La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo
Transcript
La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo
La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954)∗ GIUSEPPE PARLATO Alcune premesse Il problema della cultura internazionale nell’ambito dei movimenti che si collocarono alla destra dello schieramento politico nel secondo dopoguerra è particolarmente complesso per una serie di ragioni interne ed esterne agli stessi movimenti. Prima di affrontare il problema storico e politico della destra italiana in ordine alla cultura internazionale, occorre muovere da alcune premesse di orientamento generale. In primo luogo, occorre rilevare che pressoché tutti gli studi sul Msi e sulla destra in generale, nonché quelli sulla politica estera della destra in particolare, muovono da considerazioni preliminari relative alla marginalità della destra nel panorama politico e culturale italiano1. Dal punto di vista dell’analisi interna del fenomeno, parlando del Msi, la maggior parte degli studi si sofferma a lungo sulle tre anime (quella della sinistra, gli evoliani e il centro nazional-conservatore di Michelini), dando a questa tripartizione un valore interpretativo essenziale e fondamentale. In realtà, la tripartizione delle componenti del Msi nasce da una visione ideologica e culturale che non ∗ Questa relazione costituisce una sorta di anticipazione estremamente sommaria di una delle parti di una ricerca sulle origini del neofascismo che verrà pubblicata per i tipi de Il Mulino. In Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, a cura di Giorgio Petracchi, con la collaborazione di Gianluca Volpi, Gaspari editore, Udine 2005, pp. 134-154. Atti del Convegno di studi sul tema: “Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento” svoltosi presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Udine (14-15 ottobre 2004) 1 Sul problema della politica estera nel Msi si vedano: S. Finotti, Difesa occidentale e Patto Atlantico: la scelta internazionale del Msi, in “Storia delle Relazioni internazionali”, I, 1988, pp. 94-124; R. Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”. La politica estera del Msi dalla fondazione alla metà degli anni Cinquanta, in “Storia contemporanea”, XXI, n. 3, giugno 1990, pp. 541-560; P. Neglie, Il Movimento sociale italiano fra terzaforzismo e atlantismo, in “Storia contemporanea”, XXV, n. 6, dicembre 1994, pp. 1167-1195. Sul Msi in generale si vedano: G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Il Movimento Sociale Italiano, Accademia, Milano s.d.; A. Del Boca, M. Giovana, I “figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965; M. Giovana, Le nuove camicie nere, Ed. Dell’Albero, Torino 1966; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo da Salò ad Almirante. Storia del MSI, Feltrinelli, Milano 1975; P.G. Murgia, Il vento del nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1945-1950), e Ritorneremo (1950-1953), Sugarco Edizioni, Milano, rispettivamente 1975 e 1976; G. de’ Medici, Le origini del MSI. Dal clandestinismo al primo congresso (1943-1948), Istituto di Studi Corporativi, Roma 1986; P. Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento sociale italiano, Il Mulino, Bologna 1989; G.S. Rossi, Alternativa e doppiopetto. Il Msi dalla contestazione alla destra nazionale (1968-1973), Istituto di Studi Corporativi, Roma 1992; S. Setta, La Destra nell’Italia del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1995; M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo, a cura di A. Carioti, Rizzoli, Milano 1995; Id., Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Guanda, Parma 1995; P. Nello, Il partito della Fiamma. La Destra in Italia dal Msi ad An, IEPI, Pisa-Roma 1998; A. Baldoni, La Destra in Italia (1945-1969), Ed. Pantheon, Roma 1999 (le citazioni sono desunte dalla seconda ed., 2000); N. Rao, Neofascisti! La Destra italiana da Salò a Fiuggi nel ricordo dei protagonisti , Settimo Sigillo, Roma 1999; G.S. Rossi, La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. ha necessariamente riscontro con le scelte politiche dei missini. In altri termini, vi è in questo partito, più che negli altri, una sostanziale indipendenza tra scelte ideali e prassi politica che nasce da un mai sufficientemente chiarito approccio culturale alla situazione storico-politica italiana sia del fascismo, sia del postfascismo. Proprio il distacco tra scelte politiche e (deboli) riferimenti culturali ha determinato le due opposte interpretazioni del Msi: quella che nasce dalla autorappresentazione del partito e che vede il Msi unico baluardo dei valori nazionali, in nome dei quali è possibile ogni tipo di politica; quella opposta, che vede il Msi unicamente come polo eversivo nella storia dell’Italia recente con pericolose derive verso il terrorismo e connivenze con ambienti che mirano a destabilizzare l’ordine democratico. Entrambe le interpretazioni sono frutto di una visione ideologica sostanzialmente acritica che prescinde dall’analisi storica del fenomeno. In secondo luogo, occorre rilevare la assoluta vaghezza del concetto di “destra” come categoria politica del dopoguerra. Non esistono, infatti, una ideologia o una cultura che si possano organicamente definire di “destra” e che, contemporaneamente, sostanzino un movimento politico che di quella visione del mondo si faccia portatore. Per ragioni comprensibili, legate per lo più alla “invasione” del concetto di destra da parte del fascismo, dopo il 1945, nessun movimento politico ha osato dichiararsi esplicitamente di “destra”, pur sostenendo indubbiamente valori che a quel versante politico si richiamavano. In tale ottica, la presenza del fascismo ha espunto di fatto il concetto di destra dall’ambito delle legittimazioni politiche, pur non essendo, a rigore di logica, il fascismo un movimento ascrivibile soltanto alla destra. Se le condizioni avessero permesso, nel dopoguerra, la nascita di una forza che si fosse richiamata al conservatorismo classico, molto probabilmente il tasso di interesse di tale formazione verso le questioni internazionali sarebbe stato decisamente più significativo rispetto al Msi. In terzo luogo, è evidente che il problema di una cultura della politica estera comporta necessariamente una apertura verso l’esterno del microcosmo nazionale o, comunque, la valutazione positiva della esistenza di questioni strettamente legate alla politica estera preminenti rispetto a quelle più tipicamente interne. La seconda guerra mondiale e la politica dei blocchi portarono, per il contesto europeo, ad una minore pregnanza delle questioni geopolitiche, nel senso che gli spazi di manovra per le diplomazie del vecchio continente si ridussero immediatamente, almeno nella tradizionale versione cui si era stati abituati fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. In particolare, come ebbe a notare acutamente Rosario Romeo, in Italia “la realtà della catastrofica sconfitta e la sminuita posizione internazionale del paese, inesorabilmente relegato, dopo tanti sogni di grandezza, al ruolo di potenza di second’ordine” produssero la convinzione che si dovessero abbandonare non soltanto quei sogni di grandezza che avevano caratterizzato la politica estera fascista, ma anche una valutazione positiva del concetto di nazione com’esso si era andato costituendo e formando nell’Italia liberale, fino alla Grande Guerra. “Era la rinuncia – aggiungeva sempre Romeo – all’obbiettivo di portare l’Italia al livello dei grandi paesi d’Occidente che aveva ispirato tanta parte del Risorgimento e della successiva storia unitaria”2. Di qui una obiettiva minore rilevanza della politica estera come momento centrale di una strategia tesa a valorizzare, insieme con il concetto di identità nazionale, anche il ruolo di questa nel consesso internazionale. E’ in questa ottica che la condizione politica e culturale, per la destra o per le destre, si aggrava ulteriormente in quanto i valori espressi da questo versante politico sono, in genere, legati fortemente al concetto di nazione, che è quello che maggiormente soffre – e soffrirà per circa un cinquantennio – gli effetti della sconfitta; questa incapacità di esprimere un moderno concetto di nazione e di patria, il conseguente volere restare ancorati alla visione retorico-patriottica – con i conseguenti rituali e liturgie che impediscono una razionalizzazione del problema nazione. Contemporaneamente tale ottica impedisce una normale storicizzazione del fascismo da parte neofascista, che fa da contrappunto alla mancata storicizzazione della Resistenza da parte antifascista, a causa della sua trasformazione da evento storico in mito fondante il nuovo Stato. In altri termini, tale ottica impedisce ancora lo svilupparsi, se non in termini di ghetto politico, di una cultura nazionale o nazionalistica in grado di essere affermata apertamente come modello di proposta politica. In quarto luogo, è da segnalare come nel secondo dopoguerra la categoria politica della destra andasse molto al di là dei tre movimenti che solitamente si indicano, l’Uomo Qualunque, il movimento monarchico e il Movimento Sociale Italiano; esiste una destra democristiana o cattolica che si affida a valori condivisi da molti dei soggetti su ricordati, nella quale il dato nazionale è vivo sebbene subordinato alla tradizionale visione sopranazionale cristiana; esiste una destra liberale, con una valenza maggiormente legata all’analisi dei fattori economici, la quale non gradisce affatto di essere compresa, o anche solo citata, tra i partiti tradizionalmente considerati di destra, come dimostrò il fallimento della prospettiva della “grande destra” durante gli anni Cinquanta; esiste, infine, una destra radicale ed eversiva che non riconosce i valori della nazione e della democrazia e per ciò stesso finisce con l’essere considerata estranea a questo contesto. Infine, una precisazione sul rapporto fra destra e nazione. La destra, nelle tre varianti di Uomo Qualunque, monarchici e Movimento sociale, non è affatto omogenea rispetto alla cultura della politica estera, così come non sono omogenei le tradizioni, la storia e gli obiettivi dei tre movimenti che si sono ricordati. L’Uomo Qualunque, ad esempio, fu decisamente agnostico rispetto alla questione nazionale, come dimostrò il suo fondatore ne La Folla, il manifesto politico del qualunquismo, e come emerse 2 R. Romeo, Italia mille anni, Le Monnier, Firenze 1981, p. 198. dalla contestazione del concetto di nazione come sovrastruttura inutile e dannosa al libero sviluppo delle esigenze e delle pulsioni della “folla”; soltanto nella fase più matura – e calante del suo successo – Giannini tentò di dotarsi di un bagaglio culturale e politico dando spazio al concetto di Europa fortemente debitore di una visione cristiana della tradizione europea, nel quale il concetto rivoluzionario di nazione appariva come un elemento di rottura di un equilibrio internazionale fondato sui valori tradizionali3. I monarchici non ebbero, a loro volta, una visione peculiare ed autonoma della politica estera: principio di nazionalità, con sostanziali, voluti distinguo rispetto al concetto fascista di nazione e di imperialismo; filoatlantismo; ottica del “sacro egoismo” nazionale; questi furono i principi ai quali si affidò il partito del re, privo volutamente di una ideologia di riferimento, essendo questo movimento teso ad intercettare i sentimenti dei monarchici a prescindere dalla scelta di schieramento politico4. Restava il Movimento Sociale, dei tre il gruppo che si sviluppò nella scena politica italiana per un cinquantennio, prima di trasformarsi in Alleanza Nazionale, e che, tra l’altro, finì con inglobare gli stessi monarchici all’inizio degli anni Settanta, durante l’ultima fase della loro lenta ma costante flessione in termini di consensi elettorali. Le scelte politiche La scelta di campo del Msi all’interno del quadro di riferimento dell’immediato dopoguerra non fu così chiara come potrebbe sembrare. La scelta atlantica, infatti, com’è fin troppo noto, fu combattuta e addirittura in un primo tempo, respinta. I già citati lavori di Chiarini e di Neglie, in questo senso, sono sufficientemente chiari per lumeggiare questo difficile e nodale passaggio. Il Msi, in sostanza, allorché si profilò la questione del Patto atlantico, assunse, soprattutto nella persona di Giorgio Almirante, una posizione nettamente contraria, ancorata a quella posizione antiamericana che nasceva dalla sconfitta del fascismo della Rsi e dalla necessità di potere disporre, in termini pieni, della indipendenza del paese, senza condizionamenti da parte di nessuno dei due blocchi. La linea di equidistanza, in nome dell’orgoglio nazionale, espressa da Almirante, si avvicinava a quella della sinistra nazionale, la quale aggiungeva alla posizione nazionalista del segretario il tema dell’Europa, la difesa, cioè, della cultura e della civiltà europea, contro da un lato lo strapotere americano – e quindi contro la politica dei blocchi – e contemporaneamente contro la massificazione dell’uomo che il capitalismo, l’industrialismo e la ricerca del profitto, i cardini della 3 S. Setta, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1975; si veda anche G. Parlato, La nazione qualunque. Riformismo amministrativo ed europeismo in Guglielmo Giannini, in “Storia contemporanea”, XXV, n. 6, dicembre 1994, pp. 1129-1166. 4 A. Ungari, In nome del Re, Le Lettere, Firenze 2004. “civiltà” americana, avrebbero prodotto. L’evocazione della socializzazione, intesa come nuovo rapporto produttivo e di gestione dell’economia, aveva anche un significato più lontano: la socializzazione – sempre più mitizzata nel suo non essere mai stata messa alla prova – doveva diventare la risposta “europea” alla logica capitalista americana e alla logica collettivistica sovietica. Sull’altro versante, anche la destra evoliana di Rauti ed Erra si trovava contro la logica dei blocchi, ma per ragioni affatto differenti. In questo caso, si trattava di opporre alla democrazia occidentale e alla massificazione sovietica l’“altrove” spiritualista e tradizionalista. L’opposizione al Patto atlantico dipendeva dal fatto che la prospettiva americana era per gli evoliani più pericolosa, più subdola e più allettante di quella sovietica, ammantandosi di un falso velo di libertà; contro l’Urss era più facile reagire e il ricordo del biennio di sangue della guerra civile poteva essere visto come un’ulteriore ragione per contrastare il comunismo. Le fasi di questa evoluzione del nascente Msi sono essenzialmente tre. La prima è la più difficile da individuare ed è quella che, partendo dal neofascismo clandestino, giunge alla nascita del Msi. Nascita che non fu solo determinata dalla necessità ideale e politica dei reduci dalla Rsi e dai campi di concentramento alleati; naturalmente la componente della “ripresa” fascista o neofascista fu decisiva: esisteva una forte base di riferimento, nonostante la guerra perduta, che non poteva essere dispersa e che, subito dopo la fine della guerra incominciò a ristabilire contatti e rapporti. Ma tutto ciò non avrebbe avuto esiti politici se non fosse stato immediatamente chiaro che da parte dei “vincitori” esterni e soprattutto interni, si ricominciava a prendere in considerazione la presenza fascista come possibile punto di riferimento – secondario e inconfessato quanto si vuole – in funzione di difesa rispetto a una prevedibile aggressione comunista allo Stato, dall’interno e dall’esterno (frontiera orientale e, quindi, Trieste). Ciò fino al punto da indurre il “Senato”, il vertice semiclandestino del neofascismo italiano, ad aprire trattative segrete con ambienti politici antifascisti in vista del referendum istituzionale; ambienti che, salvo rare eccezioni, negarono con forza tali contatti. Incominciarono i comunisti con Pajetta e Togliatti ad aprire ai fascisti, compresi quelli di Salò, con la motivazione ufficiale che occorreva ricomporre un tessuto politico devastato dalla guerra civile recuperando quei giovani che avevano sbagliato barricata e che comunque sarebbero stati ancora utili alla classe politica democratica5. Questa strategia portò buoni risultati e nel giro di pochi mesi molti fascisti giunsero alle sponde comuniste in nome della indipendenza della patria dagli americani, in nome del rancore per la guerra perduta, per odio nei confronti di quei 5 G. Parlato, Togliatti, Romualdi e i “fratelli in camicia nera”, in S. Bertelli, F. Bigazzi, PCI. La storia dimenticata, Mondatori, Milano 2001, pp. 343 ss. conservatori che avevano affossato il fascismo e avevano permesso ai comunisti i due anni di guerra civile. Da non trascurare, poi, il fatto di sentirsi fratelli in una comune visione totalitaria, inespressa quella dei fascisti, espressa compiutamente quella del comunismo, il quale appariva, ad alcuni degli orfani del duce, come “un fascismo che aveva fatto l’università”6. Non a caso, proprio alcuni ex fascisti di sinistra aderirono all’operazione e la promossero presso gli antichi camerati (Lando Dell’Amico, Stanis Ruinas, Alicata, Testa e Gigante, questi ultimi due figli rispettivamente del prefetto e del podestà di Fiume in Rsi)7. In questo senso vanno viste le trattative che Romualdi, condannato a morte dalla Corte d’Assise di Parma nel 1947, condusse con tutte le forze politiche dell’epoca, ad esclusione del Partito d’Azione, per ricostruire un tessuto politico nel quale i fascisti non fossero più emarginati. In questa ottica, poi, va vista l’amnistia di Togliatti, elaborata, a quanto pare, con determinante contributo degli stessi fascisti; con questo atto, a distanza di poco più di un anno dalla fine della guerra civile, uscirono dalla galera diverse migliaia di fascisti. Fu soltanto con l’uscita dei fascisti dal carcere e dai campi di concentramento allestiti dagli alleati fin dagli ultimi mesi del 1943, che si incominciò a prendere in considerazione la possibilità di costituire un partito politico. Non si puntò, in origine, alla costituzione di un partito identitario, isolato e indipendente dai due blocchi. Il “Senato” (Pini, Pignatelli, Gray, Romualdi, Pace e, in posizione più defilata ma non meno influente, Michelini), guidato dalla figura di Romualdi, aveva pensato al Msi come a un movimento fondamentalmente anticomunista, al quale i primi benevoli appoggi giunsero dalla Chiesa e dagli ambienti moderati preoccupati dalla crescita del Partito Comunista8. D’altra parte, il fallimento della epurazione e il lento ma costante reinserimento dei fascisti nei posti già occupati della pubblica amministrazione (dalla giustizia alle forze dell’ordine, dai ministeri agli enti locali), caratterizzarono i primi passi del neofascismo non già nel nome 6 L. Dell’Amico, Il mestiere di comunista, Ed. Opere Nuove, Roma 1955, p. 38. P. Buchignani, Fascisti rossi.Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953, Mondatori, Milano 1998. 8 In occasione del quarantennale della nascita del Msi, Pino Romualdi, in un discorso al cinema Adriano, ricordò le motivazioni di fondo della nascita del partito: “Il Msi fu costituito per consentirci di riprendere, non soltanto clandestinamente, ma a viso scoperto, e quindi ufficialmente, la nostra battaglia politica; una battaglia che non potevamo ritenere conclusa con la sconfitta militare, ma che, in forme diverse, secondo il diverso mondo politico al quale dovevamo riferirci era necessario che continuasse. Una battaglia politica di idee (…) nel tentativo di preparare e mobilitare un’altra forza politica di opinione, tendente a formare una diversa maggioranza politicamente qualificata ma anche numericamente consistente. Il Msi non fu, non volle mai essere soltanto il partito dei reduci non cooperatori. (…) Restava il fatto che non potevamo costituire un partito solo per noi. Se era un partito per il popolo italiano doveva essere aperto a tutto il popolo italiano, a tutti coloro che desideravano e che solo per questo desiderio – qualunque fosse stata la loro posizione precedente e il loro destino nel corso dei mesi che sconvolsero la vita della Nazione – dimostravano la loro volontà di riprendere a battersi per la Patria contro il pericolo dell’amorfismo democristiano e della sovversione comunista”. Il discorso, tenuto il 14 dicembre 1986, fu pubblicato sul “Secolo d’Italia” il 16 successivo. Se ne vedano brani in A. Baldoni, La destra in Italia, cit., pp. 99-100. 7 dell’orgoglio fascista quanto della necessità che si creasse un baluardo al Pci, considerato pericoloso sia per la struttura interna, sia per i legami internazionali. Di fronte allo svilupparsi del progetto comunista di avvicinamento e di recupero dei fascisti, i moderati non potevano state inerti e, sempre nel periodo del referendum, impostarono anch’essi una strategia analoga. I fascisti, così, nel breve volgere di pochi mesi dalla fine della sanguinosa guerra civile, si trovarono corteggiati da ambo gli schieramenti. Per Romualdi – che già alla fine della guerra aveva trattato una ipotesi di soluzione tendente ad evitare il bagno di sangue dei vinti – fu semplice accreditare i neofascisti come “partito d’ordine”, desideroso di contribuire alla formazione di un’Italia non condizionata dal comunismo e, comunque, alieno da ogni tentativo eversivo, nonostante i Far – troppo enfatizzati e sovradimensionati, rispetto al loro effettivo peso politico ed eversivo – e le poco più che simboliche proposizioni rivoluzionarie. Nel breve volgere di pochi mesi – dal dicembre 1946 al marzo 1947 – i neofascisti si ritrovarono con tutte le sedi provinciali aperte e funzionanti, grazie anche all’infaticabile attivismo di Almirante, nel frattempo diventato segretario del partito. La seconda fase cominciò a questo punto. Almirante, oscurato in vario modo il “Senato”, assunta da solo la leadership interna, gestito e sviluppato il partito grazie ad un frenetico attivismo, decise di approfittare della situazione favorevole e degli appoggi che si erano palesati alla Fiamma per modificare nettamente l’orientamento iniziale. Si tornò così a Salò, alla socializzazione, al fascismo rivoluzionario, alle parole d’ordine di alternativa a tutti. Appoggiato sensibilmente dalla sinistra interna e dagli elementi giovanili, nonché da quei fascisti che in un primo tempo avevano accolto gli inviti del Pci, e ora si dichiaravano pronti a “rientrare nei ranghi”, Almirante impresse al partito una svolta politica decisiva, presentandosi da solo all’appuntamento elettorale del 1948. Tuttavia, nonostante tale svolta – che in qualche modo vanificava gli sforzi iniziali di chi il Msi aveva voluto – il partito entrò ugualmente nella legalità e scomparve il progetto di mantenere due binari aperti, quello legale e quello clandestino; il Msi entrò in Parlamento con sei deputati e un senatore, ottenendo un risultato modesto ma significativo, in considerazione della radicalizzazione della polemica politica e dello scontro tra comunismo e anticomunismo. E’ probabile che se Almirante non avesse impresso alla propaganda missina un forte taglio identitario, in grado di superare come pregnanza presso i neofascisti, la stessa contrapposizione fra comunismo e anticomunismo, i sei parlamentari non sarebbero arrivati a qualificare il Msi unica forza del neofascismo, sconfiggendo non solo i fautori del partito clandestino (Baghino, fra tutti) che non amavano la soluzione legalitaria, ma soprattutto i concorrenti del Msi nell’area della destra nazionale: in particolare ci si riferisce al movimento di Emilio Patrissi, il Movimento Nazionalista di Democrazia Sociale, nato da una forte scissione dall’Uomo Qualunque e fortemente appoggiato dagli Stati Uniti, che nelle elezioni del 1948 risultò sconfitto definitivamente. Tuttavia, se la svolta di Almirante consentì alla “pattuglia” di sedere a Montecitorio, rendendo più coeso il movimento, alla lunga il progetto identitario del segretario si rivelò fallimentare. Sia dal punto di vista interno perché si ridussero notevolmente le fonti di finanziamento per la Fiamma; sia soprattutto dal punto di vista internazionale, perché le argomentazioni almirantiane contro il trattato di pace e contro il Patto Atlantico, allontanarono sensibilmente questo partito dal dibattito che si stava svolgendo alla Costituente e dal contesto politico reale. Questa “diversità” fu spesso, successivamente, rivendicata con orgoglio dallo stesso Almirante; ma è certo che, con la crisi di finanziamenti, il Msi dovette fare altre scelte, più in sintonia con le esigenze del vario e potente mondo che lo aveva in qualche modo aiutati all’inizio. Si apriva così la terza fase, quella gestita prima da De Marsanich e quindi da Michelini, caratterizzata dalla politica dell’inserimento nell’area di governo. La scelta atlantica Nei punti programmatici del Msi si parlava di politica estera essenzialmente in riferimento all’Europa e agli assetti internazionali. Fin dal primo dei dieci punti programmatici, si affermava “l’unità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Italia” e si dichiarava che “nessuna prescrizione o coazione può interrompere il nostro diritto sui territori indispensabili alle nostre esigenze economiche, già consacrati dall’eroismo e dall’opera civilizzatrice del popolo italiano”. Evidente il riferimento alle colonie, che le trattative di pace vedevano già perdute; un richiamo patriottico che non negava la necessità di una espansione, nell’ambito di quel “sacro egoismo” che era stato sempre il punto di riferimento della destra nell’ambito delle relazioni internazionali. Nel secondo punto si affrontava la questione della politica internazionale, rivendicando per il neonato Msi una “politica estera ispirata unicamente agli interessi concreti e contingenti della Nazione, auspicando la formazione di una unione europea su piede di parità e giustizia”9. Nel dibattito che fece da contorno alla nascita del Msi, condotto da numerose riviste – da “Rivolta ideale” a “Rataplan”, da “Meridiano d’Italia” a “Fracassa”, da “Rosso e nero” a “Manifesto” – emerse una linea sicuramente anticomunista, pur con i necessari distinguo affinché il Msi non fosse scambiato per un partito conservatore. E se “Rosso e nero” di Alberto Giovannini manifestava perplessità circa la nascita di un partito neofascista, preferendo vedere i fascisti sparsi presso i vari partiti dell’arco politico, tutti gli altri, pur rivendicando una sorta di “socialismo 9 A. Baldoni, La Destra in Italia, cit. pp. 140-141. nazionale” in politica sociale, non si collocarono mai in un’ottica terzaforzista, ritenendo comunque il comunismo il peggiore dei pericoli. La situazione mutò con l’assunzione completa del controllo del partito da parte di Almirante e con il sorgere, dopo le elezioni del 1948, della questione atlantica. Infatti, sia alle elezioni amministrative del 1947, sia in quelle politiche del 1948, il Msi volle presentarsi da solo, ottenendo, soprattutto nelle elezioni amministrative della capitale, un risultato lusinghiero; fu sconfitta così quella ipotesi, favorita dalla Dc e dagli ambienti conservatori, di annacquare il messaggio del Msi, troppo vicino alle tematiche della Rsi e del fascismo rivoluzionario, con l’apporto di realtà esterne, quali lo stesso Uomo Qualunque, i cui scissionisti (Patrissi fra tutti) cercavano di inserirsi nel Movimento sociale allo scopo di depotenziarne le linee troppo anticapitalistiche e troppo tiepide nei confronti del Patto Atlantico. L’ipotesi, come si è detto, fallì e Almirante riuscì a presentare il Msi come baluardo antiatlantico in nome del vecchio retaggio reducista e nostalgico. Dopo avere votato contro il trattato di pace10, durante il secondo congresso (28 giugno-1° luglio 1949) si pose il problema del Patto Atlantico. Il partito era stato compatto sul trattato di pace, che aveva messo in discussione tre punti irrinunciabili nella politica internazionale del Msi (ma in realtà, più legati a un’ottica “interna” della politica estera): la questione delle colonie, che il Msi continuava a rivendicare come “spazio vitale”; la questione di Trieste e delle terre adriatiche passate alla Jugoslavia; la questione degli armamenti. Sul Patto Atlantico, invece, il partito si presentò diviso. La sinistra interna (Palamenghi Crispi, Massi, Pettinato, Pini) sosteneva vigorosamente una opposizione di principio, culturale e politica, all’atlantismo, unita in questo con i gruppi giovanili e con la base, rappresentata soprattutto dalla potente federazione romana. L’opposizione al patto era motivata da ragioni storiche (l’alleanza con coloro che avevano sconfitto il fascismo), da ragioni culturali (il modello di civiltà europea era ritenuto incompatibile col modello americano) e da ragioni di politica interna, in quanto un voto favorevole all’alleanza atlantica avrebbe messo il Msi nella condizione di doversi alleare con gli atlantisti interni, monarchici in testa. Ed era quello che Almirante non voleva, perseguendo il proprio disegno di un partito di nicchia che potesse raccogliere i fascisti che non avevano avuto tentennamenti durante la guerra civile. Il gruppo di De Marsanich e di Michelini, invece, riteneva di dovere prendere atto della situazione geopolitica che si era determinata e puntava alla individuazione del Patto come difesa della civiltà occidentale. Come ha giustamente messo in evidenza Chiarini, si trattava di cogliere, nella questione del Patto, l’occasione di trasformare l’antitesi fascismo-antifascismo in quella comunismo-anticomunismo11. Almirante si trovò in una posizione considerata ambigua da entrambi gli schieramenti; in realtà il segretario comprese che la base del partito e i militanti erano fortemente contrari all’approvazione 10 11 G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Il Movimento Sociale Italiano, cit., pp. 106 ss. R. Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”, cit., pp. 541 ss. del Patto e per questo motivo “impose” al gruppo parlamentare l’astensione, nonostante la forte opposizione di Gianni Roberti, al quale, da buon figlio d’arte, Almirante disse che “non si poteva recitare di fronte a una platea che fischia”12. In Parlamento il Msi sostenne che non si poteva approvare un Patto che non dava garanzie all’Italia, che non chiariva il ruolo degli Stati Uniti in caso di aggressione all’Europa da parte dell’Urss. Nel dicembre 1948 il gruppo missino votò, ovviamente, contro la mozione di fiducia del governo sul Patto, ma Russo Perez, ex qualunquista e uno degli esponenti più filoatlantici, si incaricò di chiarire la profonda diversità del voto contrario del Msi rispetto a quello delle sinistre: l’opposizione era motivata dal fatto che non si poteva entrare in un’alleanza senza garanzie di parità. Nel successivo dibattito di marzo invece ci fu l’astensione dei deputati missini, che rimproverarono il governo di non avere voluto porre condizioni per la firma del Patto. Infine, in sede di ratifica del Patto, il 21 luglio 1949 alla Camera e il 29 luglio al Senato, il Msi tornerà a votare contro, dopo avere presentato una richiesta di sospensiva respinta dall’Assemblea di Montecitorio, presentando poi un proprio ordine del giorno in cui si proponeva di non ratificare il trattato del Nord Atlantico e si chiedeva al governo “di volerlo riproporre all’esame del Parlamento quando gli organi costituzionali degli Stati Uniti d’America avranno preso le loro decisioni sia sulla ratifica di esso, sia sul problema del riarmo” 13. Va tuttavia ricordato che un anno prima, nel luglio 1948, il Msi aveva espresso parere favorevole, anche se con qualche riserva, al trattato di cooperazione economica tra Italia e Stati Uniti. Quindi, l’opposizione missina non si basò, di fatto, su questioni di principio, bensì su una valutazione di opportunità, che vedeva nell’Italia l’“anello debole” dell’alleanza. Tuttavia, la posizione personale di Almirante si indebolì: contestato dalla sinistra per non avere sufficientemente difeso l’opposizione al Patto e per non averla motivata con argomentazioni di principio (la “terza via” tra Mosca e Washington), fu anche attaccato dai filoatlantici per avere troppo dato ascolto alla base del partito e per avere dato del partito un’immagine troppo vicina a quella delle sinistre; inoltre i moderati lo accusarono di svolgere una politica di isolamento e di chiusura nei confronti della vecchia guardia fascista, che si ritrovò con un partito estremista che non riusciva a intercettare il consenso dei ceti moderati ma solo quello dei reduci. Anche in seguito a tale vicenda, e soprattutto a causa della posizione troppo estremista in termini di rapporto con il fascismo di Salò, il segretario, dopo avere tentato, alla fine del 1949, di riprendere il controllo del partito con l’assemblea di Lucca, il 15 gennaio 1950 fu costretto a 12 G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia 1946-1979, Gallina editore, Napoli 1988, p. 48. G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Op. cit., p. 110; G. Almirante, Processo al Parlamento, Cen, Roma 1969, II vol., p. 189; cfr. anche P.G. Murgia, Ritorneremo!, cit., p. 185 e A. Baldoni, La Destra in Italia, cit., p. 302. 13 dimettersi nel corso di un drammatico Comitato Centrale che elesse Augusto De Marsanich nuovo segretario del partito. Oltre alla questione del Patto Atlantico, il Msi, tra il 1948 e il 1949, si misurò anche sulle prime fasi della unità europea. Dal 25 giugno 1948 la Camera incominciò la discussione sul disegno di legge di ratifica degli accordi economici europei firmati il 16 aprile precedente, che aprirono la strada alla graduale realizzazione del mercato comune. Di fronte all’opposizione comunista, la maggioranza votò compatta ma il Msi si astenne sostenendo, come era avvenuto per il Patto Atlantico, l’impossibilità per un’Italia menomata nei propri diritti di aderire a una qualsiasi alleanza. Il 12 luglio 1948 i deputati votarono la ratifica dello statuto del Consiglio d’Europa e l’accordo per la creazione della commissione preparatrice del medesimo Consiglio e il Msi si astenne nuovamente, motivando con Gianni Roberti un’astensione che era quasi un voto favorevole; ma, anche in questo caso, Almirante volle dare un segnale identitario richiamandosi alla necessità che l’Europa fosse tutta unita, dal Portogallo alla Russia; la presenza di una Germania divisa e dei paesi dell’Est sotto il controllo di Mosca non potevano non essere considerati elementi ostativi a qualsiasi progetto di unità europea. Anche questa linea fu modificata con la segreteria De Marsanich14. La svolta di De Marsanich, già sottosegretario di Mussolini, emerse immediatamente attraverso un appello a tutte le forze di destra, per realizzare un patto di unità di azione con liberali e monarchici. I primi rifiutarono, mentre i secondi accettarono. Ciò determinò anche un profondo mutamento nella linea di politica estera che si espresse compiutamente con la conferenza stampa del nuovo segretario, il 28 novembre 1951, nel corso della quale fu data ufficialmente l’adesione alla Nato. Non fu soltanto la svolta della nuova segreteria a determinare il cambiamento radicale in politica estera, ma influì anche un sostanziale allargamento e rinnovamento della classe dirigente del partito: i nuovi leaders diventavano Michelini, Filippo Anfuso, ex ambasciatore a Berlino durante la Rsi ma fortemente filoatlantico, Junio Valerio Borghese, entrato nel partito undici giorni prima della conferenza stampa del segretario e diventato presidente del Msi il 2 dicembre 1951, Ezio Maria Gray, direttore de “Il Nazionale”, Ernesto De Marzio, uno dei più attenti al rapporto con la cultura e con i giovani. La linea filoatlantica diventava così la soluzione alla quale il Msi guardò con molto interesse perché vide la possibilità, attraverso questa adesione, di rientrare nel grande gioco politico. Si trattava, in qualche modo, di un ritorno alla linea delle origini, quella che ipotizzava la funzionalità dei neofascisti non già alla creazione di un fascismo storico riadattato, quanto alla costituzione di un nuovo progetto politico che vedeva nell’alleanza atlantica il perno della nuova politica estera del 14 G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Op. cit., pp. 112 ss. partito e, di qui, la possibilità di realizzare, anche in Italia, nuovi equilibri in senso anticomunista. A ben vedere, poteva essere questo il senso ultimo dello slogan di De Marsanich al primo congresso del partito, “Non rinnegare e non restaurare”, che i più videro come soluzione brillante per sopravvivere mentre qualcuno considerò solo un vuoto esercizio retorico15. Anfuso spiegò come non fosse stato il Msi ad andare verso gli alleati d’oltre Oceano, quanto gli stessi americani ad essersi resi conto che nei nuovi equilibri della guerra fredda la funzione del Msi poteva essere di qualche utilità16; Gray, uno dei fondatori del partito, messo al margine, prima con una condanna al confino, poi con la linea intransigente di Almirante, rientrava sulla scena politica facendo appello alla difesa della civiltà occidentale; Borghese, non appena acclamato presidente del partito, assicurava che, in caso di guerra, “non saremo noi a fare gli obiettori di coscienza” e ribadiva la propria adesione alla Nato. Nel 1952, con il congresso dell’Aquila, la sinistra terzaforzista di Pettinato e Pini era costretta a lasciare il partito: rimaneva la sinistra nazionale dei Massi e dei Palamenghi Crispi ancora per quattro anni. Con il congresso di Milano la trasformazione del Msi diventava completa e il partito era pronto ad assumere nuovi impegni per la costruzione di una “grande destra” filo occidentale e moderata, lontana dalle suggestioni di Salò e dalle pulsioni antisistemiche. Trieste Con il 1952 – dopo l’esperimento della “operazione Sturzo”, che pur essendo fallita dava il segno della evoluzione missina – sorgeva un nuovo problema che lanciava il Msi in una fase completamente nuova: la questione di Trieste. Trieste rappresentò, per il Msi, il primo vero momento di consenso nella società italiana. Le elezioni del 18 aprile, infatti, avevano dato al Msi un risultato obiettivamente inferiore alla aspettative, ma c’era la valida attenuante che si era trattato di elezioni – plebiscito tra comunismo e anticomunismo. In quell’occasione il fronte anticomunista si unì e molti voti, com’è noto, giunsero alla Democrazia Cristiana da persone lontane dal partito di De Gasperi: liberali, monarchici, fascisti, socialisti moderati e laici di varia osservanza votarono compatti la Dc per timore di dovere fare i conti con il Pci. Invece, le elezioni amministrative del 1952 avevano dato un esito particolarmente soddisfacente alle destre, questa volta alleate, dopo la svolta di De Marsanich17, tale 15 F. Grossi, Questo antifascismo. Schegge di vita politica, economica e sociale del nostro tempo, Settimo Sigillo, Roma 1991, p. 33. 16 F. Anfuso, Apra gli occhi l’America, in “Secolo d’Italia”, 29 maggio 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, a c. di P. Romualdi, Ed. dell’Italiano, Roma s.d., pp. 57 ss. 17 A. Ungari, (Annali Fus). Il 25 maggio 1952 rappresentarono per il nuovo segretario missino un grande successo politico. Mentre la Dc e gli alleati di centro subirono una pesante flessione, il blocco di destra (missini e monarchici) ottengono la maggioranza assoluta in diverse città del Sud (Napoli, Bari, Foggia, Salerno, Avellino e Benevento). per cui missini e monarchici speravano di potere ottenere alle politiche dell’anno successivo un risultato ampiamente favorevole. In questo quadro si inseriva Trieste. Inserita nel territorio libero, controllata dalla forza armata alleata, Trieste non era ancora tornata all’Italia e in tutta Italia il sentimento popolare sulla città giuliana era di attesa e di rabbia. Trieste era una città simbolo, era “la più italiana delle città”, comprendeva i miti retorici e patriottici di due generazioni. Inoltre, su Trieste si assisteva a uno scontro fra una sinistra fortemente condizionata dalla presenza e dalle pretese di Tito e un centro governativo che riteneva opportuno non discostarsi troppo dalla politica alleata sull’argomento. Tra un Pci che, fino al marzo 1948, e cioè fino a quando si consumò la frattura fra il Cremino e Tito, aveva sostenuto apertamente la linea filojugoslava, rendendosi, di fatto, politicamente complice della sistematica eliminazione degli italiani in Istria, a Fiume, nella Dalmazia e nella stessa Trieste, e una Dc che attendeva le decisioni degli alleati, badando a non esasperare la situazione, il Msi trovò un inaspettato campo libero di azione18. La svolta di De Marsanich aveva accentuato l’anticomunismo del partito, collocandolo apertamente nel campo occidentale, e questo garantì al Msi la possibilità di andare oltre. Nessuno, in particolare, difendeva esplicitamente gli esuli, nessuno aveva il coraggio di affrontare il problema della “zona B” e delle terre che il trattato di pace del 1947 aveva assegnato alla Jugoslavia, nessuno aveva voluto porre in relazione l’azione di snazionalizzazione realizzata da Tito attraverso il ricorso alla violenza verso gli italiani e attraverso il provocato esodo, con il totalitarismo comunista. Trieste, così, diventa non solo l’occasione per riappropriarsi della questione nazionale, accusando la Dc di tiepidezza, chiamando a raccolta tutti gli italiani attorno alla tragica vicenda delle “terre irredente”, saldando il Msi nel filone nazionale e risorgimentale; Trieste diventava anche, e soprattutto, l’occasione per impostare un nuovo anticomunismo “forte” con vigorosi richiami alla necessità di difendere la civiltà occidentale e la cristianità minacciate dalle “orde sovietiche”. Su questo il Movimento sociale puntò tutte le proprie carte, comprendendo come la partita era decisiva per una legittimazione del movimento nel filone della tradizione nazionale e patriottica. Il fascismo si poteva superare come problema: non era il dilemma fascismo-antifascismo a tenere campo: era la difesa dal comunismo e il Msi si candidava a rappresentare quella parte di elettorato che incominciava a temere gli scivolamenti a sinistra di una parte della Dc, a constatare le incertezze liberali, ad assistere alle debolezze, vere o presunte, del governo: in altri termini, si collocava a tutela di una minacciata identità italiana e occidentale19. 18 Sugli aspetti internazionali della questione triestina e sulle loro conseguenze interne si veda M. de Leonardis, La “diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste, Esi, Napoli 1992. 19 “L’imbarazzo di De Gasperi è grande, ma quello degli italiani è ancora maggiore: De Gasperi sa che perdendo il territorio Libero perde la posta elettorale; noi sappiamo che perdendo i resti dell’Istria chiamati Zona A e B, in quanto la quasi totalità è già nelle mani di Tito dal 1947, perderemo anche il diritto di chiamarci Italiani” (F. Anfuso, Evitare Il ruolo del Msi, sancito dai lusinghieri risultati ottenuti nelle elezioni amministrative della città giuliana20, divenne ancora più rilevante in occasione dei disordini del 1953 e del 1954. L’8 marzo 1953, terminato un comizio del segretario del Msi, De Marsanich, fu lanciata una bomba sul corteo dei dimostranti missini che provocò il ferimento di una quarantina di giovani, tra i quali, piuttosto gravemente, Cesare Pozzo e Fabio De Felice, che l’anno successivo furono eletti in Parlamento. Ben più gravi furono i disordini del 5-6 novembre 1953, durante i quali furono uccise sei persone. Il motivo scatenante, com’è noto, fu la rimozione della bandiera tricolore dal comune di Trieste, in occasione dell’anniversario della vittoria della prima guerra mondiale21. In tutta Italia si tennero manifestazioni per Trieste italiana che riuscirono a convogliare verso il Msi migliaia di giovani che vissero, in quella circostanza, la prima esperienza politica militante; più o meno consapevolmente, molti ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori e molti universitari scesero in piazza per rivendicare l’italianità di Trieste; fu un successo clamoroso e il Msi riuscì a costruire un rapporto privilegiato con gli studenti, presentandosi non già come residuo nostalgico del fascismo ma come prospettiva moderna in grado di essere accolta da molti che pure nel fascismo non si riconoscevano. Le elezioni del ’53, caratterizzate dal problema della legge maggioritaria, la cosiddetta “legge truffa”, segnarono la fine dei governi De Gasperi. Il Msi si schierò contro la nuova legge elettorale in quanto il sistema proporzionale corretto con un consistente premio di maggioranza avrebbe favorito essenzialmente la coalizione di centro, probabile vincitrice della competizione, avrebbe penalizzato la sinistra (comunisti e socialisti erano ancora alleati) ma avrebbe fatto scomparire la destra, lasciando alla sola sinistra il ruolo di opposizione parlamentare. Infatti, nella proposta del governo, il premio di maggioranza per la coalizione che avesse superato il 50% dei voti, sarebbe andato il 65% dei seggi (380 contro 209 all’opposizione). Di fronte a questa prospettiva, il Msi e i monarchici si scatenarono in una durissima polemica contro la legge elettorale, definita “truffa” dai comunisti ma subito accolta con questa stessa denominazione anche dalle destre. La campagna elettorale fu durissima e il Msi insisté sulla opposizione al sistema di leggi “liberticide”, accomunando nella polemica sia la legge Scelba – che prevedeva lo scioglimento dei l’irreparabile, in “Il Secolo d’Italia”, 18 settembre 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., p. 60. Si veda anche, sempre di Anfuso, Salvare l’Occidente da Tito, in “Il Secolo d’Italia”, 13 dicembre 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., pp. 62-64 . 20 Costituito alla fine del 1947, il Msi triestino ottiene oltre 10 mila voti e il 6% alle elezioni comunali del giugno 1949, che raddoppiarono nelle elezioni provinciali del 1952 (20.500 voti e l’11,5%) (cfr. A. Baldoni, La Destra in Italia, cit., pp. 429-430). 21 Lo studente Piero Addobbati era iscritto alla Giovane Italia, l’organizzazione studentesca del Msi, mentre Francesco Paglia era iscritto al Fuan, l’organizzazione degli universitari; gli altri, Antonio Zavadil, Erminio Bassa, Saverio Montano e Leonardo Manzi, erano tutti iscritti alla Lega Nazionale, la principale organizzazione patriottica triestina. Sui disordini si vedano i saggi introduttivi al catalogo della mostra realizzata nel 2003 a cura del Comune di Trieste (cfr. I ragazzi del ’53. L’insurrezione di Trieste cinquant’anni dopo, a cura di P. Delbello, Ed. Italo Svevo, Trieste 2003). movimenti che si ispirassero apertamente al fascismo – sia quella elettorale. Inoltre la posizione del Msi su Trieste aveva attirato molti interessi su questo partito: da Andreotti, che riuscì a “incastrare” il maresciallo Graziani, che con Borghese divideva la presidenza onoraria del partito, nel famoso comizio di Arcinazzo, facendogli rilasciare stupefacenti dichiarazioni sul ruolo della Dc nel dopoguerra, a Berlinguer che riprese una linea di attenzione nei confronti dei giovani missini tentando di metterli contro i vertici del partito in nome della difesa degli interessi nazionali che il Msi, atlantico e conservatore, avrebbe ormai tradito22. In quel determinato momento, tuttavia, il nemico erano la Dc e la legge “truffa”: pertanto può essere stato possibile, in certe determinate situazioni, un “aiuto” del Pci verso alcuni candidati missini: i comunisti, per la prima volta si resero conto che poteva essere conveniente consentire lo sviluppo di una forza che indebolisse la Dc da destra, soprattutto in collegi meno sicuri per il partito di maggioranza relativa23. L’esito premiò le opposizioni. Com’è noto, per lo 0,2% la legge elettorale non scattò, essendosi fermata al 49,8% la coalizione centrista. Il Msi alla Camera ottenne più di un milione e mezzo di voti, sfiorando il 6%, mentre i monarchici giunsero quasi al 7%. Un risultato buono ma non come i vertici missini avrebbero voluto, soprattutto sulla base delle aspettative sorte dalle amministrative; ci fu chi comprese che l’andata al potere non sarebbe stata né facile, né rapida e che i fascisti in Italia non erano poi così numerosi quanti i dirigenti missini avevano immaginato24. La situazione divenne interessante per il Msi e per le destre dopo le elezioni del 1953: fallita l’operazione di riforma elettorale, caduto l’ultimo governo De Gasperi, salito a Palazzo Chigi Giuseppe Pella, per la destra si riaprirono i giochi politici. Pella, lontano dalle correnti democristiane, liberista e sinceramente “nazionale”, assunse posizioni molto dure rispetto a De Gasperi sulla questione triestina, giungendo a rispondere con energia alle provocazioni titine. Il Msi sperò – e con il Msi sperarono altri soggetti politici interessati alla evoluzione della situazione triestina, come il settimanale “Candido” di Guareschi25 – che l’arrivo di Pella, appoggiato dall’esterno da missini e monarchici, potesse preludere a un radicale cambio di schieramenti politici. Senza troppi veli, la destra si aspettava che la presidenza Pella producesse un salutare chiarimento nell’ambito della Dc, per cui la destra democristiana avrebbe assunto nuovi impegni con la destra, mentre la sinistra avrebbe scelto altre strade. L’ipotesi di una spaccatura all’interno della Dc, motivata dalle questioni di politica estera relative alla questione di Trieste, sarebbe ricadute sulla situazione interna. In realtà, com’è noto, la situazione fu bloccata dal diretto 22 A. Baldoni, La Destra in Italia, cit., pp. 420 ss. E’ il caso del collegio Perugina-Terni-Rieti dove risultò eletto Fabio De Felice (T.a.a. di Fabio De Felice); si veda anche M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 55. 24 Si veda la testimonianza di Enzo Erra in N. Rao, Neofascisti!, cit., p. 31. 25 Su Guareschi si veda G. Parlato, Guareschi e Trieste, in Guareschi, l’umorismo, la storia, atti del convegno organizzato dal Comune di Trieste il 16 giugno 2003, attualmente in corso di stampa. 23 intervento di De Gasperi che, dopo i sanguinosi fatti del 5-6 novembre 1953, riprese, attraverso Scelba, in mano la situazione e, di fatto, dequalificò il governo Pella attraverso la nota definizione di “governo amico”. La caduta conseguente del governo del leader biellese, avvenuta i primi giorni di gennaio del 1954, fece tramontare le ipotesi care a Guareschi, il quale, una quindicina di giorni più tardi, aprì il contenzioso con De Gasperi pubblicando le famose lettere del 1944 con le quali il leader trentino avrebbe chiesto agli alleati il bombardamento di zone periferiche di Roma per fiaccare più rapidamente il fronte interno e consentire la costituzione di una forte organizzazione di resistenza al nazifascismo, fino ad allora a Roma piuttosto debole. Le lettere furono, com’è noto, ritenute entrambe false in seguito a un processo insolitamente rapido e non privo di anomalie; Guareschi fu condannato a un anno di carcere, che si sommò alla vecchia condanna per il vino di Einaudi26. Meno di un anno più tardi rispetto ai disordini del 1953, Trieste tornò all’Italia. Quello che avrebbe dovuto rappresentare un successo per la destra, lo fu solo a metà. Intanto, il Msi ritenne doveroso “rilanciare”, dopo l’acquisizione di Trieste, l’attenzione politica sull’Istria, la Dalmazia e su Fiume, terre che erano molto più difficili da recuperare; inoltre, terminata positivamente la questione del capoluogo giuliano, il Msi di fatto restò prigioniero della sua politica nazionalista, senza alcuna strategia ulteriore che non fosse la rivendicazione delle terre perdute. In altri termini, Trieste non diventò l’occasione per il rilancio nazionale del partito: il Msi si radicò in città raggiungendo percentuali superiori rispetto alle altre città italiane, anche del Sud, ma la questione di Trieste, come quella degli esuli, restarono problemi essenzialmente locali, in Italia mai colti con la dovuta attenzione: dovranno passare molti decenni perché in Italia un concetto di nazione non più sinonimo di nazionalismo diventi comune e accolto patrimonio. Gli stessi esuli, alla lunga, preferirono rivolgersi alla Dc la quale, pur non volendo trasformare la questione dell’esodo in un tema politico e storico nazionale, tuttavia riuscì, con sapienti dosaggi di governo, a sistemare in qualche modo la questione e a permettere agli esuli una vita quasi normale in Italia. La politica dell’inserimento del Msi verso il potere continuò fino ai fatti di Genova del luglio 1960, con l’appoggio esterno ai governi di Segni, Zoli e Tambroni e concorrendo alla elezione di Gronchi alla prima carica dello Stato. In questa ottica, il filo atlantismo costituì l’elemento centrale della politica di Michelini, subentrato a De Marsanich nel 1954 alla segreteria del partito: per questa linea la sinistra nazionale uscì dal partito dopo il drammatico congresso di Milano del 1956, nel quale la posizione di Almirante – leader della sinistra ma protagonista di un 26 Sulla vicenda del processo De Gasperi si veda G. Guareschi, Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia, Rizzoli, Milano pp. 341 ss. Sulla condanna per vilipendio del capo dello Stato, in seguito a una vignetta del “Candido” che raffigurava il presidente della Repubblica che passava in rivista una fila di bottiglie della casa vinicola Einaudi di Dogliani, si veda B. Gualazzini, Guareschi, Editoriale Nuova, Milano 1981, pp. 203 ss. accordo sotto banco all’ultimo momento con la segreteria – fu contrassegnata da un’abile disinvoltura. Nella stessa occasione, uscì anche la destra che, non condividendo l’ipotesi micheliniana di inserimento nell’area moderata di governo, diede vita a “Ordine Nuovo”, la formazione politico-culturale che raggruppò la destra radicale ed evoliana. Il partito di Michelini, liberato delle ali eversive e intransigenti, si avviava a provare una Fiuggi ante litteram che per una serie di motivazioni, non tutte dipendenti dal Msi, in realtà non si poté realizzare nel 1960, a Genova, dove si sarebbe dovuto celebrare il VI congresso. A parte l’infelicissima scelta della città, medaglia d’oro della Resistenza (ma il precedente congresso si era tenuto a Milano, la città dell’insurrezione, senza che nessuno avesse a ridire), giocarono nel fallimento di questa prima prova di “sdoganamento” alcuni fattori esterni ed altri interni. Sicuramente i progetti di evitare l’apertura a sinistra ricorrendo anche all’apporto di un Msi non più ghettizzato nel mito della Rsi e del fascismo, attraverso la presenza di un governo, quello di Tambroni, espressione del presidente Gronchi e quindi inserito nelle polemiche dinamiche interne alla Dc costituì il fattore scatenante più immediato e clamoroso. Ma a questo si dovette aggiungere la dura polemica interna del gruppo di minoranza guidato da Almirante, contrario ad ogni tipo di “grande destra” e deciso a difendere l’identità del partito e i valori di riferimento; sebbene d’accordo con la segreteria in quel passaggio del 1960, la corrente almirantiana si pose sempre, prima e dopo, contro ogni ipotesi che portasse a una politica effettivamente e modernamente di destra. D’altra parte, come sostenne Romualdi nel 1987, a quell’epoca il Msi non era pronto anche perché non era stato mai preparato a svolgere una politica di destra27. Una cultura internazionale? Una prospettiva internazionale nella cultura di riferimento del neofascismo e, in generale, della destra italiana del dopoguerra è difficile da individuare. Infatti, da un’analisi anche sommaria della stampa missina dell’immediato dopoguerra, i referenti culturali del neofascismo erano strettamente “autarchici”: oltre al Risorgimento (con una preferenza per Mazzini e Garibaldi, piuttosto che per Cavour), i “maestri” erano più o meno quelli del fascismo: Alfredo Oriani, d’Annunzio, Marinetti, Corridoni; dal fascismo erano desunti Gentile, Volpe e Pirandello, a significare la valenza della “rivoluzione italiana” come modello rispetto alle altre soluzioni del Novecento. L’unico intellettuale che porta nel Msi una cultura profondamente diversa da quella espressa dagli intellettuali ora citati è senza dubbio Julius Evola, il cui pensiero irrompe nell’ambiente un po’ provinciale e un po’ ingessato della cultura neofascista apportando elementi del tutto nuovi, che si 27 P. Romualdi, Intervista sul mio partito, a c. di A. Urso, in “Proposta”, II, n. 3-4, maggio-agosto 1987, pp. 56-57. allontanano sensibilmente dai riferimenti culturali del fascismo. In primo luogo si affaccia nella destra italiana il concetto che il fascismo costituisca una categoria dello spirito e non soltanto una scelta politica e, come tale, la categoria è per sua natura senza tempo e senza confini. Il fascismo, pertanto, perdeva con Evola la peculiarità italiana confondendosi con una sorta di “nazifascismo”, ovviamente dalla valenza positiva, concetto che tuttavia ripeteva la calibratura fra gli alleati dell’Asse, nel senso che il fascismo italiano diventava, nella lettura evoliana, l’elemento debole, compromissorio e insufficiente nella valutazione totalitaria rispetto al nazionalsocialismo: un fascismo, quindi, più “fenomeno europeo”, per usare una espressione di Adriano Romualdi, che italiano. Di qui la necessità, per Evola e per la corrente che lo considerò maestro, di irrobustire il debole tronco del totalitarismo fascista con vigorose iniezioni di cultura estranea alla tradizione italiana: Guenon, Codreanu, Degrelle, Brasillac, Drieu La Rochelle, Maurras, Knut Hamsun, e persino, in qualche caso, gli Asburgo. In realtà, questa evoluzione verso la cultura di carattere internazionale si sedimenta soltanto nella metà degli anni Settanta, nel fiorire di iniziative culturali e di riviste che caratterizza la ripresa missina tra la nuova segreteria Almirante e la scissione di Democrazia Nazionale28. Prima di quella data, la presenza di Evola tra le letture dei giovani era vista con sospetto e con fastidio dalle gerarchie del partito29 Da Evola si diparte quel filone tradizionalista non cattolico che fece dell’antimodernità la propria bandiera: in questo senso prendeva le mosse un altro antiamericanismo. Non più soltanto legato alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, questo antiamericanismo metteva l’accento sulle contraddizioni della società capitalistica, elemento centrale del crollo dei valori e della caduta della civiltà da quella dei guerrieri alla socialità. Nella seconda metà degli anni sessanta, le tematiche antiamericane furono tipiche anche di un’altra rivista, “L’Orologio”, fondata da uno dei capi dei Far, Luciano Lucci Chiarissi, il quale, provenendo dalla Rsi, aveva fatto proprie le tematiche classiche della sinistra fascista, applicandole a un lucido percorso di politica estera che aveva portato la rivista a sostenere, in funzione antiborghese e anticapitalistica, i vietcong contro gli americani impegnati in Viet Nam, gli arabi contro Israele, non per motivazioni razziali ma per il riconoscimento delle esigenze nazionali del popolo arabo, la contestazione europea contro i conservatorismi, non nascondendo le proprie simpatie per il maoismo: del tutto e anche polemicamente esterna, come si è detto, al cono d’ombra evoliano, la rivista si può considerare l’ultima espressione della “sinistra fascista”30. 28 M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 100 ss. Si veda, a tale proposito, la testimonianza di Ugo Franzolin sulla recezione del barone siciliano presso Michelini (cfr. M. Rao, Neofascisti !, cit., pp. 58-59). 30 Sull’ “Orologio” si veda G. Parlato, La sinistra fascista, cit., pp. 372 ss. 29 Al di fuori di tale ottica, l’unico intellettuale straniero che venne considerato valido fu Ezra Pound, noto al pubblico dei militanti missini per la sua adesione alla Rsi e alla propaganda che svolgeva via radio negli Stati Uniti e soprattutto per la sua detenzione a Coltano, prigioniero degli stessi americani. Al di là della poesia, intrisa comunque di riferimenti culturali, filosofici e politici, Pound fu preso in considerazione per le sue teorie sul denaro, in una visione economica che avrebbe dovuto, una volta realizzata, distruggere l’economia, disgregarne le leggi e superarne le necessità, per fare trionfare lo spirito, la volontà, la poesia, l’unica legge di un potere universale supremo31. Se queste erano le posizioni, sommariamente illustrate, dei fautori di una posizione autonoma del neofascismo nello scontro fra i due blocchi, l’altro filone, quello filoatlantico e più pragmatico, ebbe come riferimento non tanto degli intellettuali, ma tre personaggi che, insieme alla politica, elaborarono alcune riflessioni relative all’impegno del Msi nella politica estera. Ci si riferisce a Filippo Anfuso, a Ernesto De Marzio e a Pino Romualdi. Di Anfuso già si è accennato: ex sottosegretario a Salò e ambasciatore della Repubblica mussoliniana a Berlino, il diplomatico siciliano fu un fautore del Patto Atlantico: “Non sono con gli invasori della Sicilia, ma non posso essere nemmeno con gli assassini di Dongo”, scrisse nel giugno 195232. Fu Anfuso che, ritornato dalla Spagna dove aveva cercato di costituire una rete neofascista europea, spostò sensibilmente l’asse del partito verso la scelta atlantica. Esperto di politica estera, fu anche uno dei sinceri fautori della svolta europeista del Msi, come emerse dalla sua breve ma significativa rivista “Europa Nazione”. I temi affrontati nei suoi interventi parlamentari o nei suoi articoli giornalistici testimoniarono un particolare interesse verso le evoluzioni del concetto di nazione dopo la fine della guerra: Anfuso fu un fautore dell’Europa nazione e cioè di una visione dell’Europa legata alle evoluzioni del nazionalismo. In nome delle comuni radici cristiane, Anfuso riteneva che l’Europa avrebbe dovuto mettere in discussione i nazionalismo che l’avevano divisa per proporre un nuovo nazionalismo europeo33. A fianco di Anfuso vi era Ernesto De Marzio. Giornalista, intellettuale e uomo politico, fu per un certo periodo il leader intellettuale del Msi. Riferimento costante dei giovani, De Marzio rappresentava una linea per certi versi nuova nel partito. Moderato e disponibile ad aperture verso la grande destra, De Marzio – che manterrà fede a questa impostazione anche nella scissione di Democrazia Nazionale – si muoveva in un’ottica cattolica e nazionale; a lui si dovettero i principali momenti organizzativi della cultura missina degli anni Cinquanta e Sessanta e soprattutto il tentativo di fare emergere una corrente giovanile che mirava a conciliare Evola con il 31 Si veda in particolare E. Pound, Lavoro e usura, con pref. di P. Savona, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1996. F. Anfuso, Proatlantici e anti-atlantici, in “Il Secolo d’Italia”, 22 giugno 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., p. 47. 33 I discorsi parlamentari e gli articoli sono reperibili nella raccolta di articoli e di interventi già citata (F. Anfuso, Discorso ai sordi, cit. 32 tradizionalismo cristiano, in un’ottica tradizionale italiana. In sostanza, De Marzio auspicava una evoluzione del neofascismo in termini di avvicinamento all’ala più moderata del mondo cattolico, in una prospettiva nettamente antigentiliana; si trattava di una operazione complessa che, sfruttando la politica micheliniana dell’inserimento, puntava ad un superamento del fascismo storico, senza rinnegarlo, espungendo dal partito soprattutto il nostalgismo e le pulsioni socialiste e rivoluzionarie34. Anche Pino Romualdi, come si è già visto in precedenza, riteneva che il messaggio del Msi andasse “liberato” dalle scorie della nostalgia: in particolare, l’ex vice segretario del Partito fascista repubblicano fu il leader di una piccola corrente che dava spazio alla cultura, in un partito che non amava troppo l’impegno culturale. Soprattutto attraverso la sua rivista, “L’Italiano”, fondata nel 1959, Romualdi affrontò diversi temi di politica estera. Fu tra i primi nel Msi ad occuparsi di geopolitica, insieme con Ernesto Massi, docente di geografia alla Università cattolica di Milano, ma su posizioni diverse dall’esponente della sinistra nazionale; affrontò in senso filoisraeliano il conflitto con gli arabi, si occupò del ruolo dell’Europa come “terza forza” non in conflitto con gli Usa ma come “baluardo della civiltà” contro il comunismo; fu il primo leader della destra ad andare in missione ufficiale negli Stati Uniti e lo raccontò ai lettori della sua rivista sottolineando il ruolo dell’Occidente e la necessità di rinvigorirlo idealmente e militarmente. “L’Italiano”, espressione della sua corrente pragmatica e d’élite, fu una rivista piuttosto anomala nel panorama missino, in quanto laboratorio di progetti critici, antiretorico e non privo di elementi di riflessione e di dubbio sulla evoluzione del partito. Convinto della fine evidente del mussolinismo come ideologia unificante il neofascismo, Romualdi ritenne indispensabile per il futuro del Msi il superamento del fascismo storico e la necessità del confronto sui problemi attuali, primi fra tutti quelli di politica estera35. Al di là delle posizioni di Romualdi e di De Marzio, sostanzialmente isolate nel Msi, non si può sostenere che nel Msi fosse sviluppata una cultura della politica estera. La scelta iniziale a favore dell’atlantismo (ma solo come baluardo contro il comunismo) non derivava infatti da una approfondita visione della politica internazionale, né da una visione del mondo particolare, ma solo da una necessità politica, l’unica possibile per potere rimettere nel gioco della politica i fascisti. Ciò determinò, per tutto l’arco dell’esistenza del Msi, un dualismo irrisolto fra un vertice filoatlantico, che mirava alla realizzazione di una politica di destra in grado di recuperare il concetto di nazione inserendolo nel più vasto concetto di Europa-Nazione, e una base giovanile alla ricerca di un 34 Si veda una interessante analisi dell’influenza di De Marzio sull’elemento giovanile in S. Pessot, P. Vassallo, A destra della città proibita. Genova. Quelli che non si arresero, con pref. di E.Erra e postfazione di G. Accame, Terziaria, Milano 2004, pp. 63 ss. Si veda anche un breve profilo di De Marzio in “Tradizione 35 Si veda su Romualdi l’antologia dei suoi articoli sull’ “Italiano”: P. Romualdi, Caro lettore, intr. Di G. Tricoli, Quaderni de L’Italiano, Roma 1989; si veda anche P. Romualdi, Intervista sull’Europa, Ed. Thule, Palermo 1979. “altrove” evoliano, che usciva sì dal fascismo storico, ma per andare verso una irrealizzabile e impolitica visione tradizionalista del mondo e della società. Nessuna di queste due visioni prevalse effettivamente sull’altra, soprattutto perché il Msi evitò quasi programmaticamente di porsi problemi di chiarimento culturale che avrebbero spaccato o depotenziato il partito. Ciò determinò una costante e nuovamente irrisolta contraddizione tra politicità della prassi e impoliticità della teoria (la cultura come optional, secondo la definizione di Tarchi36), una contraddizione felice, per certi versi, perché consentì al Msi di attraversare indenne cinquanta anni del secolo delle ideologie senza problemi particolari, salvo il fatto di restare racchiuso in una nicchia di scarsi consensi popolari. La “doppiezza” tra prassi e teoria fu vantaggiosa per il partito, che la utilizzò per avere, da un lato, consensi giovanili e, dall’altro, per potere continuare a proporre la politica dell’inserimento, almeno fino al 1960. D’altra parte, fino ai fatti di Genova – ma, per certi versi, anche oltre tale data – il Msi fu costretto dalle circostanze a mascherare la sua tendenza all’inserimento (i famosi voti missini “non graditi e non richiesti”), garantendo così alla base giovanile e militante la sensazione di un progetto rivoluzionario e alternativo che nei fatti non esisteva ma che poteva essere evocato periodicamente a scopi elettorali e per mantenere coesa la comunità umana del neofascismo. 36 M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 91 ss.