la colombia di ingrid betancourt

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la colombia di ingrid betancourt
Mondo in fiamme
America latina
Colombia
LA COLOMBIA
DI INGRID BETANCOURT
di Maurice Lemoine
In questa giungla fitta, «da qualche parte in Colombia», piove di continuo e ogni tanto c’è un
diluvio. E quando smette, comincia una pioggia ostinata. Le foglie gocciolano, la vegetazione
trasuda umidità, il fango ricopre il fango.
Protetti dai loro lunghi impermeabili deformati dalle armi sempre in spalla, piccoli gruppi di
guerriglieri svolgono le attività quotidiane. Siamo all’inizio di febbraio e il comandante Raul
Reyes, portavoce delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia
(Farc), risponde senza esitazioni alla nostra domanda: «Posso garantire che Ingrid Betancourt è
viva e in buona salute. È una donna molto intelligente e capace e, come tutti i prigionieri, spera
che sia firmato un accordo umanitario». Un sorriso privo di cinismo: «È normale che voglia
riavere la propria libertà».
Franco-colombiana, Ingrid Betancourt è diventata il simbolo degli ostaggi del conflitto che
lacera il paese.
Eletta deputata, poi senatrice, si è rapidamente inimicata gran parte della classe politica,
denunciandone con coraggio i traffici e la corruzione. Anche se molto critica nei confronti dei
movimenti di opposizione armata, si è sempre battuta per una soluzione negoziata del conflitto.
E sotto i colori del suo piccolo partito, Ossigeno verde, si è presentata alle elezioni presidenziali
del 26 maggio 2002.
Ma a pochi mesi dalle elezioni, il 20 febbraio, il governo rompe le trattative di pace condotte con
le Farc vicino a San Vicente del Caguán, in una vasta zona smilitarizzata. Con una violenta
offensiva, le forze governative rioccupano la cittadina e i suoi dintorni. Alla Betancourt, che lo
chiede in qualità di candidata alle elezioni presidenziali, le autorità non concedono
l’autorizzazione a viaggiare in aereo insieme ai giornalisti che accompagnano il capo dello stato,
Andrés Pastrana. Così la donna, nonostante le molte persone che cercano di dissuaderla, decide
di recarsi nella
cittadina in macchina.
Il 23 febbraio, in compagnia della sua addetta stampa Clara Rojas e di due giornalisti, entra nella
zona dove infuriano i combattimenti fra l’esercito e la guerriglia. Quando l’autista vede da
lontano il posto di blocco fatto dagli insorti, Ingrid Betancourt rifiuta di tornare indietro.
Il 28 giugno 2001 le Farc avevano liberato, con scelta unilaterale, 242 fra soldati e poliziotti a La
Macarena (Meta), scegliendo di tenere solo gli ufficiali. In cambio l’oligarchia non aveva
rilasciato alcun guerrigliero.
«Durante una conversazione - racconta il comandante Reyes - l’alto commissario di pace
dell’epoca, Camilo Gómez, ha detto in mia presenza a Marulanda [capo storico della guerriglia]
che né il governo Pastrana, né quello successivo avrebbero accettato uno scambio umanitario;
che l’accordo era possibile solo se le Farc avessero accettato le condizioni di Pastrana. Per noi si
trattava di un vero e proprio ricatto e perciò abbiamo risposto: “Se non volete l’accordo, la
responsabilità ricadrà su di voi”».
Esasperati, i guerriglieri avvertono: sequestreranno membri della classe politica, ritenuti
«indifferenti tanto al dramma della guerra vissuta dal popolo che alla sorte dei soldati che
combattono nell’esercito». Da allora hanno cercato di rapire il maggior numero possibile di
personalità, allo scopo di fare pressione sul governo per ottenere in cambio la liberazione di
500 dei loro combattenti imprigionati.
L’arrivo al potere di Alvaro Uribe, il 7 agosto 2002, segna un’escalation nello scontro militare.
Curiosamente, il potere cerca con tutti i mezzi di convincere la «comunità internazionale» che
in Colombia non c’è un conflitto armato, ma solo una «minaccia terroristica». Anche se nel
corso degli ultimi venti anni questo «conflitto che non esiste» è costato la vita ad almeno 70mila
persone e ha prodotto tre milioni di profughi all’interno del paese!
In realtà la Colombia vive un vero e proprio conflitto a carattere sociale, economico e politico,
nel quadro di una guerra civile che dura da decenni.
Inserite nel settembre 2001 nella lista americana delle organizzazioni terroristiche e poi su
quella dell’Unione europea, le Farc e l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) si sono visti
togliere lo status di parte belligerante. Tuttavia se ci si attiene alla definizione del secondo
protocollo aggiuntivo delle convenzioni di Ginevra, ratificato da Bogotà il 18 maggio 1995, la
Colombia vive un «conflitto armato interno non a carattere internazionale: un conflitto in cui si
affrontano le forze armate dello stato con altre forze armate facilmente identificabili, che si
contrappongono allo stato, che indossano
uniformi riconoscibili, che portano apertamente armi, che dipendono da un comando e che sono,
o sono state, in un determinato momento, riconosciute come tali dallo stato». A riprova di ciò ci
sono le trattative di pace condotte nel 1984 dal governo di Belisario Betancur e quelle svolte dal
7 novembre 1998 al 20 febbraio 2002 sotto la presidenza Pastrana.
In un modo o nell’altro, questo conflitto complicato coinvolge tutta la popolazione.
Anche se i paramilitari delle Autodifese unite della Colombia (Auc) e i loro complici delle forze
di sicurezza sono responsabili della stragrande maggioranza degli omicidi, delle «sparizioni» e
delle torture, alla guerriglia è attribuita la maggior parte dei rapimenti. Si ritiene che ogni anno
circa tremila persone (una cifra attualmente in calo) siano vittime di questa piaga.
RAPITI DAGLI SQUADRONI DELLA MORTE
Nel 2003 le Farc sono state responsabili del 30,55% dei rapimenti, l’Eln del 15,5% e i
paramilitari del 7,86%, il resto deve essere attribuito alla criminalità comune1 . Una differenza
importante delle cifre spesso riprese dai media e che mettono in risalto una pubblicità dal titolo
«Renaud nella giungla», in cui si annuncia una canzone e un concerto il 23 febbraio 2006 per la
liberazione di Ingrid Betancourt «e dei tremila ostaggi colombiani detenuti dalle Farc»2.
Non ci lanceremo in una stupida battaglia di numeri, come se il sequestro di ottocento o
novecento persone fosse meno condannabile di quello di tremila. Tuttavia l’effetto
propagandistico non ha nulla di innocente, poiché la mobilitazione in favore di Ingrid
Betancourt è spesso ripresa, con stupidità, ignoranza o complicità, dal governo colombiano.
In realtà anche se la prigionia della Betancourt commuove, la grande pubblicità fatta intorno al
suo nome irrita anche molto, soprattutto in Colombia. E non certo perché la famiglia, i parenti,
gli amici importanti - tra cui Dominique de Villepin - o di buona volontà si mobilitano in suo
favore.
«Abbiamo cercato sostegno da tutte le parti - afferma con grande dignità e umanità sua
madre Yolanda Pulecio - Abbiamo fatto pressioni sul presidente, cercato di essere ascoltati dalla
guerriglia, cercato appoggi negli Stati uniti, in Messico, in Venezuela e ovviamente in Francia».
Chi non farebbe la stessa cosa? Ma assistendo a tutti questi concerti di sostegno e trasmissioni
televisive, viene naturale da chiedersi: ci si batte con la stessa energia per le vittime non «francocolombiane» di questa tragedia?
In realtà i 61 «prigionieri politici» delle Farc interessano molto meno, che siano l’ex governatore
del Meta (Alan Jara), un ex ministro (Fernando Araujo), un senatore (Luis Eladio Pérez), dei
deputati (Consuelo González, Orlando Beltrán e Oscar Liscano) o semplici militari e poliziotti.
«Che differenza c’è fra il dolore di una madre di un soldato o di un politico?», si chiede Marleny
Orjuela, presidente di Asfamipaz, l’Associazione delle famiglie di membri della forza pubblica
prigionieri o liberati dai guerriglieri. «Ingrid beneficia di un trattamento di favore perché ha la
cittadinanza francese e appartiene a un ambiente privilegiato - ribadisce Edna Margarita
Salchali, sorella del sottotenente Elkín Hernández, fatto prigioniero durante un combattimento
il 14 ottobre 1998 - Ci sono dei sequestri di serie A e di serie B. E noi ci hanno dimenticati».
Ma soprattutto, perché questo silenzio di fronte alle vessazioni dei paramilitari e dell’esercito?
1
International Crisis Group, «Hostages for prisoners: Away to peace in Colombia?», Bruxelles, 8 marzo 2004.
2
Le Monde, Parigi, 7 dicembre 2005.
L’Associazione delle famiglie dei sequestrati-scomparsi (Asfaddes) ha contato quasi settemila
casi documentati di persone rapite dal 1997 dagli squadroni della morte e i cui corpi non sono
stati mai più ritrovati. Chi mette i manifesti con i loro volti sui muri dei comuni? Perché non
condurre una campagna, anche e nello stesso tempo, per denunciare una politica di
criminalizzazione della contestazione sociale, che getta in carcere centinaia di colombiani,
dirigenti o militanti sindacali e associativi?
Che si tratti del «sequestro» di persone i cui parenti sono obbligati a pagare un riscatto
(l’«imposta rivoluzionaria» per gli insorti) o di rapimenti politici, le Farc violano comunque lo
jus in bello - l’insieme di norme di condotta moralmente accettabili in tempo di guerra. Questo
«diritto di guerra» afferma che le popolazioni civili non devono mai essere considerate degli
obiettivi.
Secondo il capoverso 1 (b) dell’articolo 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra del 12
agosto 1948, e l’articolo 4-2 del secondo protocollo aggiuntivo del giugno 1977, le Farc
dovrebbero liberare tutti i rapiti e gli ostaggi «immediatamente, senza condizioni e
unilateralmente».
Detto questo, possiamo considerare come ostaggio chiunque si trovi nelle loro mani? Non
converrebbe invece parlare di combattenti prigionieri quando si parla della sorte dei 36 tra
ufficiali, sottoufficiali e poliziotti catturati in combattimento3?
Possono definirsi «ostaggi», Thomas Howes, Keith Stansell e Marc Gonçalvez? Questi uomini
della società californiana Microwave Systems, alle dipendenze del Pentagono, sono finiti nelle
mani dei ribelli in seguito a un’avaria del loro aereo spia, un Cessna 208 Caravan del governo
degli Stati uniti, caduto il 12 febbraio 2003 in zona di guerra, a Santana de las Hermosas
(Caquetá). Forse sarebbe più giusto definirli «mercenari». La differenza semantica non è
irrilevante.
Il «sentimento di ingiustizia» ha avuto un ruolo importante nel passaggio alle armi degli insorti.
E la loro brutalità è in stretta relazione con questo sentimento.
Nell’agosto 2001 incontriamo nel Sud Bolivar vicino al fiume Magdalena - rosso per il sangue
versato dai paramilitari - il comandante di una squadra dell’Eln. Per due ore, nella frescura di
una notte desolata, racconta questa guerra disumana. La voce è sorda, le parole escono a scatti,
l’uomo ha bisogno di parlare. Dopo un lungo silenzio, ricorda un senatore, rapito dalla sua
organizzazione e che gli era stato affidato in attesa del riscatto4.
«Gridava, piangeva: “Perché io, che sarà della mia famiglia, che vi ho fatto?” Gli ho risposto:
“Lei appartiene alla classe politica. Per colpa sua ho avuto un’infanzia senza scuola, senza
3
Il 16 febbraio le Farc hanno annunciato che il trentasettesimo, il capitano Julián Ernesto Guevara Castro, è
morto di malattia il 28 gennaio.
4
Questa conversazione informale non è stata registrata, di conseguenza non ricordiamo il nome del senatore in
questione.
dottori, nella povertà più assoluta. Per colpa sua la mia famiglia ha conosciuto solo miseria. Per
colpa sua, non ho avuto altra scelta se non quella di prendere le armi. Per colpa sua morirò su
queste montagne. Perciò non si lamenti. Passerà qualche mese in condizioni disagiate, non mi
sembra un prezzo da pagare troppo alto”».
In fin dei conti un ex presidente della repubblica, Alfonso López Michelsen, ha detto la stessa
cosa quando ha parlato della società colombiana sul tema dei «buoni» e dei «cattivi»: «Come chi
ha preso le armi e pratica l’estorsione è spregevole agli occhi dell’establishment, così anche chi,
attraverso i vantaggi che gli procura la propria posizione sociale, economica e politica, lotta per
mantenere lo status quo, appoggiandosi sull’esercito ufficiale, è spregevole per chi milita nel
campo avverso»5.
Il 28 marzo 1984, firmando gli accordi di La Uribe, le Farc hanno condannato la pratica dei
rapimenti e si sono impegnate a mettervi fine. Il negoziato condotto con il presidente Betancur
era il loro primo tentativo di integrazione politica attraverso la creazione di un partito, l’Unione
patriottica, e un cessate il fuoco. Militari e paramilitari hanno deciso altrimenti. L’esperienza
dell’Unione patriottica - tremila morti - è finita in un bagno di sangue6.
Il comandante delle Farc Iván Rios, così come la sua organizzazione, ne ha tratto le logiche
conseguenze: «Noi abbiamo le nostre regole, che a volte coincidono con quelle del diritto
internazionale umanitario, ma la realtà dello scontro colombiano non è del tutto presa
inconsiderazione da questo diritto. Il Diritto umanitario internazionale non è adatto alla nostra
realtà»7.
Questa guerra, come tutte le guerre, ha poco a che vedere con la morale. Anche se si può
cercare di attenuarne gli effetti più dolorosi.
«Le Farc hanno, hanno avuto e avranno sempre come obiettivo politico lo scambio di
prigionieri», ci riafferma il comandante Reyes. Uno «scambio umanitario» di cui il potere non
vuole sentir parlare. Discutere su un piano di uguaglianza con il governo darebbe alla guerriglia
- oltre alla liberazione dei suoi combattenti - uno status politico in grado di farla uscire da quella
condizione di organizzazione terroristica che contesta con forza.
URIBE NON TRATTA
Ma questo è proprio quello che cerca di evitare Uribe attraverso la ricerca ossessiva di un
successo militare contro il suo «asse del Male».
5
El Tiempo, Bogotà, 22 settembre 2002.
6
Si legga Iván Cepeda Castro e Claudia Girón Ortiz, «Comment des milliers de militants ont été liquidés en
Colombie», Le Monde diplomatique, maggio 2005.
7
Citato in Ferro Medina e al., El orden de la guerra. Las Farc-Ep: entre la organizacion y la política, Centro
editorial Javeriono, (Ceja), Bogotà, 2002.
Il presidente colombiano si ostina a voler liberare i prigionieri solo attraverso operazioni
militari. Con tutte le conseguenze drammatiche che ciò può comportare. Infatti di fronte a un
intervento del genere alcuni gruppi delle Farc spingono la loro logica fino alle estreme
conseguenze: non permettere la liberazione di alcun prigioniero. Come dimostra la sorte del
governatore del dipartimento di Antioquia, Guillermo Gaviria, quella dell’ex ministro della
Difesa Gilberto Echeverri e di otto militari, quando il 5 maggio 2003 un commando
elitrasportato si è avvicinato al luogo in cui erano tenuti prigionieri, nei dintorni di Frontino
(Antioquia). I prigionieri hanno pagato con la vita, giustiziati dai guerriglieri, secondo le
testimonianze di un sopravvissuto.
E come è successo, in circostanze simili, all’ex ministro della Cultura Consuelo AraujoNoguera. A questo proposito la diffusione della seconda videocassetta registrata da Ingrid
Betancourt durante la sua prigionia ha dato luogo a un trattamento mediatico ambiguo8. Infatti
le parti del video trasmesse o pubblicate hanno riferito che l’ex senatrice chiedeva al governo di
negoziare la liberazione dei soldati, precisando però che la libertà degli ostaggi civili «non era
negoziabile». In questo modo Ingrid Betancourt avallava un’operazione di salvataggio da parte
dei militari. In realtà la sua dichiarazione integrale dice così: «Un intervento di salvataggio, sì
certo. Ma non un intervento improvvisato. Queste operazioni devono avere successo o non
devono essere fatte. La Colombia non può accettare che un salvataggio diventi un’opportunità
politica fatta sulla pelle di molti cittadini e da cui lo stato esce sempre vincitore. Vincitore se i
sequestrati sono liberati vivi, perché costituiscono un trofeo da esibire, ma vincitore anche se li
riporta cadaveri, perché si può comunque accusare il nemico».
Prigioniere dell’angoscia e dell’incertezza, le famiglie dei sequestrati respingono con forza
questo tipo di iniziative. «Che le forze armate mi perdonino – afferma Edna Salchali - ma esse
non sono in grado di portare a termine con successo un’operazione del genere». A sua volta il
padre di un poliziotto, con i nervi a fior di pelle all’idea di questa eventualità, afferma: «Abbiamo
lottato per anni per ottenere la loro liberazione, non abbiamo voglia di vederli tornare avvolti in
una bandiera».
Tanto più che un avvocato e specialista del Diu, Il Diritto internazionale umanitario, Ana
Caterina Heyck, obietta: «per la liberazione dei civili e dei militari sequestrati dalle Farc, si può
fare affidamento sull’articolo 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra, che regola i conflitti
armati interni, e che prevede nella sua parte finale i cosiddetti “accordi speciali”». Del resto,
aggiunge l’avvocato, la legge colombiana 434 del febbraio 1998 stabilisce che la politica di pace
è una «politica di stato» permanente e partecipativa, e inoltre permette l’effettiva applicazione
del Diu: «Essa prevede di dare la precedenza al ricorso al dialogo e al negoziato».
Secondo la stessa logica e con gli stessi argomenti, Michael Frühling, direttore dell’ufficio
dell’Alto commissariato dell’Onu, ha dichiarato il 26 agosto 2005 che il presidente Uribe
8
Risalente al maggio 2002, è stata diffusa il 30 agosto 2003 da «Noticias Uno», Canal 7, Bogotà.
dovrebbe fare della liberazione pacifica dei «sequestrati» dalla guerriglia una priorità. Ma a
Bogotà l’Onu non è visto di buon occhio.
L’ESTRADIZIONE NEGLI USA DEL COMANDANTE TRINIDAD
NEL FEBBRAIO DEL 2005, Uribe ha chiesto e ottenuto l’allontanamento di James Lemoyne,
consigliere speciale della segreteria generale dell’Onu per la Colombia. In passato Lemoyne si
era dato molto da fare per avvicinare le parti nei momenti di crisi durante i negoziati di pace tra
le Farc e il governo Pastrana. Ma l’amministrazione di Uribe, una volta arrivata al potere, non
glielo ha mai perdonato.
Nel ricordare quel periodo, l’alto commissario di pace Luis Carlos Restrepo ha affermato il 3
agosto 2004, davanti al senato colombiano: «I commissari andavano a bere whisky con i
guerriglieri, e gli ambasciatori erano eccitatissimi all’idea di farsi fotografare in compagnia di un
uomo armato e con il volto mascherato».
Inoltre il parlare senza peli sulla lingua di Lemoyne dava molto fastidio.Considerava le Farc
come un’organizzazione «a carattere politico».
Diplomatico dallo stile diretto, non aveva esitato a mettere pubblicamente in discussione il
governo: «Se non si vuole sedere al tavolo con le Farc, allora che lo si dica chiaramente. Ci sono
troppe voci ufficiali che dicendo sì dicono in realtà no, forse, chissà. Tutto questo non dà fiducia
alle Farc»9.
Davanti agli ostacoli messi al suo lavoro dal potere, la missione di buoni uffici delle Nazioni
unite, invitata dalle Farc, si è ritirata nell’aprile 2005.
Anche la Chiesa, molto impegnata nella ricerca di una soluzione, non è stata trattata meglio. Il
31 gennaio 2003, membro di una commissione di aiuto a cui partecipano anche padre Dario
Echeverri e l’ex ministro laburista Angelino Garzón, monsignor Luis Augusto Castro,
presidente della Conferenza episcopale, si prepara a incontrare la segreteria delle Farc. Con
termini misurati - data la sua funzione - il prelato non mostra alcuna indulgenza nei confronti
della guerriglia. «Dimostra una terribile insensibilità - ci ha detto di recente – Non può
accomunare la sorte dei loro prigionieri con quella dei guerriglieri detenuti. Questi ultimi sono
processati e hanno diritto a delle visite. I sequestrati non ne hanno. Possono passare tre anni
senza che arrivi alcuna notizia sulla loro sopravvivenza».
Da uomo di pace, mons. Castro racconta che «qualche anno fa con le Farc ho potuto lavorare,
dialogare e ottenere la liberazione di ottanta soldati. Ci conoscevamo già ed è stato più facile
parlare».
Ma nel momento stesso in cui è in viaggio verso la segreteria delle Farc, il presidente Uribe
lancia una gigantesca operazione militare, il piano Patriota. Il vescovo è deciso a sfidare il
9
El Tiempo, Bogotà, 18 maggio 2003.
pericolo e a portare a termine la sua missione a ogni costo, ma alla fine sarà dissuaso dalle stesse
Farc: «Non venga, qui c’è solo sangue!»
«Il piano Patriota - si rammarica mons. Castro - ha creato un muro tra noi e loro. Ci ha impedito
di continuare questo tipo di incontri. Ormai i nostri rapporti sono solo epistolari o per e-mail».
Il 2 gennaio 2004 - in un’operazione congiunta dei servizi segreti colombiani e americani - il
comandante guerrigliero Simon Trinidad, scelto per negoziare la liberazione degli ostaggi, è
arrestato in Ecuador. «Era a Quito per stabilire un contatto con James Lemoyne, perché
volevamo riprendere il dialogo con lui - spiega il comandante Reyes - In Colombia sarebbe stato
difficile, perché Lemoyne avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione di Uribe e da lui non
vogliamo alcun favore. Così avevamo bisogno di un altro luogo per avviare le trattative».
Consegnato alle autorità colombiane, Trinidad è stato estradato il 31 dicembre 2004 negli Stati
uniti, sulla base di una richiesta americana presentata in tutta fretta tredici ore dopo la scadenza
dell’ultimatum dato dal governo alle Farc per la liberazione di 65 prigionieri10.
Il 13 dicembre 2004 tocca a Rodrigo Granda essere sequestrato a Caracas dai servizi segreti
colombiani. Conosciuto come il ministro degli Esteri delle Farc, Granda era stato inviato per
dialogare con Parigi su una possibile soluzione del «caso Betancourt» attraverso l’ambasciata
francese in Venezuela.
L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del prossimo maggio, alle quali si ripresenta Uribe,
sembra modificare in qualche modo la situazione. Infatti la maggioranza dei colombiani - così
come gli ex presidenti Alfonso López, Ernesto Samper, Julio César Turbay e l’ex procuratore
generale Jaime Bernal - si dice favorevole allo scambio umanitario.
Intorno alla metà di agosto 2004, il potere ha proposto di liberare unilateralmente cinquanta
guerriglieri, che sarebbero andati all’estero o avrebbero preso parte a un programma di
reinserimento, in cambio di ostaggi politici. Ma le Farc, anche se accettano di negoziare con
Restrepo, chiedono che le conversazioni abbiano luogo attraverso un contatto diretto e non via
internet, come aveva suggerito il governo. In seguito non hanno accettato che il dialogo si
svolgesse nella nunziatura apostolica o in un’ambasciata. Perché no, allora, «in una piccola
scuola o in una chiesetta», ironizza Reyes.
I ribelli insistono per ottenere che l’incontro abbia luogo in una «zona di sicurezza»
smilitarizzata, nei municipios di Pradera e Florida11. «Non vogliamo far correre alcun rischio ai
10
«Traffico di droga» e «terrorismo»: Trinidad è accusato dalla giustizia americana di aver esportato almeno 5
chili di cocaina (cioè la quantità minima che permette di avviare la procedura di estradizione). Nel frattempo
Uribe blocca l’estradizione del paramilitare Salvatore Mancuso, accusato da Washington di averne esportate 4,5
tonnellate!
11
Le Farc vogliono che gli eventuali negoziati si svolgano in territorio colombiano. Così hanno rifiutato la
proposta di Parigi di intraprendere le trattative su una nave francese o nella Guyana francese.
prigionieri, ai negoziatori, al governo, agli osservatori internazionali e a noi stessi - precisa
Reyes - Che Uribe ritiri le truppe per trenta giorni e dia una data precisa e se si arriverà a un
accordo si procederà allo scambio una volta per tutte».
Le famiglie dei prigionieri sono sempre più esasperate tanto nei confronti del potere che
dell’opposizione armata. «La guerriglia dice siamo famiglie del popolo, e allora ci restituisca i
nostri muchachos!», si indigna Marleny Orjuela, mentre Mario Enrique Murillos, padre di un
soldato, non nasconde la propria rabbia: «I nostri figli si erano arruolati per uno stipendio, a
causa della disoccupazione. Sono stati fatti prigionieri, difendendo la patria. Adesso tocca al
capo dello stato fare qualcosa!».
Nel dicembre 2005, i governi francese, spagnolo e svizzero entrano in contatto con Bogotà per
tentare di sbloccare la situazione.
Alla ricerca di un possibile avvicinamento fra le parti, i diplomatici europei vogliono operare
con discrezione e chiedono il massimo riserbo al presidente. «Che fa invece Uribe? - afferma il
comandante Reyes - Ogni volta che i francesi o la comunità internazionale fanno una proposta,
la critica o, se gli fa comodo, se ne appropria dandosi arie di generosità».
Così il 14 dicembre, «dimenticando» la discrezione richiesta, Uribe annuncia in pompa magna
che in risposta all’iniziativa europea, accetta di stabilire una zona smilitarizzata di 180 chilometri
quadrati, a El Retiro (Valle del Cauca).
NESSUNO SCAMBIO CON URIBE PRESIDENTE
«Uribe arriva alla conferenza stampa - continua il comandante Reyes - Dichiara di voler
accettare la proposta e che quindi dobbiamo accettarla anche noi. Ma all’epoca non la
conoscevamo ancora! Ci è stata comunicata solo dopo».
Intransigenza? Malafede? Con parole prudenti mons. Castro conferma implicitamente questa
idea: «In quel momento c’era un problema in termini di sicurezza. Nella formula presa in
considerazione, la sicurezza delle Farc sarebbe stata assicurata dalla comunità internazionale.
Ma che protezione poteva dare un ambasciatore o un delegato? Questo elemento non dava alle
Farc, che si considerano in guerra, alcuna garanzia. E la loro sicurezza non sono disposti a
delegarla. Lanciare la proposta di fronte all’opinione pubblica prima di averla comunicata alla
guerriglia è stato un grave errore; bisognava prima consultare le Farc».
Dopo questo episodio gli insorti hanno deciso: «Finché Uribe sarà presidente non ci sarà uno
scambio umanitario»; provocando grande smarrimento tra le famiglie dei prigionieri - così
come tra quelle dei guerriglieri incarcerati.
(…)
Fonte: Le monde diplomatique, aprile 2006