testo e spiegazioni ok - IIS Severi
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testo e spiegazioni ok - IIS Severi
L’“estetica del brutto” nella poesia barocca Il campionario della poesia marinista raccoglie ogni stravaganza in materia femminile: compaiono non solo la bella bionda, la bella bruna, la bella rossa, ma anche la bella balbuziente, la bella dai pidocchi, la bella guercia, la bella gobba, la bella zoppa, e così via fino alla glorificazione del brutto: il brutto, limitato prima a confini ben precisi (nella poesia burlesca e nella commedia, per esempio), entra ora con pieno diritto nella poesia barocca che, attraverso la ricerca ansiosa della novità, rompe con il classicismo e con il petrarchismo, sostituendo al figurino stilizzato di Laura una donna più concreta, oggetto di un amore sensuale; una donna non bella al superlativo, anzi con qualche talvolta vistoso - difetto, ma pur sempre appetibile. Citiamo, a titolo indicativo, La bella zoppa, La bella nana, La bella balba (balbuziente) di Giovan Leone Sempronio, oppure Bellissima donna cui manca un dente di Bernardo Morandi, o ancora Bella pidocchiosa di Anton Maria Narducci. Giovan Leone Sempronio, da Selva poetica, 1633. La bella zoppa Move zoppa gentil piede ineguale, cui ogn’altra è ineguale in esser bella; e così zoppa ancor del dio che ha l’ale sa le alate fuggir auree quadrella. Tal forse era Euridice, e forse tale era Venere a l’hor che a questa e a quella morse il candido pie’ serpe mortale, punse il candido pie’ spina ribella. Consolisi Vulcan; ché se talora mosse il suo zoppicar Venere a riso, oggi sa zoppicar Venere ancora. E certo questa dea, se il ver m’avviso, solo il tenero pie’ si torse a l’ora ch’ella precipitò dal paradiso. Anton Maria Narducci, Per i pidocchi della sua donna (o Bella pidocchiosa) Sembran fere d’avorio in bosco d’oro le fere erranti onde sì ricca siete; anzi, gemme son pur che voi scotete da l’aureo del bel crin natio tesoro; o pure, intenti a nobile lavoro, così cangiati gli Amoretti avete, perché tessano al cor la bella rete con l’auree fila ond’io beato moro. O fra bei rami d’or volanti Amori, gemme nate d’un crin fra l’onde aurate, fere pasciute di nettarei umori; deh, s’avete desio d’eterni onori, esser preda talor non isdegnate di quella preda onde son preda i cori! Metafore e barocco Attraverso l’analisi delle metafora, come di altre figure retoriche presenti in alcune liriche del poeta più significativo del tempo, G.B. Marino (cfr. i testi scelti), che si è giunti a contestualizzarne i temi all’interno di un sentire e di una mentalità tipici del secolo. “In La Maddalena nel gioco tra la Maddalena, donna piangente, e la statuetta d’ambra che la rappresenta si evidenzia lo scambio tra segni (la statua) e la realtà (la donna). Tutta la poetica del barocco si ispira a questo scambio. Nel venir meno di riferimenti sicuri a una realtà sentita come metamorfica e sfuggente, sono i segni e il significante a fornire un elemento di stabilità. La metafora barocca è figura che, abbandonando il terreno delle cose, agisce sul significante modificandolo ingegnosamente, come fa il Marino in questo testo. In E’ stral, è stral, non ago …il gioco delle metafore si fa più complesso: la donna ragno (quindi tessitrice) compare nella prima parte come colei che, ricamando il bel lino col suo ago trasformato in freccia, trafigge il cuore del poeta. Il gesto gentile della ricamatrice si trasforma quindi nel movimento sadico della donna crudele che insiste nel tormentare chi l’adora. Nella seconda parte la metafora sembra essere quella del fuso, che, come nelle fiabe, rappresenta un elemento di pericolo: tirare, troncare, annodare, assottigliare, attorcere, girare, sembrano alludere infatti ai movimenti con i quali la donna prepara quel filo con cui tesserà la tela che trapungerà, trapungendo contemporaneamente anche il cuore del poeta. Ma il filo che essa, novella Parca, tira, annoda, spezza è anche il filo della vita dell’amato, che appare quindi completamente in balia della sua donna. Tra soggetto e oggetto sembra venir meno ogni confine, così come vien meno ogni distanza tra piacere e dolore” (Ronchi). Anche in “Onde dorate” ogni termine diventa segno che si carica di un doppio significato. Proprietà della metafora è, secondo il Tesauro, il fatto che “portando a volo la mente da un genere all’altro fa travedere in una sola parola più di un obietto”. Quest’uso ardito e visionario della metafora potrebbe essere confrontato con quello di spot pubblicitari in cui il rapido accostamento di immagini ci fa cogliere simultaneamente gli attributi di due campi di realtà diversi ( v. l’articolo citato di Italiano&Oltre 2/2001). “Un uso “estremo” della metafora troviamo anche nel sonetto di Lubrano Terremoto orribile… che ripropone un motivo molto ricorrente nella poesia barocca: quello della fragilità e caducità dei beni terreni (tanto più fragili e caduchi quanto più si presentano con un aspetto imponente e fastoso). Il linguaggio in cui questi motivi sono espressi mostra sia un uso esasperato della metafora che una ridondanza di artifici retorici e stilistici. Si noti l’accostamento di termini antiteci (precipizio alato) o appartenenti a ordini di realtà inconciliabili tra loro (alito di fato, alpi di bronzo, polveroso fiato) Si noti, inoltre, l’insistenza su un’altra figura retorica: l’ossimoro. “su le tombe /si vive, eternità/breve (aggettivo che non è legato ad eternità., ma a “tremoto”, ma che le è tuttavia non casualmente accostato), fasto/fondi inceneriti, mortalità/eternità. Per non parlare poi delle numerose figure del significante, tra cui le frequenti allitterazioni e giochi di parole: fato/fasto/fiato, cova/vacuo. In tutto il testo domina poi una struttura ossimorica che associa il basso all'alto, l'infimo al supremo, la permanenza alla distruzione. L’ossimoro è figura tipica del pensiero e del linguaggio seicentesco. Tutto e nulla, miseria e grandezza sono i poli eterni della meditazione pascaliana , ma anche per Galileo infinitamente piccolo e infinitamente grande sono i termini ricorrenti di una opposizione che ha le sue radici nella relatività dei punti di vista (…Dico che questo grande, piccolo, immenso, minimo etc, sono termini non assoluti ma relativi, sì che la medesima cosa, paragonata a diverse, potrà ora chiamarsi immensa, e talora insensibile, non che piccola… Dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, 1632) e nella constatazione che le grandissime capacità dell’uomo appaiono nulle se commisurate all’infinita potenza di Dio. Per inciso si può ricordare quanto peso verrà ad assumere l’ossimoro nell’opera del Manzoni, autore sulla cui formazione , come è noto, molto influirono il pensiero e l’immaginario seicentesco. Effetto di sgomento insieme e di meraviglia (…di viltà, di stupor gli occhi l’ingombra…) è presente anche nel sonetto di Fontanella, Alla lucciola: sgomento di fronte alla constatazione della fragilità e della debolezza che caratterizzano la condizione umana, ma anche meraviglia al pensiero di quanto proprio la precarietà (l’esser soggette a alterazioni, mutazioni, generazioni) renda le cose mortali più nobili di quei corpi celesti che erano ritenuti perfetti perché incorruttibili, eterni, inalterabili. Nel testo viene fatto un paragone tra l’uomo (l’umanità in generale) e un bimbo-ladro che, credendo di aver trovato nel bosco in cui si addentra tra mille paure una gemma preziosa (ma anche “fatale”), all’apparir del giorno si ritrova tra le mani nient’altro che un fragile verme. Il mondo è morte, dietro a un falso splendore si celano solo fragilità e corruzione. La dissimulazione, arte di non far vedere quel che di illustre c’è per non suscitare l’invidia dei potenti, diventa qui lo strumento di cui si serve la natura per non mostrare il destino di corruzione e morte che incombe su tutto ciò che ci circonda”. (Ronchi). Perché in Italia si torni a vedere nella fragilità un elemento di forza e di resistenza , non da dissimulare, come avrebbe consigliato Accetto, ma da accettare con coraggio, bisognerà attendere il Leopardi della Ginestra, cui va il merito, tra gli altri, di aver scosso la poesia e la letteratura italiana da atteggiamenti di ripiegamento o di fughe in “luoghi ameni”. (Ronchi) “Concludiamo con qualche ulteriore osservazione sui tratti stilistici e retorici che accomunano i testi dei poeti barocchi proposti per l’analisi. Tali caratteristiche stilistiche sono, come crediamo di aver dimostrato, e come è confermato dall’articolo citato di Italiano & Oltre 2/2001, molto attuali, tanto da rendere questo percorso sulla poesia barocca attraente sia dal punto di vista dei temi trattati che del linguaggio. All’uso della metafora, dell’iperbole e dell’ossimoro che già abbiamo rilevato, aggiungiamo: riuso del materiale linguistico retorico della tradizione in direzione innovativa accumulazione così intesa: serie enumerativa sinonimica, elencazione e catalogazione, uso ridondante degli artifici retorici stilistici. Torniamo al sonetto di Fontanella. Pur essendo, come si è visto, il linguaggio di questo testo petrarchesco e stilnovistico (mira, tremola e bella, così bella parea cosa mortale), con echi ariosteschi (che di qua, che di là…, la selva intricata, e soprattutto il ripetuto parea possono far ricordare lo scambio tra “parere” ed “essere” nell’episodio del Castello di Atlante), lo stile, come del resto i temi, sono secenteschi. I tratti stilistici dell’accumulazione (uso ridondante di aggettivi, perifrasi, epiteti) vi si trovano largamente utilizzati. Al “fanciul”, ma più ancora alla “lucciola”, sono legati molti aggettivi e perifrasi metaforiche: tremola e bella, lieve e rotante, aurea fiammella, rubino o stella, gemma fatale, verme frale (vedi questa tecnica anche in Onde dorate). Altro tratto caratteristico della poesia barocca presente nel sonetto è il prendere ad esempio un elemento della realtà naturale, tradizionalmente trascurato dalla poesia, come spunto per una riflessione sulla fragilità della vita umana, sull’amore, etc. (parecchi sono i componimenti barocchi ispirati a lucciole, grilli, farfalle, zanzare, etc.). Marino, Onde dorate Onde dorate, e l’onde eran capelli, navicella d’avorio un dì fendea; una man pur d’avorio la reggea per questi errori preziosi e quelli; e mentre i flutti tremolanti e belli con drittissimo solco dividea, l’or de le rotte fila Amor cogliea, per formarne catene a’ suoi ribelli. Per l’aureo mar, che rincrespando apria Il procelloso suo biondo tesoro, agitato il mio core a morte gìa. Ricco naufragio, in cui sommerso io moro, poich’almen fur ne la tempesta mia di diamante lo scoglio e ‘l golfo d’oro. Fontanella, Alla lucciola Mira incauto fanciul lucciola errante Di notte balenar tremola e bella, che di qua, che di là, lieve e rotante, somiglia in mezo al bosco aurea fiammella. Va tra le cupe ed intricate piante, stende la mano pargoletta e bella; e credendo involar rubino o stella va del preda sua ricco e festante. Ma poi che ‘l nostro orror l’alba disgombra, quel che pria gli parea gemma fatale, di viltà, di stupor gli occhi l’ingombra. Così bella parea cosa mortale; ma vista poi che si dilegua l’ombra, altro al fine non è ch’un verme frale. Barocco e infinito (G.R.) Con la modernità il mondo comincia ad estendersi. Già con Giordano Bruno le pareti del Cosmo si allargano e proprio in quest’epoca Nicolò Cusano parla di un universo non infinito (infinitum), ma interminato (interminatum), il che significa non solo che è illimitato e non racchiuso da un involucro esterno, ma anche che non è “terminato” nei suoi costituenti, ovvero manca completamente di precisione e di una stretta determinazione. (Cfr. Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970). E l’esperienza cosmica dell’infinito prosegue anche nello spazio terrestre con le ardite imprese delle esplorazioni geografiche, come nelle altre scoperte scientifiche. Giordano Bruno nota che in un universo così concepito non esiste più un unico centro né una circonferenza in grado di abbracciarlo, ma il centro è dappertutto e la circonferenza da nessuna parte. Le scienze, astronomia e cosmologia, fisica e matematica, non sono ancora compiutamente in grado di dedurre da queste intuizioni rivoluzionarie le conseguenze che saranno svolte secoli dopo. A cogliere l’importanza fondamentale di queste intuizioni è Pascal che nei Pensieri (1669) mette in evidenza il senso di sgomento dell’uomo del Seicento, il suo smarrimento di fronte al cosmo infinito. In queste riflessioni è ben espressa l’angoscia dell’uomo moderno dovuta in gran parte al sentimento di non aver più un punto d’appoggio fermo, un rifugio assolutamente sicuro: “Noi vaghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine a cui pensiamo di ormeggiarci e di fissarci, vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci elude, scivola via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale, e che tuttavia è il più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare alcunché di stabile, e un’ultima base costante per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento vien meno, e la terra si apre sino agli abissi” (Pascal). Ci sono stati molti giudizi negativi sul Barocco, sull’età e sulla produzione letteraria in particolare. Ad esempio Francesco Flora (Storia della Letteratura italiana, Ricciardi, Milano-Napoli, vol. II, parte II, p. 649 dice del “delirio dell’argutezza metaforica […] in quell’età che molto amò il finto (scale finte, finestre e porte finte, pietre finte, marmi finti, colonne finte e statue finte) si moltiplicano anche le finte parole: le quali, a parte tutte le inconsistenti metafore e figure, consistono nelle pretese allegoriche, con consapevolissima mistificazione dettata a giustificare forme morali che il testo non comportava, anzi contraddiceva ed escludeva”. Alla luce di molti studi e analisi odierne, che trovano conferma in quanto fin qui si è detto, credo sia necessario rivedere giudizi di tal genere: solo collocando la letteratura del Barocco all’interno del suo periodo storico, momento nel quale l’uomo perde il suo “centro” e, disperatamente, costruisce una apparente finzione della realtà raccontando – invece – tutto il dramma della sua situazione, si può cogliere il senso di questa produzione. Come nota infatti il grande storico dell’arte Arnold Hauser, l’angoscia di fronte al silenzio eterno degli spazi infiniti che l’uomo libertino di cui parla Pascal provava, si trasmette e si riflette nell’arte dell’età barocca: “Questo brivido, l’eco degli spazi infiniti, l’intima unità dell’essere pervadono tutta l’arte barocca. E simbolo dell’universo diventa l’opera d’arte nella sua totalità, in quanto organismo coerente, vivo in ogni sua parte. Ognuna infatti, come i corpi celesti, rimanda a un’infinita, ininterrotta concatenazione; ognuna contiene la legge del tutto, in ognuna agisce la stessa forza, lo stesso spirito. Le repentine diagonali, gli improvvisi scorci prospettici, gli effetti di luce accentuati, tutto esprime una possente, insaziabile brama di infinito. Ogni linea conduce l’occhio lontano, ogni forma in movimento pare che voglia sorpassare se stessa, ogni motivo rivela una tensione, uno sforzo, come se l’artista non fosse mai del tutto sicuro di riuscire veramente ad esprimere l’infinito”. (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, vol. II, Einaudi, Torino 1956-1987, p. 104).” Il motivo del tempo (G.R.) Il tempo è uno dei grandi protagonisti della letteratura e della cultura del seicento. Se il Tasso dal Tempo si aspettava ancora soprattutto consolazione e disvelamento della verità, negli autori secenteschi prevale il senso del suo scorrere inesorabile e della sua azione devastante. Il tema amore/morte nella poesia barocca (F.M. e G.R.) Nel Tasso ci sono molti passi in cui amore e morte sono strettamente congiunti. Nell’Aminta la vicenda ruota attorno alle sofferenze amorose del protagonista, alla sua disperazione per non essere riamato, al desiderio di uccidersi fino al tentativo di suicidio. Come mostra ancora Foltran, i poeti marinisti in questo campo non son certo da meno e seguono gioiosamente la via aperta dal loro maestro, trattando il tema d’amore e morte in molte stravaganti variazioni: Girolamo Preti nel sonetto Ite in dono a colei, pallide rose esorta questi fiori ad essere del suo morir nunzie amorose ed a riferire alla donna amata che lui è mal vivo e sarà tosto esangue. Giovan Leone Sempronio fa un complimento a Lidia per i suoi bei capelli rossi, che minaccian la morte a più d’un core. Federico Meninni si rivolge alla sua ninfa con un sonetto ingegnoso che ha una sua fresca grazia: gli alberi di un bel giardino sospirano d’amore per la donna: Parla a te sospirando il pero, il moro…-Io pero, o Nice, innamorato io moro-, / il pesco acceso il proprio sen si frange…/ per dolcezza d’amore il fico piange. Ma nei poeti del ‘600 non manca la trattazione della morte vera e propria, descritta con accenti assai diversi, temuta, anzi aborrita, come notiamo, ad esempio, in Ciro Di Pers. Proprio in un sonetto dedicato Al sonno egli conclude: Ma ciò che mi ti rende assai più caro / è ch’a l’orror de l’aborrita morte / io col tuo mezzo (per mezzo del sonno) ad avvezzarmi imparo. Del resto in questi poeti è molto vivo il senso di fragilità della vita umana e l’interesse per aspetti squallidi e crudeli della miseria e sofferenza umane. Essi avvertono la presenza continua del tempo distruttore e veloce (quante liriche sugli orologi!) e l’ ossessione lugubre e desolata della morte “vera”. Al punto che l’insistenza sull’amore sensuale e sulla morte per eccesso di desiderio o di piacere pare quasi un modo per esorcizzare l’angoscia che sale da questa visione sostanzialmente negativa e pessimistica della vita.