La politica per il Mezzogiorno nell`Italia repubblicana

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La politica per il Mezzogiorno nell`Italia repubblicana
La politica per il Mezzogiorno nell’Italia repubblicana
Antonio La Spina*
1. Premessa: politiche di promozione dello sviluppo e policy studies
La politica per il Mezzogiorno, che qui verrà considerata per lo più con riferimento al
periodo repubblicano, è rivolta a ridurre le disparità (anzitutto economiche) tra diverse aree
territoriali1. In passato si distingueva tra development policy (se il territorio era quello di un paese in
via di sviluppo) e regional policy (se il territorio era invece un’area - region – facente parte di un
paese nel suo complesso sviluppato, come il Galles o la Scozia rispetto al Regno Unito, o, appunto,
il Mezzogiorno rispetto all’Italia). Si ebbero poi interventi che riguardavano il territorio di interi
paesi (come l’Irlanda, la Grecia, il Portogallo). Tali misure avrebbero dovuto quindi qualificarsi
come development policies (il che avrebbe posto tali Stati nel medesimo gruppo di quelli africani o
sud-americani). Irlanda, Grecia, Portogallo, peraltro, erano entrati a far parte dell’allora Comunità
economica europea, sicché erano in un certo senso regions rispetto alla Cee (Hooghe e Keating
1996). Dopo poco, presumibilmente per evitare confusione, nel gergo comunitario si preferì usare
un nuovo termine, “politiche di sviluppo e coesione”, per designare gli interventi in questione. Ma
tale locuzione, nella parlata corrente, sembra fare riferimento soprattutto alle politiche, appunto,
europee, mentre potrebbero aversi (e infatti si hanno) anche politiche nazionali, ovvero facenti capo
a livelli di governo sub-nazionali (come le “regioni”, nell’altro senso del termine, italiane),
accomunati dalla finalità di promuovere lo sviluppo economico, riducendo e auspicabilmente
annullando i divari tra le varie parti di un paese (e tra le varie regions dell’Ue).
Nel prosieguo, quindi, parlerò, all’ingrosso, di politiche di sviluppo (anzitutto economico,
anche se tale accezione, diversamente da quanto molti penserebbero, non è affatto scontata; La
Spina 2003). La politica per il Mezzogiorno, quantomeno dal 1950 in poi, è o si presume che sia
una politica di sviluppo. Certo, essa è stata giustificata e/o avversata sulla base di ragioni
diversificate: come risarcimento di alcuni danni che l’unificazione comportò per il Meridione,
secondo una posizione (oggi tornata di moda) il cui esponente più noto e influente era stato
Francesco Saverio Nitti (il quale però mai dubitò del fatto che l’unificazione fosse un punto di non
ritorno e che essa avesse nel complesso fatto fare passi avanti al Sud); oppure come spinta
all’industrializzazione e alla modernizzazione di un’area depressa, secondo il “nuovo
meridionalismo” dei Saraceno, Menichella, Vanoni, Pescatore, che diede vita all’intervento
straordinario; o ancora, in tempi più recenti, come “rapina” a danno del Nord operoso e produttivo a
beneficio di un Sud fannullone.
Nella prospettiva della policy analysis, che tipo di policy è una politica di sviluppo come
quella per il Mezzogiorno? Secondo la nota classificazione di Lowi (1972), potrebbe trattarsi di una
politica redistributiva tra territori, anziché tra macro-gruppi sociali. Tuttavia, sempre secondo Lowi,
tale tipo sarebbe caratterizzato da un’esasperata conflittualità, dando vita a giochi a somma zero.
Così non fu, almeno alle sue origini, per l’intervento straordinario, perché la “sottrazione” di risorse
a Nord era in parte argomentata in chiave riparazionista, in parte come gioco a somma positiva: nel
medio-lungo periodo: se il Sud si fosse sviluppato non avrebbe avuto più bisogno di aiuti, e tutto il
paese sarebbe diventato più florido. Nei termini di Wilson (1980), quindi, poteva piuttosto apparire
una politica a costi diffusi e benefici diffusi, con una prevalenza (auspicata) dei benefici, sempre nel
medio-lungo periodo. Più di recente, con l’ingresso nell’arena partitica di forze quali la Lega Nord
*
I parr. 1 e 2 sono in larga parte ripresi da La Spina (2003), cui faccio rinvio, anche per una trattazione più estesa dei
punti qui toccati.
1
Una recente e organica ricognizione del miglioramento delle condizioni di vita degli italiani nei 150 anni dall’Unità è
in Vecchi (2011). D’altro canto, di recente testi che fondati su una lettura unilaterale dei fatti, volti a contestare
l’unificazione, diventano fenomeni editoriali: è il caso di Aprile (2010; cfr. la recensione di L. D’Antone in Riv. Ec.
Mezz. 4/2010).
(ma non soltanto per tale ragione), la dolorosità dell’elemento redistributivo ha ricominciato a farsi
sentire (sicché seguendo Wilson la policy si atteggia adesso, piuttosto, come a costi concentrati e
benefici concentrati), mentre è stato spesso perso di vista l’argomento del gioco a somma positiva.
Dare risorse al Sud può significare toglierle a qualcun altro, che magari per varie ragioni (secondo
un certo punto di vista) le meriterebbe di più. Ma dare risorse a un Sud che riesca a lasciarsi alle
spalle il sottosviluppo (beninteso, seguendo un percorso “vincolato” e in tempi non biblici) può,
invece, in ultima istanza essere un vantaggio per tutti (quindi anche per il Nord), perché in
prospettiva non sarebbero più necessari trasferimenti perequativi e il paese nel suo complesso
diverrebbe più ricco, robusto e meglio capace di fronteggiare la competizione globale. Esattamente
questa, riferita al livello dell’intera Ue, è infatti la giustificazione delle politiche di coesione.
A seconda dei casi, una politica di sviluppo può anche (magari contemporaneamente
all’appartenenza a un altro tipo, giacché quelli di Lowi non sono mutuamente esclusivi) atteggiarsi
a politica costitutiva. Infatti, nel caso dell’intervento straordinario venne “costituita” la Cassa per il
Mezzogiorno, poi trasformata/ridenominata in Agensud nel 1986, poi soppressa nel 1992. Nel 1997
è stato “costituito” il dipartimento per le politiche di sviluppo e di coesione (d’ora in avanti Dps). In
Irlanda, Regno Unito, Germania unificata si sono avuti noti casi (di grande successo) di agenzie per
la promozione dello sviluppo.
Va infine ricordato che una politica di sviluppo deve, in larga parte, allocare o erogare
risorse finanziarie (traducentisi ad esempio in aiuti alle imprese o in opere pubbliche). È possibile, o
meglio probabile, che tali risorse suscitino appetiti nei soggetti che le gestiscono, prima ancora che
in quelli che dovrebbero beneficiarne. In un regime autoritario, il gruppo al potere potrebbe
appropriarsene, quanto meno in parte. In un regime democratico il ceto politico-amministrativo
potrebbe anch’esso appropriarsene, o in senso stretto, ovvero utilizzandole per ottenere in cambio
un’altra risorsa, che in democrazia è fondamentale: il consenso. Vi è dunque un incentivo
formidabile, connaturato, inbuilt nei regimi democratici, a trasformare gli interventi per lo sviluppo
in politiche distributive (nel senso di Lowi; a costi diffusi e benefici concentrati nei termini di
Wilson, che al riguardo parla anche di client policies): si può ipotizzare una “deriva distribuiva” (La
Spina 2003). È evidente che, per un politico “downsiano” l’ottenimento del consenso è di gran
lunga più importante dello sviluppo, che passa in secondo piano. Anzi, un ceto politicoamministrativo abituato a gestire cospicui flussi finanziari in aree sottosviluppate è addirittura
controinteressato a promuovere lo sviluppo. Infatti, se questo veramente avesse luogo ciò gli
sottrarrebbe alcune cruciali leve di consenso, giacché in un’economia sviluppata per trovare lavoro i
cittadini si rivolgerebbero alle imprese, o diverrebbero imprenditori autosufficienti essi stessi;
mentre le imprese non dipenderebbero dalle erogazioni e dai poteri di veto degli apparati pubblici.
Mentre se le risorse continuano a essere usate in chiave distributiva (e se anche le prestazioni
regolatorie diventano oggetto di pressione sui consociati e di scambio) avviene esattamente il
contrario. In definitiva, una politica di sviluppo che incappa nella deriva distributiva diviene essa
stessa un potente fattore di aggravamento del sottosviluppo. Il che è appunto quanto è avvenuto e
continua ad avvenire nel caso italiano.
L’analisi e la valutazione delle politiche pubbliche ci insegnano che queste ultime spesso
mancano i loro bersagli perché sono mal concepite. D’altro canto, un insuccesso non va
semplicemente etichettato come un caso di irrazionalità. I policy makers possono ignorare o
trascurare alcuni aspetti della questione, non tenere conto di certe esperienze internazionali, non
considerare certe conseguenze, ma raramente sono irrazionali nel senso di stupidi. Se bastasse
rivelare errori quali quelli appena evocati, sarebbe relativamente facile migliorare le politiche
pubbliche (specie ove il ceto intellettuale di coloro che elaborano e valutano gli interventi operasse
secondo rigore metodologico, indipendenza e onestà intellettuale, cosa che spesso non accade,
almeno nel nostro paese; La Spina 2006; La Spina e Espa 2011). L’insuccesso di una politica
pubblica va di norma interpretato come una distonia tra le finalità ufficiali della policy e quelle reali
di alcuni dei decisori cruciali. I quali presumibilmente sono consapevoli che le cose andranno ben
diversamente da ciò che ufficialmente si dichiara, ma desiderano soprattutto portare a casa il loro
ricavo (quanto meno in termini di consenso). Io stesso ho appena detto che i ceti politici locali sono
interessati a restare centrali nell’allocazione delle risorse “per lo sviluppo”. Ma tale centralità non ci
sarebbe se non fossero state compiute e via via reiterate (in vari momenti, in forme differenti e da
maggioranze via via diverse) talune scelte in sede nazionale (ed europea). Anche il ceto politico
nazionale è interessato al consenso, e il Mezzogiorno è certamente un grande serbatoio di voti, in
cui peraltro quello di scambio è tradizionalmente saliente. Questa - peraltro squisitamente
politologica - è, credo, la chiave di lettura più istruttiva per capire sia il complessivo fallimento,
dopo 150 anni di unità, della politica per il Mezzogiorno, sia i punti su cui incidere se veramente si
volesse imprimerle una svolta: politiche di sviluppo efficaci sono possibili, ma richiedono (a
prescindere dalla loro dotazione di risorse) soggetti attuatori e/o meccanismi isolati dal ciclo
politico-elettorale. Se ciò manca, un incremento delle risorse stanziate potrebbe risultare non solo
inutile ma addirittura dannoso, risolvendosi in sprechi e “trappole del sottosviluppo”.
2. L’intervento straordinario; la “nuova programmazione”
L’origine della Cassa per il Mezzogiorno richiederebbe una trattazione a parte, che in questa
sede non è ovviamente possibile (D’Antone 1996; Del Monte e Giannola 1978; Napoletano 1999;
Pescatore 2008; La Spina 2003). Operarono congiuntamente una serie di condizioni: alcuni vincoli
esterni, con riguardo sia all’adozione delle politiche (l’opportunità di sfruttare risorse finanziarie
statunitensi; le condizioni poste dalla Banca Internazionale per la Ricostruzione Industriale), sia
all’attuazione delle stesse; l’imitazione della rooseveltiana Tenessee Valley Authority; il clima
politico che, dopo il 1947, era caratterizzato (cosa che non avvenne più in seguito) sia da una
riconosciuta leadership, sia dall’adesione dei decisori cruciali al liberalismo economico; l’esistenza
di un gruppo di influenti “tecnocrati” (tra cui l’allora governatore della Banca d’Italia), i quali
elaboravano strategie d’intervento ed erano condizione di pressare per la loro adozione. Ne risultò
una politica centralizzata, attuata da una agenzia dotata di larga autonomia, che agiva in modo
discrezionale e selettivo, con un vincolo a favore della infrastrutturazione e della
preindustrializzazione (da cui ad esempio derivò la realizzazione di opere acquedottistiche).
L’imprenditoria nazionale in un primo momento si oppose alla localizzazione di industrie al Sud,
viste come potenziali concorrenti. L’opposizione parlamentare fu nettamente contraria, in chiave
anticapitalistica, ma anche perché intravedeva la possibilità di un utilizzo a fini di consenso e
clientela. Successivamente la policy fu riorientata a favore di insediamenti industriali nella forma di
poli di sviluppo. Negli anni ’60 fu peraltro abbandonato il liberalismo economico, aprendosi una
fase di crescita dell’intervento pubblico, con riguardo a inefficaci esperienze di pianificazione, a
nuove nazionalizzazioni, alla crescita delle partecipazioni statali. Queste ultime, in particolare,
giocarono un ruolo protagonistico ed incisivo negli investimenti industriali verso il Sud. La Cassa
perse parte della propria autonomia, ma restò molto saliente.
Nei primi anni ’70 si ebbe un profondo mutamento dell’intervento straordinario. Questa
nuova fase vede (con l’immissione di nuovi attori, quali le regioni a statuto ordinario, in un quadro
di convergenza tra maggioranza e opposizione) il disgregarsi della centralizzazione e della
unitarietà dell’intervento e la dilatazione del suo ambito. Si rinunciò alla priorità
dell’industrializzazione per poli e ad interventi pensati a vantaggio della grande industria; furono
create grandi occasioni distributive attraverso i progetti speciali; aumentò la generosità degli
interventi; aumentò la spesa; vennero eliminate, a partire dal 1976, la centralità, l’isolamento,
l’autonomia e l’efficienza della Cassa. Nel 1986 si ebbe, poi, con la legge 64, una riforma
“organica” dell’intervento straordinario ufficialmente basata sull’idea dello sviluppo “autocentrato”.
Si avviò una programmazione policentrica, che sulla carta prevedeva un decisivo coinvolgimento
delle regioni e in concreto fu incapace di esprimere scelte strategiche. L’Agenzia risultò sprovvista
di iniziativa e di mordente. I vari raggruppamenti partitici convergevano su provvedimenti
“universalistici” (nel senso di capaci di accontentare in qualche modo tutti i partecipanti allo
scambio politico, compresa l’opposizione), distributivi di benefici concentrati (con riguardo alle
aree assistite, agli enti da stabilizzare, all’imprenditoria locale e non, alle amministrazioni
meridionali, etc.), con costi diffusi e scarsissima attenzione sia per i vincoli budgetari, sia per la
concreta attuabilità delle nuove misure. Il sistema di programmazione, finanziamento e attuazione
fu peraltro talmente carente e debole che ne risultò la paralisi dell’intervento straordinario, e lo
scavalcamento da parte di altri interventi, di tipo “eccezionale” (ad esempio in tema di protezione
civile), anch’essi miranti all’erogazione di benefici concentrati.
L’andamento dell’intervento straordinario in un arco di tempo di quarantadue anni conferma
sia la possibilità di politiche di sviluppo non distributive di successo (in presenza di certi
presupposti), sia l’ipotesi della deriva distributiva (al venir meno dei medesimi presupposti). Da una
policy adottata “sotto vincolo” si è infatti passati, via via che ciò risultava possibile, a misure
“unanimistiche” e manifestamente distributive.
Quello che inizia con il 1950 e termine nei primi anni ’70 è l’unico periodo nei 150 anni
dall’unificazione in cui il Mezzogiorno è cresciuto in modo notevole, stabile e continuo, sicché
anche il divario rispetto al Nord si è ridotto in modo significativo, specie con riguardo agli
investimenti, e si sarebbe ridotto ancor più sensibilmente se nel frattempo nel resto d’Italia non
fosse stato in atto un boom economico di entità mai conosciuta prima (Cafiero 1992; Cafiero e
Marciani 1991; Svimez 1993, 2000; La Spina 2003; Ritrovato 2010; Giannola 2010). Si può quindi
parlare di un intervento di successo, imputabile in larga misura alla Cassa e in parte alle scelte fatte
entro il sistema delle partecipazioni statali (che oggi non sarebbero più pensabili).
Nei primi anni ’70 la situazione mutò profondamente, e il divario tra le due parti del paese
riprese ad allargarsi. Si riducevano gli investimenti, e già nel 1980 la disoccupazione presentava un
tasso doppio rispetto a quello del Centro-Nord, che diveniva triplo a fine anni ’90, superando il
21%. Contestualmente, aumentavano le prestazioni sociali, più o meno improprie. L’incidenza
della spesa pubblica sul Pil e sul reddito medio per abitante del Mezzogiorno divenne così
elevatissima: il 53% del reddito prodotto al Sud, contro il 33% al Centro-Nord. All’interno della
spesa pubblica, a fine anni ’80 la quota relativa al sostegno del reddito corrispondeva poi al 37,9%
del Pil, contro il 26,3% al Centro-Nord (Wolleb e Wolleb 1990, 261; Trigilia 1992, 57-8). Per altro
verso agivano in modo distorsivo le aspettative, assai diffuse nella popolazione meridionale, di
ottenere un posto nel pubblico impiego (favorite anche dalla forte dilatazione degli apparati
burocratici seguita al decentramento regionale) (Del Monte e Giannola 1997, 132). La politica
d’intervento diventava passiva, reattiva, rinunciando ad influenzare la localizzazione delle attività
economiche, e sovvenzionando, quando riusciva a farlo, iniziative che in molti casi sarebbero state
comunque intraprese.
L’intervento straordinario (per evitare un referendum promosso da una comitato presieduto
da Massimo Severo Giannini) fu bruscamente e ingloriosamente soppresso con il decreto-legge
415/1992, poi convertito nella legge 488/1992, che inaugurò il “sistema di interventi ordinari nelle
aree depresse del territorio nazionale”, dirigendo contestualmente ad aree del Centro-Nord aiuti che
nel precedente sistema non sarebbero stati loro riconosciuti. Un altro obiettivo fu quello di
conformarsi alle indicazioni comunitarie in tema di concorrenza e aiuti di Stato, per rendere meglio
utilizzabili le risorse dei fondi strutturali. Dal mondo imprenditoriale, esasperato dalla farraginosità
e inaffidabilità delle procedure della l. 64, venne una forte richiesta di “automatismo”
nell’erogazione delle provvidenze. Ciò veniva giustificato in base a esigenze di velocità, trasparenza
(attraverso apposite forme di pubblicità, il rispetto dell’ordine cronologico nell’istruttoria delle
domande, l’impiego di criteri di valutazione tipici degli enti creditizi), uniformità, compressione
della discrezionalità (ritenuta foriera di clientelismo), facilitazione dei controlli di conformità tra il
richiesto e il realizzato. Tale sistema (che in effetti non fu del tutto “automatico”) andò a regime
solo quattro anni dopo, dopo una accordo tra Italia e Ue negoziato dall’allora ministro leghista
Pagliarini, e accelerò in effetti le erogazioni, ottenendo alcuni risultati in materia di investimenti e
occupazione. D’altro canto, per un verso non si prestava a sostenere iniziative innovative, e per altro
verso è stato alquanto vulnerabile alle frodi. Furono poi previsti numerosi altri tipi di aiuti (per
ricerca, innovazione tecnologica, macchinari e così via). Tra questi un credito d’imposta per
l’assunzione di nuovi addetti, anch’esso tendenzialmente automatico.
Nel 1986 era stata creata la Società per l’imprenditoria giovanile, che nel 1999, pur potendo
vantare buoni risultati e apprezzabili tassi di sopravvivenza delle iniziative agevolate, fu fatta
confluire in Sviluppo Italia. Erano previsti incentivi sia finanziari sia reali, uno stringente iter di
valutazione dei progetti, mirando a selezionare buone idee innovative, un’assistenza tecnica e un
tutoraggio. Sviluppo Italia assorbì piuttosto anche partecipazioni in alcune società dell’Iri. La nuova
entità avrebbe dovuto imitare le agenzie di sviluppo “celtiche”, ma venne piuttosto articolata in otto
società regionali, caratterizzandosi per nepotismi e prestazioni in complesso deludenti, in
particolare rispetto a quella che avrebbe dovuto essere la sua core mission, l’attrazione di
investimenti esterni. Negli anni successivi è stata modificata e ridenominata Invitalia.
Mentre altri paesi europei (come Spagna o Irlanda) sfruttavano al meglio il primo periodo di
programmazione (1989-1993) dopo la riforma dei fondi strutturali del 1988, facendone il caposaldo
delle proprie politiche di sviluppo, l’Italia prese sottogamba tale prima occasione, presentando una
programmazione scadente e acefala (Svimez 1996). Nel periodo successivo (1994-1999) si assunse
come prioritario l’obiettivo di non perdere risorse comunitarie. Venne così creata all’uopo una
Cabina di regia che proseguì e rafforzò forzature e stravolgimenti quali le riprogrammazioni,
l’overbooking (consistente nel creare una massa di progetti superiore a quelli finanziabili, così da
essere sicuri di spendere tutte le risorse), l’uso dei progetti-sponda (sovente di scarsa qualità e
come tali non inclusi nella programmazione originaria), il favor per interventi non addizionali e
“banalizzati” (consistenti di norma nella distribuzione “a pioggia” di risorse a esterni, spesso una
pletora di clientes, progettisti, valutatori, consulenti, più che a imprese), vale a dire ricondotti alle
uniche cose che sanno fare amministrazioni di norma incapaci di valutare le esigenze, selezionare,
progettare, gestire, valutare i risultati, promuovere lo sviluppo. Così operando, inoltre, le risorse
tendono a essere spartite tra le varie branche delle amministrazioni attuatrici secondo le logiche
dell’equilibrio politico all’interno della coalizione dei partiti di governo, più che in ragione di
esigenze di sviluppo. Essendo l’Italia un socio fondatore e un contribuente netto nell’Ue, con essa
non è facile e sarebbe scandaloso fare la voce grossa come potrebbe avvenire con il Portogallo o
l’Irlanda. È pertanto evidente che, con l’acquiescenza della Commissione Europea, nel far sue le
politiche comunitarie di coesione l’Italia finora ha preso assai poco sul serio il “vincolo esterno”.
Nel 1997 fu creato, nell’ambito del ministero che allora si chiamava del Tesoro il già
richiamato Dps, che avviò una “Nuova programmazione” con riferimento al terzo periodo di
programmazione 2000-2006 (c.d. Agenda 2000). Ciò avrebbe dovuto rappresentare un punto di
svolta (Bodo e Viesti 1997), ma purtroppo - come dimostrano oggi i risultati, e come era possibile,
visto il piede con cui si partì, prevedere anche allora - non fu così. Il Dps concepì una
programmazione fondata sull’idea dello sviluppo endogeno e della valorizzazione delle energie
locali (che aveva già portato alla catastrofe la legge 64/1986, sicché non si poteva dire che la storia
recente non avesse insegnato qualcosa), ivi compreso quel ceto politico locale interessato a
mantenere il ruolo di mediatore nell’allocazione delle risorse e pertanto controinteressato a far
decollare lo sviluppo. Venne pertanto attribuito più del 70% delle risorse ai livelli di governo
subnazionali, conclamatamente incapaci di programmare e gestire (come aveva evidenziato anche la
notissima ricerca di Putnam del 1993), e naturalmente inclini alla deriva distributiva. Furono
impiegate armi spuntate o perniciose, come la “riserva di premialità” (La Spina 2007). Il risultato
atteso del Programma di sviluppo del Mezzogiorno (Psm), redatto dal Dps nel 1999, era di “portare
il tasso di crescita dell’intero Mezzogiorno dell’anno 2004 ad un valore significativamente
superiore a quello europeo”, vale a dire ad un aumento annuo del Pil di circa il 4%. Più o meno
nello stesso periodo si ebbe la fallimentare esperienza, fondata su presupposti analoghi e alimentata
con fondi nazionali (e specificamente ispirata dallo stesso ideologo della legge 64, Giuseppe De
Rita), dei patti territoriali. Spesso gli imprenditori hanno partecipato in modo opportunistico, mentre
le amministrazioni pubbliche sono state in competizione tra loro per ottenere maggiori risorse da
destinare al reperimento del consenso, anziché impegnarsi per il raggiungimento di obiettivi comuni
(Cerase 2005; De Vivo 2004a, 2004b, 2006). La successiva e altrettanto inefficace versione di tale
improprio strumento, all’interno degli interventi europei, furono i Programmi integrati territoriali. I
contratti di programma, risalenti al 1971, che invece sono uno strumento di programmazione
negoziata vocato alla localizzazione di investimenti esterni, sono stati depotenziati e snaturati (La
Spina 2003, 2009).
Tra il 1992 e il 1996 la condizione dell’economia meridionale si è fortemente deteriorata,
riportando il divario rispetto al Centro-Nord all’incirca ai livelli del 1950. Nella seconda metà degli
anni novanta, invece, si è verificata una diminuzione dei divari di sviluppo economico tra le regioni
meridionali. Ciò con riferimento sia alle esportazioni sia al Pil del Mezzogiorno. Quest’ultimo nel
quinquennio 1997-2001 è cresciuto in media annua del 2,3%, contro una crescita media del 2% al
Centro-Nord nello stesso periodo. Si tratta di una differenza ovviamente da guardare con favore,
che peraltro non era tale da far parlare (come invece si è fatto) di una svolta decisiva. Inoltre, come
era prevedibile (ma molti non videro o non vollero vedere), era un miglioramento temporaneo ed
effimero. Negli stessi anni, d’altro canto, è continuata la tendenza all’allargamento del gap
infrastrutturale tra le due aree del paese.
3. Gli anni 2000
Una delle novità introdotte durante la legislatura iniziata nel 2001 è stata la creazione del
Fondo per le Aree Sottoutilizzate (Fas). L’intenzione era quella di riunire in un unico contenitore i
vari stanziamenti, destinati ad una molteplicità di strumenti di intervento, stanziamenti i quali
spesso non venivano integralmente spesi. In tal modo si sperava di consentirne un utilizzo effettivo
e rapido. Posto questo lodevole intento, la conseguenza più evidente (presumibilmente non voluta)
della creazione del Fas fu tutt’altra. Una volta che i denari erano tutti insieme, bene in vista e
appetibili, è stato facile volta per volta “scipparne” un pezzetto, destinandolo a utilizzi spesso del
tutto incongruenti, sia per destinazione territoriale, sia per finalità: da sovvenzioni alle multe per le
quote latte (insegnando così a chi ha violato la normativa europea che ha fatto benissimo a
comportarsi così) agli ammortizzatori sociali in deroga, all’Expo di Milano (una delle aree più
ricche del mondo, pertanto non “sottoutilizzata”), al ripianamento dei bilanci di comuni in dissesto,
secondo il gradimento dell’esecutivo al momento in carica (il che, anche quando tali comuni si
trovano al Sud contraddice la ragion d’essere del Fas, e comunque insegna a tali comuni che fanno
bene a produrre buchi di bilancio, se possono contare su qualche santo in paradiso a Roma).
Tanto nella prassi politica quanto nella raffigurazione da parte degli organi di stampa (i quali
raccontano dei viaggi verso la capitale di questo o quel maggiorente locale, per impetrare un favor a
beneficio del territorio da lui governato), la policy di sviluppo nazionale di cui il Fas è l’architrave è
diventata, tout court, politics: non contano pressoché nulla le finalità ufficiali, così come le
ripartizioni dei fondi tra le regioni stabile nelle sedi appropriate. Contano solo i rapporti di forza al
Centro, nonché il gradimento che le varie élites locali dei vari livelli di governo subnazionali (ivi
compresi quelli del Centro-Nord) riscuotono presso il Centro. Ciò sia per ottenere qualcosa che non
sarebbe stato dovuto, ma anche per ricevere (almeno in parte) ciò che invece era previsto e quindi
dovuto. È sempre una concessione dall’alto, che come tale viene trasparentemente presentata e fatta
pesare. Con buona pace della programmazione della policy e della sua credibilità. La politica
nazionale ha rinunciato così a qualunque infingimento, svelando la sua natura particolaristica e
distributiva. Tra l’altro, i fondi Fas vanno a costituire la quota di cofinanziamento che le istituzioni
nazionali dovrebbero apportare per consentire l’utilizzo dei fondi europei. Il che significa che se
essi mancano o ne diviene incerta la percezione, ciò contribuisce al blocco di tali fondi (al quale poi
le amministrazioni meridionali contribuiscono a propria volta anche in proprio).
Strumenti certo imperfetti, ma capaci di generare qualche risultato di sviluppo (quali il
credito d’imposta per l’occupazione o il prestito d’onore) sono stati in certi momenti indeboliti,
salvo poi a prevederne più di recente la reintroduzione. Esistono anche crediti di imposta per gli
investimenti e per le spese in ricerca e sviluppo, così come un fondo per gli investimenti nella
ricerca scientifica e tecnologica.
La crescita del Pil del Sud a un ritmo del 4% annuo a partire dal 2004, il già ricordato
obiettivo del Psm del 1999 (del tutto scontato, mirando a ridurre significativamente il divario
nell’arco di un decennio; anzi non molto ambizioso), è stato clamorosamente mancato. Esattamente
al contrario, come vedremo meglio appresso, il divario ha ricominciato ad aumentare.
Va sottolineato che l’Italia nel suo complesso ha notoriamente una bassissima capacità di
attrazione di investimenti diretti esterni (IDE), ben al di sotto della media dell’Ue a 25 (e in
particolare assai al di sotto di paesi come Regno unito, Irlanda, o anche Polonia). Altrove gli IDE
sono l’indicatore per eccellenza del successo di una politica di sviluppo. Da noi l’enfasi
sull’endogenia a portato a non dar loro molta importanza, di fatto. Tuttavia, il loro incremento è
debitamente menzionato nei vari documenti programmatori. Ebbene, fatti pari a 100 gli IDE nel
nostro paese (che, lo ribadisco, è tra gli ultimi in Europa quanto ad attrattività), nel biennio 20052006 (cioè quando avrebbe dovuto trovare coronamento lo sforzo di Agenda 2000) al Sud è andato
l’1%. Il Galles, per più di mezzo secolo area sottosviluppata del Regno Unito, grazie a un
complesso di interventi e grazie soprattutto alla Welsh Development Agency, è diventata nell’arco
di una decade una delle prime in Europa quanto a flussi di IDE ricevuti. La capacità attrattiva del
nostro Meridione è invece praticamente nulla (nonostante 42 anni di intervento straordinario e la
Nuova Programmazione). Da solo, questo già basta e avanza come indicatore di grave insuccesso.
Mentre era ancora a capo del Dps, Fabrizio Barca (2006) ha pubblicato una riflessione sugli
anni della Nuova Programmazione. Il testo non parla del Psm del 1999, e neppure dei successi
conseguiti negli anni novanta da altri paesi (dei termini di paragone forse non irrilevanti, volendo
trarre delle “lezioni” dall’esperienza). Sia in tale testo, sia nei documenti ufficiali (come il Quadro
strategico nazionale per la politica regionale di sviluppo 2007-2013), si nota - oltre alla mancata
ammissione degli errori compiuti, con conseguente incapacità di imprimere un svolta - uno
“slittamento dei fini”. Anziché dedicarsi alla promozione dello sviluppo economico (quindi,
prioritariamente e prevalentemente a incrementare il Pil, gli investimenti, le esportazioni,
l’occupazione, le infrastrutture necessarie per la produzione, magari gli investimenti esterni; tutte
cose, peraltro, assai facilmente misurabili) ci si è rivolti sempre di più ad altre dimensioni “sociali”,
non coincidenti con esso: i beni culturali, l’istruzione, la marginalità, la sanità, le “capacità” delle
amministrazioni. Tutte cose importanti, certo, che per un verso non riguardano strettamente la
crescita economica (anche se le sono in qualche modo connesse; del resto, ciascuna singola cosa è
connessa con molte altre), e per altro verso rientrano in quello che le amministrazioni dovrebbero
fare in via ordinaria. L’impressione è che, visto che gli obiettivi ufficiali e naturali sono stati
mancati (e continueranno a esserlo), si evita di sottolinearlo, e si sostituiscono ad essi altri obiettivi,
peraltro più sfuggenti e meno facili da misurare, e al contempo tali da evocare diffuse simpatie. Chi
potrà, infatti, parlare contro la destinazione di risorse all’istruzione o alla sanità o alla riduzione
dell’esclusione sociale?
Nonostante il Dps operi con riguardo all’intero territorio nazionale, sono le aree depresse,
quindi in sostanza il Mezzogiorno, la parte del paese cui si rivolge il grosso della sua attività, che
con gli anni è diventata sempre più cospicua, con una crescita dimensionale della struttura che è
arrivata a raggiungere circa 400 unità. Sotto il governo a guida Prodi insediatosi nel 2006 il Dps è
stato allocato presso il ministero dello sviluppo economico (prima denominato delle attività
produttive). Fabrizio Barca (che lo aveva guidato sia nei primi anni, sia dal 2001 fino a qual
momento) è stato sostituto da Carlo Sappino. Successivamente il Dps è stato ridenominato in
dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica. Al suo vertice siede adesso Aldo Mancarti. A
metà del 2010 le deleghe relative al Dps sono state attribuite al ministro degli affari regionali, Fitto.
Come abbiamo già detto sono in atto, e già da tempo, una riduzione e una sottrazione
sistematiche delle risorse che dovrebbe andare al Sud. D'altro canto, una certa retorica “nordista” ha
gioco facile quando afferma che i denari così destinati non vengono neppure impegnati, o, quando
vengono spesi, sono sprecati o consegnati al malaffare. Come è noto, infatti, nella gestione dei fondi
europei stanziati dalle politiche di coesione, i quali diversamente dal Fas non possono essere
sottratti a vantaggio del Centro-Nord, le più vaste e popolose regioni meridionali hanno dato e
continuano a dare pessima prova di sé. L'attuale periodo di programmazione (2007-2013) volge al
termine, e soltanto una quota trascurabile dei fondi è stata finora spesa (sicché è già presente il
rischio del disimpegno automatico di parti cospicue di essi, evitabile solo tramite forzature). Ad
aprile 2011 il commissario europeo competente, Hahn, ha avvertito le autorità nazionali e regionali
del pericolo esistente in relazione alla possibile perdita di circa 1,7 miliardi di euro relativi al
periodo 2007-2009. Le percentuali di utilizzo (pur essendo ormai incombente il 2013) sono
bassissime. A inizio 2011 la spesa era ancora al di sotto del 10%. Ciò per un verso rivela
inefficienza e incuria, ma per altro verso va anche forse riallacciato al fatto che se ci si riduce a
usare le risorse all’ultimo minuto si può sperare di farlo in modo assai più libero rispetto a quanto
era stato programmato (e indulgere così nelle consuete distribuzioni a pioggia, inutili o dannose per
lo sviluppo, ma tanto appetibili sul piano distributivo), confidando in un’elasticità dovuta appunto
all’urgenza di evitare il disimpegno. Se poi una parte dei fondi va perduta, pazienza. Quanto al Fas,
a fine 2010 di 16 miliardi di euro stanziati nel precedente periodo di programmazione (quindi
disponibili dal 2003) a dire del ministro Fitto (2010) ne risultavano spesi il 38% e impegnati il 40%
su progetti il cui stato di avanzamento variava tra lo 0 e il 10%. La Commissione europea, per parte
sua, ha concesso dilazioni per rendicontare la spesa.
Una considerazione specifica va riservata al tema dell’occupazione. Nel 1999 il tasso di
disoccupazione al Sud si attestava al 22%. Negli anni successivi si è avuta una sua diminuzione. Nel
2008 era sceso al 12%. La modestia della crescita dell’economia meridionale avutasi fino al 2002, e
a maggior ragione la contrazione riscontratasi negli anni successivi, non giustificano da sole un tale
decremento. Si poteva, per i primi anni, ipotizzare che esso fosse dovuto all’emersione (grazie alle
nuove forme contrattuali introdotte con il “pacchetto Treu”) di rapporti lavorativi prima sommersi.
Ma non era così. Al Sud su dieci nuovi occupati nel 2001 soltanto uno, all’incirca, aveva un
rapporto flessibile (Svimez 2002, 50). Gli altri erano contratti tipici. La minore disoccupazione era
quindi addebitabile a forme di aiuto che imponevano appunto l’accensione (quantomeno sulla carta)
di rapporti di lavoro tipici (488, credito di imposta), per un verso, e alla contrazione della
popolazione attiva (dovuta alla ripresa dell’emigrazione), per altro verso. Negli anni successivi alla
legge c.d. Biagi, si può anche ritenere che molti rapporti di lavoro sommersi siano emersi (il che
ovviamente non va a merito delle policies di sviluppo per il Sud).
Di recente, con la crisi, la situazione è fortemente mutata (Svimez 2011). Vi è stata una forte
flessione dell’occupazione, che ha colpito tutto il paese. Tra il 2008 e il 2010 vi è stato un
decremento di 533 mila unità lavorative, di cui 281 mila solo nel Mezzogiorno. Il tasso degli
occupati rispetto alla popolazione complessiva è sceso dal 65,7% del 2008 al 64% del 2010 nel
Centro-Nord, e dal 46,1 al 43,9 nel Mezzogiorno. In Campania meno del 40% della popolazione in
età da lavoro risulta ufficialmente occupata. In Calabria il 42,2%, in Sicilia il 42,6%. Il tasso di
disoccupazione, poi, è anch'esso peggiorato in tutto il paese: dal 12% del 2008 è cresciuto al 13,4%
al Sud, mentre al Centro-Nord è salito, negli stessi anni, dal 4,5% al 6,4%. Tale indicatore, però,
può essere fuorviante, essendo calcolato tenendo conto di coloro che cercano attivamente lavoro. È
in preoccupante crescita, tuttavia, la quota dei “disoccupati impliciti”, vale a dire di coloro che nei
sei mesi precedenti la rilevazione non hanno cercato ufficialmente lavoro, pur essendo in età
lavorativa. Tale fenomeno, che era tipico del Mezzogiorno (ove, secondo le anticipazioni del
Rapporto Svimez 2011, nel 2010 si sono avute 958mila persone in cerca di occupazione contro oltre
un milione di disoccupati nascosti, sicché il tasso ufficiale di disoccupazione andrebbe in effetti
pressoché raddoppiato), si riscontra adesso anche al Centro-Nord (con un incremento dei
disoccupati impliciti del 33,3% nel 2010 rispetto al 2008).
All'interno dei disoccupati, poi, particolarmente penalizzati sono i giovani, specie se
laureati. Sicché comincia a diffondersi tra alcuni di essi la tendenza a non scrivere le credenziali
formative di livello superiore nel loro curriculum, ovvero a rinunciare intraprendere gli studi
universitari. Secondo l'Istat il tasso di disoccupazione dei soggetti tra i 15 e i 24 anni nel 2010 è
stato di circa il 28% in Italia e del 39% al Sud. Tuttavia, occorre guardare, come suggerisce la
Svimez (2011), anche al tasso di occupazione dei giovani. Nel Mezzogiorno tale tasso
(relativamente alla fascia tra i 15 e i 34 anni) è calato, nel 2010, al 31,7% (mentre nel 2009 era del
33,3%). Quanto alle donne, sempre nel 2010, è del 23,3%). Nel Nord del Paese, invece, nello
stesso anno è del 56,5%. Quindi, al Sud solo un “giovane” (tra i 15 e i 34 anni) su tre lavora. Ma
anche al Centro-Nord ne lavora uno su due, il che è molto allarmante ed evidenzia una chiusura del
mercato del lavoro, anche settentrionale, verso soggetti più deboli e non garantiti. A ulteriore
riprova di ciò va il fatto che tra il 2008 e il 2010 nel Centro-Nord si è avuta una contrazione del
l'1,5% degli occupati, risultante da un sommatoria tra un aumento di 310mila unità tra i soggetti con
più di 35 anni e una diminuzione di 562mila unità nelle fasce di età tra i 15 e i 34 anni. Le
conseguenze della crisi sono quindi ricadute, lì, interamente sui giovani. Il che rivela, ove ce ne
fosse bisogno, un sistema-paese nel suo complesso ingessato, statico, incapace di valorizzare quelle
che dovrebbero essere tra le sue energie migliori.
Un processo riformatore che ha riportato alla ribalta il divario Nord-Sud è quello che ha
riguardato il federalismo fiscale. Una delle sue idee-forza è quella secondo cui i servizi sanitari o
quelli degli enti locali debbano costare in modo simile su tutto il territorio nazionale, il che in prima
battuta penalizza i territori meridionali, caratterizzati da servizi in genere di scarsa qualità, e tuttavia
estremamente dispendiosi, perché i soggetti pubblici o para-pubblici che li erogano sono appesantiti
da un personale sovrabbondante, spesso squalificato, spesso assunto con metodi clientelari. Non è
scontato (anzi è assai opinabile) che “lo stesso” servizio possa costare esattamente la stessa somma
in tutto il paese. D’altro canto, l’idea che non si possa più prescindere dai costi e che si debba
discutere di un “costo standard” è saliente, ed è entrata con forza nel processo di policy (per quanto
poi nel decreto di attuazione sia stata infine considerata in via transitoria la spesa storica). Un’altra
idea forte è quella secondo cui le tasse “prodotte” in un dato territorio siano, sostanzialmente, “di
proprietà” di quel territorio, e devono quindi “restarvi” in termini di servizi resi. Se un’azienda ha
uno stabilimento nel territorio A e la sede legale nel territorio B pagherà le tasse nel secondo,
mentre l’attività produttiva è in tutto o in parte svolta nel primo, il che introduce un elemento di
distorsione. Il conteggio non è quindi così semplice come lo si dipinge. In secondo luogo, in base
all’ordinamento vigente (anche a seguito della riforma del titolo V della Costituzione adottata nel
2001), allo Stato continuano a competere una serie di competenze, tra cui quella di determinare intervenendo poi ove necessario per assicurarli su tutto il territorio nazionale - i livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali di cui i tutti i cittadini (come individui, non
come residenti in una determinata regione) sono titolari. Allo Stato spetta altresì di “promuovere lo
sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona” (art. 119, comma 5 Cost.). Il che
continua a richiedere che al livello centrale (e non solo ai livelli subnazionali) affluiscano introiti
fiscali non indifferenti.
Alcune delle prime proposte di federalismo fiscale immesse nel dibattito affermavano il
predetto “principio di territorialità” secondo cui le imposte riscosse su un territorio gli
“appartengono”. In tal senso andava ad esempio una legge approvata dal consiglio regionale della
Lombardia. La legge-delega 42/2009 però non ha accolto tale impostazione. Gli otto decreti
legislativi attuativi della delega sono stati poi tutti predisposti e approvati, introducendo novità
significative su temi quali, tra gli altri, il “federalismo fiscale municipale” (da cui deriverà una forte
penalizzazione dei comuni meridionali), quello “demaniale”, le funzioni, i costi/fabbisogni standard
di province, città metropolitane e comuni, il settore sanitario, le risorse aggiuntive e la
perequazione, l’autonomia tributaria di regioni e province, i “premi e sanzioni” per gli enti locali,
nell’ottavo e ultimo dei decreti. In questo sono previste anche la rimozione e l’incandidabilità per
10 anni a qualsiasi carica pubblica dei presidenti di regione responsabili di dissesti in ambito
sanitario, nonché altre sanzioni del genere nei confronti di una serie di soggetti che abbiano creato
perdite agli organismi da loro amministrati.
Per un verso, quindi, vi è lo sforzo di responsabilizzare i vari livelli di governo, inducendoli
ad una maggiore cura nella gestione del denaro pubblico. Per altro verso, è anche evidente l’intento
degli esponenti di certe regioni di “riportare a casa” (dal loro punto di vista) risorse, inevitabilmente
sottraendole a qualcun altro. È possibile che i territori che hanno finora beneficiato di certi
trasferimenti almeno in parte non se li meritino, o se li meriterebbero in linea teorica, ma hanno
dimostrato di non essere in grado di farne buon uso. Ma è anche possibile che in tali territori vivano
categorie di cittadini i cui diritti vengono messi a repentaglio, le quali sono però troppo deboli per
protestare e imporsi2.
A fine novembre 2010 è stato presentato dal governo in carica il “Piano nazionale per il
Sud”, che, dopo aver ammesso il mancato verificarsi di significativi effetti di convergenza negli
ultimi 15 anni ((pur a fronte di una gran mole di risorse Ue e del Fas), enuncia principi quali la
concentrazione degli interventi su poche priorità (ne vengono enunciate otto) e pochi progetti di
grandi dimensioni (facendo riferimento a grandi infrastrutture, reti, nuove tecnologie, centri di
ricerca e così via), la chiara individuazione delle responsabilità (anche tramite il nuovo strumento
del “Contratto istituzionale di sviluppo”), un maggiore coordinamento centrale degli interventi, la
qualità dei progetti medesimi, la semplificazione e un maggiore automatismo degli incentivi, la
necessità di intervenire sull’ambiente sociale, per renderlo più favorevole allo sviluppo (quindi su
legalità, sicurezza, istruzione, energia, servizi pubblici), il raccordo con il federalismo fiscale. Tra le
priorità troviamo interventi quali quelli relativi ai rifiuti, alla riduzione del dissesto idrogeologico, al
patrimonio mussale e archeologico, ai servizi pubblici locali, all’istruzione, cioè ad ambiti che le
amministrazioni locali dovrebbero presidiare in via ordinaria.
Il Piano prevede anche un elenco di azioni e un cronogramma con tempi assai rapidi. Si
parla anche della Banca per il Mezzogiorno, che dovrebbe favorire la nasciate l’espansione di
piccole e medie imprese. Si prevede poi il trasferimento del Fas (ridenominato Fondo per lo
Sviluppo e la Coesione) al ministero dell’economia e delle finanze, nonché la possibilità che
l’esecutivo nazionale si sostituisca alle amministrazioni inadempienti anche attraverso commissari
straordinari.
Ai primi di agosto del 2011 il Cipe ha “sbloccato” 9 miliardi per il Sud (di cui 7 provenienti
dal Fas), dando il via a sei opere strategiche. “La notizia è stata accolta con grande soddisfazione da
tutti i governatori delle Regioni meridionali”3.
4. Ancora la questione meridionale
Questo paragrafo è dedicato (ovviamente senza alcuna pretesa di completezza) allo spazio
che il tema della politica per il Mezzogiorno ha recentemente recuperato sia agli occhi del ceto
intellettuale sia (soprattutto) in termini di copertura mediatica. Almeno due sono i fattori che vanno
menzionati: la già richiamata transizione verso il federalismo fiscale, da un lato, ma anche lo
scoccare dei 150 anni dall’Unità, dall’altro.
Per la verità poco tempo addietro pareva che di questione meridionale non si potesse e non
si dovesse parlare più. A parte l’esplicita antipatia nutrita verso di essa dalla Lega Nord (nonché da
altri attori politici che aspiravano a non perdere elettori a vantaggio di essa), emblematico di questo
clima è il pamphlet di Viesti (economista meridionale coinvolto da vicino sia intellettualmente che
operativamente nella Nuova Programmazione) Abolire il Mezzogiorno (2003). A suo avviso, la
questione meridionale, che presuppone un solo Mezzogiorno, e non tanti, si suddividerebbe e si
2
“… per definizione un sistema maggioritario realizza le preferenze della maggioranza: i cittadini del Mezzogiorno
continentale, al 1° gennaio 2010 ammontano all’incirca a 14.166.000 abitanti, mentre quelli del Centro Nord
(escludendo anche le Regioni e Province a statuto speciale) a 37.069.000 abitanti. È ben chiaro che gli interessi più
rappresentati prevalgono, ma deve esserci un limite al di là del quale quelli minoritari non possano essere sacrificati”
(Pica e Villani 2010).
3
“e in particolare da Nichi Vendola” (Corriere della sera, 3/8/2011), il quale ha anche firmato al riguardo una nota
congiunta con il ministro degli affari regionali Fitto (già suo avversario per la presidenza della regione Puglia).
frammenterebbe, fino a sparire. Bisognerebbe pertanto smettere di parlare di questione meridionale,
“riportare al centro della responsabilità politica le classi dirigenti locali”, “rivedere a fondo
l’insieme delle politiche economiche dell’Italia dell’euro”. “Non servono regole e istituzioni
speciali”, né “politiche speciali per il Mezzogiorno”. Occorre, appunto, “abolire il Mezzogiorno”,
non nel senso di distruggerlo fisicamente, ma piuttosto nel senso di superarlo come categoria
concettuale, rinunciando trattarlo come un ggetto unitario4. In questo modo sarà possibile lasciarsi
alle spalle un atavico complesso di inferiorità, e finalmente cominciare a creare uno sviluppo capace
di sostenersi da solo. La conclusione stringente di una tale presa di posizione è che occorre appunto
astenersi da tutti gli interventi, ivi compresi quelli comunitari. Ma una regola che in linea teorica
destina al Sud a fini di riequilibrio una quota di investimenti significativamente maggiore di quella
che spetterebbe in proporzione al territorio o alla popolazione, non è forse un po’ “speciale”? E che
dire di del Fas che, sempre in linea teorica, andrebbe impiegato per l’85% al Sud? O delle stesse
politiche di coesione comunitarie? Se si afferma con forza che non vi è alcun bisogno di una
qualche specialità di trattamento, come ci si può poi lamentare se si viene presi in parola? Sarebbero
allora da abolire le misure statali e delle varie regioni meridionali, e andrebbe richiesta la
fuoriuscita immediata dall’Obiettivo convergenza delle quattro regioni che ancora vi insistono
(Sicilia, Calabria, Campania, Puglia). Non è questa, tuttavia, come è noto, la posizione di Viesti e di
altri autori ai quali egli può essere accostato. Vi è, dunque, una contraddizione. Peraltro, più di
recente Viesti (2009) ha veementemente argomentato contro la sottrazione di risorse a danno del
Sud. Al contempo, ha anche difeso e giustificato quel certo uso delle risorse che ha portato alla cifra
impressionate di 245.000 progetti al Sud per il 2000-2006: “si sono sprecati i soldi dei contribuenti
europei nel favorire la conservazione e il ripristino di beni ambientali e architettonici nel
Mezzogiorno? Certamente no … L’impostazione della Nuova Programmazione conserva tutta la
sua validità”.
Una posizione per certi versi antitetica a quest’ultima (ma imparentata con la,
presumibilmente provocatoria, suddetta richiesta di abolire il Mezzogiorno) è stata recentemente
avanzata (godendo di grande attenzione giornalistica e televisiva) da Luca Ricolfi (2010), il quale
ha proposto una “contabilità nazionale liberale”, fondata sulla separazione tra il settore
propriamente produttivo, market oriented, da un lato, e l’interposizione del settore pubblico
(tassazione in senso lato, remunerazione dei pubblici dipendenti, erogazione di vari tipi di benefici
fuori mercato), dall’altro. Il “tasso di parassitismo” è il “rapporto fra la spesa pubblica corrente e il
prodotto del settore market”. Subito dopo precisa che in realtà non tutta la spesa pubblica è
propriamente “parassitaria”, giacché essa, in una certa misura, fornisce un contributo necessario al
buon funzionamento di un sistema socio-economico. “Il punto è che, grazie al tasso di parassitismo
… e grazie agli indici di interposizione pubblica … molte cose che nelle pieghe della contabilità
standard restano nascoste diventano immediatamente visibili. Ad esempio … quando un territorio
sembra produrre reddito, ma in realtà consuma il reddito prodotto da altri territori”. A ciò egli
aggiunge l’analisi dei tassi di evasione fiscale, della sottoproduzione e dello spreco nell’erogazione
dei servizi pubblici, del costo effettivo della vita, del tempo libero disponibile. La sua conclusione è
che le regioni del Sud beneficerebbero di trasferimenti in larga misura indebiti a danno del Nord: 50
miliardi di euro annui circa nell’ipotesi più bonaria, 85 circa in quella più punitiva.
La tesi di Ricolfi si fonda su petizioni di principio a dir poco opinabili e passaggi
argomentativi a dir poco deboli. Il fatto che venga avanzata con l’autorità dello studioso unita alla
verve del comunicatore e al pulpito di un importante quotidiano nazionale, tuttavia, ne ha potenziato
l’impatto. Tra i molti punti deboli: la scelta di confrontare per lo più le regioni del Nord e del Sud,
tenendo da parte quelle del Centro; una pars construens assai poco sviluppata; ancora, l’idea
secondo cui la spesa previdenziale, di cui si avvantaggia il Nord (ove risiedono molti percettori di
4
È vero che il Sud è grande e contiene realtà eterogenee. Si può d’altro canto parlare di una “sindrome meridionale”
(ben nota a chi abbia occhi per vedere) che colpisce le sue aree più vaste e popolose e ricomprende in sé un certo
approccio all’amministrazione e alla convivenza civile, sindrome che giustifica pienamente una politica mirata (La
Spina 2006).
pensioni, i quali hanno beneficiato di opportunità di lavoro maggiori che al Sud) sia “obbligata”, e
come tale vada tenuta fuori dal conteggio di ciò che tocca ai vari territori. Al contrario, è evidente
che il sistema previdenziale e più in generale di welfare non è un dato, bensì una variabile. Se la
legislazione nazionale fosse diversa e prevedesse ad esempio il minimo vitale, questo verrebbe
erogato con maggiore frequenza al Sud. Vero è che una misura del genere sarebbe un trasferimento
a carico della fiscalità generale, laddove le pensioni dovrebbero essere retribuzioni differite, coperte
dalla contribuzione degli stessi percettori e dei loro datori di lavoro, ma sappiamo che solo in
piccola parte ad oggi le cose stanno così (inoltre, anche in occasione di una manovra impostaci
dall’Europa che dovrebbe salvare il paese, proprio sulle pensioni, fortemente concentrate in
Lombardia, è appunto la Lega che ha fatto barricate). Il registro linguistico, poi, ha la sua
importanza: “saccheggio”, “parassitismo”, “dissipazione”, “trucchi” sono solo alcune delle
espressioni contundenti che ricorrono a ogni pie’ sospinto nel volume, riecheggiando uno stile
comunicativo che tra l’altro ricorre proprio nei raduni di certe forze politiche. L’aggressività verbale
favorisce un muro contro muro cui purtroppo già conducono altri fattori. Richiamo poi le notazioni
puntuali, persuasive e demolitorie di Federico Pica (2010), il quale per un verso evidenzia il
contrasto tra l’impianto argomentativo del Sacco del Nord e le norme costituzionali e legislative
vigenti sia nel nostro paese sia nell’Ue; il fatto che si assumano (cosa ben difficilmente difendibile)
come termini di riferimento i territori e il Pil, piuttosto che gli individui e il loro reddito; e infine
(anche a voler prendere per buone premesse di per sé inaccettabili) una serie di incongruenze nelle
formule e quindi nel calcolo del dare e dell’avere tra i territori.
Sempre Ricolfi ha poi addirittura avuto l’avventatezza di sostenere che, essendo il Pil pro
capite del Mezzogiorno, nel periodo tra il 1995 e il 2007, cresciuto più di quello del Nord (l’1,4%
contro lo 0,75% circa in media), per un verso ciò evidentemente avvantaggia il Sud (sicché, è
l’implicito, non deve pretendere ancora dell’altro), e per altro verso dipenderebbe da una
“spontanea” autoriduzione del carico fiscale (dovuta ad un’evasione a suo dire fortissima al Sud),
sicché è bene che alle imprese del Nord vengano decurtate le tasse5.
Anzitutto, le cose non stanno proprio così come sono state raffigurate. Bastava includere
anche il periodo 1992-1994 (anni in cui il Sud accusò il colpo della demolizione dell’intervento
straordinario) e il risultato sarebbe stato ben diverso. Se invece consideriamo l’arco di tempo che va
dal 2001 al 2008, il divario in termini di Pil piuttosto si è allargato (+ 5,0 in otto anni per il Sud,
contro + 7,9 per il Centro-Nord). Solo in termini di Pil pro capite si è in effetti avuta una minima
convergenza, che però è stata patologica. Infatti, essa dipendeva dalla situazione della popolazione
al Sud, meno dinamica che al Centro-Nord, il che è dovuto a “una ripresa dei flussi migratori interni
e ad una assai più bassa capacità di attrarre migrazioni esterne” (Padovani 2009; Novacco 2007).
Nel 2007 il Pil pro capite del Sud “è risultato pari al 57,4% di quello del Centro-Nord”, quindi un
po’ più elevato rispetto al 1995 (in ben 12 anni), ma al contempo a livelli “inferiori a quelli degli
anni ottanta” (Cannari, Magnani, Pellegrini 2009).
Tuttavia, anche ammettendo che vi sia veramente stato un lieve e autentico vantaggio del
Sud, ciò è proprio quanto dovrebbe produrre la politica di sviluppo (nazionale ed europea) di cui il
Sud stesso continua a essere destinatario. Se si deve colmare il divario (così come ufficialmente
vogliono le politiche europee e nazionali) un vantaggio del genere deve esserci, e deve anzi essere
molto maggiore, nonché durevole. Se no il Pil pro capite del Sud resterebbe sempre a poco più della
metà di quello del Centro-Nord (mentre quanto meno la politica europea di coesione richiede che
esso superi il 75% della media dell’Ue). Purtroppo non il vantaggio additato quasi con disappunto
in realtà manca. Ma il fatto che un opinion maker commenti nel modo suddetto tale dato (di per sé
scorretto), così come il fatto che nelle risposte l’idea che il divario si debba colmare sia per lo più
sfuggita, sono un segno dei tempi.
5
Il primo articolo è nella Stampa del 18/4/2011. Vi sono stati poi molte reazioni, tra le quali quelle di Mingardi,
Bonanni, Viesti, Fortis, Bisin (cfr. la Stampa del 19/4/2011; il Messaggero del 19/4/2011 e la risposta nella Stampa del
23/4/2011).
È stato persuasivamente sostenuto - da Stefano Draghi (2009) nella qualità di Governatore
della Banca d’Italia - che il primo e più importante compito dei poteri pubblici in relazione al
Mezzogiorno è di garantire le condizioni minime di vivibilità: “scuole, ospedali, uffici pubblici che
assicurino standard comuni di servizio da un capo all’altro d’Italia”. A ciò aggiungeva, però, che
“non è quella delle politiche regionali la via maestra per chiudere il divario tra il Mezzogiorno e il
Centro Nord. Occorre dirigere l’impegno soprattutto sulle politiche generali, che hanno obiettivi
riferiti a tutto il Paese, e concentrarsi sulle condizioni ambientali che rendono la loro applicazione
più difficile o meno efficace in talune aree”. In effetti, se le politiche regionali devono coincidere
con quelle che hanno caratterizzato la seconda metà dell’intervento straordinario, ovvero la c.d.
Nuova programmazione, allora è meglio farne a meno6.
D’altro canto si potrebbe osservare come promuovere lo sviluppo economico richieda ben
altro e ben di più dei servizi essenziali. Congrui investimenti nella ricerca e in genere
nell’innovazione. Infrastrutture e servizi reali pensati in ragione delle esigenze delle imprese. Una
manodopera dotata di una qualificazione appropriata, talora molto elevata e specialistica. Una
pubblica amministrazione rapida, efficiente, capace di capire le necessità della produzione, e al
contempo presente, vigile, autorevole. Con buona pace dello sviluppo locale “endogeno”, una
region decolla quando è capace di attrarre in misura consistente investimenti privati diretti
dall’esterno. Tutto dovrebbero convergere nel creare un “clima” favorevole al business, in
mancanza del quale la condanna all’arretratezza è senza appello. Ora, se riteniamo prioritario
garantire la vivibilità minima, la promozione dello sviluppo economico potrebbe essere relegata in
secondo piano, se ci sarà tempo, se ci saranno risorse. Ma non si tratta di temi che vanno tenuti
separati. In primo luogo, se manca la vivibilità minima gli investimenti dall’esterno e le risorse in
genere (che sono anche i cervelli) non arriveranno affatto. Pertanto, garantirla è indispensabile
anche dal punto di vista di chi si preoccupa di promuovere lo sviluppo. In secondo luogo, occorre
ricordare che lo Stato, le regioni, gli enti locali si occupano già (in genere perché vi sono leggi che
glielo prescrivono) sia di far fronte ai bisogni primari, sia di promuovere lo sviluppo. Da decenni in
tali direzioni si investono risorse, talora di non indifferente entità. È evidente che finora lo si è fatto
male, molto male. Peraltro, come è noto è sempre più difficile ottenere risorse aggiuntive (o risorse
tout court) da destinare al Sud. Il periodo dell’abbondanza è certamente finito (anche se taluni
governanti sembrerebbero non essersene accorti). Di ciò deve tenere conto qualunque proposta
politica. Resta il fatto che per chi si impegna nel miglioramento delle comunità del Mezzogiorno,
sarà necessario perseguire contemporaneamente e la vivibilità minima, e la promozione dello
sviluppo.
5. La scelta obbligata
Da alcuni anni è in atto la tendenza a far diminuire le risorse destinate al Mezzogiorno. Nel
1999, ad esempio, fa assunto l’impegno di utilizzare al Sud prima il 47% e poi a regime il 45%
6
Dopo precedenti valutazioni nel complesso non molto severe (Banca d’Italia 2009), alcuni economisti facenti per lo
più capo alla Banca d’Italia (Cannari, Magnani, Pellegrini 2009, 2010) sono infine arrivati ad affermare il fallimento del
disegno della Nuova Programmazione (“il divario … in termini di prodotto pro capite è rimasto sostanzialmente
stazionario, e l’evoluzione degli indicatori economico-sociali variamente assunti a misura dei progressi realizzati è
risultata nell’insieme non negativa, ma nettamente insoddisfacente alla luce degli obiettivi iniziali”). Inoltre essi
ritengono che occorra soprattutto puntare sulle politiche “nazionali” (intese come quelle uniformemente destinate
all’intero territorio del paese), per lo più relative ai servizi essenziali (ivi comprese le public utilities, spesso riparate
dalla concorrenza e gestite con criteri politici, pur talora a fronte di formali privatizzazioni). La politica “regionale”
sarebbe necessaria, ma non sufficiente. “Con i fondi comunitari si può certamente organizzare qualche ora di
doposcuola per gli studenti meridionali, ma se è la scuola pubblica che non funziona è difficile immaginare che qualche
ora nel pomeriggio possa compensare ciò che non si fa in classe la mattina”. In chiave propositiva concludono che
occorrerebbe evitare l’eccesso di localismo e frammentazione degli interventi, identificare le responsabilità, evitare le
sovrapposizioni tra livelli di governo (“ridurre la perniciosa sovrapposizione di competenze fra i vari livelli di governo
coinvolti … limitare radicalmente i poteri di veto dei governi locali alle iniziative di interesse nazionale, quelle che
travalicano i confini del territorio”).
delle risorse del settore pubblico per la spesa in conto capitale. Era evidente, in ciò, la volontà di
recuperare la sottodotazione infrastrutturale del Sud. Tale obiettivo è stato successivamente rivisto
al ribasso (fino al 41,4% per il biennio 2010-2011). Al di là delle dichiarazioni di intenti, peraltro, la
spesa in conto capitale al Sud è stata sistematicamente inferiore a quella annunciata. Nel 2007, ad
esempio, si è attestata sul 35,3% rispetto al totale. Se poi si guarda al settore pubblico allargato
(includendovi così le ferrovie dello Stato, Enel e Terna, Anas e altre aziende a capitale pubblico
operanti nei servizi di pubblica utilità) tale percentuale scende ulteriormente, fino al 32,1% nel
2006. Il miglioramento di tali servizi al Sud, evidentemente, non è una priorità per le imprese
operanti con denaro pubblico. La spesa corrente destinata alle regioni meridionali, poi, pur
risultando superiore a quella che viene finanziata con il gettito fiscale in esse prodotto, è in effetti
inferiore alla media nazionale. Per ciascun cittadino del Sud si è speso, nel decennio 1996-2006, il
28% in meno rispetto ad un cittadino del Centro-Nord (Svimez 2007, 2008, 2009, 2010; Viesti
2009). Secondo la stessa Ragioneria generale dello Stato tra il 2002 e il 2009 la spesa pubblica
statale si è diretta relativamente di più verso Nord: in regioni quali Friuli, Valle d’Aosta, Lombardia
o Emilia Romagna è aumentata di circa il 40%, mentre nelle regioni del Sud si hanno il 31,6 della
Puglia, il 28,6 della Sicilia, il 24,9 della Basilicata, il 24,5 della Campania, il 12,1 della Calabria
(Sole 24ore, 8/8/2011).
D’altro canto, come ormai attestano anche certe suesposte posizioni della intellighenzia, è
indubbio che in Lombardia, Veneto, Piemonte o Emilia-Romagna sia sempre più radicata la
convinzione secondo cui i denari ridistribuiti verso il Sud, quando si spendono, servono a
remunerare clientes di vario tipo, anziché a creare sviluppo o anche a garantire i servizi pubblici
essenziali. Sicché tanto vale lasciarli al Nord, ove per di più c’è la questione settentrionale. È un
argomento talora formulato in modo rozzo e greve, ma non si può contrastarlo eludendolo. Occorre
invece, se le ragioni di una politica per il Mezzogiorno devono essere percepite come delle buone
ragioni, anziché come difesa di uno status quo indifendibile, ammettere che in molti casi le vecchie
così come le nuove misure “speciali”, proprio perché sono servite tutt’al più a produrre consenso,
hanno mancato il loro obiettivo, e proporre un radicale cambiamento di rotta. Occorre riconoscere le
responsabilità e l’inadeguatezza di gran parte del ceto politico-amministrativo meridionale. E
occorre immaginare soluzioni istituzionali tali da garantire (nei limiti dell’umanamente possibile)
un uso celere ed efficace delle risorse, una volta selezionati pochi significativi progetti. Come ad
Ulisse davanti alle sirene, al decisore per lo sviluppo andrebbero legate le mani e bloccato il timone.
Anche alla luce delle esperienze di maggior successo nel recupero di situazioni di divario
(Germania, Regno Unito, Irlanda, poi imitate da molti paesi dell’Est) e della fase virtuosa della
stessa politica italiana, non posso che ribadire qui testualmente la proposta formulata nel volume
mandato in stampa nel 2002 e uscito nel 2003, in un periodo in cui nessuno (all’infuori di Nicola
Rossi e Adriano Giannola) si permetteva di sollevare dubbi sulla Nuova Programmazione (che
peraltro in quegli anni sembrava mietere successi).
Il Mezzogiorno avrebbe un grande potenziale di sviluppo. Per ragioni climatiche, storiche,
culturali, di dotazione di beni artistici e naturali, la qualità della vita (diversamente da ciò che di
fatto accade) potrebbe essere di elevato livello, il che ne accrescerebbe molto l’attrattività dell'area.
Il Sud dovrebbe ospitare investimenti produttivi (possibilmente in settori innovativi). Dovrebbe in
particolare esaltare i suoi vantaggi competitivi nella produzione di energia, ivi comprese le energie
alternative. Valorizzare meglio le sue vocazioni naturali (agroalimentare, turismo, beni culturali e
paesistici). Potrebbe incrementare di molto il suo export. Potrebbe essere un punto di riferimento
nel bacino del Mediterraneo. Sono esistite ed esistono in alcuni casi ancor oggi best practices in
settori quali, ad esempio, la nautica, l’elettronica, la sanità, il vitivinicolo. Esistono risorse umane
spesso dotate di elevate credenziali formative. Ma va anche ricordato che rilevazioni come quelle
dell’Ocse dipingono una scadente qualità del sistema scolastico complessivamente considerato.
Non bisogna depredare il Sud a vantaggio del Nord, né viceversa, né riportare tutte le risorse
al centro, ai ministeri. Al di là delle diagnosi, talora condivisibili, non sembra che nelle proposte di
policy di cui ho riferito nei due precedenti paragrafi vi sia il potenziale per costituire un punto di
svolta. Occorrono, allora, istituzioni ben progettate, cioè, in questo caso, organismi indipendenti
fatti di specialisti, muniti di un mandato specifico e a tempo, con poteri adeguati, i quali
garantiscano (nei limiti dell’umanamente possibile) lo sfruttamento mirato delle risorse, al fine di
attivare e far restare in loco investimenti privati possibilmente esterni, per creare opportunità di
lavoro vero, produttivo, fuori dal circuito della clientela, così da rompere la trappola della
dipendenza.
A un’agenzia di promozione dello sviluppo sovraregionale andrebbero destinata una robusta
dotazione di risorse (da attingere sia al Fas sia ai fondi comunitari, studiando e attivando
meccanismi che consentano di canalizzare verso di essa o comunque verso opere utili gli
stanziamenti a rischio di disimpegno). Dovrebbe operare discrezionalmente, sulla base di scelte
strategiche generali circa le aree territoriali, le innovazioni e la specializzazione produttiva da
promuovere o rafforzare, se già esistenti. La formula da perseguire è quella di consentire la
localizzazione “chiavi in mano” di attività fortemente innovative, ad alto valore aggiunto e orientate
all’export, possibilmente gestite da società già caratterizzate da un curriculum di successo, meglio
se straniere. La localizzazione andrebbe preceduta da un’apposita attività di marketing territoriale, e
favorita tramite incentivi anche finanziari, ma soprattutto consistenti in servizi reali. Vista
l’inefficienza delle amministrazioni meridionali, tale soluzione comporta alcune peculiari difficoltà.
Previa ricognizione da parte dell’agenzia delle regioni e dei comuni che presentano in partenza le
condizioni più favorevoli, di dovrebbero selezionare discrezionalmente e acquistare o comunque
ottenere in uso a condizioni adeguate appezzamenti di terreno, aree industriali, edifici idonei allo
svolgimento delle attività produttive il cui insediamento si desidera, affrontando (auspicabilmente
con l’aiuto di una normativa speciale che andrebbe appositamente congegnata per agevolare la
dichiarazione di pubblica utilità delle opere e il rapido superamento degli ostacoli burocratici),
prima di procedere al marketing del territorio, tutte le difficoltà connesse alle normative
urbanistiche, ambientali, di sicurezza, agli approvvigionamenti, ai trasporti, alle agevolazioni e ai
relativi adempimenti burocratici, che talora sono decine e decine e creano, secondo rilevazioni
effettuate presso gli imprenditori meridionali, difficoltà il cui peso è paragonabile a quello della
criminalità organizzata. Soltanto in questo modo sarà possibile fornire certezze circa tempi e costi
dell’insediamento, sulle quali le imprese possano fondare attendibili calcoli di convenienza. Se
viceversa ci si lanciasse in operazioni di marketing territoriale “promettendo” o comunque dando
implicitamente per facilmente ottenibili prestazioni che poi le amministrazioni locali non
effettuassero nei termini e con gli esiti richiesti, la credibilità dello strumento ne risulterebbe
irrimediabilmente compromessa.
Si attiverebbe così, tra l’altro, una “competizione” indiretta, e come tale meno dolorosa, tra
regioni e comunque tra territori meridionali. Ciascuno degli enti territoriali avrebbe infatti un
incentivo a migliorare la propria vocazione ad ospitare insediamenti produttivi, onde candidarsi ad
ospitare nuovi insediamenti, ma il costo immediato di questi ultimi, insieme alla responsabilità della
scelta dei settori produttivi e dei contatti con la o le aziende il cui insediamento si vuole favorire
ricadrebbe sull’agenzia.
Un gruppo di lavoro costituito entro la Svimez (Svimez 2010b; Carabba e Claroni 2010;
Gallia 2010) ha poi di recente proposto la creazione di un’Agenzia per lo sviluppo del territorio nel
Mezzogiorno, quindi sovraregionale, che operi nelle otto regioni del Sud continentale e insulare, in
campi quali la difesa del suolo, il settore idrico, la gestione dei rifiuti, le infrastrutture strategiche in
ambito ferroviario, autostradale, portuale, delle reti immateriali (con compiti operativi, mentre la
regolazione di alcuni di tali settori dovrebbe essere demandata ad autorità indipendenti nazionali). A
una nuova Agenzia del genere dovrebbero in linea teorica essere assegnate risorse aggiuntive
rispetto a quelle già destinate al Sud, ma ciò appare oggi poco realistico. Dal momento che la sua
attività si esplicherebbe attraverso una programmazione pluriennale, si potrebbe fare ragionevole
affidamento sia su interventi dettati da un’effettiva utilità per i territori considerati (anziché da altre
esigenze), sia sull’effettivo impiego dei fondi, sia ancora sulla “stabilizzazione” di questi ultimi per
gli utilizzi programmati, cosa che sembrerebbe scontata, ma non lo è se si pone mente ai già
richiamati e numerosi “scippi” di parti del Fas avvenuti negli anni recenti. Proprio per questo, anche
tale Agenzia dovesse essere in larga parte alimentata con fondi Fas ed europei, il che dovrebbe
garantire che questi non andranno dissipati.
Agenzie siffatte (me lo obiettò a suo tempo Salvatore Butera) certamente diverrebbero centri
di potere estremamente appetibili, con il rischio di essere “catturate” in quelle stesse logiche
particolaristiche, distributive e di dipendenza dal ciclo politico che esse stesse dovrebbero tenere a
bada. Occorre quindi essere consapevoli che, essendo questa, a mio sommesso avviso, la scelta
obbligata, l’imboccarla è una condizione necessaria ma non sufficiente di una politica per il
Mezzogiorno di successo e vaccinata contro la deriva distributiva.
Olson (1982) ci ha insegnato che le nazioni declinano quando le loro classi dirigenti si
sclerotizzano e le coalizioni distributive prendono il sopravvento. Alle spalle dell’intervento
straordinario avviato nel 1950 c’erano leaders nuovi che rimettevano in piedi un paese, temprati
dall’esilio, dalla Resistenza e della guerra. Alle spalle delle politiche per il Mezzogiorno a partire da
metà anni ‘70 fino ai giorni nostri vi è stata piuttosto, a giudicare dall’evidenza, una classe dirigente
molto interessata a sfruttare le appetibili opportunità distributive che le politiche di sviluppo
offrono. Adesso occorrerebbe un’élite di nation re-builders. Senza quella, non c’è agenzia che
tenga.
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