La politica per il Mezzogiorno nell`Italia repubblicana
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La politica per il Mezzogiorno nell`Italia repubblicana
La politica per il Mezzogiorno nell’Italia repubblicana Antonio La Spina* 1. Premessa: politiche di promozione dello sviluppo e policy studies La politica per il Mezzogiorno, che qui verrà considerata per lo più con riferimento al periodo repubblicano, è rivolta a ridurre le disparità (anzitutto economiche) tra diverse aree territoriali1. In passato si distingueva tra development policy (se il territorio era quello di un paese in via di sviluppo) e regional policy (se il territorio era invece un’area - region – facente parte di un paese nel suo complesso sviluppato, come il Galles o la Scozia rispetto al Regno Unito, o, appunto, il Mezzogiorno rispetto all’Italia). Si ebbero poi interventi che riguardavano il territorio di interi paesi (come l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo). Tali misure avrebbero dovuto quindi qualificarsi come development policies (il che avrebbe posto tali Stati nel medesimo gruppo di quelli africani o sud-americani). Irlanda, Grecia, Portogallo, peraltro, erano entrati a far parte dell’allora Comunità economica europea, sicché erano in un certo senso regions rispetto alla Cee (Hooghe e Keating 1996). Dopo poco, presumibilmente per evitare confusione, nel gergo comunitario si preferì usare un nuovo termine, “politiche di sviluppo e coesione”, per designare gli interventi in questione. Ma tale locuzione, nella parlata corrente, sembra fare riferimento soprattutto alle politiche, appunto, europee, mentre potrebbero aversi (e infatti si hanno) anche politiche nazionali, ovvero facenti capo a livelli di governo sub-nazionali (come le “regioni”, nell’altro senso del termine, italiane), accomunati dalla finalità di promuovere lo sviluppo economico, riducendo e auspicabilmente annullando i divari tra le varie parti di un paese (e tra le varie regions dell’Ue). Nel prosieguo, quindi, parlerò, all’ingrosso, di politiche di sviluppo (anzitutto economico, anche se tale accezione, diversamente da quanto molti penserebbero, non è affatto scontata; La Spina 2003). La politica per il Mezzogiorno, quantomeno dal 1950 in poi, è o si presume che sia una politica di sviluppo. Certo, essa è stata giustificata e/o avversata sulla base di ragioni diversificate: come risarcimento di alcuni danni che l’unificazione comportò per il Meridione, secondo una posizione (oggi tornata di moda) il cui esponente più noto e influente era stato Francesco Saverio Nitti (il quale però mai dubitò del fatto che l’unificazione fosse un punto di non ritorno e che essa avesse nel complesso fatto fare passi avanti al Sud); oppure come spinta all’industrializzazione e alla modernizzazione di un’area depressa, secondo il “nuovo meridionalismo” dei Saraceno, Menichella, Vanoni, Pescatore, che diede vita all’intervento straordinario; o ancora, in tempi più recenti, come “rapina” a danno del Nord operoso e produttivo a beneficio di un Sud fannullone. Nella prospettiva della policy analysis, che tipo di policy è una politica di sviluppo come quella per il Mezzogiorno? Secondo la nota classificazione di Lowi (1972), potrebbe trattarsi di una politica redistributiva tra territori, anziché tra macro-gruppi sociali. Tuttavia, sempre secondo Lowi, tale tipo sarebbe caratterizzato da un’esasperata conflittualità, dando vita a giochi a somma zero. Così non fu, almeno alle sue origini, per l’intervento straordinario, perché la “sottrazione” di risorse a Nord era in parte argomentata in chiave riparazionista, in parte come gioco a somma positiva: nel medio-lungo periodo: se il Sud si fosse sviluppato non avrebbe avuto più bisogno di aiuti, e tutto il paese sarebbe diventato più florido. Nei termini di Wilson (1980), quindi, poteva piuttosto apparire una politica a costi diffusi e benefici diffusi, con una prevalenza (auspicata) dei benefici, sempre nel medio-lungo periodo. Più di recente, con l’ingresso nell’arena partitica di forze quali la Lega Nord * I parr. 1 e 2 sono in larga parte ripresi da La Spina (2003), cui faccio rinvio, anche per una trattazione più estesa dei punti qui toccati. 1 Una recente e organica ricognizione del miglioramento delle condizioni di vita degli italiani nei 150 anni dall’Unità è in Vecchi (2011). D’altro canto, di recente testi che fondati su una lettura unilaterale dei fatti, volti a contestare l’unificazione, diventano fenomeni editoriali: è il caso di Aprile (2010; cfr. la recensione di L. D’Antone in Riv. Ec. Mezz. 4/2010). (ma non soltanto per tale ragione), la dolorosità dell’elemento redistributivo ha ricominciato a farsi sentire (sicché seguendo Wilson la policy si atteggia adesso, piuttosto, come a costi concentrati e benefici concentrati), mentre è stato spesso perso di vista l’argomento del gioco a somma positiva. Dare risorse al Sud può significare toglierle a qualcun altro, che magari per varie ragioni (secondo un certo punto di vista) le meriterebbe di più. Ma dare risorse a un Sud che riesca a lasciarsi alle spalle il sottosviluppo (beninteso, seguendo un percorso “vincolato” e in tempi non biblici) può, invece, in ultima istanza essere un vantaggio per tutti (quindi anche per il Nord), perché in prospettiva non sarebbero più necessari trasferimenti perequativi e il paese nel suo complesso diverrebbe più ricco, robusto e meglio capace di fronteggiare la competizione globale. Esattamente questa, riferita al livello dell’intera Ue, è infatti la giustificazione delle politiche di coesione. A seconda dei casi, una politica di sviluppo può anche (magari contemporaneamente all’appartenenza a un altro tipo, giacché quelli di Lowi non sono mutuamente esclusivi) atteggiarsi a politica costitutiva. Infatti, nel caso dell’intervento straordinario venne “costituita” la Cassa per il Mezzogiorno, poi trasformata/ridenominata in Agensud nel 1986, poi soppressa nel 1992. Nel 1997 è stato “costituito” il dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione (d’ora in avanti Dps). In Irlanda, Regno Unito, Germania unificata si sono avuti noti casi (di grande successo) di agenzie per la promozione dello sviluppo. Va infine ricordato che una politica di sviluppo deve, in larga parte, allocare o erogare risorse finanziarie (traducentisi ad esempio in aiuti alle imprese o in opere pubbliche). È possibile, o meglio probabile, che tali risorse suscitino appetiti nei soggetti che le gestiscono, prima ancora che in quelli che dovrebbero beneficiarne. In un regime autoritario, il gruppo al potere potrebbe appropriarsene, quanto meno in parte. In un regime democratico il ceto politico-amministrativo potrebbe anch’esso appropriarsene, o in senso stretto, ovvero utilizzandole per ottenere in cambio un’altra risorsa, che in democrazia è fondamentale: il consenso. Vi è dunque un incentivo formidabile, connaturato, inbuilt nei regimi democratici, a trasformare gli interventi per lo sviluppo in politiche distributive (nel senso di Lowi; a costi diffusi e benefici concentrati nei termini di Wilson, che al riguardo parla anche di client policies): si può ipotizzare una “deriva distribuiva” (La Spina 2003). È evidente che, per un politico “downsiano” l’ottenimento del consenso è di gran lunga più importante dello sviluppo, che passa in secondo piano. Anzi, un ceto politicoamministrativo abituato a gestire cospicui flussi finanziari in aree sottosviluppate è addirittura controinteressato a promuovere lo sviluppo. Infatti, se questo veramente avesse luogo ciò gli sottrarrebbe alcune cruciali leve di consenso, giacché in un’economia sviluppata per trovare lavoro i cittadini si rivolgerebbero alle imprese, o diverrebbero imprenditori autosufficienti essi stessi; mentre le imprese non dipenderebbero dalle erogazioni e dai poteri di veto degli apparati pubblici. Mentre se le risorse continuano a essere usate in chiave distributiva (e se anche le prestazioni regolatorie diventano oggetto di pressione sui consociati e di scambio) avviene esattamente il contrario. In definitiva, una politica di sviluppo che incappa nella deriva distributiva diviene essa stessa un potente fattore di aggravamento del sottosviluppo. Il che è appunto quanto è avvenuto e continua ad avvenire nel caso italiano. L’analisi e la valutazione delle politiche pubbliche ci insegnano che queste ultime spesso mancano i loro bersagli perché sono mal concepite. D’altro canto, un insuccesso non va semplicemente etichettato come un caso di irrazionalità. I policy makers possono ignorare o trascurare alcuni aspetti della questione, non tenere conto di certe esperienze internazionali, non considerare certe conseguenze, ma raramente sono irrazionali nel senso di stupidi. Se bastasse rivelare errori quali quelli appena evocati, sarebbe relativamente facile migliorare le politiche pubbliche (specie ove il ceto intellettuale di coloro che elaborano e valutano gli interventi operasse secondo rigore metodologico, indipendenza e onestà intellettuale, cosa che spesso non accade, almeno nel nostro paese; La Spina 2006; La Spina e Espa 2011). L’insuccesso di una politica pubblica va di norma interpretato come una distonia tra le finalità ufficiali della policy e quelle reali di alcuni dei decisori cruciali. I quali presumibilmente sono consapevoli che le cose andranno ben diversamente da ciò che ufficialmente si dichiara, ma desiderano soprattutto portare a casa il loro ricavo (quanto meno in termini di consenso). Io stesso ho appena detto che i ceti politici locali sono interessati a restare centrali nell’allocazione delle risorse “per lo sviluppo”. Ma tale centralità non ci sarebbe se non fossero state compiute e via via reiterate (in vari momenti, in forme differenti e da maggioranze via via diverse) talune scelte in sede nazionale (ed europea). Anche il ceto politico nazionale è interessato al consenso, e il Mezzogiorno è certamente un grande serbatoio di voti, in cui peraltro quello di scambio è tradizionalmente saliente. Questa - peraltro squisitamente politologica - è, credo, la chiave di lettura più istruttiva per capire sia il complessivo fallimento, dopo 150 anni di unità, della politica per il Mezzogiorno, sia i punti su cui incidere se veramente si volesse imprimerle una svolta: politiche di sviluppo efficaci sono possibili, ma richiedono (a prescindere dalla loro dotazione di risorse) soggetti attuatori e/o meccanismi isolati dal ciclo politico-elettorale. Se ciò manca, un incremento delle risorse stanziate potrebbe risultare non solo inutile ma addirittura dannoso, risolvendosi in sprechi e “trappole del sottosviluppo”. 2. L’intervento straordinario; la “nuova programmazione” L’origine della Cassa per il Mezzogiorno richiederebbe una trattazione a parte, che in questa sede non è ovviamente possibile (D’Antone 1996; Del Monte e Giannola 1978; Napoletano 1999; Pescatore 2008; La Spina 2003). Operarono congiuntamente una serie di condizioni: alcuni vincoli esterni, con riguardo sia all’adozione delle politiche (l’opportunità di sfruttare risorse finanziarie statunitensi; le condizioni poste dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione Industriale), sia all’attuazione delle stesse; l’imitazione della rooseveltiana Tenessee Valley Authority; il clima politico che, dopo il 1947, era caratterizzato (cosa che non avvenne più in seguito) sia da una riconosciuta leadership, sia dall’adesione dei decisori cruciali al liberalismo economico; l’esistenza di un gruppo di influenti “tecnocrati” (tra cui l’allora governatore della Banca d’Italia), i quali elaboravano strategie d’intervento ed erano condizione di pressare per la loro adozione. Ne risultò una politica centralizzata, attuata da una agenzia dotata di larga autonomia, che agiva in modo discrezionale e selettivo, con un vincolo a favore della infrastrutturazione e della preindustrializzazione (da cui ad esempio derivò la realizzazione di opere acquedottistiche). L’imprenditoria nazionale in un primo momento si oppose alla localizzazione di industrie al Sud, viste come potenziali concorrenti. L’opposizione parlamentare fu nettamente contraria, in chiave anticapitalistica, ma anche perché intravedeva la possibilità di un utilizzo a fini di consenso e clientela. Successivamente la policy fu riorientata a favore di insediamenti industriali nella forma di poli di sviluppo. Negli anni ’60 fu peraltro abbandonato il liberalismo economico, aprendosi una fase di crescita dell’intervento pubblico, con riguardo a inefficaci esperienze di pianificazione, a nuove nazionalizzazioni, alla crescita delle partecipazioni statali. Queste ultime, in particolare, giocarono un ruolo protagonistico ed incisivo negli investimenti industriali verso il Sud. La Cassa perse parte della propria autonomia, ma restò molto saliente. Nei primi anni ’70 si ebbe un profondo mutamento dell’intervento straordinario. Questa nuova fase vede (con l’immissione di nuovi attori, quali le regioni a statuto ordinario, in un quadro di convergenza tra maggioranza e opposizione) il disgregarsi della centralizzazione e della unitarietà dell’intervento e la dilatazione del suo ambito. Si rinunciò alla priorità dell’industrializzazione per poli e ad interventi pensati a vantaggio della grande industria; furono create grandi occasioni distributive attraverso i progetti speciali; aumentò la generosità degli interventi; aumentò la spesa; vennero eliminate, a partire dal 1976, la centralità, l’isolamento, l’autonomia e l’efficienza della Cassa. Nel 1986 si ebbe, poi, con la legge 64, una riforma “organica” dell’intervento straordinario ufficialmente basata sull’idea dello sviluppo “autocentrato”. Si avviò una programmazione policentrica, che sulla carta prevedeva un decisivo coinvolgimento delle regioni e in concreto fu incapace di esprimere scelte strategiche. L’Agenzia risultò sprovvista di iniziativa e di mordente. I vari raggruppamenti partitici convergevano su provvedimenti “universalistici” (nel senso di capaci di accontentare in qualche modo tutti i partecipanti allo scambio politico, compresa l’opposizione), distributivi di benefici concentrati (con riguardo alle aree assistite, agli enti da stabilizzare, all’imprenditoria locale e non, alle amministrazioni meridionali, etc.), con costi diffusi e scarsissima attenzione sia per i vincoli budgetari, sia per la concreta attuabilità delle nuove misure. Il sistema di programmazione, finanziamento e attuazione fu peraltro talmente carente e debole che ne risultò la paralisi dell’intervento straordinario, e lo scavalcamento da parte di altri interventi, di tipo “eccezionale” (ad esempio in tema di protezione civile), anch’essi miranti all’erogazione di benefici concentrati. L’andamento dell’intervento straordinario in un arco di tempo di quarantadue anni conferma sia la possibilità di politiche di sviluppo non distributive di successo (in presenza di certi presupposti), sia l’ipotesi della deriva distributiva (al venir meno dei medesimi presupposti). Da una policy adottata “sotto vincolo” si è infatti passati, via via che ciò risultava possibile, a misure “unanimistiche” e manifestamente distributive. Quello che inizia con il 1950 e termine nei primi anni ’70 è l’unico periodo nei 150 anni dall’unificazione in cui il Mezzogiorno è cresciuto in modo notevole, stabile e continuo, sicché anche il divario rispetto al Nord si è ridotto in modo significativo, specie con riguardo agli investimenti, e si sarebbe ridotto ancor più sensibilmente se nel frattempo nel resto d’Italia non fosse stato in atto un boom economico di entità mai conosciuta prima (Cafiero 1992; Cafiero e Marciani 1991; Svimez 1993, 2000; La Spina 2003; Ritrovato 2010; Giannola 2010). Si può quindi parlare di un intervento di successo, imputabile in larga misura alla Cassa e in parte alle scelte fatte entro il sistema delle partecipazioni statali (che oggi non sarebbero più pensabili). Nei primi anni ’70 la situazione mutò profondamente, e il divario tra le due parti del paese riprese ad allargarsi. Si riducevano gli investimenti, e già nel 1980 la disoccupazione presentava un tasso doppio rispetto a quello del Centro-Nord, che diveniva triplo a fine anni ’90, superando il 21%. Contestualmente, aumentavano le prestazioni sociali, più o meno improprie. L’incidenza della spesa pubblica sul Pil e sul reddito medio per abitante del Mezzogiorno divenne così elevatissima: il 53% del reddito prodotto al Sud, contro il 33% al Centro-Nord. All’interno della spesa pubblica, a fine anni ’80 la quota relativa al sostegno del reddito corrispondeva poi al 37,9% del Pil, contro il 26,3% al Centro-Nord (Wolleb e Wolleb 1990, 261; Trigilia 1992, 57-8). Per altro verso agivano in modo distorsivo le aspettative, assai diffuse nella popolazione meridionale, di ottenere un posto nel pubblico impiego (favorite anche dalla forte dilatazione degli apparati burocratici seguita al decentramento regionale) (Del Monte e Giannola 1997, 132). La politica d’intervento diventava passiva, reattiva, rinunciando ad influenzare la localizzazione delle attività economiche, e sovvenzionando, quando riusciva a farlo, iniziative che in molti casi sarebbero state comunque intraprese. L’intervento straordinario (per evitare un referendum promosso da una comitato presieduto da Massimo Severo Giannini) fu bruscamente e ingloriosamente soppresso con il decreto-legge 415/1992, poi convertito nella legge 488/1992, che inaugurò il “sistema di interventi ordinari nelle aree depresse del territorio nazionale”, dirigendo contestualmente ad aree del Centro-Nord aiuti che nel precedente sistema non sarebbero stati loro riconosciuti. Un altro obiettivo fu quello di conformarsi alle indicazioni comunitarie in tema di concorrenza e aiuti di Stato, per rendere meglio utilizzabili le risorse dei fondi strutturali. Dal mondo imprenditoriale, esasperato dalla farraginosità e inaffidabilità delle procedure della l. 64, venne una forte richiesta di “automatismo” nell’erogazione delle provvidenze. Ciò veniva giustificato in base a esigenze di velocità, trasparenza (attraverso apposite forme di pubblicità, il rispetto dell’ordine cronologico nell’istruttoria delle domande, l’impiego di criteri di valutazione tipici degli enti creditizi), uniformità, compressione della discrezionalità (ritenuta foriera di clientelismo), facilitazione dei controlli di conformità tra il richiesto e il realizzato. Tale sistema (che in effetti non fu del tutto “automatico”) andò a regime solo quattro anni dopo, dopo una accordo tra Italia e Ue negoziato dall’allora ministro leghista Pagliarini, e accelerò in effetti le erogazioni, ottenendo alcuni risultati in materia di investimenti e occupazione. D’altro canto, per un verso non si prestava a sostenere iniziative innovative, e per altro verso è stato alquanto vulnerabile alle frodi. Furono poi previsti numerosi altri tipi di aiuti (per ricerca, innovazione tecnologica, macchinari e così via). Tra questi un credito d’imposta per l’assunzione di nuovi addetti, anch’esso tendenzialmente automatico. Nel 1986 era stata creata la Società per l’imprenditoria giovanile, che nel 1999, pur potendo vantare buoni risultati e apprezzabili tassi di sopravvivenza delle iniziative agevolate, fu fatta confluire in Sviluppo Italia. Erano previsti incentivi sia finanziari sia reali, uno stringente iter di valutazione dei progetti, mirando a selezionare buone idee innovative, un’assistenza tecnica e un tutoraggio. Sviluppo Italia assorbì piuttosto anche partecipazioni in alcune società dell’Iri. La nuova entità avrebbe dovuto imitare le agenzie di sviluppo “celtiche”, ma venne piuttosto articolata in otto società regionali, caratterizzandosi per nepotismi e prestazioni in complesso deludenti, in particolare rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la sua core mission, l’attrazione di investimenti esterni. Negli anni successivi è stata modificata e ridenominata Invitalia. Mentre altri paesi europei (come Spagna o Irlanda) sfruttavano al meglio il primo periodo di programmazione (1989-1993) dopo la riforma dei fondi strutturali del 1988, facendone il caposaldo delle proprie politiche di sviluppo, l’Italia prese sottogamba tale prima occasione, presentando una programmazione scadente e acefala (Svimez 1996). Nel periodo successivo (1994-1999) si assunse come prioritario l’obiettivo di non perdere risorse comunitarie. Venne così creata all’uopo una Cabina di regia che proseguì e rafforzò forzature e stravolgimenti quali le riprogrammazioni, l’overbooking (consistente nel creare una massa di progetti superiore a quelli finanziabili, così da essere sicuri di spendere tutte le risorse), l’uso dei progetti-sponda (sovente di scarsa qualità e come tali non inclusi nella programmazione originaria), il favor per interventi non addizionali e “banalizzati” (consistenti di norma nella distribuzione “a pioggia” di risorse a esterni, spesso una pletora di clientes, progettisti, valutatori, consulenti, più che a imprese), vale a dire ricondotti alle uniche cose che sanno fare amministrazioni di norma incapaci di valutare le esigenze, selezionare, progettare, gestire, valutare i risultati, promuovere lo sviluppo. Così operando, inoltre, le risorse tendono a essere spartite tra le varie branche delle amministrazioni attuatrici secondo le logiche dell’equilibrio politico all’interno della coalizione dei partiti di governo, più che in ragione di esigenze di sviluppo. Essendo l’Italia un socio fondatore e un contribuente netto nell’Ue, con essa non è facile e sarebbe scandaloso fare la voce grossa come potrebbe avvenire con il Portogallo o l’Irlanda. È pertanto evidente che, con l’acquiescenza della Commissione Europea, nel far sue le politiche comunitarie di coesione l’Italia finora ha preso assai poco sul serio il “vincolo esterno”. Nel 1997 fu creato, nell’ambito del ministero che allora si chiamava del Tesoro il già richiamato Dps, che avviò una “Nuova programmazione” con riferimento al terzo periodo di programmazione 2000-2006 (c.d. Agenda 2000). Ciò avrebbe dovuto rappresentare un punto di svolta (Bodo e Viesti 1997), ma purtroppo - come dimostrano oggi i risultati, e come era possibile, visto il piede con cui si partì, prevedere anche allora - non fu così. Il Dps concepì una programmazione fondata sull’idea dello sviluppo endogeno e della valorizzazione delle energie locali (che aveva già portato alla catastrofe la legge 64/1986, sicché non si poteva dire che la storia recente non avesse insegnato qualcosa), ivi compreso quel ceto politico locale interessato a mantenere il ruolo di mediatore nell’allocazione delle risorse e pertanto controinteressato a far decollare lo sviluppo. Venne pertanto attribuito più del 70% delle risorse ai livelli di governo subnazionali, conclamatamente incapaci di programmare e gestire (come aveva evidenziato anche la notissima ricerca di Putnam del 1993), e naturalmente inclini alla deriva distributiva. Furono impiegate armi spuntate o perniciose, come la “riserva di premialità” (La Spina 2007). Il risultato atteso del Programma di sviluppo del Mezzogiorno (Psm), redatto dal Dps nel 1999, era di “portare il tasso di crescita dell’intero Mezzogiorno dell’anno 2004 ad un valore significativamente superiore a quello europeo”, vale a dire ad un aumento annuo del Pil di circa il 4%. Più o meno nello stesso periodo si ebbe la fallimentare esperienza, fondata su presupposti analoghi e alimentata con fondi nazionali (e specificamente ispirata dallo stesso ideologo della legge 64, Giuseppe De Rita), dei patti territoriali. Spesso gli imprenditori hanno partecipato in modo opportunistico, mentre le amministrazioni pubbliche sono state in competizione tra loro per ottenere maggiori risorse da destinare al reperimento del consenso, anziché impegnarsi per il raggiungimento di obiettivi comuni (Cerase 2005; De Vivo 2004a, 2004b, 2006). La successiva e altrettanto inefficace versione di tale improprio strumento, all’interno degli interventi europei, furono i Programmi integrati territoriali. I contratti di programma, risalenti al 1971, che invece sono uno strumento di programmazione negoziata vocato alla localizzazione di investimenti esterni, sono stati depotenziati e snaturati (La Spina 2003, 2009). Tra il 1992 e il 1996 la condizione dell’economia meridionale si è fortemente deteriorata, riportando il divario rispetto al Centro-Nord all’incirca ai livelli del 1950. Nella seconda metà degli anni novanta, invece, si è verificata una diminuzione dei divari di sviluppo economico tra le regioni meridionali. Ciò con riferimento sia alle esportazioni sia al Pil del Mezzogiorno. Quest’ultimo nel quinquennio 1997-2001 è cresciuto in media annua del 2,3%, contro una crescita media del 2% al Centro-Nord nello stesso periodo. Si tratta di una differenza ovviamente da guardare con favore, che peraltro non era tale da far parlare (come invece si è fatto) di una svolta decisiva. Inoltre, come era prevedibile (ma molti non videro o non vollero vedere), era un miglioramento temporaneo ed effimero. Negli stessi anni, d’altro canto, è continuata la tendenza all’allargamento del gap infrastrutturale tra le due aree del paese. 3. Gli anni 2000 Una delle novità introdotte durante la legislatura iniziata nel 2001 è stata la creazione del Fondo per le Aree Sottoutilizzate (Fas). L’intenzione era quella di riunire in un unico contenitore i vari stanziamenti, destinati ad una molteplicità di strumenti di intervento, stanziamenti i quali spesso non venivano integralmente spesi. In tal modo si sperava di consentirne un utilizzo effettivo e rapido. Posto questo lodevole intento, la conseguenza più evidente (presumibilmente non voluta) della creazione del Fas fu tutt’altra. Una volta che i denari erano tutti insieme, bene in vista e appetibili, è stato facile volta per volta “scipparne” un pezzetto, destinandolo a utilizzi spesso del tutto incongruenti, sia per destinazione territoriale, sia per finalità: da sovvenzioni alle multe per le quote latte (insegnando così a chi ha violato la normativa europea che ha fatto benissimo a comportarsi così) agli ammortizzatori sociali in deroga, all’Expo di Milano (una delle aree più ricche del mondo, pertanto non “sottoutilizzata”), al ripianamento dei bilanci di comuni in dissesto, secondo il gradimento dell’esecutivo al momento in carica (il che, anche quando tali comuni si trovano al Sud contraddice la ragion d’essere del Fas, e comunque insegna a tali comuni che fanno bene a produrre buchi di bilancio, se possono contare su qualche santo in paradiso a Roma). Tanto nella prassi politica quanto nella raffigurazione da parte degli organi di stampa (i quali raccontano dei viaggi verso la capitale di questo o quel maggiorente locale, per impetrare un favor a beneficio del territorio da lui governato), la policy di sviluppo nazionale di cui il Fas è l’architrave è diventata, tout court, politics: non contano pressoché nulla le finalità ufficiali, così come le ripartizioni dei fondi tra le regioni stabile nelle sedi appropriate. Contano solo i rapporti di forza al Centro, nonché il gradimento che le varie élites locali dei vari livelli di governo subnazionali (ivi compresi quelli del Centro-Nord) riscuotono presso il Centro. Ciò sia per ottenere qualcosa che non sarebbe stato dovuto, ma anche per ricevere (almeno in parte) ciò che invece era previsto e quindi dovuto. È sempre una concessione dall’alto, che come tale viene trasparentemente presentata e fatta pesare. Con buona pace della programmazione della policy e della sua credibilità. La politica nazionale ha rinunciato così a qualunque infingimento, svelando la sua natura particolaristica e distributiva. Tra l’altro, i fondi Fas vanno a costituire la quota di cofinanziamento che le istituzioni nazionali dovrebbero apportare per consentire l’utilizzo dei fondi europei. Il che significa che se essi mancano o ne diviene incerta la percezione, ciò contribuisce al blocco di tali fondi (al quale poi le amministrazioni meridionali contribuiscono a propria volta anche in proprio). Strumenti certo imperfetti, ma capaci di generare qualche risultato di sviluppo (quali il credito d’imposta per l’occupazione o il prestito d’onore) sono stati in certi momenti indeboliti, salvo poi a prevederne più di recente la reintroduzione. Esistono anche crediti di imposta per gli investimenti e per le spese in ricerca e sviluppo, così come un fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica. La crescita del Pil del Sud a un ritmo del 4% annuo a partire dal 2004, il già ricordato obiettivo del Psm del 1999 (del tutto scontato, mirando a ridurre significativamente il divario nell’arco di un decennio; anzi non molto ambizioso), è stato clamorosamente mancato. Esattamente al contrario, come vedremo meglio appresso, il divario ha ricominciato ad aumentare. Va sottolineato che l’Italia nel suo complesso ha notoriamente una bassissima capacità di attrazione di investimenti diretti esterni (IDE), ben al di sotto della media dell’Ue a 25 (e in particolare assai al di sotto di paesi come Regno unito, Irlanda, o anche Polonia). Altrove gli IDE sono l’indicatore per eccellenza del successo di una politica di sviluppo. Da noi l’enfasi sull’endogenia a portato a non dar loro molta importanza, di fatto. Tuttavia, il loro incremento è debitamente menzionato nei vari documenti programmatori. Ebbene, fatti pari a 100 gli IDE nel nostro paese (che, lo ribadisco, è tra gli ultimi in Europa quanto ad attrattività), nel biennio 20052006 (cioè quando avrebbe dovuto trovare coronamento lo sforzo di Agenda 2000) al Sud è andato l’1%. Il Galles, per più di mezzo secolo area sottosviluppata del Regno Unito, grazie a un complesso di interventi e grazie soprattutto alla Welsh Development Agency, è diventata nell’arco di una decade una delle prime in Europa quanto a flussi di IDE ricevuti. La capacità attrattiva del nostro Meridione è invece praticamente nulla (nonostante 42 anni di intervento straordinario e la Nuova Programmazione). Da solo, questo già basta e avanza come indicatore di grave insuccesso. Mentre era ancora a capo del Dps, Fabrizio Barca (2006) ha pubblicato una riflessione sugli anni della Nuova Programmazione. Il testo non parla del Psm del 1999, e neppure dei successi conseguiti negli anni novanta da altri paesi (dei termini di paragone forse non irrilevanti, volendo trarre delle “lezioni” dall’esperienza). Sia in tale testo, sia nei documenti ufficiali (come il Quadro strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013), si nota - oltre alla mancata ammissione degli errori compiuti, con conseguente incapacità di imprimere un svolta - uno “slittamento dei fini”. Anziché dedicarsi alla promozione dello sviluppo economico (quindi, prioritariamente e prevalentemente a incrementare il Pil, gli investimenti, le esportazioni, l’occupazione, le infrastrutture necessarie per la produzione, magari gli investimenti esterni; tutte cose, peraltro, assai facilmente misurabili) ci si è rivolti sempre di più ad altre dimensioni “sociali”, non coincidenti con esso: i beni culturali, l’istruzione, la marginalità, la sanità, le “capacità” delle amministrazioni. Tutte cose importanti, certo, che per un verso non riguardano strettamente la crescita economica (anche se le sono in qualche modo connesse; del resto, ciascuna singola cosa è connessa con molte altre), e per altro verso rientrano in quello che le amministrazioni dovrebbero fare in via ordinaria. L’impressione è che, visto che gli obiettivi ufficiali e naturali sono stati mancati (e continueranno a esserlo), si evita di sottolinearlo, e si sostituiscono ad essi altri obiettivi, peraltro più sfuggenti e meno facili da misurare, e al contempo tali da evocare diffuse simpatie. Chi potrà, infatti, parlare contro la destinazione di risorse all’istruzione o alla sanità o alla riduzione dell’esclusione sociale? Nonostante il Dps operi con riguardo all’intero territorio nazionale, sono le aree depresse, quindi in sostanza il Mezzogiorno, la parte del paese cui si rivolge il grosso della sua attività, che con gli anni è diventata sempre più cospicua, con una crescita dimensionale della struttura che è arrivata a raggiungere circa 400 unità. Sotto il governo a guida Prodi insediatosi nel 2006 il Dps è stato allocato presso il ministero dello sviluppo economico (prima denominato delle attività produttive). Fabrizio Barca (che lo aveva guidato sia nei primi anni, sia dal 2001 fino a qual momento) è stato sostituto da Carlo Sappino. Successivamente il Dps è stato ridenominato in dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica. Al suo vertice siede adesso Aldo Mancarti. A metà del 2010 le deleghe relative al Dps sono state attribuite al ministro degli affari regionali, Fitto. Come abbiamo già detto sono in atto, e già da tempo, una riduzione e una sottrazione sistematiche delle risorse che dovrebbe andare al Sud. D'altro canto, una certa retorica “nordista” ha gioco facile quando afferma che i denari così destinati non vengono neppure impegnati, o, quando vengono spesi, sono sprecati o consegnati al malaffare. Come è noto, infatti, nella gestione dei fondi europei stanziati dalle politiche di coesione, i quali diversamente dal Fas non possono essere sottratti a vantaggio del Centro-Nord, le più vaste e popolose regioni meridionali hanno dato e continuano a dare pessima prova di sé. L'attuale periodo di programmazione (2007-2013) volge al termine, e soltanto una quota trascurabile dei fondi è stata finora spesa (sicché è già presente il rischio del disimpegno automatico di parti cospicue di essi, evitabile solo tramite forzature). Ad aprile 2011 il commissario europeo competente, Hahn, ha avvertito le autorità nazionali e regionali del pericolo esistente in relazione alla possibile perdita di circa 1,7 miliardi di euro relativi al periodo 2007-2009. Le percentuali di utilizzo (pur essendo ormai incombente il 2013) sono bassissime. A inizio 2011 la spesa era ancora al di sotto del 10%. Ciò per un verso rivela inefficienza e incuria, ma per altro verso va anche forse riallacciato al fatto che se ci si riduce a usare le risorse all’ultimo minuto si può sperare di farlo in modo assai più libero rispetto a quanto era stato programmato (e indulgere così nelle consuete distribuzioni a pioggia, inutili o dannose per lo sviluppo, ma tanto appetibili sul piano distributivo), confidando in un’elasticità dovuta appunto all’urgenza di evitare il disimpegno. Se poi una parte dei fondi va perduta, pazienza. Quanto al Fas, a fine 2010 di 16 miliardi di euro stanziati nel precedente periodo di programmazione (quindi disponibili dal 2003) a dire del ministro Fitto (2010) ne risultavano spesi il 38% e impegnati il 40% su progetti il cui stato di avanzamento variava tra lo 0 e il 10%. La Commissione europea, per parte sua, ha concesso dilazioni per rendicontare la spesa. Una considerazione specifica va riservata al tema dell’occupazione. Nel 1999 il tasso di disoccupazione al Sud si attestava al 22%. Negli anni successivi si è avuta una sua diminuzione. Nel 2008 era sceso al 12%. La modestia della crescita dell’economia meridionale avutasi fino al 2002, e a maggior ragione la contrazione riscontratasi negli anni successivi, non giustificano da sole un tale decremento. Si poteva, per i primi anni, ipotizzare che esso fosse dovuto all’emersione (grazie alle nuove forme contrattuali introdotte con il “pacchetto Treu”) di rapporti lavorativi prima sommersi. Ma non era così. Al Sud su dieci nuovi occupati nel 2001 soltanto uno, all’incirca, aveva un rapporto flessibile (Svimez 2002, 50). Gli altri erano contratti tipici. La minore disoccupazione era quindi addebitabile a forme di aiuto che imponevano appunto l’accensione (quantomeno sulla carta) di rapporti di lavoro tipici (488, credito di imposta), per un verso, e alla contrazione della popolazione attiva (dovuta alla ripresa dell’emigrazione), per altro verso. Negli anni successivi alla legge c.d. Biagi, si può anche ritenere che molti rapporti di lavoro sommersi siano emersi (il che ovviamente non va a merito delle policies di sviluppo per il Sud). Di recente, con la crisi, la situazione è fortemente mutata (Svimez 2011). Vi è stata una forte flessione dell’occupazione, che ha colpito tutto il paese. Tra il 2008 e il 2010 vi è stato un decremento di 533 mila unità lavorative, di cui 281 mila solo nel Mezzogiorno. Il tasso degli occupati rispetto alla popolazione complessiva è sceso dal 65,7% del 2008 al 64% del 2010 nel Centro-Nord, e dal 46,1 al 43,9 nel Mezzogiorno. In Campania meno del 40% della popolazione in età da lavoro risulta ufficialmente occupata. In Calabria il 42,2%, in Sicilia il 42,6%. Il tasso di disoccupazione, poi, è anch'esso peggiorato in tutto il paese: dal 12% del 2008 è cresciuto al 13,4% al Sud, mentre al Centro-Nord è salito, negli stessi anni, dal 4,5% al 6,4%. Tale indicatore, però, può essere fuorviante, essendo calcolato tenendo conto di coloro che cercano attivamente lavoro. È in preoccupante crescita, tuttavia, la quota dei “disoccupati impliciti”, vale a dire di coloro che nei sei mesi precedenti la rilevazione non hanno cercato ufficialmente lavoro, pur essendo in età lavorativa. Tale fenomeno, che era tipico del Mezzogiorno (ove, secondo le anticipazioni del Rapporto Svimez 2011, nel 2010 si sono avute 958mila persone in cerca di occupazione contro oltre un milione di disoccupati nascosti, sicché il tasso ufficiale di disoccupazione andrebbe in effetti pressoché raddoppiato), si riscontra adesso anche al Centro-Nord (con un incremento dei disoccupati impliciti del 33,3% nel 2010 rispetto al 2008). All'interno dei disoccupati, poi, particolarmente penalizzati sono i giovani, specie se laureati. Sicché comincia a diffondersi tra alcuni di essi la tendenza a non scrivere le credenziali formative di livello superiore nel loro curriculum, ovvero a rinunciare intraprendere gli studi universitari. Secondo l'Istat il tasso di disoccupazione dei soggetti tra i 15 e i 24 anni nel 2010 è stato di circa il 28% in Italia e del 39% al Sud. Tuttavia, occorre guardare, come suggerisce la Svimez (2011), anche al tasso di occupazione dei giovani. Nel Mezzogiorno tale tasso (relativamente alla fascia tra i 15 e i 34 anni) è calato, nel 2010, al 31,7% (mentre nel 2009 era del 33,3%). Quanto alle donne, sempre nel 2010, è del 23,3%). Nel Nord del Paese, invece, nello stesso anno è del 56,5%. Quindi, al Sud solo un “giovane” (tra i 15 e i 34 anni) su tre lavora. Ma anche al Centro-Nord ne lavora uno su due, il che è molto allarmante ed evidenzia una chiusura del mercato del lavoro, anche settentrionale, verso soggetti più deboli e non garantiti. A ulteriore riprova di ciò va il fatto che tra il 2008 e il 2010 nel Centro-Nord si è avuta una contrazione del l'1,5% degli occupati, risultante da un sommatoria tra un aumento di 310mila unità tra i soggetti con più di 35 anni e una diminuzione di 562mila unità nelle fasce di età tra i 15 e i 34 anni. Le conseguenze della crisi sono quindi ricadute, lì, interamente sui giovani. Il che rivela, ove ce ne fosse bisogno, un sistema-paese nel suo complesso ingessato, statico, incapace di valorizzare quelle che dovrebbero essere tra le sue energie migliori. Un processo riformatore che ha riportato alla ribalta il divario Nord-Sud è quello che ha riguardato il federalismo fiscale. Una delle sue idee-forza è quella secondo cui i servizi sanitari o quelli degli enti locali debbano costare in modo simile su tutto il territorio nazionale, il che in prima battuta penalizza i territori meridionali, caratterizzati da servizi in genere di scarsa qualità, e tuttavia estremamente dispendiosi, perché i soggetti pubblici o para-pubblici che li erogano sono appesantiti da un personale sovrabbondante, spesso squalificato, spesso assunto con metodi clientelari. Non è scontato (anzi è assai opinabile) che “lo stesso” servizio possa costare esattamente la stessa somma in tutto il paese. D’altro canto, l’idea che non si possa più prescindere dai costi e che si debba discutere di un “costo standard” è saliente, ed è entrata con forza nel processo di policy (per quanto poi nel decreto di attuazione sia stata infine considerata in via transitoria la spesa storica). Un’altra idea forte è quella secondo cui le tasse “prodotte” in un dato territorio siano, sostanzialmente, “di proprietà” di quel territorio, e devono quindi “restarvi” in termini di servizi resi. Se un’azienda ha uno stabilimento nel territorio A e la sede legale nel territorio B pagherà le tasse nel secondo, mentre l’attività produttiva è in tutto o in parte svolta nel primo, il che introduce un elemento di distorsione. Il conteggio non è quindi così semplice come lo si dipinge. In secondo luogo, in base all’ordinamento vigente (anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione adottata nel 2001), allo Stato continuano a competere una serie di competenze, tra cui quella di determinare intervenendo poi ove necessario per assicurarli su tutto il territorio nazionale - i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui i tutti i cittadini (come individui, non come residenti in una determinata regione) sono titolari. Allo Stato spetta altresì di “promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona” (art. 119, comma 5 Cost.). Il che continua a richiedere che al livello centrale (e non solo ai livelli subnazionali) affluiscano introiti fiscali non indifferenti. Alcune delle prime proposte di federalismo fiscale immesse nel dibattito affermavano il predetto “principio di territorialità” secondo cui le imposte riscosse su un territorio gli “appartengono”. In tal senso andava ad esempio una legge approvata dal consiglio regionale della Lombardia. La legge-delega 42/2009 però non ha accolto tale impostazione. Gli otto decreti legislativi attuativi della delega sono stati poi tutti predisposti e approvati, introducendo novità significative su temi quali, tra gli altri, il “federalismo fiscale municipale” (da cui deriverà una forte penalizzazione dei comuni meridionali), quello “demaniale”, le funzioni, i costi/fabbisogni standard di province, città metropolitane e comuni, il settore sanitario, le risorse aggiuntive e la perequazione, l’autonomia tributaria di regioni e province, i “premi e sanzioni” per gli enti locali, nell’ottavo e ultimo dei decreti. In questo sono previste anche la rimozione e l’incandidabilità per 10 anni a qualsiasi carica pubblica dei presidenti di regione responsabili di dissesti in ambito sanitario, nonché altre sanzioni del genere nei confronti di una serie di soggetti che abbiano creato perdite agli organismi da loro amministrati. Per un verso, quindi, vi è lo sforzo di responsabilizzare i vari livelli di governo, inducendoli ad una maggiore cura nella gestione del denaro pubblico. Per altro verso, è anche evidente l’intento degli esponenti di certe regioni di “riportare a casa” (dal loro punto di vista) risorse, inevitabilmente sottraendole a qualcun altro. È possibile che i territori che hanno finora beneficiato di certi trasferimenti almeno in parte non se li meritino, o se li meriterebbero in linea teorica, ma hanno dimostrato di non essere in grado di farne buon uso. Ma è anche possibile che in tali territori vivano categorie di cittadini i cui diritti vengono messi a repentaglio, le quali sono però troppo deboli per protestare e imporsi2. A fine novembre 2010 è stato presentato dal governo in carica il “Piano nazionale per il Sud”, che, dopo aver ammesso il mancato verificarsi di significativi effetti di convergenza negli ultimi 15 anni ((pur a fronte di una gran mole di risorse Ue e del Fas), enuncia principi quali la concentrazione degli interventi su poche priorità (ne vengono enunciate otto) e pochi progetti di grandi dimensioni (facendo riferimento a grandi infrastrutture, reti, nuove tecnologie, centri di ricerca e così via), la chiara individuazione delle responsabilità (anche tramite il nuovo strumento del “Contratto istituzionale di sviluppo”), un maggiore coordinamento centrale degli interventi, la qualità dei progetti medesimi, la semplificazione e un maggiore automatismo degli incentivi, la necessità di intervenire sull’ambiente sociale, per renderlo più favorevole allo sviluppo (quindi su legalità, sicurezza, istruzione, energia, servizi pubblici), il raccordo con il federalismo fiscale. Tra le priorità troviamo interventi quali quelli relativi ai rifiuti, alla riduzione del dissesto idrogeologico, al patrimonio mussale e archeologico, ai servizi pubblici locali, all’istruzione, cioè ad ambiti che le amministrazioni locali dovrebbero presidiare in via ordinaria. Il Piano prevede anche un elenco di azioni e un cronogramma con tempi assai rapidi. Si parla anche della Banca per il Mezzogiorno, che dovrebbe favorire la nasciate l’espansione di piccole e medie imprese. Si prevede poi il trasferimento del Fas (ridenominato Fondo per lo Sviluppo e la Coesione) al ministero dell’economia e delle finanze, nonché la possibilità che l’esecutivo nazionale si sostituisca alle amministrazioni inadempienti anche attraverso commissari straordinari. Ai primi di agosto del 2011 il Cipe ha “sbloccato” 9 miliardi per il Sud (di cui 7 provenienti dal Fas), dando il via a sei opere strategiche. “La notizia è stata accolta con grande soddisfazione da tutti i governatori delle Regioni meridionali”3. 4. Ancora la questione meridionale Questo paragrafo è dedicato (ovviamente senza alcuna pretesa di completezza) allo spazio che il tema della politica per il Mezzogiorno ha recentemente recuperato sia agli occhi del ceto intellettuale sia (soprattutto) in termini di copertura mediatica. Almeno due sono i fattori che vanno menzionati: la già richiamata transizione verso il federalismo fiscale, da un lato, ma anche lo scoccare dei 150 anni dall’Unità, dall’altro. Per la verità poco tempo addietro pareva che di questione meridionale non si potesse e non si dovesse parlare più. A parte l’esplicita antipatia nutrita verso di essa dalla Lega Nord (nonché da altri attori politici che aspiravano a non perdere elettori a vantaggio di essa), emblematico di questo clima è il pamphlet di Viesti (economista meridionale coinvolto da vicino sia intellettualmente che operativamente nella Nuova Programmazione) Abolire il Mezzogiorno (2003). A suo avviso, la questione meridionale, che presuppone un solo Mezzogiorno, e non tanti, si suddividerebbe e si 2 “… per definizione un sistema maggioritario realizza le preferenze della maggioranza: i cittadini del Mezzogiorno continentale, al 1° gennaio 2010 ammontano all’incirca a 14.166.000 abitanti, mentre quelli del Centro Nord (escludendo anche le Regioni e Province a statuto speciale) a 37.069.000 abitanti. È ben chiaro che gli interessi più rappresentati prevalgono, ma deve esserci un limite al di là del quale quelli minoritari non possano essere sacrificati” (Pica e Villani 2010). 3 “e in particolare da Nichi Vendola” (Corriere della sera, 3/8/2011), il quale ha anche firmato al riguardo una nota congiunta con il ministro degli affari regionali Fitto (già suo avversario per la presidenza della regione Puglia). frammenterebbe, fino a sparire. Bisognerebbe pertanto smettere di parlare di questione meridionale, “riportare al centro della responsabilità politica le classi dirigenti locali”, “rivedere a fondo l’insieme delle politiche economiche dell’Italia dell’euro”. “Non servono regole e istituzioni speciali”, né “politiche speciali per il Mezzogiorno”. Occorre, appunto, “abolire il Mezzogiorno”, non nel senso di distruggerlo fisicamente, ma piuttosto nel senso di superarlo come categoria concettuale, rinunciando trattarlo come un ggetto unitario4. In questo modo sarà possibile lasciarsi alle spalle un atavico complesso di inferiorità, e finalmente cominciare a creare uno sviluppo capace di sostenersi da solo. La conclusione stringente di una tale presa di posizione è che occorre appunto astenersi da tutti gli interventi, ivi compresi quelli comunitari. Ma una regola che in linea teorica destina al Sud a fini di riequilibrio una quota di investimenti significativamente maggiore di quella che spetterebbe in proporzione al territorio o alla popolazione, non è forse un po’ “speciale”? E che dire di del Fas che, sempre in linea teorica, andrebbe impiegato per l’85% al Sud? O delle stesse politiche di coesione comunitarie? Se si afferma con forza che non vi è alcun bisogno di una qualche specialità di trattamento, come ci si può poi lamentare se si viene presi in parola? Sarebbero allora da abolire le misure statali e delle varie regioni meridionali, e andrebbe richiesta la fuoriuscita immediata dall’Obiettivo convergenza delle quattro regioni che ancora vi insistono (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia). Non è questa, tuttavia, come è noto, la posizione di Viesti e di altri autori ai quali egli può essere accostato. Vi è, dunque, una contraddizione. Peraltro, più di recente Viesti (2009) ha veementemente argomentato contro la sottrazione di risorse a danno del Sud. Al contempo, ha anche difeso e giustificato quel certo uso delle risorse che ha portato alla cifra impressionate di 245.000 progetti al Sud per il 2000-2006: “si sono sprecati i soldi dei contribuenti europei nel favorire la conservazione e il ripristino di beni ambientali e architettonici nel Mezzogiorno? Certamente no … L’impostazione della Nuova Programmazione conserva tutta la sua validità”. Una posizione per certi versi antitetica a quest’ultima (ma imparentata con la, presumibilmente provocatoria, suddetta richiesta di abolire il Mezzogiorno) è stata recentemente avanzata (godendo di grande attenzione giornalistica e televisiva) da Luca Ricolfi (2010), il quale ha proposto una “contabilità nazionale liberale”, fondata sulla separazione tra il settore propriamente produttivo, market oriented, da un lato, e l’interposizione del settore pubblico (tassazione in senso lato, remunerazione dei pubblici dipendenti, erogazione di vari tipi di benefici fuori mercato), dall’altro. Il “tasso di parassitismo” è il “rapporto fra la spesa pubblica corrente e il prodotto del settore market”. Subito dopo precisa che in realtà non tutta la spesa pubblica è propriamente “parassitaria”, giacché essa, in una certa misura, fornisce un contributo necessario al buon funzionamento di un sistema socio-economico. “Il punto è che, grazie al tasso di parassitismo … e grazie agli indici di interposizione pubblica … molte cose che nelle pieghe della contabilità standard restano nascoste diventano immediatamente visibili. Ad esempio … quando un territorio sembra produrre reddito, ma in realtà consuma il reddito prodotto da altri territori”. A ciò egli aggiunge l’analisi dei tassi di evasione fiscale, della sottoproduzione e dello spreco nell’erogazione dei servizi pubblici, del costo effettivo della vita, del tempo libero disponibile. La sua conclusione è che le regioni del Sud beneficerebbero di trasferimenti in larga misura indebiti a danno del Nord: 50 miliardi di euro annui circa nell’ipotesi più bonaria, 85 circa in quella più punitiva. La tesi di Ricolfi si fonda su petizioni di principio a dir poco opinabili e passaggi argomentativi a dir poco deboli. Il fatto che venga avanzata con l’autorità dello studioso unita alla verve del comunicatore e al pulpito di un importante quotidiano nazionale, tuttavia, ne ha potenziato l’impatto. Tra i molti punti deboli: la scelta di confrontare per lo più le regioni del Nord e del Sud, tenendo da parte quelle del Centro; una pars construens assai poco sviluppata; ancora, l’idea secondo cui la spesa previdenziale, di cui si avvantaggia il Nord (ove risiedono molti percettori di 4 È vero che il Sud è grande e contiene realtà eterogenee. Si può d’altro canto parlare di una “sindrome meridionale” (ben nota a chi abbia occhi per vedere) che colpisce le sue aree più vaste e popolose e ricomprende in sé un certo approccio all’amministrazione e alla convivenza civile, sindrome che giustifica pienamente una politica mirata (La Spina 2006). pensioni, i quali hanno beneficiato di opportunità di lavoro maggiori che al Sud) sia “obbligata”, e come tale vada tenuta fuori dal conteggio di ciò che tocca ai vari territori. Al contrario, è evidente che il sistema previdenziale e più in generale di welfare non è un dato, bensì una variabile. Se la legislazione nazionale fosse diversa e prevedesse ad esempio il minimo vitale, questo verrebbe erogato con maggiore frequenza al Sud. Vero è che una misura del genere sarebbe un trasferimento a carico della fiscalità generale, laddove le pensioni dovrebbero essere retribuzioni differite, coperte dalla contribuzione degli stessi percettori e dei loro datori di lavoro, ma sappiamo che solo in piccola parte ad oggi le cose stanno così (inoltre, anche in occasione di una manovra impostaci dall’Europa che dovrebbe salvare il paese, proprio sulle pensioni, fortemente concentrate in Lombardia, è appunto la Lega che ha fatto barricate). Il registro linguistico, poi, ha la sua importanza: “saccheggio”, “parassitismo”, “dissipazione”, “trucchi” sono solo alcune delle espressioni contundenti che ricorrono a ogni pie’ sospinto nel volume, riecheggiando uno stile comunicativo che tra l’altro ricorre proprio nei raduni di certe forze politiche. L’aggressività verbale favorisce un muro contro muro cui purtroppo già conducono altri fattori. Richiamo poi le notazioni puntuali, persuasive e demolitorie di Federico Pica (2010), il quale per un verso evidenzia il contrasto tra l’impianto argomentativo del Sacco del Nord e le norme costituzionali e legislative vigenti sia nel nostro paese sia nell’Ue; il fatto che si assumano (cosa ben difficilmente difendibile) come termini di riferimento i territori e il Pil, piuttosto che gli individui e il loro reddito; e infine (anche a voler prendere per buone premesse di per sé inaccettabili) una serie di incongruenze nelle formule e quindi nel calcolo del dare e dell’avere tra i territori. Sempre Ricolfi ha poi addirittura avuto l’avventatezza di sostenere che, essendo il Pil pro capite del Mezzogiorno, nel periodo tra il 1995 e il 2007, cresciuto più di quello del Nord (l’1,4% contro lo 0,75% circa in media), per un verso ciò evidentemente avvantaggia il Sud (sicché, è l’implicito, non deve pretendere ancora dell’altro), e per altro verso dipenderebbe da una “spontanea” autoriduzione del carico fiscale (dovuta ad un’evasione a suo dire fortissima al Sud), sicché è bene che alle imprese del Nord vengano decurtate le tasse5. Anzitutto, le cose non stanno proprio così come sono state raffigurate. Bastava includere anche il periodo 1992-1994 (anni in cui il Sud accusò il colpo della demolizione dell’intervento straordinario) e il risultato sarebbe stato ben diverso. Se invece consideriamo l’arco di tempo che va dal 2001 al 2008, il divario in termini di Pil piuttosto si è allargato (+ 5,0 in otto anni per il Sud, contro + 7,9 per il Centro-Nord). Solo in termini di Pil pro capite si è in effetti avuta una minima convergenza, che però è stata patologica. Infatti, essa dipendeva dalla situazione della popolazione al Sud, meno dinamica che al Centro-Nord, il che è dovuto a “una ripresa dei flussi migratori interni e ad una assai più bassa capacità di attrarre migrazioni esterne” (Padovani 2009; Novacco 2007). Nel 2007 il Pil pro capite del Sud “è risultato pari al 57,4% di quello del Centro-Nord”, quindi un po’ più elevato rispetto al 1995 (in ben 12 anni), ma al contempo a livelli “inferiori a quelli degli anni ottanta” (Cannari, Magnani, Pellegrini 2009). Tuttavia, anche ammettendo che vi sia veramente stato un lieve e autentico vantaggio del Sud, ciò è proprio quanto dovrebbe produrre la politica di sviluppo (nazionale ed europea) di cui il Sud stesso continua a essere destinatario. Se si deve colmare il divario (così come ufficialmente vogliono le politiche europee e nazionali) un vantaggio del genere deve esserci, e deve anzi essere molto maggiore, nonché durevole. Se no il Pil pro capite del Sud resterebbe sempre a poco più della metà di quello del Centro-Nord (mentre quanto meno la politica europea di coesione richiede che esso superi il 75% della media dell’Ue). Purtroppo non il vantaggio additato quasi con disappunto in realtà manca. Ma il fatto che un opinion maker commenti nel modo suddetto tale dato (di per sé scorretto), così come il fatto che nelle risposte l’idea che il divario si debba colmare sia per lo più sfuggita, sono un segno dei tempi. 5 Il primo articolo è nella Stampa del 18/4/2011. Vi sono stati poi molte reazioni, tra le quali quelle di Mingardi, Bonanni, Viesti, Fortis, Bisin (cfr. la Stampa del 19/4/2011; il Messaggero del 19/4/2011 e la risposta nella Stampa del 23/4/2011). È stato persuasivamente sostenuto - da Stefano Draghi (2009) nella qualità di Governatore della Banca d’Italia - che il primo e più importante compito dei poteri pubblici in relazione al Mezzogiorno è di garantire le condizioni minime di vivibilità: “scuole, ospedali, uffici pubblici che assicurino standard comuni di servizio da un capo all’altro d’Italia”. A ciò aggiungeva, però, che “non è quella delle politiche regionali la via maestra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il Centro Nord. Occorre dirigere l’impegno soprattutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione più difficile o meno efficace in talune aree”. In effetti, se le politiche regionali devono coincidere con quelle che hanno caratterizzato la seconda metà dell’intervento straordinario, ovvero la c.d. Nuova programmazione, allora è meglio farne a meno6. D’altro canto si potrebbe osservare come promuovere lo sviluppo economico richieda ben altro e ben di più dei servizi essenziali. Congrui investimenti nella ricerca e in genere nell’innovazione. Infrastrutture e servizi reali pensati in ragione delle esigenze delle imprese. Una manodopera dotata di una qualificazione appropriata, talora molto elevata e specialistica. Una pubblica amministrazione rapida, efficiente, capace di capire le necessità della produzione, e al contempo presente, vigile, autorevole. Con buona pace dello sviluppo locale “endogeno”, una region decolla quando è capace di attrarre in misura consistente investimenti privati diretti dall’esterno. Tutto dovrebbero convergere nel creare un “clima” favorevole al business, in mancanza del quale la condanna all’arretratezza è senza appello. Ora, se riteniamo prioritario garantire la vivibilità minima, la promozione dello sviluppo economico potrebbe essere relegata in secondo piano, se ci sarà tempo, se ci saranno risorse. Ma non si tratta di temi che vanno tenuti separati. In primo luogo, se manca la vivibilità minima gli investimenti dall’esterno e le risorse in genere (che sono anche i cervelli) non arriveranno affatto. Pertanto, garantirla è indispensabile anche dal punto di vista di chi si preoccupa di promuovere lo sviluppo. In secondo luogo, occorre ricordare che lo Stato, le regioni, gli enti locali si occupano già (in genere perché vi sono leggi che glielo prescrivono) sia di far fronte ai bisogni primari, sia di promuovere lo sviluppo. Da decenni in tali direzioni si investono risorse, talora di non indifferente entità. È evidente che finora lo si è fatto male, molto male. Peraltro, come è noto è sempre più difficile ottenere risorse aggiuntive (o risorse tout court) da destinare al Sud. Il periodo dell’abbondanza è certamente finito (anche se taluni governanti sembrerebbero non essersene accorti). Di ciò deve tenere conto qualunque proposta politica. Resta il fatto che per chi si impegna nel miglioramento delle comunità del Mezzogiorno, sarà necessario perseguire contemporaneamente e la vivibilità minima, e la promozione dello sviluppo. 5. La scelta obbligata Da alcuni anni è in atto la tendenza a far diminuire le risorse destinate al Mezzogiorno. Nel 1999, ad esempio, fa assunto l’impegno di utilizzare al Sud prima il 47% e poi a regime il 45% 6 Dopo precedenti valutazioni nel complesso non molto severe (Banca d’Italia 2009), alcuni economisti facenti per lo più capo alla Banca d’Italia (Cannari, Magnani, Pellegrini 2009, 2010) sono infine arrivati ad affermare il fallimento del disegno della Nuova Programmazione (“il divario … in termini di prodotto pro capite è rimasto sostanzialmente stazionario, e l’evoluzione degli indicatori economico-sociali variamente assunti a misura dei progressi realizzati è risultata nell’insieme non negativa, ma nettamente insoddisfacente alla luce degli obiettivi iniziali”). Inoltre essi ritengono che occorra soprattutto puntare sulle politiche “nazionali” (intese come quelle uniformemente destinate all’intero territorio del paese), per lo più relative ai servizi essenziali (ivi comprese le public utilities, spesso riparate dalla concorrenza e gestite con criteri politici, pur talora a fronte di formali privatizzazioni). La politica “regionale” sarebbe necessaria, ma non sufficiente. “Con i fondi comunitari si può certamente organizzare qualche ora di doposcuola per gli studenti meridionali, ma se è la scuola pubblica che non funziona è difficile immaginare che qualche ora nel pomeriggio possa compensare ciò che non si fa in classe la mattina”. In chiave propositiva concludono che occorrerebbe evitare l’eccesso di localismo e frammentazione degli interventi, identificare le responsabilità, evitare le sovrapposizioni tra livelli di governo (“ridurre la perniciosa sovrapposizione di competenze fra i vari livelli di governo coinvolti … limitare radicalmente i poteri di veto dei governi locali alle iniziative di interesse nazionale, quelle che travalicano i confini del territorio”). delle risorse del settore pubblico per la spesa in conto capitale. Era evidente, in ciò, la volontà di recuperare la sottodotazione infrastrutturale del Sud. Tale obiettivo è stato successivamente rivisto al ribasso (fino al 41,4% per il biennio 2010-2011). Al di là delle dichiarazioni di intenti, peraltro, la spesa in conto capitale al Sud è stata sistematicamente inferiore a quella annunciata. Nel 2007, ad esempio, si è attestata sul 35,3% rispetto al totale. Se poi si guarda al settore pubblico allargato (includendovi così le ferrovie dello Stato, Enel e Terna, Anas e altre aziende a capitale pubblico operanti nei servizi di pubblica utilità) tale percentuale scende ulteriormente, fino al 32,1% nel 2006. Il miglioramento di tali servizi al Sud, evidentemente, non è una priorità per le imprese operanti con denaro pubblico. La spesa corrente destinata alle regioni meridionali, poi, pur risultando superiore a quella che viene finanziata con il gettito fiscale in esse prodotto, è in effetti inferiore alla media nazionale. Per ciascun cittadino del Sud si è speso, nel decennio 1996-2006, il 28% in meno rispetto ad un cittadino del Centro-Nord (Svimez 2007, 2008, 2009, 2010; Viesti 2009). Secondo la stessa Ragioneria generale dello Stato tra il 2002 e il 2009 la spesa pubblica statale si è diretta relativamente di più verso Nord: in regioni quali Friuli, Valle d’Aosta, Lombardia o Emilia Romagna è aumentata di circa il 40%, mentre nelle regioni del Sud si hanno il 31,6 della Puglia, il 28,6 della Sicilia, il 24,9 della Basilicata, il 24,5 della Campania, il 12,1 della Calabria (Sole 24ore, 8/8/2011). D’altro canto, come ormai attestano anche certe suesposte posizioni della intellighenzia, è indubbio che in Lombardia, Veneto, Piemonte o Emilia-Romagna sia sempre più radicata la convinzione secondo cui i denari ridistribuiti verso il Sud, quando si spendono, servono a remunerare clientes di vario tipo, anziché a creare sviluppo o anche a garantire i servizi pubblici essenziali. Sicché tanto vale lasciarli al Nord, ove per di più c’è la questione settentrionale. È un argomento talora formulato in modo rozzo e greve, ma non si può contrastarlo eludendolo. Occorre invece, se le ragioni di una politica per il Mezzogiorno devono essere percepite come delle buone ragioni, anziché come difesa di uno status quo indifendibile, ammettere che in molti casi le vecchie così come le nuove misure “speciali”, proprio perché sono servite tutt’al più a produrre consenso, hanno mancato il loro obiettivo, e proporre un radicale cambiamento di rotta. Occorre riconoscere le responsabilità e l’inadeguatezza di gran parte del ceto politico-amministrativo meridionale. E occorre immaginare soluzioni istituzionali tali da garantire (nei limiti dell’umanamente possibile) un uso celere ed efficace delle risorse, una volta selezionati pochi significativi progetti. Come ad Ulisse davanti alle sirene, al decisore per lo sviluppo andrebbero legate le mani e bloccato il timone. Anche alla luce delle esperienze di maggior successo nel recupero di situazioni di divario (Germania, Regno Unito, Irlanda, poi imitate da molti paesi dell’Est) e della fase virtuosa della stessa politica italiana, non posso che ribadire qui testualmente la proposta formulata nel volume mandato in stampa nel 2002 e uscito nel 2003, in un periodo in cui nessuno (all’infuori di Nicola Rossi e Adriano Giannola) si permetteva di sollevare dubbi sulla Nuova Programmazione (che peraltro in quegli anni sembrava mietere successi). Il Mezzogiorno avrebbe un grande potenziale di sviluppo. Per ragioni climatiche, storiche, culturali, di dotazione di beni artistici e naturali, la qualità della vita (diversamente da ciò che di fatto accade) potrebbe essere di elevato livello, il che ne accrescerebbe molto l’attrattività dell'area. Il Sud dovrebbe ospitare investimenti produttivi (possibilmente in settori innovativi). Dovrebbe in particolare esaltare i suoi vantaggi competitivi nella produzione di energia, ivi comprese le energie alternative. Valorizzare meglio le sue vocazioni naturali (agroalimentare, turismo, beni culturali e paesistici). Potrebbe incrementare di molto il suo export. Potrebbe essere un punto di riferimento nel bacino del Mediterraneo. Sono esistite ed esistono in alcuni casi ancor oggi best practices in settori quali, ad esempio, la nautica, l’elettronica, la sanità, il vitivinicolo. Esistono risorse umane spesso dotate di elevate credenziali formative. Ma va anche ricordato che rilevazioni come quelle dell’Ocse dipingono una scadente qualità del sistema scolastico complessivamente considerato. Non bisogna depredare il Sud a vantaggio del Nord, né viceversa, né riportare tutte le risorse al centro, ai ministeri. Al di là delle diagnosi, talora condivisibili, non sembra che nelle proposte di policy di cui ho riferito nei due precedenti paragrafi vi sia il potenziale per costituire un punto di svolta. Occorrono, allora, istituzioni ben progettate, cioè, in questo caso, organismi indipendenti fatti di specialisti, muniti di un mandato specifico e a tempo, con poteri adeguati, i quali garantiscano (nei limiti dell’umanamente possibile) lo sfruttamento mirato delle risorse, al fine di attivare e far restare in loco investimenti privati possibilmente esterni, per creare opportunità di lavoro vero, produttivo, fuori dal circuito della clientela, così da rompere la trappola della dipendenza. A un’agenzia di promozione dello sviluppo sovraregionale andrebbero destinata una robusta dotazione di risorse (da attingere sia al Fas sia ai fondi comunitari, studiando e attivando meccanismi che consentano di canalizzare verso di essa o comunque verso opere utili gli stanziamenti a rischio di disimpegno). Dovrebbe operare discrezionalmente, sulla base di scelte strategiche generali circa le aree territoriali, le innovazioni e la specializzazione produttiva da promuovere o rafforzare, se già esistenti. La formula da perseguire è quella di consentire la localizzazione “chiavi in mano” di attività fortemente innovative, ad alto valore aggiunto e orientate all’export, possibilmente gestite da società già caratterizzate da un curriculum di successo, meglio se straniere. La localizzazione andrebbe preceduta da un’apposita attività di marketing territoriale, e favorita tramite incentivi anche finanziari, ma soprattutto consistenti in servizi reali. Vista l’inefficienza delle amministrazioni meridionali, tale soluzione comporta alcune peculiari difficoltà. Previa ricognizione da parte dell’agenzia delle regioni e dei comuni che presentano in partenza le condizioni più favorevoli, di dovrebbero selezionare discrezionalmente e acquistare o comunque ottenere in uso a condizioni adeguate appezzamenti di terreno, aree industriali, edifici idonei allo svolgimento delle attività produttive il cui insediamento si desidera, affrontando (auspicabilmente con l’aiuto di una normativa speciale che andrebbe appositamente congegnata per agevolare la dichiarazione di pubblica utilità delle opere e il rapido superamento degli ostacoli burocratici), prima di procedere al marketing del territorio, tutte le difficoltà connesse alle normative urbanistiche, ambientali, di sicurezza, agli approvvigionamenti, ai trasporti, alle agevolazioni e ai relativi adempimenti burocratici, che talora sono decine e decine e creano, secondo rilevazioni effettuate presso gli imprenditori meridionali, difficoltà il cui peso è paragonabile a quello della criminalità organizzata. Soltanto in questo modo sarà possibile fornire certezze circa tempi e costi dell’insediamento, sulle quali le imprese possano fondare attendibili calcoli di convenienza. Se viceversa ci si lanciasse in operazioni di marketing territoriale “promettendo” o comunque dando implicitamente per facilmente ottenibili prestazioni che poi le amministrazioni locali non effettuassero nei termini e con gli esiti richiesti, la credibilità dello strumento ne risulterebbe irrimediabilmente compromessa. Si attiverebbe così, tra l’altro, una “competizione” indiretta, e come tale meno dolorosa, tra regioni e comunque tra territori meridionali. Ciascuno degli enti territoriali avrebbe infatti un incentivo a migliorare la propria vocazione ad ospitare insediamenti produttivi, onde candidarsi ad ospitare nuovi insediamenti, ma il costo immediato di questi ultimi, insieme alla responsabilità della scelta dei settori produttivi e dei contatti con la o le aziende il cui insediamento si vuole favorire ricadrebbe sull’agenzia. Un gruppo di lavoro costituito entro la Svimez (Svimez 2010b; Carabba e Claroni 2010; Gallia 2010) ha poi di recente proposto la creazione di un’Agenzia per lo sviluppo del territorio nel Mezzogiorno, quindi sovraregionale, che operi nelle otto regioni del Sud continentale e insulare, in campi quali la difesa del suolo, il settore idrico, la gestione dei rifiuti, le infrastrutture strategiche in ambito ferroviario, autostradale, portuale, delle reti immateriali (con compiti operativi, mentre la regolazione di alcuni di tali settori dovrebbe essere demandata ad autorità indipendenti nazionali). A una nuova Agenzia del genere dovrebbero in linea teorica essere assegnate risorse aggiuntive rispetto a quelle già destinate al Sud, ma ciò appare oggi poco realistico. Dal momento che la sua attività si esplicherebbe attraverso una programmazione pluriennale, si potrebbe fare ragionevole affidamento sia su interventi dettati da un’effettiva utilità per i territori considerati (anziché da altre esigenze), sia sull’effettivo impiego dei fondi, sia ancora sulla “stabilizzazione” di questi ultimi per gli utilizzi programmati, cosa che sembrerebbe scontata, ma non lo è se si pone mente ai già richiamati e numerosi “scippi” di parti del Fas avvenuti negli anni recenti. Proprio per questo, anche tale Agenzia dovesse essere in larga parte alimentata con fondi Fas ed europei, il che dovrebbe garantire che questi non andranno dissipati. Agenzie siffatte (me lo obiettò a suo tempo Salvatore Butera) certamente diverrebbero centri di potere estremamente appetibili, con il rischio di essere “catturate” in quelle stesse logiche particolaristiche, distributive e di dipendenza dal ciclo politico che esse stesse dovrebbero tenere a bada. Occorre quindi essere consapevoli che, essendo questa, a mio sommesso avviso, la scelta obbligata, l’imboccarla è una condizione necessaria ma non sufficiente di una politica per il Mezzogiorno di successo e vaccinata contro la deriva distributiva. Olson (1982) ci ha insegnato che le nazioni declinano quando le loro classi dirigenti si sclerotizzano e le coalizioni distributive prendono il sopravvento. Alle spalle dell’intervento straordinario avviato nel 1950 c’erano leaders nuovi che rimettevano in piedi un paese, temprati dall’esilio, dalla Resistenza e della guerra. Alle spalle delle politiche per il Mezzogiorno a partire da metà anni ‘70 fino ai giorni nostri vi è stata piuttosto, a giudicare dall’evidenza, una classe dirigente molto interessata a sfruttare le appetibili opportunità distributive che le politiche di sviluppo offrono. Adesso occorrerebbe un’élite di nation re-builders. Senza quella, non c’è agenzia che tenga. Riferimenti Aprile, P. 2010 Terroni, Milano, Piemme Banca d’Italia 2009 Mezzogiorno e politiche regionali, Eurosistema, seminari e convegni, n. 2, Roma, novembre Barca, F. 2006 Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Roma, Donzelli Bodo G. e Viesti, G. 1997 La grande svolta, Roma, Donzelli Cafiero, S. 1992 La politica meridionalista negli anni della Repubblica, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 2 Cafiero, S. e Marciani, G.E. 1991 Quarant’anni di intervento straordinario, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, 2 Cannari, L., Magnani, M., Pellegrini, G. 2009 Quali politiche per il Sud? 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