La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo

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La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo
La cultura internazionale della destra tra isolamento e atlantismo (1946-1954)∗
GIUSEPPE PARLATO
Alcune premesse
Il problema della cultura internazionale nell’ambito dei movimenti che si collocarono alla
destra dello schieramento politico nel secondo dopoguerra è particolarmente complesso per una
serie di ragioni interne ed esterne agli stessi movimenti. Prima di affrontare il problema storico e
politico della destra italiana in ordine alla cultura internazionale, occorre muovere da alcune
premesse di orientamento generale.
In primo luogo, occorre rilevare che pressoché tutti gli studi sul Msi e sulla destra in
generale, nonché quelli sulla politica estera della destra in particolare, muovono da considerazioni
preliminari relative alla marginalità della destra nel panorama politico e culturale italiano1. Dal
punto di vista dell’analisi interna del fenomeno, parlando del Msi, la maggior parte degli studi si
sofferma a lungo sulle tre anime (quella della sinistra, gli evoliani e il centro nazional-conservatore
di Michelini), dando a questa tripartizione un valore interpretativo essenziale e fondamentale. In
realtà, la tripartizione delle componenti del Msi nasce da una visione ideologica e culturale che non
∗
Questa relazione costituisce una sorta di anticipazione estremamente sommaria di una delle parti di una ricerca sulle
origini del neofascismo che verrà pubblicata per i tipi de Il Mulino.
In Uomini e nazioni. Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento, a cura di Giorgio Petracchi, con la
collaborazione di Gianluca Volpi, Gaspari editore, Udine 2005, pp. 134-154. Atti del Convegno di studi sul tema:
“Cultura e politica estera nell’Italia del Novecento” svoltosi presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere
dell’Università di Udine (14-15 ottobre 2004)
1
Sul problema della politica estera nel Msi si vedano: S. Finotti, Difesa occidentale e Patto Atlantico: la scelta
internazionale del Msi, in “Storia delle Relazioni internazionali”, I, 1988, pp. 94-124; R. Chiarini, “Sacro egoismo” e
“missione civilizzatrice”. La politica estera del Msi dalla fondazione alla metà degli anni Cinquanta, in “Storia
contemporanea”, XXI, n. 3, giugno 1990, pp. 541-560; P. Neglie, Il Movimento sociale italiano fra terzaforzismo e
atlantismo, in “Storia contemporanea”, XXV, n. 6, dicembre 1994, pp. 1167-1195. Sul Msi in generale si vedano: G.
Almirante, F. Palamenghi Crispi, Il Movimento Sociale Italiano, Accademia, Milano s.d.; A. Del Boca, M. Giovana, I
“figli del sole”. Mezzo secolo di nazifascismo nel mondo, Feltrinelli, Milano 1965; M. Giovana, Le nuove camicie nere,
Ed. Dell’Albero, Torino 1966; P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo da Salò ad Almirante. Storia del MSI, Feltrinelli,
Milano 1975; P.G. Murgia, Il vento del nord. Storia e cronaca del fascismo dopo la Resistenza (1945-1950), e
Ritorneremo (1950-1953), Sugarco Edizioni, Milano, rispettivamente 1975 e 1976; G. de’ Medici, Le origini del MSI.
Dal clandestinismo al primo congresso (1943-1948), Istituto di Studi Corporativi, Roma 1986; P. Ignazi, Il polo
escluso. Profilo del Movimento sociale italiano, Il Mulino, Bologna 1989; G.S. Rossi, Alternativa e doppiopetto. Il Msi
dalla contestazione alla destra nazionale (1968-1973), Istituto di Studi Corporativi, Roma 1992; S. Setta, La Destra
nell’Italia del dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1995; M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il
fascismo, a cura di A. Carioti, Rizzoli, Milano 1995; Id., Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana, Guanda,
Parma 1995; P. Nello, Il partito della Fiamma. La Destra in Italia dal Msi ad An, IEPI, Pisa-Roma 1998; A. Baldoni,
La Destra in Italia (1945-1969), Ed. Pantheon, Roma 1999 (le citazioni sono desunte dalla seconda ed., 2000); N. Rao,
Neofascisti! La Destra italiana da Salò a Fiuggi nel ricordo dei protagonisti , Settimo Sigillo, Roma 1999; G.S. Rossi,
La destra e gli ebrei. Una storia italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003.
ha necessariamente riscontro con le scelte politiche dei missini. In altri termini, vi è in questo
partito, più che negli altri, una sostanziale indipendenza tra scelte ideali e prassi politica che nasce
da un mai sufficientemente chiarito approccio culturale alla situazione storico-politica italiana sia
del fascismo, sia del postfascismo. Proprio il distacco tra scelte politiche e (deboli) riferimenti
culturali ha determinato le due opposte interpretazioni del Msi: quella che nasce dalla
autorappresentazione del partito e che vede il Msi unico baluardo dei valori nazionali, in nome dei
quali è possibile ogni tipo di politica; quella opposta, che vede il Msi unicamente come polo
eversivo nella storia dell’Italia recente con pericolose derive verso il terrorismo e connivenze con
ambienti che mirano a destabilizzare l’ordine democratico. Entrambe le interpretazioni sono frutto
di una visione ideologica sostanzialmente acritica che prescinde dall’analisi storica del fenomeno.
In secondo luogo, occorre rilevare la assoluta vaghezza del concetto di “destra” come
categoria politica del dopoguerra. Non esistono, infatti, una ideologia o una cultura che si possano
organicamente definire di “destra” e che, contemporaneamente, sostanzino un movimento politico
che di quella visione del mondo si faccia portatore. Per ragioni comprensibili, legate per lo più alla
“invasione” del concetto di destra da parte del fascismo, dopo il 1945, nessun movimento politico
ha osato dichiararsi esplicitamente di “destra”, pur sostenendo indubbiamente valori che a quel
versante politico si richiamavano. In tale ottica, la presenza del fascismo ha espunto di fatto il
concetto di destra dall’ambito delle legittimazioni politiche, pur non essendo, a rigore di logica, il
fascismo un movimento ascrivibile soltanto alla destra. Se le condizioni avessero permesso, nel
dopoguerra, la nascita di una forza che si fosse richiamata al conservatorismo classico, molto
probabilmente il tasso di interesse di tale formazione verso le questioni internazionali sarebbe stato
decisamente più significativo rispetto al Msi.
In terzo luogo, è evidente che il problema di una cultura della politica estera comporta
necessariamente una apertura verso l’esterno del microcosmo nazionale o, comunque, la
valutazione positiva della esistenza di questioni strettamente legate alla politica estera preminenti
rispetto a quelle più tipicamente interne. La seconda guerra mondiale e la politica dei blocchi
portarono, per il contesto europeo, ad una minore pregnanza delle questioni geopolitiche, nel senso
che gli spazi di manovra per le diplomazie del vecchio continente si ridussero immediatamente,
almeno nella tradizionale versione cui si era stati abituati fino alla vigilia della seconda guerra
mondiale. In particolare, come ebbe a notare acutamente Rosario Romeo, in Italia “la realtà della
catastrofica sconfitta e la sminuita posizione internazionale del paese, inesorabilmente relegato,
dopo tanti sogni di grandezza, al ruolo di potenza di second’ordine” produssero la convinzione che
si dovessero abbandonare non soltanto quei sogni di grandezza che avevano caratterizzato la
politica estera fascista, ma anche una valutazione positiva del concetto di nazione com’esso si era
andato costituendo e formando nell’Italia liberale, fino alla Grande Guerra. “Era la rinuncia –
aggiungeva sempre Romeo – all’obbiettivo di portare l’Italia al livello dei grandi paesi d’Occidente
che aveva ispirato tanta parte del Risorgimento e della successiva storia unitaria”2. Di qui una
obiettiva minore rilevanza della politica estera come momento centrale di una strategia tesa a
valorizzare, insieme con il concetto di identità nazionale, anche il ruolo di questa nel consesso
internazionale. E’ in questa ottica che la condizione politica e culturale, per la destra o per le destre,
si aggrava ulteriormente in quanto i valori espressi da questo versante politico sono, in genere,
legati fortemente al concetto di nazione, che è quello che maggiormente soffre – e soffrirà per circa
un cinquantennio – gli effetti della sconfitta; questa incapacità di esprimere un moderno concetto di
nazione e di patria, il conseguente volere restare ancorati alla visione retorico-patriottica – con i
conseguenti rituali e liturgie che impediscono una razionalizzazione del problema nazione.
Contemporaneamente tale ottica impedisce una normale storicizzazione del fascismo da parte
neofascista, che fa da contrappunto alla mancata storicizzazione della Resistenza da parte
antifascista, a causa della sua trasformazione da evento storico in mito fondante il nuovo Stato. In
altri termini, tale ottica impedisce ancora lo svilupparsi, se non in termini di ghetto politico, di una
cultura nazionale o nazionalistica in grado di essere affermata apertamente come modello di
proposta politica.
In quarto luogo, è da segnalare come nel secondo dopoguerra la categoria politica della
destra andasse molto al di là dei tre movimenti che solitamente si indicano, l’Uomo Qualunque, il
movimento monarchico e il Movimento Sociale Italiano; esiste una destra democristiana o cattolica
che si affida a valori condivisi da molti dei soggetti su ricordati, nella quale il dato nazionale è vivo
sebbene subordinato alla tradizionale visione sopranazionale cristiana; esiste una destra liberale, con
una valenza maggiormente legata all’analisi dei fattori economici, la quale non gradisce affatto di
essere compresa, o anche solo citata, tra i partiti tradizionalmente considerati di destra, come
dimostrò il fallimento della prospettiva della “grande destra” durante gli anni Cinquanta; esiste,
infine, una destra radicale ed eversiva che non riconosce i valori della nazione e della democrazia e
per ciò stesso finisce con l’essere considerata estranea a questo contesto.
Infine, una precisazione sul rapporto fra destra e nazione. La destra, nelle tre varianti di
Uomo Qualunque, monarchici e Movimento sociale, non è affatto omogenea rispetto alla cultura
della politica estera, così come non sono omogenei le tradizioni, la storia e gli obiettivi dei tre
movimenti che si sono ricordati.
L’Uomo Qualunque, ad esempio, fu decisamente agnostico rispetto alla questione nazionale,
come dimostrò il suo fondatore ne La Folla, il manifesto politico del qualunquismo, e come emerse
2
R. Romeo, Italia mille anni, Le Monnier, Firenze 1981, p. 198.
dalla contestazione del concetto di nazione come sovrastruttura inutile e dannosa al libero sviluppo
delle esigenze e delle pulsioni della “folla”; soltanto nella fase più matura – e calante del suo
successo – Giannini tentò di dotarsi di un bagaglio culturale e politico dando spazio al concetto di
Europa fortemente debitore di una visione cristiana della tradizione europea, nel quale il concetto
rivoluzionario di nazione appariva come un elemento di rottura di un equilibrio internazionale
fondato sui valori tradizionali3.
I monarchici non ebbero, a loro volta, una visione peculiare ed autonoma della politica
estera: principio di nazionalità, con sostanziali, voluti distinguo rispetto al concetto fascista di
nazione e di imperialismo; filoatlantismo; ottica del “sacro egoismo” nazionale; questi furono i
principi ai quali si affidò il partito del re, privo volutamente di una ideologia di riferimento, essendo
questo movimento teso ad intercettare i sentimenti dei monarchici a prescindere dalla scelta di
schieramento politico4.
Restava il Movimento Sociale, dei tre il gruppo che si sviluppò nella scena politica italiana
per un cinquantennio, prima di trasformarsi in Alleanza Nazionale, e che, tra l’altro, finì con
inglobare gli stessi monarchici all’inizio degli anni Settanta, durante l’ultima fase della loro lenta
ma costante flessione in termini di consensi elettorali.
Le scelte politiche
La scelta di campo del Msi all’interno del quadro di riferimento dell’immediato dopoguerra
non fu così chiara come potrebbe sembrare. La scelta atlantica, infatti, com’è fin troppo noto, fu
combattuta e addirittura in un primo tempo, respinta. I già citati lavori di Chiarini e di Neglie, in
questo senso, sono sufficientemente chiari per lumeggiare questo difficile e nodale passaggio.
Il Msi, in sostanza, allorché si profilò la questione del Patto atlantico, assunse, soprattutto
nella persona di Giorgio Almirante, una posizione nettamente contraria, ancorata a quella posizione
antiamericana che nasceva dalla sconfitta del fascismo della Rsi e dalla necessità di potere disporre,
in termini pieni, della indipendenza del paese, senza condizionamenti da parte di nessuno dei due
blocchi. La linea di equidistanza, in nome dell’orgoglio nazionale, espressa da Almirante, si
avvicinava a quella della sinistra nazionale, la quale aggiungeva alla posizione nazionalista del
segretario il tema dell’Europa, la difesa, cioè, della cultura e della civiltà europea, contro da un lato
lo strapotere americano – e quindi contro la politica dei blocchi – e contemporaneamente contro la
massificazione dell’uomo che il capitalismo, l’industrialismo e la ricerca del profitto, i cardini della
3
S. Setta, L’Uomo Qualunque 1944-1948, Laterza, Roma-Bari 1975; si veda anche G. Parlato, La nazione qualunque.
Riformismo amministrativo ed europeismo in Guglielmo Giannini, in “Storia contemporanea”, XXV, n. 6, dicembre
1994, pp. 1129-1166.
4
A. Ungari, In nome del Re, Le Lettere, Firenze 2004.
“civiltà” americana, avrebbero prodotto. L’evocazione della socializzazione, intesa come nuovo
rapporto produttivo e di gestione dell’economia, aveva anche un significato più lontano: la
socializzazione – sempre più mitizzata nel suo non essere mai stata messa alla prova – doveva
diventare la risposta “europea” alla logica capitalista americana e alla logica collettivistica
sovietica.
Sull’altro versante, anche la destra evoliana di Rauti ed Erra si trovava contro la logica dei
blocchi, ma per ragioni affatto differenti. In questo caso, si trattava di opporre alla democrazia
occidentale e alla massificazione sovietica l’“altrove” spiritualista e tradizionalista. L’opposizione
al Patto atlantico dipendeva dal fatto che la prospettiva americana era per gli evoliani più
pericolosa, più subdola e più allettante di quella sovietica, ammantandosi di un falso velo di libertà;
contro l’Urss era più facile reagire e il ricordo del biennio di sangue della guerra civile poteva
essere visto come un’ulteriore ragione per contrastare il comunismo.
Le fasi di questa evoluzione del nascente Msi sono essenzialmente tre.
La prima è la più difficile da individuare ed è quella che, partendo dal neofascismo
clandestino, giunge alla nascita del Msi. Nascita che non fu solo determinata dalla necessità ideale e
politica dei reduci dalla Rsi e dai campi di concentramento alleati; naturalmente la componente
della “ripresa” fascista o neofascista fu decisiva: esisteva una forte base di riferimento, nonostante
la guerra perduta, che non poteva essere dispersa e che, subito dopo la fine della guerra incominciò
a ristabilire contatti e rapporti.
Ma tutto ciò non avrebbe avuto esiti politici se non fosse stato immediatamente chiaro che
da parte dei “vincitori” esterni e soprattutto interni, si ricominciava a prendere in considerazione la
presenza fascista come possibile punto di riferimento – secondario e inconfessato quanto si vuole –
in funzione di difesa rispetto a una prevedibile aggressione comunista allo Stato, dall’interno e
dall’esterno (frontiera orientale e, quindi, Trieste). Ciò fino al punto da indurre il “Senato”, il
vertice semiclandestino del neofascismo italiano, ad aprire trattative segrete con ambienti politici
antifascisti in vista del referendum istituzionale; ambienti che, salvo rare eccezioni, negarono con
forza tali contatti.
Incominciarono i comunisti con Pajetta e Togliatti ad aprire ai fascisti, compresi quelli di
Salò, con la motivazione ufficiale che occorreva ricomporre un tessuto politico devastato dalla
guerra civile recuperando quei giovani che avevano sbagliato barricata e che comunque sarebbero
stati ancora utili alla classe politica democratica5. Questa strategia portò buoni risultati e nel giro di
pochi mesi molti fascisti giunsero alle sponde comuniste in nome della indipendenza della patria
dagli americani, in nome del rancore per la guerra perduta, per odio nei confronti di quei
5
G. Parlato, Togliatti, Romualdi e i “fratelli in camicia nera”, in S. Bertelli, F. Bigazzi, PCI. La storia dimenticata,
Mondatori, Milano 2001, pp. 343 ss.
conservatori che avevano affossato il fascismo e avevano permesso ai comunisti i due anni di guerra
civile. Da non trascurare, poi, il fatto di sentirsi fratelli in una comune visione totalitaria, inespressa
quella dei fascisti, espressa compiutamente quella del comunismo, il quale appariva, ad alcuni degli
orfani del duce, come “un fascismo che aveva fatto l’università”6. Non a caso, proprio alcuni ex
fascisti di sinistra aderirono all’operazione e la promossero presso gli antichi camerati (Lando
Dell’Amico, Stanis Ruinas, Alicata, Testa e Gigante, questi ultimi due figli rispettivamente del
prefetto e del podestà di Fiume in Rsi)7.
In questo senso vanno viste le trattative che Romualdi, condannato a morte dalla Corte
d’Assise di Parma nel 1947, condusse con tutte le forze politiche dell’epoca, ad esclusione del
Partito d’Azione, per ricostruire un tessuto politico nel quale i fascisti non fossero più emarginati. In
questa ottica, poi, va vista l’amnistia di Togliatti, elaborata, a quanto pare, con determinante
contributo degli stessi fascisti; con questo atto, a distanza di poco più di un anno dalla fine della
guerra civile, uscirono dalla galera diverse migliaia di fascisti.
Fu soltanto con l’uscita dei fascisti dal carcere e dai campi di concentramento allestiti dagli
alleati fin dagli ultimi mesi del 1943, che si incominciò a prendere in considerazione la possibilità
di costituire un partito politico.
Non si puntò, in origine, alla costituzione di un partito identitario, isolato e indipendente dai
due blocchi. Il “Senato” (Pini, Pignatelli, Gray, Romualdi, Pace e, in posizione più defilata ma non
meno influente, Michelini), guidato dalla figura di Romualdi, aveva pensato al Msi come a un
movimento fondamentalmente anticomunista, al quale i primi benevoli appoggi giunsero dalla
Chiesa e dagli ambienti moderati preoccupati dalla crescita del Partito Comunista8.
D’altra parte, il fallimento della epurazione e il lento ma costante reinserimento dei fascisti
nei posti già occupati della pubblica amministrazione (dalla giustizia alle forze dell’ordine, dai
ministeri agli enti locali), caratterizzarono i primi passi del neofascismo non già nel nome
6
L. Dell’Amico, Il mestiere di comunista, Ed. Opere Nuove, Roma 1955, p. 38.
P. Buchignani, Fascisti rossi.Da Salò al Pci, la storia sconosciuta di una migrazione politica 1943-1953, Mondatori,
Milano 1998.
8
In occasione del quarantennale della nascita del Msi, Pino Romualdi, in un discorso al cinema Adriano, ricordò le
motivazioni di fondo della nascita del partito: “Il Msi fu costituito per consentirci di riprendere, non soltanto
clandestinamente, ma a viso scoperto, e quindi ufficialmente, la nostra battaglia politica; una battaglia che non
potevamo ritenere conclusa con la sconfitta militare, ma che, in forme diverse, secondo il diverso mondo politico al
quale dovevamo riferirci era necessario che continuasse. Una battaglia politica di idee (…) nel tentativo di preparare e
mobilitare un’altra forza politica di opinione, tendente a formare una diversa maggioranza politicamente qualificata ma
anche numericamente consistente. Il Msi non fu, non volle mai essere soltanto il partito dei reduci non cooperatori. (…)
Restava il fatto che non potevamo costituire un partito solo per noi. Se era un partito per il popolo italiano doveva
essere aperto a tutto il popolo italiano, a tutti coloro che desideravano e che solo per questo desiderio – qualunque fosse
stata la loro posizione precedente e il loro destino nel corso dei mesi che sconvolsero la vita della Nazione –
dimostravano la loro volontà di riprendere a battersi per la Patria contro il pericolo dell’amorfismo democristiano e
della sovversione comunista”. Il discorso, tenuto il 14 dicembre 1986, fu pubblicato sul “Secolo d’Italia” il 16
successivo. Se ne vedano brani in A. Baldoni, La destra in Italia, cit., pp. 99-100.
7
dell’orgoglio fascista quanto della necessità che si creasse un baluardo al Pci, considerato
pericoloso sia per la struttura interna, sia per i legami internazionali.
Di fronte allo svilupparsi del progetto comunista di avvicinamento e di recupero dei fascisti,
i moderati non potevano state inerti e, sempre nel periodo del referendum, impostarono anch’essi
una strategia analoga. I fascisti, così, nel breve volgere di pochi mesi dalla fine della sanguinosa
guerra civile, si trovarono corteggiati da ambo gli schieramenti. Per Romualdi – che già alla fine
della guerra aveva trattato una ipotesi di soluzione tendente ad evitare il bagno di sangue dei vinti –
fu semplice accreditare i neofascisti come “partito d’ordine”, desideroso di contribuire alla
formazione di un’Italia non condizionata dal comunismo e, comunque, alieno da ogni tentativo
eversivo, nonostante i Far – troppo enfatizzati e sovradimensionati, rispetto al loro effettivo peso
politico ed eversivo – e le poco più che simboliche proposizioni rivoluzionarie.
Nel breve volgere di pochi mesi – dal dicembre 1946 al marzo 1947 – i neofascisti si
ritrovarono con tutte le sedi provinciali aperte e funzionanti, grazie anche all’infaticabile attivismo
di Almirante, nel frattempo diventato segretario del partito.
La seconda fase cominciò a questo punto. Almirante, oscurato in vario modo il “Senato”,
assunta da solo la leadership interna, gestito e sviluppato il partito grazie ad un frenetico attivismo,
decise di approfittare della situazione favorevole e degli appoggi che si erano palesati alla Fiamma
per modificare nettamente l’orientamento iniziale. Si tornò così a Salò, alla socializzazione, al
fascismo rivoluzionario, alle parole d’ordine di alternativa a tutti. Appoggiato sensibilmente dalla
sinistra interna e dagli elementi giovanili, nonché da quei fascisti che in un primo tempo avevano
accolto gli inviti del Pci, e ora si dichiaravano pronti a “rientrare nei ranghi”, Almirante impresse al
partito una svolta politica decisiva, presentandosi da solo all’appuntamento elettorale del 1948.
Tuttavia, nonostante tale svolta – che in qualche modo vanificava gli sforzi iniziali di chi il
Msi aveva voluto – il partito entrò ugualmente nella legalità e scomparve il progetto di mantenere
due binari aperti, quello legale e quello clandestino; il Msi entrò in Parlamento con sei deputati e un
senatore, ottenendo un risultato modesto ma significativo, in considerazione della radicalizzazione
della polemica politica e dello scontro tra comunismo e anticomunismo. E’ probabile che se
Almirante non avesse impresso alla propaganda missina un forte taglio identitario, in grado di
superare come pregnanza presso i neofascisti, la stessa contrapposizione fra comunismo e
anticomunismo, i sei parlamentari non sarebbero arrivati a qualificare il Msi unica forza del
neofascismo, sconfiggendo non solo i fautori del partito clandestino (Baghino, fra tutti) che non
amavano la soluzione legalitaria, ma soprattutto i concorrenti del Msi nell’area della destra
nazionale: in particolare ci si riferisce al movimento di Emilio Patrissi, il Movimento Nazionalista
di Democrazia Sociale, nato da una forte scissione dall’Uomo Qualunque e fortemente appoggiato
dagli Stati Uniti, che nelle elezioni del 1948 risultò sconfitto definitivamente.
Tuttavia, se la svolta di Almirante consentì alla “pattuglia” di sedere a Montecitorio,
rendendo più coeso il movimento, alla lunga il progetto identitario del segretario si rivelò
fallimentare. Sia dal punto di vista interno perché si ridussero notevolmente le fonti di
finanziamento per la Fiamma; sia soprattutto dal punto di vista internazionale, perché le
argomentazioni almirantiane contro il trattato di pace e contro il Patto Atlantico, allontanarono
sensibilmente questo partito dal dibattito che si stava svolgendo alla Costituente e dal contesto
politico reale. Questa “diversità” fu spesso, successivamente, rivendicata con orgoglio dallo stesso
Almirante; ma è certo che, con la crisi di finanziamenti, il Msi dovette fare altre scelte, più in
sintonia con le esigenze del vario e potente mondo che lo aveva in qualche modo aiutati all’inizio.
Si apriva così la terza fase, quella gestita prima da De Marsanich e quindi da Michelini,
caratterizzata dalla politica dell’inserimento nell’area di governo.
La scelta atlantica
Nei punti programmatici del Msi si parlava di politica estera essenzialmente in riferimento
all’Europa e agli assetti internazionali. Fin dal primo dei dieci punti programmatici, si affermava
“l’unità, l’integrità territoriale e l’indipendenza dell’Italia” e si dichiarava che “nessuna prescrizione
o coazione può interrompere il nostro diritto sui territori indispensabili alle nostre esigenze
economiche, già consacrati dall’eroismo e dall’opera civilizzatrice del popolo italiano”. Evidente il
riferimento alle colonie, che le trattative di pace vedevano già perdute; un richiamo patriottico che
non negava la necessità di una espansione, nell’ambito di quel “sacro egoismo” che era stato sempre
il punto di riferimento della destra nell’ambito delle relazioni internazionali. Nel secondo punto si
affrontava la questione della politica internazionale, rivendicando per il neonato Msi una “politica
estera ispirata unicamente agli interessi concreti e contingenti della Nazione, auspicando la
formazione di una unione europea su piede di parità e giustizia”9.
Nel dibattito che fece da contorno alla nascita del Msi, condotto da numerose riviste – da
“Rivolta ideale” a “Rataplan”, da “Meridiano d’Italia” a “Fracassa”, da “Rosso e nero” a
“Manifesto” – emerse una linea sicuramente anticomunista, pur con i necessari distinguo affinché il
Msi non fosse scambiato per un partito conservatore. E se “Rosso e nero” di Alberto Giovannini
manifestava perplessità circa la nascita di un partito neofascista, preferendo vedere i fascisti sparsi
presso i vari partiti dell’arco politico, tutti gli altri, pur rivendicando una sorta di “socialismo
9
A. Baldoni, La Destra in Italia, cit. pp. 140-141.
nazionale” in politica sociale, non si collocarono mai in un’ottica terzaforzista, ritenendo comunque
il comunismo il peggiore dei pericoli.
La situazione mutò con l’assunzione completa del controllo del partito da parte di Almirante
e con il sorgere, dopo le elezioni del 1948, della questione atlantica. Infatti, sia alle elezioni
amministrative del 1947, sia in quelle politiche del 1948, il Msi volle presentarsi da solo, ottenendo,
soprattutto nelle elezioni amministrative della capitale, un risultato lusinghiero; fu sconfitta così
quella ipotesi, favorita dalla Dc e dagli ambienti conservatori, di annacquare il messaggio del Msi,
troppo vicino alle tematiche della Rsi e del fascismo rivoluzionario, con l’apporto di realtà esterne,
quali lo stesso Uomo Qualunque, i cui scissionisti (Patrissi fra tutti) cercavano di inserirsi nel
Movimento sociale allo scopo di depotenziarne le linee troppo anticapitalistiche e troppo tiepide nei
confronti del Patto Atlantico. L’ipotesi, come si è detto, fallì e Almirante riuscì a presentare il Msi
come baluardo antiatlantico in nome del vecchio retaggio reducista e nostalgico.
Dopo avere votato contro il trattato di pace10, durante il secondo congresso (28 giugno-1°
luglio 1949) si pose il problema del Patto Atlantico. Il partito era stato compatto sul trattato di pace,
che aveva messo in discussione tre punti irrinunciabili nella politica internazionale del Msi (ma in
realtà, più legati a un’ottica “interna” della politica estera): la questione delle colonie, che il Msi
continuava a rivendicare come “spazio vitale”; la questione di Trieste e delle terre adriatiche passate
alla Jugoslavia; la questione degli armamenti. Sul Patto Atlantico, invece, il partito si presentò
diviso. La sinistra interna (Palamenghi Crispi, Massi, Pettinato, Pini) sosteneva vigorosamente una
opposizione di principio, culturale e politica, all’atlantismo, unita in questo con i gruppi giovanili e
con la base, rappresentata soprattutto dalla potente federazione romana. L’opposizione al patto era
motivata da ragioni storiche (l’alleanza con coloro che avevano sconfitto il fascismo), da ragioni
culturali (il modello di civiltà europea era ritenuto incompatibile col modello americano) e da
ragioni di politica interna, in quanto un voto favorevole all’alleanza atlantica avrebbe messo il Msi
nella condizione di doversi alleare con gli atlantisti interni, monarchici in testa. Ed era quello che
Almirante non voleva, perseguendo il proprio disegno di un partito di nicchia che potesse
raccogliere i fascisti che non avevano avuto tentennamenti durante la guerra civile. Il gruppo di De
Marsanich e di Michelini, invece, riteneva di dovere prendere atto della situazione geopolitica che si
era determinata e puntava alla individuazione del Patto come difesa della civiltà occidentale. Come
ha giustamente messo in evidenza Chiarini, si trattava di cogliere, nella questione del Patto,
l’occasione di trasformare l’antitesi fascismo-antifascismo in quella comunismo-anticomunismo11.
Almirante si trovò in una posizione considerata ambigua da entrambi gli schieramenti; in realtà il
segretario comprese che la base del partito e i militanti erano fortemente contrari all’approvazione
10
11
G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Il Movimento Sociale Italiano, cit., pp. 106 ss.
R. Chiarini, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”, cit., pp. 541 ss.
del Patto e per questo motivo “impose” al gruppo parlamentare l’astensione, nonostante la forte
opposizione di Gianni Roberti, al quale, da buon figlio d’arte, Almirante disse che “non si poteva
recitare di fronte a una platea che fischia”12.
In Parlamento il Msi sostenne che non si poteva approvare un Patto che non dava garanzie
all’Italia, che non chiariva il ruolo degli Stati Uniti in caso di aggressione all’Europa da parte
dell’Urss. Nel dicembre 1948 il gruppo missino votò, ovviamente, contro la mozione di fiducia del
governo sul Patto, ma Russo Perez, ex qualunquista e uno degli esponenti più filoatlantici, si
incaricò di chiarire la profonda diversità del voto contrario del Msi rispetto a quello delle sinistre:
l’opposizione era motivata dal fatto che non si poteva entrare in un’alleanza senza garanzie di
parità. Nel successivo dibattito di marzo invece ci fu l’astensione dei deputati missini, che
rimproverarono il governo di non avere voluto porre condizioni per la firma del Patto. Infine, in
sede di ratifica del Patto, il 21 luglio 1949 alla Camera e il 29 luglio al Senato, il Msi tornerà a
votare contro, dopo avere presentato una richiesta di sospensiva respinta dall’Assemblea di
Montecitorio, presentando poi un proprio ordine del giorno in cui si proponeva di non ratificare il
trattato del Nord Atlantico e si chiedeva al governo “di volerlo riproporre all’esame del Parlamento
quando gli organi costituzionali degli Stati Uniti d’America avranno preso le loro decisioni sia sulla
ratifica di esso, sia sul problema del riarmo” 13. Va tuttavia ricordato che un anno prima, nel luglio
1948, il Msi aveva espresso parere favorevole, anche se con qualche riserva, al trattato di
cooperazione economica tra Italia e Stati Uniti.
Quindi, l’opposizione missina non si basò, di fatto, su questioni di principio, bensì su una
valutazione di opportunità, che vedeva nell’Italia l’“anello debole” dell’alleanza. Tuttavia, la
posizione personale di Almirante si indebolì: contestato dalla sinistra per non avere
sufficientemente difeso l’opposizione al Patto e per non averla motivata con argomentazioni di
principio (la “terza via” tra Mosca e Washington), fu anche attaccato dai filoatlantici per avere
troppo dato ascolto alla base del partito e per avere dato del partito un’immagine troppo vicina a
quella delle sinistre; inoltre i moderati lo accusarono di svolgere una politica di isolamento e di
chiusura nei confronti della vecchia guardia fascista, che si ritrovò con un partito estremista che non
riusciva a intercettare il consenso dei ceti moderati ma solo quello dei reduci.
Anche in seguito a tale vicenda, e soprattutto a causa della posizione troppo estremista in
termini di rapporto con il fascismo di Salò, il segretario, dopo avere tentato, alla fine del 1949, di
riprendere il controllo del partito con l’assemblea di Lucca, il 15 gennaio 1950 fu costretto a
12
G. Roberti, L’opposizione di destra in Italia 1946-1979, Gallina editore, Napoli 1988, p. 48.
G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Op. cit., p. 110; G. Almirante, Processo al Parlamento, Cen, Roma 1969, II vol.,
p. 189; cfr. anche P.G. Murgia, Ritorneremo!, cit., p. 185 e A. Baldoni, La Destra in Italia, cit., p. 302.
13
dimettersi nel corso di un drammatico Comitato Centrale che elesse Augusto De Marsanich nuovo
segretario del partito.
Oltre alla questione del Patto Atlantico, il Msi, tra il 1948 e il 1949, si misurò anche sulle
prime fasi della unità europea. Dal 25 giugno 1948 la Camera incominciò la discussione sul disegno
di legge di ratifica degli accordi economici europei firmati il 16 aprile precedente, che aprirono la
strada alla graduale realizzazione del mercato comune. Di fronte all’opposizione comunista, la
maggioranza votò compatta ma il Msi si astenne sostenendo, come era avvenuto per il Patto
Atlantico, l’impossibilità per un’Italia menomata nei propri diritti di aderire a una qualsiasi
alleanza. Il 12 luglio 1948 i deputati votarono la ratifica dello statuto del Consiglio d’Europa e
l’accordo per la creazione della commissione preparatrice del medesimo Consiglio e il Msi si
astenne nuovamente, motivando con Gianni Roberti un’astensione che era quasi un voto favorevole;
ma, anche in questo caso, Almirante volle dare un segnale identitario richiamandosi alla necessità
che l’Europa fosse tutta unita, dal Portogallo alla Russia; la presenza di una Germania divisa e dei
paesi dell’Est sotto il controllo di Mosca non potevano non essere considerati elementi ostativi a
qualsiasi progetto di unità europea. Anche questa linea fu modificata con la segreteria De
Marsanich14.
La svolta di De Marsanich, già sottosegretario di Mussolini, emerse immediatamente
attraverso un appello a tutte le forze di destra, per realizzare un patto di unità di azione con liberali e
monarchici. I primi rifiutarono, mentre i secondi accettarono. Ciò determinò anche un profondo
mutamento nella linea di politica estera che si espresse compiutamente con la conferenza stampa del
nuovo segretario, il 28 novembre 1951, nel corso della quale fu data ufficialmente l’adesione alla
Nato. Non fu soltanto la svolta della nuova segreteria a determinare il cambiamento radicale in
politica estera, ma influì anche un sostanziale allargamento e rinnovamento della classe dirigente
del partito: i nuovi leaders diventavano Michelini, Filippo Anfuso, ex ambasciatore a Berlino
durante la Rsi ma fortemente filoatlantico, Junio Valerio Borghese, entrato nel partito undici giorni
prima della conferenza stampa del segretario e diventato presidente del Msi il 2 dicembre 1951,
Ezio Maria Gray, direttore de “Il Nazionale”, Ernesto De Marzio, uno dei più attenti al rapporto con
la cultura e con i giovani.
La linea filoatlantica diventava così la soluzione alla quale il Msi guardò con molto interesse
perché vide la possibilità, attraverso questa adesione, di rientrare nel grande gioco politico. Si
trattava, in qualche modo, di un ritorno alla linea delle origini, quella che ipotizzava la funzionalità
dei neofascisti non già alla creazione di un fascismo storico riadattato, quanto alla costituzione di un
nuovo progetto politico che vedeva nell’alleanza atlantica il perno della nuova politica estera del
14
G. Almirante, F. Palamenghi Crispi, Op. cit., pp. 112 ss.
partito e, di qui, la possibilità di realizzare, anche in Italia, nuovi equilibri in senso anticomunista. A
ben vedere, poteva essere questo il senso ultimo dello slogan di De Marsanich al primo congresso
del partito, “Non rinnegare e non restaurare”, che i più videro come soluzione brillante per
sopravvivere mentre qualcuno considerò solo un vuoto esercizio retorico15.
Anfuso spiegò come non fosse stato il Msi ad andare verso gli alleati d’oltre Oceano,
quanto gli stessi americani ad essersi resi conto che nei nuovi equilibri della guerra fredda la
funzione del Msi poteva essere di qualche utilità16; Gray, uno dei fondatori del partito, messo al
margine, prima con una condanna al confino, poi con la linea intransigente di Almirante, rientrava
sulla scena politica facendo appello alla difesa della civiltà occidentale; Borghese, non appena
acclamato presidente del partito, assicurava che, in caso di guerra, “non saremo noi a fare gli
obiettori di coscienza” e ribadiva la propria adesione alla Nato. Nel 1952, con il congresso
dell’Aquila, la sinistra terzaforzista di Pettinato e Pini era costretta a lasciare il partito: rimaneva la
sinistra nazionale dei Massi e dei Palamenghi Crispi ancora per quattro anni. Con il congresso di
Milano la trasformazione del Msi diventava completa e il partito era pronto ad assumere nuovi
impegni per la costruzione di una “grande destra” filo occidentale e moderata, lontana dalle
suggestioni di Salò e dalle pulsioni antisistemiche.
Trieste
Con il 1952 – dopo l’esperimento della “operazione Sturzo”, che pur essendo fallita dava il
segno della evoluzione missina – sorgeva un nuovo problema che lanciava il Msi in una fase
completamente nuova: la questione di Trieste.
Trieste rappresentò, per il Msi, il primo vero momento di consenso nella società italiana. Le
elezioni del 18 aprile, infatti, avevano dato al Msi un risultato obiettivamente inferiore alla
aspettative, ma c’era la valida attenuante che si era trattato di elezioni – plebiscito tra comunismo e
anticomunismo. In quell’occasione il fronte anticomunista si unì e molti voti, com’è noto, giunsero
alla Democrazia Cristiana da persone lontane dal partito di De Gasperi: liberali, monarchici,
fascisti, socialisti moderati e laici di varia osservanza votarono compatti la Dc per timore di dovere
fare i conti con il Pci. Invece, le elezioni amministrative del 1952 avevano dato un esito
particolarmente soddisfacente alle destre, questa volta alleate, dopo la svolta di De Marsanich17, tale
15
F. Grossi, Questo antifascismo. Schegge di vita politica, economica e sociale del nostro tempo, Settimo Sigillo, Roma
1991, p. 33.
16
F. Anfuso, Apra gli occhi l’America, in “Secolo d’Italia”, 29 maggio 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, a c. di P.
Romualdi, Ed. dell’Italiano, Roma s.d., pp. 57 ss.
17
A. Ungari, (Annali Fus). Il 25 maggio 1952 rappresentarono per il nuovo segretario missino un grande successo
politico. Mentre la Dc e gli alleati di centro subirono una pesante flessione, il blocco di destra (missini e monarchici)
ottengono la maggioranza assoluta in diverse città del Sud (Napoli, Bari, Foggia, Salerno, Avellino e Benevento).
per cui missini e monarchici speravano di potere ottenere alle politiche dell’anno successivo un
risultato ampiamente favorevole.
In questo quadro si inseriva Trieste. Inserita nel territorio libero, controllata dalla forza
armata alleata, Trieste non era ancora tornata all’Italia e in tutta Italia il sentimento popolare sulla
città giuliana era di attesa e di rabbia. Trieste era una città simbolo, era “la più italiana delle città”,
comprendeva i miti retorici e patriottici di due generazioni. Inoltre, su Trieste si assisteva a uno
scontro fra una sinistra fortemente condizionata dalla presenza e dalle pretese di Tito e un centro
governativo che riteneva opportuno non discostarsi troppo dalla politica alleata sull’argomento. Tra
un Pci che, fino al marzo 1948, e cioè fino a quando si consumò la frattura fra il Cremino e Tito,
aveva sostenuto apertamente la linea filojugoslava, rendendosi, di fatto, politicamente complice
della sistematica eliminazione degli italiani in Istria, a Fiume, nella Dalmazia e nella stessa Trieste,
e una Dc che attendeva le decisioni degli alleati, badando a non esasperare la situazione, il Msi
trovò un inaspettato campo libero di azione18. La svolta di De Marsanich aveva accentuato
l’anticomunismo del partito, collocandolo apertamente nel campo occidentale, e questo garantì al
Msi la possibilità di andare oltre. Nessuno, in particolare, difendeva esplicitamente gli esuli,
nessuno aveva il coraggio di affrontare il problema della “zona B” e delle terre che il trattato di pace
del 1947 aveva assegnato alla Jugoslavia, nessuno aveva voluto porre in relazione l’azione di
snazionalizzazione realizzata da Tito attraverso il ricorso alla violenza verso gli italiani e attraverso
il provocato esodo, con il totalitarismo comunista. Trieste, così, diventa non solo l’occasione per
riappropriarsi della questione nazionale, accusando la Dc di tiepidezza, chiamando a raccolta tutti
gli italiani attorno alla tragica vicenda delle “terre irredente”, saldando il Msi nel filone nazionale e
risorgimentale; Trieste diventava anche, e soprattutto, l’occasione per impostare un nuovo
anticomunismo “forte” con vigorosi richiami alla necessità di difendere la civiltà occidentale e la
cristianità minacciate dalle “orde sovietiche”.
Su questo il Movimento sociale puntò tutte le proprie carte, comprendendo come la partita
era decisiva per una legittimazione del movimento nel filone della tradizione nazionale e patriottica.
Il fascismo si poteva superare come problema: non era il dilemma fascismo-antifascismo a tenere
campo: era la difesa dal comunismo e il Msi si candidava a rappresentare quella parte di elettorato
che incominciava a temere gli scivolamenti a sinistra di una parte della Dc, a constatare le
incertezze liberali, ad assistere alle debolezze, vere o presunte, del governo: in altri termini, si
collocava a tutela di una minacciata identità italiana e occidentale19.
18
Sugli aspetti internazionali della questione triestina e sulle loro conseguenze interne si veda M. de Leonardis, La
“diplomazia atlantica” e la soluzione del problema di Trieste, Esi, Napoli 1992.
19
“L’imbarazzo di De Gasperi è grande, ma quello degli italiani è ancora maggiore: De Gasperi sa che perdendo il
territorio Libero perde la posta elettorale; noi sappiamo che perdendo i resti dell’Istria chiamati Zona A e B, in quanto la
quasi totalità è già nelle mani di Tito dal 1947, perderemo anche il diritto di chiamarci Italiani” (F. Anfuso, Evitare
Il ruolo del Msi, sancito dai lusinghieri risultati ottenuti nelle elezioni amministrative della
città giuliana20, divenne ancora più rilevante in occasione dei disordini del 1953 e del 1954. L’8
marzo 1953, terminato un comizio del segretario del Msi, De Marsanich, fu lanciata una bomba sul
corteo dei dimostranti missini che provocò il ferimento di una quarantina di giovani, tra i quali,
piuttosto gravemente, Cesare Pozzo e Fabio De Felice, che l’anno successivo furono eletti in
Parlamento. Ben più gravi furono i disordini del 5-6 novembre 1953, durante i quali furono uccise
sei persone. Il motivo scatenante, com’è noto, fu la rimozione della bandiera tricolore dal comune di
Trieste, in occasione dell’anniversario della vittoria della prima guerra mondiale21.
In tutta Italia si tennero manifestazioni per Trieste italiana che riuscirono a convogliare
verso il Msi migliaia di giovani che vissero, in quella circostanza, la prima esperienza politica
militante; più o meno consapevolmente, molti ragazzi delle scuole medie inferiori e superiori e
molti universitari scesero in piazza per rivendicare l’italianità di Trieste; fu un successo clamoroso e
il Msi riuscì a costruire un rapporto privilegiato con gli studenti, presentandosi non già come
residuo nostalgico del fascismo ma come prospettiva moderna in grado di essere accolta da molti
che pure nel fascismo non si riconoscevano.
Le elezioni del ’53, caratterizzate dal problema della legge maggioritaria, la cosiddetta
“legge truffa”, segnarono la fine dei governi De Gasperi. Il Msi si schierò contro la nuova legge
elettorale in quanto il sistema proporzionale corretto con un consistente premio di maggioranza
avrebbe favorito essenzialmente la coalizione di centro, probabile vincitrice della competizione,
avrebbe penalizzato la sinistra (comunisti e socialisti erano ancora alleati) ma avrebbe fatto
scomparire la destra, lasciando alla sola sinistra il ruolo di opposizione parlamentare. Infatti, nella
proposta del governo, il premio di maggioranza per la coalizione che avesse superato il 50% dei
voti, sarebbe andato il 65% dei seggi (380 contro 209 all’opposizione). Di fronte a questa
prospettiva, il Msi e i monarchici si scatenarono in una durissima polemica contro la legge
elettorale, definita “truffa” dai comunisti ma subito accolta con questa stessa denominazione anche
dalle destre.
La campagna elettorale fu durissima e il Msi insisté sulla opposizione al sistema di leggi
“liberticide”, accomunando nella polemica sia la legge Scelba – che prevedeva lo scioglimento dei
l’irreparabile, in “Il Secolo d’Italia”, 18 settembre 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., p. 60. Si veda anche, sempre
di Anfuso, Salvare l’Occidente da Tito, in “Il Secolo d’Italia”, 13 dicembre 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., pp.
62-64 .
20
Costituito alla fine del 1947, il Msi triestino ottiene oltre 10 mila voti e il 6% alle elezioni comunali del giugno 1949,
che raddoppiarono nelle elezioni provinciali del 1952 (20.500 voti e l’11,5%) (cfr. A. Baldoni, La Destra in Italia, cit.,
pp. 429-430).
21
Lo studente Piero Addobbati era iscritto alla Giovane Italia, l’organizzazione studentesca del Msi, mentre Francesco
Paglia era iscritto al Fuan, l’organizzazione degli universitari; gli altri, Antonio Zavadil, Erminio Bassa, Saverio
Montano e Leonardo Manzi, erano tutti iscritti alla Lega Nazionale, la principale organizzazione patriottica triestina.
Sui disordini si vedano i saggi introduttivi al catalogo della mostra realizzata nel 2003 a cura del Comune di Trieste (cfr.
I ragazzi del ’53. L’insurrezione di Trieste cinquant’anni dopo, a cura di P. Delbello, Ed. Italo Svevo, Trieste 2003).
movimenti che si ispirassero apertamente al fascismo – sia quella elettorale. Inoltre la posizione del
Msi su Trieste aveva attirato molti interessi su questo partito: da Andreotti, che riuscì a “incastrare”
il maresciallo Graziani, che con Borghese divideva la presidenza onoraria del partito, nel famoso
comizio di Arcinazzo, facendogli rilasciare stupefacenti dichiarazioni sul ruolo della Dc nel
dopoguerra, a Berlinguer che riprese una linea di attenzione nei confronti dei giovani missini
tentando di metterli contro i vertici del partito in nome della difesa degli interessi nazionali che il
Msi, atlantico e conservatore, avrebbe ormai tradito22. In quel determinato momento, tuttavia, il
nemico erano la Dc e la legge “truffa”: pertanto può essere stato possibile, in certe determinate
situazioni, un “aiuto” del Pci verso alcuni candidati missini: i comunisti, per la prima volta si resero
conto che poteva essere conveniente consentire lo sviluppo di una forza che indebolisse la Dc da
destra, soprattutto in collegi meno sicuri per il partito di maggioranza relativa23.
L’esito premiò le opposizioni. Com’è noto, per lo 0,2% la legge elettorale non scattò,
essendosi fermata al 49,8% la coalizione centrista. Il Msi alla Camera ottenne più di un milione e
mezzo di voti, sfiorando il 6%, mentre i monarchici giunsero quasi al 7%. Un risultato buono ma
non come i vertici missini avrebbero voluto, soprattutto sulla base delle aspettative sorte dalle
amministrative; ci fu chi comprese che l’andata al potere non sarebbe stata né facile, né rapida e che
i fascisti in Italia non erano poi così numerosi quanti i dirigenti missini avevano immaginato24.
La situazione divenne interessante per il Msi e per le destre dopo le elezioni del 1953: fallita
l’operazione di riforma elettorale, caduto l’ultimo governo De Gasperi, salito a Palazzo Chigi
Giuseppe Pella, per la destra si riaprirono i giochi politici. Pella, lontano dalle correnti
democristiane, liberista e sinceramente “nazionale”, assunse posizioni molto dure rispetto a De
Gasperi sulla questione triestina, giungendo a rispondere con energia alle provocazioni titine. Il Msi
sperò – e con il Msi sperarono altri soggetti politici interessati alla evoluzione della situazione
triestina, come il settimanale “Candido” di Guareschi25 – che l’arrivo di Pella, appoggiato
dall’esterno da missini e monarchici, potesse preludere a un radicale cambio di schieramenti
politici. Senza troppi veli, la destra si aspettava che la presidenza Pella producesse un salutare
chiarimento nell’ambito della Dc, per cui la destra democristiana avrebbe assunto nuovi impegni
con la destra, mentre la sinistra avrebbe scelto altre strade. L’ipotesi di una spaccatura all’interno
della Dc, motivata dalle questioni di politica estera relative alla questione di Trieste, sarebbe
ricadute sulla situazione interna. In realtà, com’è noto, la situazione fu bloccata dal diretto
22
A. Baldoni, La Destra in Italia, cit., pp. 420 ss.
E’ il caso del collegio Perugina-Terni-Rieti dove risultò eletto Fabio De Felice (T.a.a. di Fabio De Felice); si veda
anche M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., p. 55.
24
Si veda la testimonianza di Enzo Erra in N. Rao, Neofascisti!, cit., p. 31.
25
Su Guareschi si veda G. Parlato, Guareschi e Trieste, in Guareschi, l’umorismo, la storia, atti del convegno
organizzato dal Comune di Trieste il 16 giugno 2003, attualmente in corso di stampa.
23
intervento di De Gasperi che, dopo i sanguinosi fatti del 5-6 novembre 1953, riprese, attraverso
Scelba, in mano la situazione e, di fatto, dequalificò il governo Pella attraverso la nota definizione
di “governo amico”. La caduta conseguente del governo del leader biellese, avvenuta i primi giorni
di gennaio del 1954, fece tramontare le ipotesi care a Guareschi, il quale, una quindicina di giorni
più tardi, aprì il contenzioso con De Gasperi pubblicando le famose lettere del 1944 con le quali il
leader trentino avrebbe chiesto agli alleati il bombardamento di zone periferiche di Roma per
fiaccare più rapidamente il fronte interno e consentire la costituzione di una forte organizzazione di
resistenza al nazifascismo, fino ad allora a Roma piuttosto debole. Le lettere furono, com’è noto,
ritenute entrambe false in seguito a un processo insolitamente rapido e non privo di anomalie;
Guareschi fu condannato a un anno di carcere, che si sommò alla vecchia condanna per il vino di
Einaudi26.
Meno di un anno più tardi rispetto ai disordini del 1953, Trieste tornò all’Italia. Quello che
avrebbe dovuto rappresentare un successo per la destra, lo fu solo a metà. Intanto, il Msi ritenne
doveroso “rilanciare”, dopo l’acquisizione di Trieste, l’attenzione politica sull’Istria, la Dalmazia e
su Fiume, terre che erano molto più difficili da recuperare; inoltre, terminata positivamente la
questione del capoluogo giuliano, il Msi di fatto restò prigioniero della sua politica nazionalista,
senza alcuna strategia ulteriore che non fosse la rivendicazione delle terre perdute.
In altri termini, Trieste non diventò l’occasione per il rilancio nazionale del partito: il Msi si
radicò in città raggiungendo percentuali superiori rispetto alle altre città italiane, anche del Sud, ma
la questione di Trieste, come quella degli esuli, restarono problemi essenzialmente locali, in Italia
mai colti con la dovuta attenzione: dovranno passare molti decenni perché in Italia un concetto di
nazione non più sinonimo di nazionalismo diventi comune e accolto patrimonio. Gli stessi esuli,
alla lunga, preferirono rivolgersi alla Dc la quale, pur non volendo trasformare la questione
dell’esodo in un tema politico e storico nazionale, tuttavia riuscì, con sapienti dosaggi di governo, a
sistemare in qualche modo la questione e a permettere agli esuli una vita quasi normale in Italia.
La politica dell’inserimento del Msi verso il potere continuò fino ai fatti di Genova del
luglio 1960, con l’appoggio esterno ai governi di Segni, Zoli e Tambroni e concorrendo alla
elezione di Gronchi alla prima carica dello Stato. In questa ottica, il filo atlantismo costituì
l’elemento centrale della politica di Michelini, subentrato a De Marsanich nel 1954 alla segreteria
del partito: per questa linea la sinistra nazionale uscì dal partito dopo il drammatico congresso di
Milano del 1956, nel quale la posizione di Almirante – leader della sinistra ma protagonista di un
26
Sulla vicenda del processo De Gasperi si veda G. Guareschi, Chi sogna nuovi gerani? Autobiografia, Rizzoli, Milano
pp. 341 ss. Sulla condanna per vilipendio del capo dello Stato, in seguito a una vignetta del “Candido” che raffigurava il
presidente della Repubblica che passava in rivista una fila di bottiglie della casa vinicola Einaudi di Dogliani, si veda B.
Gualazzini, Guareschi, Editoriale Nuova, Milano 1981, pp. 203 ss.
accordo sotto banco all’ultimo momento con la segreteria – fu contrassegnata da un’abile
disinvoltura. Nella stessa occasione, uscì anche la destra che, non condividendo l’ipotesi
micheliniana di inserimento nell’area moderata di governo, diede vita a “Ordine Nuovo”, la
formazione politico-culturale che raggruppò la destra radicale ed evoliana.
Il partito di Michelini, liberato delle ali eversive e intransigenti, si avviava a provare una
Fiuggi ante litteram che per una serie di motivazioni, non tutte dipendenti dal Msi, in realtà non si
poté realizzare nel 1960, a Genova, dove si sarebbe dovuto celebrare il VI congresso. A parte
l’infelicissima scelta della città, medaglia d’oro della Resistenza (ma il precedente congresso si era
tenuto a Milano, la città dell’insurrezione, senza che nessuno avesse a ridire), giocarono nel
fallimento di questa prima prova di “sdoganamento” alcuni fattori esterni ed altri interni.
Sicuramente i progetti di evitare l’apertura a sinistra ricorrendo anche all’apporto di un Msi non più
ghettizzato nel mito della Rsi e del fascismo, attraverso la presenza di un governo, quello di
Tambroni, espressione del presidente Gronchi e quindi inserito nelle polemiche dinamiche interne
alla Dc costituì il fattore scatenante più immediato e clamoroso. Ma a questo si dovette aggiungere
la dura polemica interna del gruppo di minoranza guidato da Almirante, contrario ad ogni tipo di
“grande destra” e deciso a difendere l’identità del partito e i valori di riferimento; sebbene
d’accordo con la segreteria in quel passaggio del 1960, la corrente almirantiana si pose sempre,
prima e dopo, contro ogni ipotesi che portasse a una politica effettivamente e modernamente di
destra. D’altra parte, come sostenne Romualdi nel 1987, a quell’epoca il Msi non era pronto anche
perché non era stato mai preparato a svolgere una politica di destra27.
Una cultura internazionale?
Una prospettiva internazionale nella cultura di riferimento del neofascismo e, in generale,
della destra italiana del dopoguerra è difficile da individuare. Infatti, da un’analisi anche sommaria
della stampa missina dell’immediato dopoguerra, i referenti culturali del neofascismo erano
strettamente “autarchici”: oltre al Risorgimento (con una preferenza per Mazzini e Garibaldi,
piuttosto che per Cavour), i “maestri” erano più o meno quelli del fascismo: Alfredo Oriani,
d’Annunzio, Marinetti, Corridoni; dal fascismo erano desunti Gentile, Volpe e Pirandello, a
significare la valenza della “rivoluzione italiana” come modello rispetto alle altre soluzioni del
Novecento.
L’unico intellettuale che porta nel Msi una cultura profondamente diversa da quella espressa
dagli intellettuali ora citati è senza dubbio Julius Evola, il cui pensiero irrompe nell’ambiente un po’
provinciale e un po’ ingessato della cultura neofascista apportando elementi del tutto nuovi, che si
27
P. Romualdi, Intervista sul mio partito, a c. di A. Urso, in “Proposta”, II, n. 3-4, maggio-agosto 1987, pp. 56-57.
allontanano sensibilmente dai riferimenti culturali del fascismo. In primo luogo si affaccia nella
destra italiana il concetto che il fascismo costituisca una categoria dello spirito e non soltanto una
scelta politica e, come tale, la categoria è per sua natura senza tempo e senza confini. Il fascismo,
pertanto, perdeva con Evola la peculiarità italiana confondendosi con una sorta di “nazifascismo”,
ovviamente dalla valenza positiva, concetto che tuttavia ripeteva la calibratura fra gli alleati
dell’Asse, nel senso che il fascismo italiano diventava, nella lettura evoliana, l’elemento debole,
compromissorio e insufficiente nella valutazione totalitaria rispetto al nazionalsocialismo: un
fascismo, quindi, più “fenomeno europeo”, per usare una espressione di Adriano Romualdi, che
italiano.
Di qui la necessità, per Evola e per la corrente che lo considerò maestro, di irrobustire il
debole tronco del totalitarismo fascista con vigorose iniezioni di cultura estranea alla tradizione
italiana: Guenon, Codreanu, Degrelle, Brasillac, Drieu La Rochelle, Maurras, Knut Hamsun, e
persino, in qualche caso, gli Asburgo. In realtà, questa evoluzione verso la cultura di carattere
internazionale si sedimenta soltanto nella metà degli anni Settanta, nel fiorire di iniziative culturali e
di riviste che caratterizza la ripresa missina tra la nuova segreteria Almirante e la scissione di
Democrazia Nazionale28. Prima di quella data, la presenza di Evola tra le letture dei giovani era
vista con sospetto e con fastidio dalle gerarchie del partito29
Da Evola si diparte quel filone tradizionalista non cattolico che fece dell’antimodernità la
propria bandiera: in questo senso prendeva le mosse un altro antiamericanismo. Non più soltanto
legato alla sconfitta nella seconda guerra mondiale, questo antiamericanismo metteva l’accento
sulle contraddizioni della società capitalistica, elemento centrale del crollo dei valori e della caduta
della civiltà da quella dei guerrieri alla socialità. Nella seconda metà degli anni sessanta, le
tematiche antiamericane furono tipiche anche di un’altra rivista, “L’Orologio”, fondata da uno dei
capi dei Far, Luciano Lucci Chiarissi, il quale, provenendo dalla Rsi, aveva fatto proprie le
tematiche classiche della sinistra fascista, applicandole a un lucido percorso di politica estera che
aveva portato la rivista a sostenere, in funzione antiborghese e anticapitalistica, i vietcong contro gli
americani impegnati in Viet Nam, gli arabi contro Israele, non per motivazioni razziali ma per il
riconoscimento delle esigenze nazionali del popolo arabo, la contestazione europea contro i
conservatorismi, non nascondendo le proprie simpatie per il maoismo: del tutto e anche
polemicamente esterna, come si è detto, al cono d’ombra evoliano, la rivista si può considerare
l’ultima espressione della “sinistra fascista”30.
28
M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 100 ss.
Si veda, a tale proposito, la testimonianza di Ugo Franzolin sulla recezione del barone siciliano presso Michelini (cfr.
M. Rao, Neofascisti !, cit., pp. 58-59).
30
Sull’ “Orologio” si veda G. Parlato, La sinistra fascista, cit., pp. 372 ss.
29
Al di fuori di tale ottica, l’unico intellettuale straniero che venne considerato valido fu Ezra
Pound, noto al pubblico dei militanti missini per la sua adesione alla Rsi e alla propaganda che
svolgeva via radio negli Stati Uniti e soprattutto per la sua detenzione a Coltano, prigioniero degli
stessi americani. Al di là della poesia, intrisa comunque di riferimenti culturali, filosofici e politici,
Pound fu preso in considerazione per le sue teorie sul denaro, in una visione economica che avrebbe
dovuto, una volta realizzata, distruggere l’economia, disgregarne le leggi e superarne le necessità,
per fare trionfare lo spirito, la volontà, la poesia, l’unica legge di un potere universale supremo31.
Se queste erano le posizioni, sommariamente illustrate, dei fautori di una posizione
autonoma del neofascismo nello scontro fra i due blocchi, l’altro filone, quello filoatlantico e più
pragmatico, ebbe come riferimento non tanto degli intellettuali, ma tre personaggi che, insieme alla
politica, elaborarono alcune riflessioni relative all’impegno del Msi nella politica estera. Ci si
riferisce a Filippo Anfuso, a Ernesto De Marzio e a Pino Romualdi.
Di Anfuso già si è accennato: ex sottosegretario a Salò e ambasciatore della Repubblica
mussoliniana a Berlino, il diplomatico siciliano fu un fautore del Patto Atlantico: “Non sono con gli
invasori della Sicilia, ma non posso essere nemmeno con gli assassini di Dongo”, scrisse nel giugno
195232. Fu Anfuso che, ritornato dalla Spagna dove aveva cercato di costituire una rete neofascista
europea, spostò sensibilmente l’asse del partito verso la scelta atlantica. Esperto di politica estera, fu
anche uno dei sinceri fautori della svolta europeista del Msi, come emerse dalla sua breve ma
significativa rivista “Europa Nazione”. I temi affrontati nei suoi interventi parlamentari o nei suoi
articoli giornalistici testimoniarono un particolare interesse verso le evoluzioni del concetto di
nazione dopo la fine della guerra: Anfuso fu un fautore dell’Europa nazione e cioè di una visione
dell’Europa legata alle evoluzioni del nazionalismo. In nome delle comuni radici cristiane, Anfuso
riteneva che l’Europa avrebbe dovuto mettere in discussione i nazionalismo che l’avevano divisa
per proporre un nuovo nazionalismo europeo33.
A fianco di Anfuso vi era Ernesto De Marzio. Giornalista, intellettuale e uomo politico, fu
per un certo periodo il leader intellettuale del Msi. Riferimento costante dei giovani, De Marzio
rappresentava una linea per certi versi nuova nel partito. Moderato e disponibile ad aperture verso la
grande destra, De Marzio – che manterrà fede a questa impostazione anche nella scissione di
Democrazia Nazionale – si muoveva in un’ottica cattolica e nazionale; a lui si dovettero i principali
momenti organizzativi della cultura missina degli anni Cinquanta e Sessanta e soprattutto il
tentativo di fare emergere una corrente giovanile che mirava a conciliare Evola con il
31
Si veda in particolare E. Pound, Lavoro e usura, con pref. di P. Savona, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1996.
F. Anfuso, Proatlantici e anti-atlantici, in “Il Secolo d’Italia”, 22 giugno 1952, ora in Id., Discorso ai sordi, cit., p.
47.
33
I discorsi parlamentari e gli articoli sono reperibili nella raccolta di articoli e di interventi già citata (F. Anfuso,
Discorso ai sordi, cit.
32
tradizionalismo cristiano, in un’ottica tradizionale italiana. In sostanza, De Marzio auspicava una
evoluzione del neofascismo in termini di avvicinamento all’ala più moderata del mondo cattolico, in
una prospettiva nettamente antigentiliana; si trattava di una operazione complessa che, sfruttando la
politica micheliniana dell’inserimento, puntava ad un superamento del fascismo storico, senza
rinnegarlo, espungendo dal partito soprattutto il nostalgismo e le pulsioni socialiste e
rivoluzionarie34.
Anche Pino Romualdi, come si è già visto in precedenza, riteneva che il messaggio del Msi
andasse “liberato” dalle scorie della nostalgia: in particolare, l’ex vice segretario del Partito fascista
repubblicano fu il leader di una piccola corrente che dava spazio alla cultura, in un partito che non
amava troppo l’impegno culturale. Soprattutto attraverso la sua rivista, “L’Italiano”, fondata nel
1959, Romualdi affrontò diversi temi di politica estera. Fu tra i primi nel Msi ad occuparsi di
geopolitica, insieme con Ernesto Massi, docente di geografia alla Università cattolica di Milano, ma
su posizioni diverse dall’esponente della sinistra nazionale; affrontò in senso filoisraeliano il
conflitto con gli arabi, si occupò del ruolo dell’Europa come “terza forza” non in conflitto con gli
Usa ma come “baluardo della civiltà” contro il comunismo; fu il primo leader della destra ad andare
in missione ufficiale negli Stati Uniti e lo raccontò ai lettori della sua rivista sottolineando il ruolo
dell’Occidente e la necessità di rinvigorirlo idealmente e militarmente. “L’Italiano”, espressione
della sua corrente pragmatica e d’élite, fu una rivista piuttosto anomala nel panorama missino, in
quanto laboratorio di progetti critici, antiretorico e non privo di elementi di riflessione e di dubbio
sulla evoluzione del partito. Convinto della fine evidente del mussolinismo come ideologia
unificante il neofascismo, Romualdi ritenne indispensabile per il futuro del Msi il superamento del
fascismo storico e la necessità del confronto sui problemi attuali, primi fra tutti quelli di politica
estera35.
Al di là delle posizioni di Romualdi e di De Marzio, sostanzialmente isolate nel Msi, non si
può sostenere che nel Msi fosse sviluppata una cultura della politica estera. La scelta iniziale a
favore dell’atlantismo (ma solo come baluardo contro il comunismo) non derivava infatti da una
approfondita visione della politica internazionale, né da una visione del mondo particolare, ma solo
da una necessità politica, l’unica possibile per potere rimettere nel gioco della politica i fascisti. Ciò
determinò, per tutto l’arco dell’esistenza del Msi, un dualismo irrisolto fra un vertice filoatlantico,
che mirava alla realizzazione di una politica di destra in grado di recuperare il concetto di nazione
inserendolo nel più vasto concetto di Europa-Nazione, e una base giovanile alla ricerca di un
34
Si veda una interessante analisi dell’influenza di De Marzio sull’elemento giovanile in S. Pessot, P. Vassallo, A
destra della città proibita. Genova. Quelli che non si arresero, con pref. di E.Erra e postfazione di G. Accame,
Terziaria, Milano 2004, pp. 63 ss. Si veda anche un breve profilo di De Marzio in “Tradizione
35
Si veda su Romualdi l’antologia dei suoi articoli sull’ “Italiano”: P. Romualdi, Caro lettore, intr. Di G. Tricoli,
Quaderni de L’Italiano, Roma 1989; si veda anche P. Romualdi, Intervista sull’Europa, Ed. Thule, Palermo 1979.
“altrove” evoliano, che usciva sì dal fascismo storico, ma per andare verso una irrealizzabile e
impolitica visione tradizionalista del mondo e della società.
Nessuna di queste due visioni prevalse effettivamente sull’altra, soprattutto perché il Msi
evitò quasi programmaticamente di porsi problemi di chiarimento culturale che avrebbero spaccato
o depotenziato il partito. Ciò determinò una costante e nuovamente irrisolta contraddizione tra
politicità della prassi e impoliticità della teoria (la cultura come optional, secondo la definizione di
Tarchi36), una contraddizione felice, per certi versi, perché consentì al Msi di attraversare indenne
cinquanta anni del secolo delle ideologie senza problemi particolari, salvo il fatto di restare
racchiuso in una nicchia di scarsi consensi popolari. La “doppiezza” tra prassi e teoria fu
vantaggiosa per il partito, che la utilizzò per avere, da un lato, consensi giovanili e, dall’altro, per
potere continuare a proporre la politica dell’inserimento, almeno fino al 1960. D’altra parte, fino ai
fatti di Genova – ma, per certi versi, anche oltre tale data – il Msi fu costretto dalle circostanze a
mascherare la sua tendenza all’inserimento (i famosi voti missini “non graditi e non richiesti”),
garantendo così alla base giovanile e militante la sensazione di un progetto rivoluzionario e
alternativo che nei fatti non esisteva ma che poteva essere evocato periodicamente a scopi elettorali
e per mantenere coesa la comunità umana del neofascismo.
36
M. Tarchi, Cinquant’anni di nostalgia, cit., pp. 91 ss.