Il titolo della mia relazione è Una città senza nome
Transcript
Il titolo della mia relazione è Una città senza nome
RENATO NICOLINI. UNA CITTà SENZA NOME. Renato Nicolini è scrittore e drammaturgo, personalità poliedrica, ma anche architetto, certamente noto come amministratore e politico inventore dell’Estate Romana. Insegna composizione architettonica e urbana presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Nominato nel 1985 dal ministro francese Jack Lang, Officer de l’Ordre des Arts et des Lettres de la Republique Francais. Membro del Comitato Scientifico di UBU Libri e Direttore della rivista di architettura Controspazio. Scrive di teatro e di architettura sui quotidiani L’Unità e Il Manifesto. NOTES LA CITTà SENZA NOME. SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO. 23 OTTOBRE IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI 1_Strategie per lo spazio pubblico, Bruxelles Il titolo della mia relazione è Una città senza nome. Confesso di non sapere perché sono passato dall’articolo determinativo all’articolo indeterminativo, non credo esista nessuna particolare ragione. In realtà l’avrei chiamato altrettanto bene La città senza nome. Dare un nome alle cose è molto importante... è importante per gli esseri umani, ognuno si dà o gli viene dato un nome, che diventa l’elemento riassuntivo dell’identità, dell’individuo; ed è importante anche per le città. Elias Canetti, grande autore del Novecento, afferma addirittura che è solo quando ha un nome che la cosa esiste pienamente. In qualche modo, qualcuno l’ha già osservato anche in questa sede, è in sintonia con la tradizione originaria del pensiero giudaico-cristiano. C’è il vangelo di Giovanni - è stato già citato - in cui si legge “in principio era il verbo”, e ancora “il verbo era presso Dio”, “il verbo era Dio”. E, se il verbo è Dio, l’atto della creazione coincide col fatto che si nomina una cosa. Se la cosa non ha un nome, la cosa non esiste. Cosa c’entra questo con la città? Io sono romano e, diciamo, Roma ha un mito fondativo esemplare i cui protagonisti sono Romolo e Remo, una coppia di gemelli che riprende quella mitologica di Castore e Polluce, dei quali uno solo è immortale e l’altro è destinato a morire; e quindi è ovvio che Remo soccomba a Romolo… uno soccombe all’altro, perché, nel momento in cui Romolo dà un nome alla città, recintandola, il fratello lo irride saltandone le mura, che sono ancora delle mura virtuali… La città, un tempo, era facilmente identificabile dall’esistenza delle mura: le ultime grandi mura di città che siano state abbattute, se non sbaglio, sono quelle di Pechino abbattute da Mao Ze Dong nel 1950, nel momento stesso in cui la rivoluzione cinese s’è affermata. Da allora, in poche città del mondo è accaduto lo stesso. E Mao Ze Dong, (se non ricordo male, perché queste memorie marxiste sono ormai quasi sepolte, più o meno volontariamente), proclamò che abbatteva le mura di Pechino, perché la campagna potesse entrare nella città. Mah… poche profezie si sono così rovesciate nel loro esatto contrario. Perché, oggi la caratteristica fondamentale delle città, di qualsiasi città, è che non ci sono le mura e che la città ha invaso la campagna. Non è accaduto il contrario, come pensava la rivoluzione cinese agli inizi. E poi, questo tema della campagna: qui siamo in Puglia, pensiamo ad Araldo di Crollalanza, alla bonifica delle terre incolte… anche qui è successo esattamente il contrario. So che mio padre Roberto ha costruito, insieme a Giorgio Calza Bini, nel 1940, nel quadro della bonifica integrale, la città di Incoronata, vicino Foggia: ebbene, oggi è Foggia che si è espansa ed ha raggiunto la città di Incoronata, non è successo il contrario. La città, quindi, oggi non può essere delimitata e allo stesso tempo non sappiamo più cos’è ‘città’. Se andiamo in macchina, l’ho anche detto nel filmato che avete visto questa mattina, da Rimini a Pescara, ci troviamo davanti ad un continuum costruito, dove non c’è distinzione tra ciò che è urbano e ciò che non è urbano. Tornasse in vita Engels, non ci capirebbe più granché: il conflitto tra città e campagna s’è risolto con la liquidazione della campagna. Ma, c’è qualche osservazione in più che dobbiamo fare. Se la città si dissolve, perdendo compattezza e allo stesso tempo diventando un continuo costruito che inghiotte la campagna; allo stesso modo le mura della propria casa, dell’abitazione domestica, del luogo per molto tempo considerato inviolabile, il fondamento dell’esistenza privata dell’individuo, le mura di casa nostra, vengono sistematicamente penetrate dalla televisione, se non anche da internet. Volontariamente usiamo la nostra abitazione e la spettacolarizziamo e la mettiamo in collegamento col mondo. Contemporaneamente, dobbiamo osservare uno strano fenomeno, per cui lo spazio pubblico si privatizza; io da molti anni abito a Trastevere, a Roma, e gli amici li incontro, diciamo, più facilmente ai supermercati. Una volta all’Sma, una volta al Dì per Dì, o alla Standa: non li incontro più tanto in piazza. Il comune di Roma ha bandito un concorso per piazza San Cosimato: è uno dei non troppi concorsi a cui ho partecipato, ed ho anche ricevuto una menzione d’onore per la qualità della soluzione architettonico-urbanistica; però, m’è molto dispiaciuto ma ha vinto un altro gruppo. Quindi, è poco elegante che io lo critichi, però vedo qualche collegamento tra quell’intervento realizzato, ed il fatto che rimane difficile incontrare gli amici a Piazza San Cosimato, ed è più facile incontrarli nei supermercati. Lo sento come se lo spazio pubblico si sia privatizzato. O, ad essere pessimisti, si sia dissolto, o si stia dissolvendo… Non so, il teatro in Trastevere è diventato cinema e quanto tempo a lungo potrà resistere ancora come cinema? I cineclub 158 / 159 www.renatonicolini.it Sono cresciuto proprio come un animale urbano liberato dalla gabbia; e credo che questo mi abbia aiutato ad immaginare l’Estate Romana… Che è stata molto importante, perché, in controtendenza in un periodo in cui tutti invitavano a chiudersi in casa per paura del terrorismo, ho invitato la gente ad uscire; per di più, credo che molti giovani che avrebbero probabilmente ingrossato le fila delle brigate combattenti per una causa sbagliata, abbiano, divertendosi alle maratone cinematografiche di Massenzio e agli altri appuntamenti dell’Estate Romana, cominciato a capire che lo scopo fondamentale della vita non è quello di ammazzare il nemico, ma è quello di viverla. E questo, credo, dovremmo ricordarcelo anche oggi, quando la situazione somiglia per molti versi a quella della fine degli anni Settanta, per la tensione, per l’odio, che almeno da una parte traspare; soprattutto quando la parte che soprattutto odia si autoproclama il partito dell’amore. Insomma, sembra l’invasione degli Skrull nell’Universo Marvel, che avviene all’insegna delle parole “lui ti ama”. Io, quando lo sento dire riferito a quell’uomo, mi preoccupo. Non credo lui ci ami più della Regina degli Skrull che ci voleva distruggere e ho paura. In questa situazione, credo sia importante ricordarci che la vera casa di un essere umano è, almeno un poco, anche tutta la città… e dobbiamo avere la capacità di ridare un nome alle cose, di ridare alla piazza il valore della piazza, di restituire al luogo di incontro, al cinema, al teatro i significati che gli sono propri. Non è una cosa facile. È molto bello tutto il lavoro progettuale che si fa sui loghi ma mai un logo, mai un brand potrà sostituire la città. È un progetto più complesso quello che dobbiamo fare. Ricordo, come esempio, che ci sono stati dei fenomeni strani a Roma. Parlo di Roma perché la conosco meglio. C’è stato, prima ancora del periodo in cui Roma è stata riempita di cartelli con l’indicazione ‘Auditorium’, una meravigliosa dimostrazione di come Freud avesse letto con acutezza la fragilità della nostra psiche, Sindaci compresi. Nel 1990, Mondiali di Calcio, ci fu il periodo in cui chiunque arrivava a Roma, da qualunque parte arrivasse, trovava il cartello che indicava ‘Stadio’. Non si parla male di Carraro perché è come sparare sulla Croce Rossa, ma Franco Carraro Sindaco di Roma nel 1990 immaginava che, siccome c’erano i mondiali di calcio a Roma, Roma sarebbe stata invasa da una folla di turisti che domandavano tutti ansiosi: ‘dov’è lo stadio?’ Non posavano nemmeno le valigie in albergo, andavano direttamente all’Olimpico per vedere le partite di calcio. Ma analoghe deformazioni le ha avute un altro sindaco di Roma, che ha preso il posto proprio di Carraro, Francesco Rutelli: che ha bandito un concorso intitolato ‘Cento piazze’. Come se, il problema di una piazza romana sia quello di avere un architetto in più, di segnare col travertino la cigliatura delle aiuole, di ripavimentare con i sanpietrini, introdurre degli elementi d’arredo urbano, rifare il disegno dei lampioni. Questa è una cosa che non funziona, che non può funzionare. Perché il problema dello spazio pubblico non è una questione che riguarda solo l’architetto, non è un problema tecnico. Ma è una questione che riguarda invece il cittadino, la capacità che passa per la capacità complessiva di noi tutti, di dare allo spazio pubblico il significato di spazio pubblico. È un problema di visione e di progetto politico. Che cosa dobbiamo fare? Io, credo come tutti, non lo so, nel senso che non ho una ricetta. Non sarei in grado di proporre oggi una soluzione. Credo anche che quella che ho proposta a Roma alla fine degli anni settanta, fosse legata a tante cose che non ci sono più o comunque sono molto cambiate. Ad esempio allora non c’era la televisione privata e quindi nasceva questa grande nostalgia del film che si era visto e non si poteva più rivedere… era una nostalgia che oggi non è così forte, perché posso andare da una Feltrinelli o in altro posto simile e comprarmi il mio DVD e guardarmelo a casa. Bisogna trovare un’altra cosa (l’effimero dell’estate romana non basta, non ha mai voluto essere un modello), inventare qualcosa di nuovo. Penso che dobbiamo muoverci in questo modo, pensando con una mentalità che vorrei definire ‘situazionista’. Penso che Guy Debord, ancora adesso, abbia grandi ragioni: in un’epoca in cui i progetti sono deboli, bisogna progettare le situazioni, nel senso che sulle situazioni si può intervenire. Si può intervenire, se si riesce ad avere quel distacco che si deve mantenere dai coinvolgimenti viscerali, se si riesce a prendere la distanza dalla propria maschera sociale e tentare in questo modo di affermare una propria identità non conformista. Penso alla ‘rivolta’ di Albert Camus… Non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia, anche di questo dobbiamo essere consapevoli: nell’87 il comune di Los Angeles mi ha invitato in quella città e, arrivato, ho trovato grandi rassegne stampa che parlavano di un certo Nicolini, un comunista, che faceva uscire la sera la gente a Roma, nel periodo del terrorismo. E loro volevano che la gente uscisse la sera, anche a Los Angeles. Mi hanno chiamato per questa ragione. Ho tenuto, dopo un mese di soggiorno, in cui ho girato tutte le parti di L.A., dalle Watts Towers di Sam Rodia alle prime case in cemento armato di Wright, da Santa Monica al Disney Auditorium, un symposium, dal titolo Los Angeles after dark: dream or reality? E alla fine ho risposto: “Nightmare”. Questa era la sola possibilità, per una città che vedeva lo spazio pubblico solo come un percorso, luoghi per cui passare, non luoghi in cui fermarsi. Dove tutto era rigorosamente separato, i coreani dai cinesi, dagli afroamericani, dai messicani… Infatti, solo un anno dopo, dopo il fallimento della mia visita come possibile medico, - non mi sono mai saputo organizzare bene dal punto di vista professionale - sono scoppiati i disordini di Los Angeles, i riots… Voglio dire che i problemi che abbiamo in Italia, li abbiamo in tutte le parti del mondo. Esistono anche in Francia per esempio. In Francia c’è una politica assimilazionista: l’immigrato lì non è guardato come un pericoloso criminale che ‘abitualmente delinque’, e però anche lì s’è creato una situazione di rivolta urbana. Io conosco bene la banlieu parigina, e, dal punto di vista dei servizi non c’è paragone con quella di Roma. Nanterre, Aubervilliers, sono sedi di Teatri Nazionali… Bobigny, che è meno conosciuta, ha comunque un complesso di sale teatrali e spazi culturali straordinario (dove hanno portato spettacoli Lepage, Lucio Dalla, Peter Sellars…), tanto che il Petruzzelli - cui auguro una grande ripresa - ne avrà da fare di strada per arrivare allo stesso livello. E però, anche lì i disordini ci sono stati… È un problema molto complicato, di fronte al quale che può fare un progettista? Evitare di bloccarsi sulle pregiudiziali ideologiche, di irrigidirsi in narcisistici dilemmi, e creare invece situazioni. E magari capire che alcuni modelli un tempo accreditati sono ormai falliti. Per esempio la città d’autore… Brasilia è stata fondata per un sogno di S. Giovanni Bosco, che aveva sognato che la capitale del Brasile si sarebbe costruita nel centro geografico esatto del Brasile: così l’hanno realizzata il 21 aprile del 1950, anno Santo e Natale di Roma. Io ci sono andato per un progetto dell’Estate Romana 1982, inseguendo il Ministro del Piano, dott. Pecora, italo brasiliano, che doveva darci dei soldi del viaggio a Roma della batteria della scuola di Samba, Imperio Serrano, che quell’anno aveva vinto il Carnevale di Rio. Non l’abbiamo trovato a Rio, né a Bahia, né a Brasilia ma a San Paolo… A Brasilia abbiamo invece incontrato il Ministro della Cultura, il quale ci ha ricevuto in uno di questi bellissimi edifici, e durante l’incontro ci ha confessato: “quant’è difficile abitare in un’opera d’arte”. Ed ha ragione: è veramente difficile abitare in un’opera d’arte! Le città d’autore falliscono… Ci possono essere edifici eccezionali, ma la città non ha, non può avere la caratteristica della città d’autore. Questo significa, anche, che le città d’arte sono in crisi, più Roma che Bari. Dappertutto, dove c’è città d’arte - è sotto gli occhi di tutti - spuntano le griffe, i brand, tutte cose inopportune e impertinenti. Le griffe non risolvono il problema, lo aggravano. Forse sta svanendo quel periodo in cui s’è pensato di poter costruire delle città irreali, Dubai, per esempio o Abu Dabi; si sta diffondendo però la nostra tendenza a comportarci come cyborg: oggi casa è dov’è il nostro cellulare. Se si smarrisce il cellulare, si perdono gli indirizzi, è una catastrofe. Come perdere il computer. Dobbiamo capirlo, questo… Quando sento parlare di non luoghi, penso anche, per contraddizione, al fatto che pochi luoghi hanno tanta identità quanto le fermate della metropolitana di Mosca di Stalin, e tanto pochi hanno invece non identità come i centri commerciali che sono stati costruiti dopo la caduta del comunismo. C’è qualcosa che non funziona. Nel senso che, dovrebbe essere, a dirla tutta, esattamente il contrario. Potrei andare avanti a lungo, ma non so, è meglio arrivare alle conclusioni finché l’uditorio non s’è annoiato. Volevo concludere, partendo da una riflessione da architetto: il modulor di Le Corbusier, una teoria del secondo dopoguerra che è anche un estremo tentativo, perché nelle proporzioni del modulor di Le Corbusier ritorna la sezione aurea, e quindi ritorna tutto quel passato meraviglioso che noi abbiamo sempre amato, la cultura classica. Io ho avuto una formazione culturale assolutamente sbagliata: mi sono formato con i libri della BUR, Biblioteca Universale Rizzoli, perché costava poco e pubblicava tante cose. Ma ne ho desunto anche il pregiudizio, non so perché, che il libro fosse tanto più bello, quanto più fosse antico. Per cui ho cominciato, capendo pochissimo è vero dati i miei dodici anni, la mia carriera di lettore leggendo Cicerone, Eschilo, Sofocle, Monsignor Della Casa, La Secchia Rapita del Tassoni, il Machbeth di Shakespeare… tutti questi classici… cosa c’è di più bello la sera per rilassarsi, lo penso ancora oggi, del leggere un canto de La Gerusalemme liberata, via! È bellissima, se non l’avete letta lo dovete fare. C’è questa storia, meravigliosa tra Armida e Rinaldo (non come quei due scemi di Clorinda e Tancredi, che per amore si ammazzano, e poi il grande piacere di Tancredi è battezzare Clorinda morente, mi vengono i brividi quando ci penso)… Nella Gerusalemme liberata, invece, Armida addirittura dice ad un certo punto: ‘chi mi ammazza Rinaldo, avrà il mio corpo.’ Fa di tutto pur di ammazzarlo, gli scaglia contro una freccia che ne fa vibrare a lungo lo scudo ma non ci riesce perché si amano… E poi alla fine, - e credo sia questa la vera ragione per cui il povero Tasso è stato sbattuto in prigione - felici e contenti se ne vanno via: Rinaldo prende in sella Armida, la pretesa maga pericolosissima, e va con lei a conquistarle un nuovo regno. Questo per dire che la cultura classica è bellissima, come si fa a non amare le proporzioni? Io vorrei davvero 160 / 161 RENATO UGO LA PIETRA. NICOLINI. ABITARE UNA CITTà LASENZA CITTà.NOME. 23 OTTOBRE IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI NOTES LA CITTà SENZA NOME. SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO. di Trastevere, molti sono chiusi. Intendendo come spazio pubblico, anche i teatri, i cinema, i cineclub, che in senso proprio non lo sarebbero, ci accorgiamo quanto lo spazio pubblico si restringe. E contro questo, io che sono un’animale urbano, voglio dirlo, collegandomi a quello che di molto bello ha detto Ugo La Pietra a proposito del fatto che dobbiamo abitare la città, dobbiamo abitare i luoghi pubblici… c’è un’osservazione che, nientedimeno, risale ad Eduardo De Filippo: è una battuta chiave del suo testo più bello, Napoli Milionaria. Riccardo, il ragioniere che è stato sfrattato da Amalia, rispondendo a lei che dice: “beh se non puoi pagare l’affitto devi andartene” - siamo nel ’43, ‘44 ma forse la situazione non è così migliorata da allora - Riccardo, da personaggio di Edoardo, dice una battuta molto bella: “un tempo la casa era nu poco tutta la città… ma cambiare casa adesso, che appena uno esce di casa si sente come uno straniero?”.Oggi invece solo la nostra casa, possibilmente di proprietà, anche se violata sistematicamente dalla televisione, ci sembra il luogo dove possiamo sentirci sicuri. Appartiene sempre di più al passato, al tempo dei centri sociali INA Casa, il sentimento che la nostra casa non si fermasse all’alloggio; che la vera casa fosse, almen un poco, tutta l’intera città. Ancora prima di Ugo La Pietra, l’ha detto Eduardo… Io, ripeto, sono un animale urbano. Sarà per quando sono nato, durante la guerra, per cui i primi ricordi della mia vita sono stati i bombardamenti che ci costringevano a scendere di notte al rifugio (e - questo è ovvio - hanno tinto d’insicurezza il modo in cui vivevo la mia abitazione). Ho cominciato a vivere senza paura nel momento in cui i bombardamenti sono cessati; e quindi ho subito sentito - proprio fisiologicamente come prima - come abitazione in cui mi sentivo sicuro tutta la città di Roma. Per essere preciso: il mio quartiere prima, e poi la città. Il luogo pubblico è un luogo in cui si può stare con quella stessa libertà con cui decidiamo di scegliere il percorso, quando entriamo in un luogo. Su questo tema, molte cose sono state fatte: pensiamo a tutta la tradizione surrealista, la dérive, ecc. Sono state scritte delle cose molto belle, da Walter Benjamin, un mondo straordinario, forse passato. Oggi che cosa possiamo fare, partendo sempre da questo punto di vista? come possiamo, insomma, muoverci nella città con la stessa libertà con cui decidiamo il percorso da fare in un edificio? Questo è il problema che dovremmo porci. Dovremmo porcelo tutti, architetti, sociologi… Perché, o noi riusciamo a creare di nuovo un qualche fondamento che ci unisce consentendoci anche il conflitto… Perché lo spazio pubblico cosa significa? Valori condivisi, dunque significa costituzione, significa civiltà. Se non c’è spazio pubblico, tutto questo muore… diventa come le opinioni di un talk show televisivo, in cui si fa gara a chi urla più forte. E naturalmente, questo è molto lontano dalla ricerca della verità. Dobbiamo muoverci in questa direzione, in cui davanti a noi incontriamo due grandi ostacoli: che sono già stati descritti molto bene da due straordinari scrittori del secolo passato: George Orwell e Aldous Huxley. Orwell, con 1984, ci ha fatto riflettere sul Grande Fratello, e mi fa un po' impressione ogni volta che voglio vedere il Grande Fratello in TV, pensare che si chiama come quel libro… e però ancora più pericoloso è il Meraviglioso nuovo mondo, The brave New World, descritto da Aldous Huxley che è uno scrittore forse ancora più acuto di Orwell, nel capire i pericoli che ci minacciano. Perché cos’è la prigione per gli uomini del futuro (coincidente col nostro presente…) del mondo immaginato da Huxley? È il piacere. L’uomo, nella descrizione del futuro spaventoso immaginato da Huxley, è prigioniero del fatto che è continuamente stimolato sul livello più basso dei propri desideri, delle proprie immaginazioni: restando stimolato sempre sul livello più basso, finisce per restare prigioniero all’interno di quel tipo di pulsioni. Quindi, non arriverà mai a porre la questione del potere, o di un’altra, diversa organizzazione della società: è tanto felice che non riesce a progettare e quindi è completamente maturo per un’invasione Skrull al grido di “lui vi ama”. 162 / 163 RENATO UGO LA PIETRA. NICOLINI. ABITARE UNA CITTà LASENZA CITTà.NOME. 23 OTTOBRE IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI NOTES LA CITTà SENZA NOME. SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO CONTEMPORANEO. che l’uomo fosse misura di tutte le cose. Io, quando posso, la mattina, quando faccio ginnastica, cerco di mettermi in posizione, ricordando Cesare Cesariano, Vitruvio, il cerchio, il quadrato, il mio ombelico come il centro della misura proporzionale… C’è un articolo molto bello di Giuseppe Vaccaro, un architetto anche lui straordinario, che dice: “bella quest’idea di Le Corbusier, de le modulor, delle proporzioni!” però le proporzioni in architettura a differenza dalla musica, non seguono una legge prestabilita. Quando un uomo entra in una chiesa, in un teatro, quando cammina per una strada o vive nella propria abitazione, non segue lo stesso percorso, non lo ripete identico tutte le volte. E allora? Dove vanno a finire questi rapporti proporzionali su cui c’ha intrattenuto Le Corbusier? Sono rapporti che si sovrappongono all’uomo, che compaiono per frammenti come valori estetici, ma in qualche modo estranei agli aspetti essenziali della sua esperienza. E quindi via, arrivederci, dobbiamo dimenticarcelo - io dovrò smettere di leggere la Gerusalemme liberata - e dobbiamo mettere in soffitta l’idea che l’uomo sia misura di tutte le cose. E quindi, ritorna Elias Canetti, perché se l’uomo non è misura di tutte le cose, dobbiamo indagare su una cosa straordinaria: l’individuo nel momento in cui si smarrisce. Canetti ricorda una sua esperienza da giovane, in cui a Vienna c’era stata una delle tristemente ricorrenti vicende per cui, la polizia insomma, aveva sparato sugli operai. Quindi c’è un corteo, Canetti partecipa a questo corteo che ad un certo punto prende la direzione del Palazzo di Giustizia e finisce per incendiarlo. Canetti da allora si terrà sempre lontano dalle manifestazioni di massa, - cosa che non c’è bisogno di fare, si possono fare benissimo i cortei ma non c’è bisogno di incendiare i palazzi perché comincia a riflettere sul perché ha partecipato a quell’incendio. Capisce che c’è una tendenza della massa a inglobare in sé l’individuo e io credo che su questo dovremmo un po' ragionare. Nel senso che quando parliamo di luogo pubblico, non deve intendersi quello dell’adunata, e nemmeno quello della manifestazione, magari anche quelle belle, in cui ci si stringe al compagno per sentirsi una sola cosa…