare Foster dall’incarico: la goccia che ha fatto traboccare il vaso sarebbe arrivata a fine gennaio quando, dopo diversi rinvii, è stato pubblicato il bilancio del terzo trimestre 2014, senza che fosse certificato da un audit esterna e che vi fossero menzionate le perdite dovute alla corruzione. Dati che tuttavia Foster ha ammesso a voce, stimando in 88,6 miliardi di reais (circa 32,8 miliardi di dollari) i danni inflitti all’azienda da malaffare ed errori amministrativi. Da settimane tutti i media nazionali sono concentrati ad analizzare e commentare il giudizio su Dilma Rousseff, perché lo scandalo per corruzione oltre ad aver implicato la rinuncia dei vertici di Petrobras ha comportato il fermo del tesoriere del suo partito (Pt), João Vaccari Neto, chiamato a deporre perché sospettato di aver “sollecitato donazioni legali e illegali” a diverse imprese partner di Petrobras, adesso sotto inchiesta. Secondo il sondaggio di Datafolha, il 52% degli intervistati pertanto ritiene che Rousseff, avendo anche guidato il consiglio di amministrazione di Petrobras quando era ministro dell’Energia del governo di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-2010), fosse perfettamente a conoscenza della rete di corruzione. Desaparecidos la “verità” non convince Città del Messico La versione ufficiale è che i 43 studenti allievi della Escuela Normal Rural de Ayotzinapa, «desaparecidos» dallo scorso 26 settembre a Iguala, nello stato di Guerrero (sud del Messico), siano stati uccisi da sicari del gruppo di narcotrafficanti Guerreros Unidos, e i loro corpi bruciati, alcuni mentre erano ancora vivi, in una discarica della vicina località di Cholula. Questa la versione fornita dal procuratore generale Jesus Murillo Karam. «Sono conscio dell’enorme dolore che produce questa notizia», ha detto a tutti i media presenti in conferenza 55 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie stampa a Chilpancingo, capitale di Guerrero, lo stesso Murillo, sottolineando che formalmente gli studenti saranno considerati «desaparecidos» finché non si potranno identificare i loro resti. Lavoro, quest’ultimo, particolarmente arduo perché, dopo averli uccisi, i sicari dei narcos hanno ricevuto l’ordine di spezzare le ossa delle loro vittime in piccole parti al fine di cancellare ogni traccia della strage. Il procuratore federale ha inoltre dichiarato che le persone arrestate hanno confessato di aver ucciso gli studenti, precedentemente attaccati e poi detenuti dalla polizia municipale di Iguala, su ordine del sindaco della cittadina, Josè Luis Abarca (ad oggi considerato il mandante della strage insieme con la moglie, Angeles Pineda Villa, e al suo responsabile della sicurezza pubblica, tuttora latitante). Il procuratore Murillo ha riportato che i sicari hanno confessato di aver preso in consegna gli studenti e averli portati alla vicina località di Cholula. Stando alla confessione, oltre una decina sarebbe morta per asfissia prima di arrivare alla discarica di rifiuti di Chocula. Ai sopravvissuti avrebbero anche domandato a quale gruppo (criminale) appartenessero. Le risposte erano «non apparteniamo a nessuna banda». Questo perché dalla cittadina teatro del sequestro, Iguala, arrivavano informazioni che in quel gruppo si erano infiltrati uomini di Los Rojos, fazione avversa di trafficanti collegati al cartello del Golfo. I sicari hanno confessato di aver finito in quella discarica i soppravvissuti e di aver buttato i loro corpi nella parte bassa della discarica, dove li hanno poi bruciati. Le fiamme avrebbero bruciato tutta la notte e l’indomani le ossa rimaste sarebbero state raccolte in sacchi per la spazzatura gettati nel vicino fiume San Juan, dove effettivamente la polizia ha ritrovato dei resti. Murillo ha aggiunto che a causa dello stato in cui si trovano i resti degli studenti uccisi la loro identificazione si rende difficile per cui le ceneri saranno inviate a un laboratorio specializzato in Austria per analizzare le tracce di Dna. «Non crediamo alla versione ufficiale». I genitori dei 43 studenti «desaparecidos» hanno dichiarato di non accettare le dichiarazioni del procuratore generale Jesus Murillo Karam: «In quanto genitori degli studenti, non accettiamo in nes- sun modo quanto ha detto (il procuratore), perché tra l’altro lui stesso dice che non ha la certezza che sia la verità. Vogliamo risultati, ma con prove», ha detto la madre di uno dei «desaparecidos», citata dalla testata digitale SinEmbargo. Secondo Amnesty International la Procura generale del Messico manifesta una opaca volontà di chiudere repentinamente un caso che ha fatto il giro del mondo; ecco perché l’ong lancia un’accusa diretta e precisa, avvertendo che l’inchiesta potrebbe rivelarsi una “copertura”. Amnesty ha lanciato l’appello dopo che una squadra di patologi forensi argentini, incaricata di analizzare i resti rinvenuti nella discarica di Cocula, vicino Iguala, ha accusato la Procura generale di aver effettuato una “lettura parziale” delle prove, preferendo privilegiare elementi più vicini alla versione ufficiale. Secondo questa versione dei fatti, la Procura sarebbe anche incorsa nell’errore di non rivelare in tempi utili per le indagini che la discarica dove i ragazzi furono uccisi e bruciati è rimasta a lungo incustodita: «le prove rinvenute sul posto – osservano da Amnesty – potrebbero essere alterate». «L’intenzione del governo di chiudere il caso basandosi su una posizione parziale e carente di prove comincia a sembrare in modo preoccupante a un tentativo di occultamento» ha protestato Erika Guevara Rosas, responsabile di Amnesty per le Americhe. Gli ha fatto eco il portavoce dei genitori dei desaparecidos, Felipe de la Cruz: «Non ci fidiamo della versione del governo». India, primi passi contro la schiavitù minorile Mumbai «Hanno malattie croniche della pelle e sono denutriti. Sono traumatizzati e visibilmente scossi» ha detto la polizia del commissariato di Hyderabad, città a sud-est di Mumbai, annunciando la scoperta di 120 bambini lavoratori durante un’ispezione in laboratori che producono braccialetti e altri monili di ornamento. L’operazione fa parte di un giro di vite in tutta la città contro il lavoro minorile e la schiavitù. I bambini hanno lamentato di essere costretti a lavorare 16 ore al giorno, senza pause e minacciati di violenza o di restare senza cibo se avessero disubbidito agli ordini. «Molti sono stati trasportati dal nord dello stato del Bihar, lo scorso anno, dopo che i loro genitori li hanno dati ai trafficanti per 5.000-10.000 rupie (circa 100-200 dollari) e tenuti in stanze squallide senza ventilazione ed esposti a gas nocivi» ha riferito la polizia, sottolineando che la campagna contro il lavoro forzato e la tratta continuerà. La polizia ha iniziato un massiccio giro di controlli e irruzioni in decine di laboratori nascosti nei vicoli più stretti della città, dopo aver ricevuto informazioni da attivisti per i diritti dei bambini. Altri 220 bambini sono stati salvati, nei mesi scorsi, quando la polizia ha fatto simili irruzioni nel sud rassegna stampa internazionale 56 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie della città. «Finora 31 trafficanti sono stati arrestati e accusati di schiavitù minorile e la polizia sta facendo sforzi per riunire i bambini con le loro famiglie» ha aggiunto il commissario. «Questa è un’ottima iniziativa. Il salvataggio di bambini schiavi è all’inizio. Dobbiamo fare in modo che vengano riabilitati e compensati per il loro lavoro. Inoltre i trasgressori devono essere condannati per il loro crimine» hanno affermato attivisti e legali del Movimento per salvare l’infanzia (Bachpan Bachao Andolan). Nel paese, ogni ora, undici bambini spariscono e quasi il 40% resta rintracciabile. Molti sono vittime di bande e costretti alla prostituzione, al lavoro minorile e alla schiavitù, secondo fonti della polizia e degli attivisti per i diritti dei minori. Nelle mega città indiane come Delhi, Kolkata e Mumbai i minori sono un particolare obiettivo per i trafficanti che ingannano poveri genitori provenienti da aree rurali con la promessa di un posto di lavoro e di retribuzioni mensili, ma poi vedono i bambini ai lavori forzati. La maggior parte di loro finisce in lavori di costruzione o lavori domestici, altri nei lavori agricoli e in settori come i fuochi d’artificio, tabacco, chincaglieria e tessitura di tappeti. Il Chavismo allo specchio Caracas Crisi economica e scandali politici, questo è oggi il quotidiano del Venezuela. Dopo vani tentativi di ottenere finanziamenti per tamponare la crisi economica che ha messo a terra il Paese, il neo presidente Nicolas Maduro deve affrontare un nuovo scandalo che ha coinvolto Diosdado Cabello, presidente dell’Assemblea nazionale del Venezuela e numero due del chavismo, formalmente accusato di coinvolgimento nel narcotraffico. Testimone chiave è Leamsy Salazar, ex capo della sicurezza dello stesso presidente dell’assemblea venezuelana, già assistente personale di Chavez, protagonista alcuni giorni fa di una vera e propria diserzione con successiva fuga negli Stati Uniti. Secondo Salazar – che è diventato guardia del corpo di Cabello dopo la morte del presidente Chavez – lo speaker del Parlamento rappresenterebbe addirittura un fulcro del traffico di droga che coinvolge il Venezuela. L’ex guardia del corpo – al momento la più alta carica dell’esercito a rompere con il chavismo – è pronta a testimoniare all’interno dell’indagine degli Stati Uniti sugli intrecci tra il governo di Caracas e le associazioni di narcotrafficanti. Cabello, secondo le parole attribuite all’ex responsabile della sicurezza da quotidiani come lo spagnolo El Nuevo Herald, sarebbe un vero e proprio “capo dei capi” del cartello di narcotraffico denominato “Los Soles”, tra i più potenti del Venezuela. Cabello – già accusato di aver distratto fondi pubblici per uso personale – ha replicato alle accuse in un’intervista concessa alla rete colombiana Blu Radio, ritenendole frutto di una strategia volta ad attaccare e delegittimare la rivoluzione bolivariana. Tuttavia, le accuse di Salazar coinciderebbero con le indagini portate avanti negli ultimi dieci anni dagli Stati Uniti, come confermato da William Brownfield, segretario aggiunto dell’Inl, l’Ufficio del Dipartimento di Stato degli Usa che si occupa della lotta al narcotraffico. Intanto per ripare al gravissimo danno d’immagine che ha fatto il giro del mondo il governo del Venezuela ha comunicato di aver abbattuto nei giorni scorsi un piccolo aereo civile, utilizzato dai narcotrafficanti, al largo dell’isola di Aruba, nel mar dei Caraibi. Vladimir Padrino Lopez, ministro della Difesa, ha spiegato che il velivolo aveva sconfinato, violando lo spazio aereo venezuelano, e che non aveva obbedito all’ordine di atterrare impostogli da due caccia che lo avevano affiancato. Non si tratta certo del primo episodio del genere nell’area caraibica né nel Paese. Nel passato spesso aerei militari venezuelani hanno avuto l’ordine di abbattere aerei utilizzati dai narcos per trasportare droga dalla Colombia agli Stati Uniti. Il ministro della Difesa ha in seguito precisato che sarà prassi che tutti i piccoli aerei che entrano nello spazio aereo del Paese e non rispettano le regole aeronautiche saranno considerati “adibiti al trasporto di droga”. Successivamente, il ministro della Giustizia Arthur Dowers ha comunicato che la Guardia costiera di Aruba ha localizzato il relitto dell’aereo e alcuni corpi in mare. 57 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Dove le stesse mani Uno spettacolo godibile, che regala un’ora di sorrisi ma anche di riflessioni. Un tema importante come quello della mafia siciliana affrontato non con superficialità ma con leggerezza, mettendo in risalto la spensieratezza degli individui in contrapposizione con le difficoltà della vita e la presenza del malaffare Due sedie. Due lumini da cimitero. Luci in penombra. L’allestimento del palcoscenico è essenziale, minimale. Dario Muratore e Dario Mangiaracina, calcano insieme la scena, accomodandosi sulle sedie. Sono loro gli autori e gli attori di “Dove le stesse mani”, diretto da Dario Muratore – che ne è anche il protagonista – e con le musiche di Dario Mangiaracina, liberamente ispirato al testo scritto da Luciano Violante ed intitolato “Ballata per la festa dei bambini morti di mafia”. L’inizio racconta di un omicidio, di due killer che individuano il proprio bersaglio e che, a distanza, puntano la pistola, preparandosi a sparare; uno dei due ha un attimo di titubanza – “Ma è iddu?”, si chiede – ma il suo complice lo esorta a premere il grilletto: “Spara! Spara! Spara!”. Il ritmo è incalzante, battuto da Mangiaracina – che in diverse scene rappresenta anche la voce fuori campo – con il piede. Pino, il protagonista, si accascia sulla sedia, ad occhi chiusi. Segnali di Marika Demaria Segnali 58 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Quando li riapre, ha inizio il suo monologo, indirizzato al cugino Tanino: Pino lo chiama sottovoce, lasciando intendere che gli è apparso in sogno, consapevole del fatto che sia l’unico veicolo di comunicazione ormai possibile. Lo rassicura: “Io adesso qui sto bene, certo, sbagliarru, però ormai...io qui sto bene!”. Così Pino, ucciso per errore dalla mafia, rievoca i tempi spensierati ed allegri dell’infanzia trascorsa con suo cugino, addentrandosi sempre più nel dialetto isolano. Una tecnica efficace, che permette di avvicinare lo spettatore ai racconti dell’attore, con la musica di sottofondo di Mangiaracina. Si sorride, si ride, ma c’è spazio anche per le riflessioni. Il tema della criminalità organizzata non viene mai affrontato direttamente ma viene lambito dai racconti portati in scena da Muratore. Pino racconta, in questa comunicazione immaginaria con il cugino, di vivere in un posto abitato anche da tantissimi bambini, con i quali spesso si ritrova a giocare a calcio, esattamente come facevano loro due durante la loro infanzia. Il messaggio passa, nonostante il racconto narri di prati verdi, voci festanti e giovani che corrono a perdifiato: quel luogo è abitato anche dai bambini, perché la mafia ha spezzato anche giovani vite, incidendo una volta di più, per scardinarlo, il falso luogo comune secondo cui la mafia ha un proprio codice d’onore in virtù del quale non uccide donne e bambini. In maniera sottile la storia giunge, partita dai ricordi infantili di Pino che li condivide con Tanino, alla strage di Capaci del 23 maggio 1992, raccontando del silenzio dei bambini all’arrivo di una persona, Giovanni; improvvisamente si interrompono le partite di calcio (l’attore, con una tecnica teatrale coinvolgente, improvvisa qualche calcio ad un pallone), le corse per i prati, i giochi rumorosi ed allegri. Il ritmo è davvero molto veloce, tra Dario Muratore e Dario Mangiaracina c’è un’ottima intesa e molta sincronia, a vantaggio del pubblico. La conclusione dello spettacolo “Dove le stesse mani”, portato in scena dalla compagnia palermitana “Quartiatri” è quanto mai inaspettata e curiosa. All’inizio del monologo, Pino spiega al cugino che gli dovrebbe comunicare tre cose. La prima è una sorta di preghiera: “Pensaci tu a mia mamma – spiega in dialetto – dille che la smetta di piangere, è successa una cosa un tantino sbagliata ma adesso qui sono allegro”. La seconda decide di comunicargliela in un altro momento, mentre dalla terza prende avvio l’intero spettacolo. Al termine di quest’ultimo, giunge quindi il momento in cui Pino deve comunicare a Tanino la seconda delle tre cose. “Avvicinati, avvicinati. Ma non ti svegliare, aspetta!”. Quale sarà la notizia tanto attesa? 59 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie MediaMafia. Un libro per riflettere e interpretare di Marcello Ravveduto Dal 1992 ad oggi sono stati scritti 531 libri che contengono nel titolo la parola «mafia». In gran parte (412) gli autori appartengono a circuiti extra accademici (giornalisti, magistrati e politici). Ma anche i testi riferibili a docenti universitari (119) sono spesso scritti con uno stile accessibile ai non addetti ai lavori, anche se basati su fonti scientifiche. La narrazione, quindi, è tesa alla costruzione di una public history (ovvero una divulgazione professionale di accadimenti e processi legati al conteso mafioso) in cui la criminalità organizzata è un elemento centrale all’interno delle vicende politiche, economiche e sociali che hanno caratterizzato la storia italiana e in particolare quella repubblicana. Una narrazione che ha sedimentato topos letterari, stratificato luoghi comuni e creato miti condizionati dagli automatismi replicanti e incontrollabili dell’immaginario collettivo mafioso. Questa è la materia incandescente trattata da Andrea Meccia nel suo MediaMafia. Cosa Nostra fra cinema e Tv, pubblicato dalla casa editrice trapanese Di Girolamo. I media sono il lievito che gonfia l’impasto narrativo della mafia. Riferendosi alle opere cinematografiche Umberto Santino, nella prefazione al testo, ha scritto: «Quel che è certo è che nel cinema la mafia ha fatto da padrona, rispetto alla camorra e alla ‘ndrangheta, e i film di maggiore successo in Sicilia sono stati quelli meno buoni, e bisogna chiedersi perché gli spettatori vedono “celebrate” sullo schermo violenze e ingiustizie che la spettacolarizzazione induce a farle considerare “altro” da quello che sono nella vita reale. Queste considerazioni ci portano a porci un interrogativo: nella rappresentazione della mafia che funzione ha avuto il cinema? E la televisione?». L’osservazione di Santino è vera se guardiamo alla storia del cinema a partire dal secondo dopoguerra: Cosa nostra è il paradigma del medium mafioso, il metro di paragone per definire i parametri sociali e culturali entro cui iscrivere una fenomenologia criminale tipicamente italiana. Tuttavia se accorciamo lo sguardo e andiamo a vedere i film aventi per argomento storie di mafie, realizzati dal 2007 ad oggi, noteremo che, su 28 pellicole (ovvero una media di quattro all’anno), ben 17 sono dedica- te a Napoli e la camorra. Ho scelto come anno di riferimento il 2007, avendo come punto cardinale il successo di Gomorra (pubblicato nel 2006), che sposta l’attenzione mediatica dalla Sicilia alla Campania, per dimostrare come letteratura, cinema e televisione (non a caso il testo di Saviano ha attraversato le tre diverse forme) si influenzino vicendevolmente e potenzino, amplificando il messaggio di passaggio in passaggio (tra citazioni, intrecci e metafore), un rinnovato immaginario collettivo mafioso che usa come piedistallo di emersione il patrimonio già lungamente accumulato e sedimentato dai mass media non solo nazionali (basti pensare agli effetti de “Il Padrino” sulla formazione di stereotipi mafiosi per comprendere quanto l’agire dell’immaginario sia liquido, se non gassoso, riuscendo a penetrare in ambienti inimmaginabili, al di là della volontà autoriale). Andrea Meccia è consapevole della impossibilità di sistematizzare e di definire compiutamente in una forma solida l’immaterialità scivolosa della pulsione mediale, eppure prova, a partire dagli anni Settanta, a far dialogare storia nazionale e 60 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie immaginario collettivo mafioso. La scelta del punto di partenza non è casuale. L’autore vuole trovare, nel momento in cui la violenza politica si accosta alla violenza criminale, l’origine di una crisi repubblicana narrata dall’intersecazione tra cinema d’autore e neotelevisione. Non a caso, partendo dalla definizione di Baudrillard, «lo spirito del terrorismo» si manifesta proprio «attraverso l’irruzione di una morte più che reale: simbolica e sacrificale – l’evento veramente assoluto e senza appello», arriva a paragonare la modernizzazione mafiosa degli ultimi quarant’anni ad un’organizzazione terroristica. Un paragone ardito che farebbe saltare sulla sedia molti storici accademici ma che induce a riflettere sulla mescolanza concettuale da cui discende una simile interpretazione. Del resto la mafia siciliana è stata anche comparata al totalitarismo (Siebert, Marino) e al fondamentalismo (Lo Verso). Dietro la suggestione di Meccia è possibile rintracciare alcuni elementi che danno sostanza al nesso Cosa nostra/terrorismo? Proviamo a seguire questa strada prendendo spunto dall’affermazione di Luciano Pellicani utilizzata dall’autore: «Se per terrorismo si intende l’uso sistematico della violenza finalizzato a provocare una paura paralizzante» la mafia può essere inserita in un simile quadro concettuale. Entrambe sono organizzazioni violente che hanno messo in discussione le libertà costituzionali; entrambe hanno usato, in diversi periodi storici, la strategia della tensione e l’omicidio selettivo: l’obiettivo di colpire il cuore dello Stato, realizzato dalle Brigate Rosse con Moro, non è equivalente, per Cosa nostra, agli assassini di Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, Chinnici e decine di altri autorevoli rappresentanti delle istituzioni repubblicane? Entrambe si fondano su un’ideologia del potere antistatale (in quanto ordinamento alternativo); entrambe hanno tessuto trattative con pezzi deviati dello Stato; entrambe sono state parte attiva nelle relazioni occulte con poteri contrastanti e divergenti, entrambe sono state messe in crisi dal fenomeno del pentitismo. Sebbene in sede storiografica la questione non sia mai stata posta è evidente che una simile interpretazione apre il campo a una riflessione mai compiuta e che merita considerazione scientifica, individuando fonti qualitative e quantitative in grado di confermarla o confutarla. Un dato è certo: se si segue il percorso tracciato da Meccia viene naturale pensare che in questo paese, nella seconda metà del Novecento, si è svolta una guerra civile silente (italiani contro italiani). La questione, in tal senso, non riguarda solo l’olocausto delle vittime innocenti ma anche quelle colpevoli. Se guardiamo ai morti dei conflitti tra bande terroristiche e clan mafiosi arriviamo a numeri che possiamo paragonare solo alla guerra messicana per il controllo del narcotraffico. Ma la differenza è che tutto questo è accaduto in Europa, in uno stato di diritto assurto, dopo il miracolo economico, a potenza industriale globale. Ritorniamo al libro. L’autore inizia con una veloce disamina dei film antecedenti agli anni Settanta per poi avviare il suo approfondimento storico-mediale da Il sasso in bocca di Giuseppe Ferrara, messo in diretta correlazione con il concept album de “I Giganti” Terra in bocca. Poesia di un delitto. Un disco del quale don Luigi Ciotti ha scritto: «Un esempio di come la musica possa mettersi al servizio della verità e denunciare l’ingiustizia raccontando… una storia di mafia». Arrivano gli anni Ottanta con gli omicidi seriali di Cosa nostra e la grande trama del Maxiprocesso. La televisione segue questi sviluppi sia dal punto di vista della cronaca, sia stabilendo nuovi parametri narrativi: va in soffitta lo sceneggiato e prende avvio la fiction, ovvero La Piovra. Il commissario Cattani è la tele-rappresentazione dell’eroe solitario contro la mafia ed è impressionate come la sua morte nell’ultima puntata sia associata, dai poliziotti di allora, alla tragica fine di Ninni Cassarà. Gli instant movies (Cento giorni a Palermo, Pizza connection) restituiscono il clima di un conflitto trasversale che coinvolge ampi strati della società. Negli anni Novanta Meccia concentra particolarmente, e giustamente, la sua attenzione su Cinico Tv di Ciprì e Maresco: «Mentre il cinema e la fiction post ’92-’93 sceglieranno di portare sugli schermi gli eroi di una Repubblica positiva, Ciprì e Maresco metteranno in scena corpi di vittime non destinate alla morte violenta. Corpi che non riceveranno piogge di pallottole o eruzioni di tritolo, ma che porteranno “impressi nella car- 61 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie ne i segni della catastrofe”». L’Italia è immersa in una nuova strategia della tensione dalla quale esce un paese privo di speranza, attaccato all’illusione di un sempre presente costruito dai media nella loro apparente immutabilità. E sarà proprio dalla retorica televisiva che arriverà la nuova forma di potere della cosiddetta seconda Repubblica. Intanto la mafia non è più eludibile, anzi nella narrazione mediale conquista un posto di rilievo al punto da divenire caricatura di se stessa trasformando la tragedia in epopea e il dolore in spettacolo. Meccia snocciola e intreccia le diverse e reiterate rappresentazioni arrivando a delineare un panorama cross-mediale in cui cinema, tv, musica, letteratura si mescolano amalgamando un “tutto” mafioso paradigmatico che viene rovesciato e strumentalizzato da personaggi come Cuffaro e Dell’Utri, senza dimenticare Andreotti e il suo processo. Nella seconda parte del libro dà spazio alle sue personali qualità di critico cinetelevisivo proponendo al lettore alcune “visioni”: Cadaveri eccellenti, Il ladro di bambini, Tano da morire, La nuova 500, il Divo, La mafia uccide solo d’estate. L’analisi più originale è sicuramente quella relativa allo spot della 500 in cui emerge come il linguaggio pubblicitario degli anni duemila edifichi lo spazio di un «immaginario collettivo pacificato» in cui le contrapposizioni del Novecento sembrano non avere cittadinanza. L’industria manifatturiera italiana per eccellenza insiste sull’identità nazionale della “comu- nità immaginata” per dimostrare come la sostanza del nostro benessere si trasformi in italica morale affiancando i visi di Falcone e Borsellino al simbolo del miracolo italiano (la 500) rinnovato: «Comprare una nuova Fiat 500 […] vuol dire implicitamente avere una coscienza civile che ci fa avere a cuore la storia e il destino del nostro paese». Nella terza, ed ultima, parte Meccia intervista Letizia Battaglia e Roberto Scarpinato. La fotografa ci prende per mano lasciandoci entrare negli anfratti più reconditi del suo mestiere, soprattutto quando dice: «Devo ammettere che ho avuto problemi veri e reali nel puntare il mio obiettivo contro le persone ammanettate… Mi sembrava una vigliaccata riprendere un uomo stret- to fra due o più poliziotti. Lo sentivo un abuso vero…». Al giudice, l’autore, riesce a carpire una riflessione che esplicita il concetto essenziale della lettera scritta a Paolo Borsellino nel ventennale della sua morte: Giovanni e Paolo sono stati definiti «creatori di senso». Meccia con acume lo sollecita a chiarirne i motivi: «Creatori di senso in una straordinaria impresa di innamoramento collettivo… La parola amore è composta per quattro quinti dalla parola morte che in latino si diceva mors. Mettendo dinanzi alla parola mors l’alfa privativo, si crea la parola amore: a-mors che dunque vuol dire “togliere dal non senso della morte”». Una risposta che giunge a conclusione di un tragitto narrativo che merita di essere letto. Andrea Meccia MEDIAMAFIA Cosa Nostra fra cinema e TV Di Girolamo 2014 libri Vite dimenticate «Con questo libro abbiamo voluto rendere merito ai piccoli eroi quotidiani dei quali abbiamo scritto e dei tanti altri dei quali non si è mai scritto. Piccoli eroi morti per caso. Piccoli eroi caduti per una causa. Piccoli eroi perché hanno subito il lutto, il dolore e hanno denunciato e si sono battuti contro la mafia. Piccoli eroi che della loro esperienza hanno fatto il fertile humus sul quale una società sana può e deve affondare le radici di una nuova cultura antimafia, di un nuovo modo di vivere. Se le storie che avete letto serviranno ad allontanare anche un solo ragazzo da quel mostro chiamato “mafia”, ognuno dei morti innocenti, la cui storia abbia- SHARE le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 62 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie mo narrato con questo libro, guardandoci forse da un mondo che non è il nostro, potrà dire a sé stesso che non una goccia del suo sangue, non una lacrima dei propri cari, è andata persa inutilmente». A scrivere queste parole è Gian Joseph Morici, autore, insieme a Fabio Fabiano, di un libro che si pone l’obiettivo di raccontare storie troppo spesso dimenticate. Ecco dunque che, nelle dense pagine del volume, affiorano i nomi di Michele Cimminisi, Vincenzo e Salvatore Vaccaro Notte, Paolo Ficalora, Filippo Gebbia, Accursio Miraglia, Giuseppe Casarrubea, Mariano Virone e Serafino Ogliastro. Un libro da leggere, storie da ricordare. Fabio Fabiano, Gian Joseph Morici, “Vittime di mafia” Mreditori, 2014 Indagini e cronaca giudiziaria...a fumetti Una graphic novel – disegnata da Valerio Chiola e scritta da Laura Bastianetto – ricostruisce l’operazione “Sahel”, il processo da essa scaturito e la sentenza, esemplare. La protagonista della storia è La- bel, giovane donna nigeriana che viene sfruttata, seviziata e venduta con il nome di “Princess”. Attraverso la sua terribile vicenda si conosceranno i dettagli e le sfumature di un traffico orribile di esseri umani; il saggio a margine di Laura Bastianetto permette di approfondire ulteriormente la tematica, spiegando chi sono le vittime della tratta e il percorso che le conduce dalla Nigeria all’Europa e, nello specifico, all’Italia. La sentenza è senz’altro antesignana: emessa dalla Corte di Assise di Perugia nel novembre 2014, ha sancito il risarcimento di 50 mila euro per le 17 donne costrette a prostituirsi, oltre alla confisca dei beni sequestrati agli aguzzini. Laura Bastianetto, “Trattate male” Round Robin, 2014 63 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie Centro America e narcotraffico Dopo “Il segreto di Julia” che raccontava la prima indagine del protagonista della storia – l’intendente Navarra – nel territorio del Centro America, arriva in libreria il suo sequel. Questa volta Navarra deve misurarsi con la soluzione di un caso riguardante la sparizione di un carico di droga da un aereo caduto sulle montagne costaricane. L’inchiesta, che in un primo momento sembra di facile risoluzione, in realtà si rivela serrata e porterà alla scoperta di un collegamento diretto tra i cartelli della droga e una talpa all’interno del ¨Pacto de los Caballeros¨, da cui prende nome il libro. Il mondo di mezzo Il giornalista de «Il Fatto Quotidiano» Giampiero Calapà racconta per primo in un libro la nuova mafia romana all’indomani della retata del 2 dicembre 2014, inanellando fatti e protagonisti della realtà capitolina così come emerge dalle carte giudiziarie: una fitta trama d’interessi criminali, economici e politici. La Procura di Roma ha svelato come la capitale d’Italia si sia ritrovata sotto la cappa di un’organizzazione criminale unitaria con una struttura piramidale e gerarchica di stampo mafioso. Uno scandalo che ha certificato l’esistenza a Roma di una mafia “originaria e originale”, come raccontano le carte dell’inchiesta “Mafia Capitale”. Il libro vanta la prefazione di Gian Carlo Caselli, che ammonisce: “Attenti a negare che questa non sia la nuova piovra” (Giampiero Calapà, “Mafia Capitale”, La Nuova Frontiera editore, 2015). I lettori che invece volessero conoscere in maniera approfondita le carte dell’ordinanza di custodia cautelare della procura capitolina per sprofondare nei mondi di sopra e sotto, possono addentrarsi nella lettura del libro curato da Gaetano Savatteri e Francesco Grignetti, con un indice dei nomi dei protagonisti appartenenti ai vari mondi. Francesco Grignetti, Gaetano Savatteri, a cura di, “Mafia capitale. L’atto di accusa della Procura di Roma” Melampo editore, 2015 Si scatena così la caccia alla talpa, in un intrigo internazionale nel quale viene coinvolta anche la Dea (Drug Enforcement Administration), che da anni cerca di assicurare alla giustizia il traditore. Sarà proprio Navarra a scoprire i retroscena del patto e la collusione di uno dei suoi membri con il narcotraffico. Maurizio Campisi, “Il patto dei gentiluomini” Vanda epublishing, 2014 iniziativa Agricoltura e cultura L’ultima invenzione della compagnia teatrale Vo.di.Sca. (Voci di Scampia), in continuo e virtuoso fermento, si chiama “Made in Scampia”, definito dai responsabili del progetto, tra cui il giovane scrittore Rosario Esposito La Rossa (autore della rubrica “I nasturzi” sulle nostre pagine), “un nuovo marchio che ribalta il concetto negativo di Scampia”. Il logo è stato apposto su un pacco contenente 3 libri, un film, 2 documentari, 3 cortometraggi ed altrettanti cd musicali ed audiolibri, 26 ebook, un fumetto e altro ancora. Il costo della scatola è di soli dieci euro: il ricavato sarà investito nell’acquisto di un trattore per lavorare un terreno abbandonato; il progetto prevede che, una volta ripristinati i due ettari e mezzo, si possano coltivare i “Friarielli della legalità”. Per ulteriori informazioni e per ordini scrivere all’indirizzo: [email protected] 64 | gennaio/febbraio 2015 | narcomafie L’Argentina si guardi dalla “messicanizzazione” Che l’Argentina stia attraversando uno dei periodi più negativi della sua storia recente, il più brutto sicuramente del decennio “kirchnerista”, è stato papa Francesco a ricordarlo in una lettera personale inviata, alcune settimane fa, al parlamentare argentino Gustavo Vera, in cui esprimeva le sue preoccupazioni sul narcotraffico e sui pericoli di una “messicanizzazione” del paese. L’episodio ha creato, come era inevitabile, qualche garbato disappunto nel governo messicano che, stando alle notizie di agenzia, si appresterebbe ad inviare una nota di doglianza alla Segreteria di Stato del Vaticano. La realtà, tuttavia, non si può nascondere e bene ha fatto Francesco a mettere in guardia sullo sfilacciamento del paese a cui, come è noto, è particolarmente legato. La corruzione dilagante ha investito, infatti, alcuni faccendieri vicini alla famiglia presidenziale tanto che, un anno fa circa, la magistratura aveva avviato un’indagine per riciclaggio di denaro e associazione a delinquere nei confronti di due imprenditori legati alla presidente. Indagato anche il Ministro per lo Sviluppo e la Pianificazione Federale che avrebbe agevolato appalti pubblici a società collegate sempre alla Kirchner. Alcune inchieste giornalistiche, piuttosto dettagliate, hanno, inoltre, evidenziato, ingenti spostamenti di denaro pubblico (55milioni di euro) effettuati negli anni dal Governo dei Kirchner su conti correnti di banche “off shore” del Belize e di Panama. La vicenda, poi, nel 2013, dei 110 chilogrammi di cocaina occultata nei gamberoni destinati in Spagna e nella quale sono rimaste coinvolte persone vicine al Ministro dell’Agricoltura, è stato un ulteriore tassello di grave sfilacciamento istituzionale. L’appuntamento elettorale di fine ottobre 2013, per il rinnovo di parte dei seggi alla Camera e al Senato Federale, con la sconfitta del partito Fronte per la Vittoria, ha confermato il calo di popolarità della presidente. Il 2014, con l’acuirsi della crisi economico sociale che sta vivendo il paese, poteva essere l’anno della sua uscita definitiva dalla scena politica. di Piero Innocenti Non sarebbe stata una grossa novità per l’Argentina visti i precedenti. Nel giugno 2001, dopo violenti disordini, finì agli arresti domiciliari, per traffico di armi, il presidente Carlos Memem. Prima di lui, Fernando de La Rua, eletto nel dicembre 1999, aveva potuto abbandonare la Casa Rosada, da solo a bordo di un elicottero. La posizione della Kirchner, agli inizi del 2015, si è ulteriormente indebolita dopo il “suicidio” del giudice Nisman (l’inchiesta giudiziaria in corso ha evidenziato diversi punti oscuri) che stava preparando le carte processuali per accusarla formalmente di aver inquinato le prove in una strage (85 vittime), pare ispirata dall’Iran, avvenuta nel 1994 a danno di un’associazione ebraica di Buenos Aires. Sul versante del narcotraffico, il paese, grazie alla sua posizione geografica, continua ad essere uno straordinario ponte per consistenti spedizioni di cocaina verso l’Europa lungo le rotte aeree Buenos Aires-Madrid, Buenos Aires- Roma e Buenos Aire-Johannesburg. Diversi i corrieri arrestati nel 2013 e nel 2014 su voli diretti nelle citate capitali europee (in prevalenza verso la Spagna), mentre vi sono stati alcuni casi di quantitativi di cocaina occultata, con la complicità di personale aeroportuale, all’interno degli aerei (nei bagni o nei sistemi idraulici) e prelevata durante il volo. Anche i porti di Buenos Aires, di Mar de la Plata e di Rosario, ben si prestano all’in- vio di stupefacenti via mare, utilizzando container, verso i mercati americano ed europeo. Dati statistici governativi indicavano, per il 2014, la stima di un volume annuo in entrata di cocaina di oltre 70 tonnellate e di marjiuana di circa 100 ton. L’azione di contrasto svolta dalle quattro forze di sicurezza (Polizia Federale, Gendarmeria Nazionale, Prefettura Navale, Agenzia delle Dogane) alle dipendenze del Ministero della Sicurezza, ha portato al sequestro, nei primi sei mesi del 2013 (sono gli ultimi dati disponibili), di 2,38 ton di cocaina, di 50,9 ton di marjiuana, di oltre 25mila pasticche di ecstasy (a marzo 2013, in un garage di una villa alla periferia di Buenos Aires, è stato smantellato un laboratorio per la produzione di amfetamine). 3.901 le persone arrestate per delitti collegati al traffico/spaccio di droghe. A fine 2014 erano 37 i cittadini italiani detenuti nelle carceri argentine, non solo per fatti di droga ma anche per omicidio, rapina e furto. Nel 2014, a settembre, la gendarmeria argentina aveva arrestato anche un importante boss della ’ndrangheta, Pantaleone Mancuso, detto “Zio Luni”, ricercato in ambito internazionale per associazione mafiosa e duplice omicidio (verrà estradato in Italia il 20 febbraio 2015). Gli affari con cellule della criminalità organizzata italiana stanziali nel paese vanno bene anche nel commercio di droghe e alcune indagini, passate e in corso, lo stanno evidenziando. numero 1 | 2015 | 3 euro Bimestrale | Anno XXIII | Poste italiane S.p.A | SPED. IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n. 46) art. 1 comma 1 DCB | To. ISSN 1127-9117 numero 1 | 2015 LA TUTELA DEI MINORI NELLE FAMIGLIE MAFIOSE BAMBINI DI ‘NDRANGHETA SOMMARIO 3 | L’EDITORIALE Un nuovo corso 4 | MAFIA A CATANIA L’impero degli Ercolano di Saul Caia e Dario De Luca 9 | STILI DI VITA MAFIOSI Il culto del lusso nei mafiosi di Saul Caia e Dario De Luca 19 | I GIORNI DELLA CIVETTA Brevi di mafia a cura di Manuela Mareso 22 | I NASTURZI I nasturzi, simbolo di chi non si arrende di Rosario Esposito La Rossa 23 | COSE NOSTRE Un giardino per Lea Garofalo di Marika Demaria 24 | MAFIA DA LEGARE Quando si ammala un territorio di Corrado De Rosa 25 | STROZZATECI TUTTI Mafia games di Marcello Ravveduto 27 | INCHIESTA MINORI di Michela Mancini Cresciuti a pane e ‘ndrangheta La rivoluzione silenziosa di un tribunale di frontiera Liberi di scegliere 41 | RIPARTE IL FUTURO Una battaglia di tutti di Leonardo Ferrante 44 | ALTA RISOLUZIONE “Gridas“ di riscatto di Rosita Rijtano e Emilio Fabio Torsello 47 | ECOCRIMINI Tre reati all’ora di Massimiliano Ferraro 48 | MESSICO Desaparecidos, la piazza si mobilita di Orsetta Bellani 53| CRONACHE SOMMERSE Libia, la via della prudenza di Andrea Giordano 54 | OCCIDENTI Rassegna stampa internazionale a cura di Stefania Bizzarri 57 | SEGNALI Dove le stesse mani di Marika Demaria 59 | SEGNALIBRO MediaMafia. Un libro per riflettere e interpretare di Marcello Ravveduto 62 | SHARE Le segnalazioni del mese a cura di Marika Demaria 64 | L’OPINIONE L’Argentina si guardi dalla “messicanizzazione“ di Piero Innocenti