Il titolo della mia relazione è Una città senza nome

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Il titolo della mia relazione è Una città senza nome
RENATO NICOLINI.
UNA CITTà SENZA NOME.
Renato Nicolini è scrittore e drammaturgo, personalità poliedrica,
ma anche architetto, certamente noto come amministratore
e politico inventore dell’Estate Romana. Insegna composizione
architettonica e urbana presso l’Università Mediterranea
di Reggio Calabria.
Nominato nel 1985 dal ministro francese Jack Lang, Officer de
l’Ordre des Arts et des Lettres de la Republique Francais. Membro
del Comitato Scientifico di UBU Libri e Direttore della rivista
di architettura Controspazio. Scrive di teatro e di architettura
sui quotidiani L’Unità e Il Manifesto.
NOTES
LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
23 OTTOBRE
IV SESSIONE_ORIZZONTI IMMAGINIFICI
1_Strategie per lo spazio pubblico, Bruxelles
Il titolo della mia relazione è Una città senza nome.
Confesso di non sapere perché sono passato dall’articolo
determinativo all’articolo indeterminativo, non credo
esista nessuna particolare ragione. In realtà l’avrei chiamato
altrettanto bene La città senza nome.
Dare un nome alle cose è molto importante... è
importante per gli esseri umani, ognuno si dà o gli
viene dato un nome, che diventa l’elemento riassuntivo
dell’identità, dell’individuo; ed è importante anche per le
città.
Elias Canetti, grande autore del Novecento, afferma
addirittura che è solo quando ha un nome che la cosa
esiste pienamente. In qualche modo, qualcuno l’ha
già osservato anche in questa sede, è in sintonia con la
tradizione originaria del pensiero giudaico-cristiano. C’è
il vangelo di Giovanni - è stato già citato - in cui si legge
“in principio era il verbo”, e ancora “il verbo era presso
Dio”, “il verbo era Dio”. E, se il verbo è Dio, l’atto della
creazione coincide col fatto che si nomina una cosa. Se la
cosa non ha un nome, la cosa non esiste.
Cosa c’entra questo con la città? Io sono romano e,
diciamo, Roma ha un mito fondativo esemplare i cui
protagonisti sono Romolo e Remo, una coppia di gemelli
che riprende quella mitologica di Castore e Polluce, dei
quali uno solo è immortale e l’altro è destinato a morire;
e quindi è ovvio che Remo soccomba a Romolo… uno
soccombe all’altro, perché, nel momento in cui Romolo
dà un nome alla città, recintandola, il fratello lo irride
saltandone le mura, che sono ancora delle mura virtuali…
La città, un tempo, era facilmente identificabile
dall’esistenza delle mura: le ultime grandi mura di città
che siano state abbattute, se non sbaglio, sono quelle
di Pechino abbattute da Mao Ze Dong nel 1950, nel
momento stesso in cui la rivoluzione cinese s’è affermata.
Da allora, in poche città del mondo è accaduto lo stesso.
E Mao Ze Dong, (se non ricordo male, perché queste
memorie marxiste sono ormai quasi sepolte, più o meno
volontariamente), proclamò che abbatteva le mura di
Pechino, perché la campagna potesse entrare nella città.
Mah… poche profezie si sono così rovesciate nel loro
esatto contrario. Perché, oggi la caratteristica fondamentale
delle città, di qualsiasi città, è che non ci sono le mura
e che la città ha invaso la campagna. Non è accaduto il
contrario, come pensava la rivoluzione cinese agli inizi.
E poi, questo tema della campagna: qui siamo in Puglia,
pensiamo ad Araldo di Crollalanza, alla bonifica delle terre
incolte… anche qui è successo esattamente il contrario.
So che mio padre Roberto ha costruito, insieme a Giorgio
Calza Bini, nel 1940, nel quadro della bonifica integrale,
la città di Incoronata, vicino Foggia: ebbene, oggi è Foggia
che si è espansa ed ha raggiunto la città di Incoronata, non
è successo il contrario.
La città, quindi, oggi non può essere delimitata e allo
stesso tempo non sappiamo più cos’è ‘città’. Se andiamo
in macchina, l’ho anche detto nel filmato che avete visto
questa mattina, da Rimini a Pescara, ci troviamo davanti
ad un continuum costruito, dove non c’è distinzione tra
ciò che è urbano e ciò che non è urbano. Tornasse in vita
Engels, non ci capirebbe più granché: il conflitto tra città e
campagna s’è risolto con la liquidazione della campagna.
Ma, c’è qualche osservazione in più che dobbiamo fare.
Se la città si dissolve, perdendo compattezza e allo stesso
tempo diventando un continuo costruito che inghiotte
la campagna; allo stesso modo le mura della propria casa,
dell’abitazione domestica, del luogo per molto tempo
considerato inviolabile, il fondamento dell’esistenza
privata dell’individuo, le mura di casa nostra, vengono
sistematicamente penetrate dalla televisione, se non anche
da internet.
Volontariamente usiamo la nostra abitazione e la
spettacolarizziamo e la mettiamo in collegamento col
mondo. Contemporaneamente, dobbiamo osservare uno
strano fenomeno, per cui lo spazio pubblico si privatizza;
io da molti anni abito a Trastevere, a Roma, e gli amici
li incontro, diciamo, più facilmente ai supermercati.
Una volta all’Sma, una volta al Dì per Dì, o alla Standa:
non li incontro più tanto in piazza. Il comune di Roma
ha bandito un concorso per piazza San Cosimato: è
uno dei non troppi concorsi a cui ho partecipato, ed ho
anche ricevuto una menzione d’onore per la qualità della
soluzione architettonico-urbanistica; però, m’è molto
dispiaciuto ma ha vinto un altro gruppo. Quindi, è poco
elegante che io lo critichi, però vedo qualche collegamento
tra quell’intervento realizzato, ed il fatto che rimane
difficile incontrare gli amici a Piazza San Cosimato, ed
è più facile incontrarli nei supermercati. Lo sento come
se lo spazio pubblico si sia privatizzato. O, ad essere
pessimisti, si sia dissolto, o si stia dissolvendo… Non so,
il teatro in Trastevere è diventato cinema e quanto tempo
a lungo potrà resistere ancora come cinema? I cineclub
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Sono cresciuto proprio come un animale urbano liberato
dalla gabbia; e credo che questo mi abbia aiutato ad
immaginare l’Estate Romana… Che è stata molto
importante, perché, in controtendenza in un periodo
in cui tutti invitavano a chiudersi in casa per paura del
terrorismo, ho invitato la gente ad uscire; per di più, credo
che molti giovani che avrebbero probabilmente ingrossato
le fila delle brigate combattenti per una causa sbagliata,
abbiano, divertendosi alle maratone cinematografiche di
Massenzio e agli altri appuntamenti dell’Estate Romana,
cominciato a capire che lo scopo fondamentale della vita
non è quello di ammazzare il nemico, ma è quello di
viverla. E questo, credo, dovremmo ricordarcelo anche
oggi, quando la situazione somiglia per molti versi a quella
della fine degli anni Settanta, per la tensione, per l’odio,
che almeno da una parte traspare; soprattutto quando
la parte che soprattutto odia si autoproclama il partito
dell’amore. Insomma, sembra l’invasione degli Skrull
nell’Universo Marvel, che avviene all’insegna delle parole
“lui ti ama”. Io, quando lo sento dire riferito a quell’uomo,
mi preoccupo. Non credo lui ci ami più della Regina degli
Skrull che ci voleva distruggere e ho paura.
In questa situazione, credo sia importante ricordarci che
la vera casa di un essere umano è, almeno un poco, anche
tutta la città… e dobbiamo avere la capacità di ridare un
nome alle cose, di ridare alla piazza il valore della piazza,
di restituire al luogo di incontro, al cinema, al teatro i
significati che gli sono propri. Non è una cosa facile.
È molto bello tutto il lavoro progettuale che si fa sui loghi
ma mai un logo, mai un brand potrà sostituire la città. È
un progetto più complesso quello che dobbiamo fare.
Ricordo, come esempio, che ci sono stati dei fenomeni
strani a Roma. Parlo di Roma perché la conosco meglio.
C’è stato, prima ancora del periodo in cui Roma è stata
riempita di cartelli con l’indicazione ‘Auditorium’, una
meravigliosa dimostrazione di come Freud avesse letto
con acutezza la fragilità della nostra psiche, Sindaci
compresi. Nel 1990, Mondiali di Calcio, ci fu il periodo
in cui chiunque arrivava a Roma, da qualunque parte
arrivasse, trovava il cartello che indicava ‘Stadio’. Non si
parla male di Carraro perché è come sparare sulla Croce
Rossa, ma Franco Carraro Sindaco di Roma nel 1990
immaginava che, siccome c’erano i mondiali di calcio a
Roma, Roma sarebbe stata invasa da una folla di turisti
che domandavano tutti ansiosi: ‘dov’è lo stadio?’ Non
posavano nemmeno le valigie in albergo, andavano
direttamente all’Olimpico per vedere le partite di calcio.
Ma analoghe deformazioni le ha avute un altro sindaco di
Roma, che ha preso il posto proprio di Carraro, Francesco
Rutelli: che ha bandito un concorso intitolato ‘Cento
piazze’. Come se, il problema di una piazza romana
sia quello di avere un architetto in più, di segnare col
travertino la cigliatura delle aiuole, di ripavimentare con
i sanpietrini, introdurre degli elementi d’arredo urbano,
rifare il disegno dei lampioni. Questa è una cosa che non
funziona, che non può funzionare. Perché il problema
dello spazio pubblico non è una questione che riguarda
solo l’architetto, non è un problema tecnico. Ma è una
questione che riguarda invece il cittadino, la capacità che
passa per la capacità complessiva di noi tutti, di dare allo
spazio pubblico il significato di spazio pubblico. È un
problema di visione e di progetto politico.
Che cosa dobbiamo fare? Io, credo come tutti, non lo so,
nel senso che non ho una ricetta. Non sarei in grado di
proporre oggi una soluzione. Credo anche che quella che
ho proposta a Roma alla fine degli anni settanta, fosse
legata a tante cose che non ci sono più o comunque sono
molto cambiate. Ad esempio allora non c’era la televisione
privata e quindi nasceva questa grande nostalgia del film
che si era visto e non si poteva più rivedere… era una
nostalgia che oggi non è così forte, perché posso andare da
una Feltrinelli o in altro posto simile e comprarmi il mio
DVD e guardarmelo a casa.
Bisogna trovare un’altra cosa (l’effimero dell’estate
romana non basta, non ha mai voluto essere un modello),
inventare qualcosa di nuovo. Penso che dobbiamo
muoverci in questo modo, pensando con una mentalità
che vorrei definire ‘situazionista’. Penso che Guy Debord,
ancora adesso, abbia grandi ragioni: in un’epoca in cui
i progetti sono deboli, bisogna progettare le situazioni,
nel senso che sulle situazioni si può intervenire. Si può
intervenire, se si riesce ad avere quel distacco che si
deve mantenere dai coinvolgimenti viscerali, se si riesce
a prendere la distanza dalla propria maschera sociale e
tentare in questo modo di affermare una propria identità
non conformista. Penso alla ‘rivolta’ di Albert Camus…
Non è un fenomeno che riguarda solo l’Italia, anche di
questo dobbiamo essere consapevoli: nell’87 il comune di
Los Angeles mi ha invitato in quella città e, arrivato, ho
trovato grandi rassegne stampa che parlavano di un certo
Nicolini, un comunista, che faceva uscire la sera la gente
a Roma, nel periodo del terrorismo. E loro volevano che
la gente uscisse la sera, anche a Los Angeles. Mi hanno
chiamato per questa ragione. Ho tenuto, dopo un mese
di soggiorno, in cui ho girato tutte le parti di L.A., dalle
Watts Towers di Sam Rodia alle prime case in cemento
armato di Wright, da Santa Monica al Disney Auditorium,
un symposium, dal titolo Los Angeles after dark: dream or
reality? E alla fine ho risposto: “Nightmare”. Questa era la
sola possibilità, per una città che vedeva lo spazio pubblico
solo come un percorso, luoghi per cui passare, non luoghi
in cui fermarsi. Dove tutto era rigorosamente separato, i
coreani dai cinesi, dagli afroamericani, dai messicani…
Infatti, solo un anno dopo, dopo il fallimento della mia
visita come possibile medico, - non mi sono mai saputo
organizzare bene dal punto di vista professionale - sono
scoppiati i disordini di Los Angeles, i riots…
Voglio dire che i problemi che abbiamo in Italia, li
abbiamo in tutte le parti del mondo. Esistono anche
in Francia per esempio. In Francia c’è una politica
assimilazionista: l’immigrato lì non è guardato come un
pericoloso criminale che ‘abitualmente delinque’, e però
anche lì s’è creato una situazione di rivolta urbana. Io
conosco bene la banlieu parigina, e, dal punto di vista dei
servizi non c’è paragone con quella di Roma. Nanterre,
Aubervilliers, sono sedi di Teatri Nazionali… Bobigny, che
è meno conosciuta, ha comunque un complesso di sale
teatrali e spazi culturali straordinario (dove hanno portato
spettacoli Lepage, Lucio Dalla, Peter Sellars…), tanto che
il Petruzzelli - cui auguro una grande ripresa - ne avrà da
fare di strada per arrivare allo stesso livello. E però, anche
lì i disordini ci sono stati…
È un problema molto complicato, di fronte al quale
che può fare un progettista? Evitare di bloccarsi sulle
pregiudiziali ideologiche, di irrigidirsi in narcisistici
dilemmi, e creare invece situazioni. E magari capire che
alcuni modelli un tempo accreditati sono ormai falliti.
Per esempio la città d’autore… Brasilia è stata fondata
per un sogno di S. Giovanni Bosco, che aveva sognato
che la capitale del Brasile si sarebbe costruita nel centro
geografico esatto del Brasile: così l’hanno realizzata il
21 aprile del 1950, anno Santo e Natale di Roma. Io ci
sono andato per un progetto dell’Estate Romana 1982,
inseguendo il Ministro del Piano, dott. Pecora, italo
brasiliano, che doveva darci dei soldi del viaggio a Roma
della batteria della scuola di Samba, Imperio Serrano, che
quell’anno aveva vinto il Carnevale di Rio. Non l’abbiamo
trovato a Rio, né a Bahia, né a Brasilia ma a San Paolo…
A Brasilia abbiamo invece incontrato il Ministro della
Cultura, il quale ci ha ricevuto in uno di questi bellissimi
edifici, e durante l’incontro ci ha confessato: “quant’è
difficile abitare in un’opera d’arte”. Ed ha ragione: è
veramente difficile abitare in un’opera d’arte!
Le città d’autore falliscono… Ci possono essere edifici
eccezionali, ma la città non ha, non può avere la
caratteristica della città d’autore. Questo significa, anche,
che le città d’arte sono in crisi, più Roma che Bari.
Dappertutto, dove c’è città d’arte - è sotto gli occhi di
tutti - spuntano le griffe, i brand, tutte cose inopportune
e impertinenti. Le griffe non risolvono il problema, lo
aggravano. Forse sta svanendo quel periodo in cui s’è
pensato di poter costruire delle città irreali, Dubai, per
esempio o Abu Dabi; si sta diffondendo però la nostra
tendenza a comportarci come cyborg: oggi casa è dov’è
il nostro cellulare. Se si smarrisce il cellulare, si perdono
gli indirizzi, è una catastrofe. Come perdere il computer.
Dobbiamo capirlo, questo…
Quando sento parlare di non luoghi, penso anche, per
contraddizione, al fatto che pochi luoghi hanno tanta
identità quanto le fermate della metropolitana di Mosca
di Stalin, e tanto pochi hanno invece non identità come i
centri commerciali che sono stati costruiti dopo la caduta
del comunismo. C’è qualcosa che non funziona. Nel senso
che, dovrebbe essere, a dirla tutta, esattamente il contrario.
Potrei andare avanti a lungo, ma non so, è meglio arrivare
alle conclusioni finché l’uditorio non s’è annoiato.
Volevo concludere, partendo da una riflessione da
architetto: il modulor di Le Corbusier, una teoria del
secondo dopoguerra che è anche un estremo tentativo,
perché nelle proporzioni del modulor di Le Corbusier
ritorna la sezione aurea, e quindi ritorna tutto quel passato
meraviglioso che noi abbiamo sempre amato, la cultura
classica.
Io ho avuto una formazione culturale assolutamente
sbagliata: mi sono formato con i libri della BUR,
Biblioteca Universale Rizzoli, perché costava poco
e pubblicava tante cose. Ma ne ho desunto anche il
pregiudizio, non so perché, che il libro fosse tanto più
bello, quanto più fosse antico. Per cui ho cominciato,
capendo pochissimo è vero dati i miei dodici anni, la mia
carriera di lettore leggendo Cicerone, Eschilo, Sofocle,
Monsignor Della Casa, La Secchia Rapita del Tassoni, il
Machbeth di Shakespeare… tutti questi classici… cosa
c’è di più bello la sera per rilassarsi, lo penso ancora oggi,
del leggere un canto de La Gerusalemme liberata, via! È
bellissima, se non l’avete letta lo dovete fare. C’è questa
storia, meravigliosa tra Armida e Rinaldo (non come
quei due scemi di Clorinda e Tancredi, che per amore
si ammazzano, e poi il grande piacere di Tancredi è
battezzare Clorinda morente, mi vengono i brividi quando
ci penso)…
Nella Gerusalemme liberata, invece, Armida addirittura
dice ad un certo punto: ‘chi mi ammazza Rinaldo, avrà
il mio corpo.’ Fa di tutto pur di ammazzarlo, gli scaglia
contro una freccia che ne fa vibrare a lungo lo scudo
ma non ci riesce perché si amano… E poi alla fine, - e
credo sia questa la vera ragione per cui il povero Tasso è
stato sbattuto in prigione - felici e contenti se ne vanno
via: Rinaldo prende in sella Armida, la pretesa maga
pericolosissima, e va con lei a conquistarle un nuovo
regno. Questo per dire che la cultura classica è bellissima,
come si fa a non amare le proporzioni? Io vorrei davvero
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RENATO
UGO
LA PIETRA.
NICOLINI.
ABITARE
UNA
CITTà
LASENZA
CITTà.NOME.
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NOTES
LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
di Trastevere, molti sono chiusi. Intendendo come spazio
pubblico, anche i teatri, i cinema, i cineclub, che in senso
proprio non lo sarebbero, ci accorgiamo quanto lo spazio
pubblico si restringe.
E contro questo, io che sono un’animale urbano, voglio
dirlo, collegandomi a quello che di molto bello ha
detto Ugo La Pietra a proposito del fatto che dobbiamo
abitare la città, dobbiamo abitare i luoghi pubblici… c’è
un’osservazione che, nientedimeno, risale ad Eduardo
De Filippo: è una battuta chiave del suo testo più bello,
Napoli Milionaria. Riccardo, il ragioniere che è stato
sfrattato da Amalia, rispondendo a lei che dice: “beh
se non puoi pagare l’affitto devi andartene” - siamo nel
’43, ‘44 ma forse la situazione non è così migliorata da
allora - Riccardo, da personaggio di Edoardo, dice una
battuta molto bella: “un tempo la casa era nu poco tutta
la città… ma cambiare casa adesso, che appena uno
esce di casa si sente come uno straniero?”.Oggi invece
solo la nostra casa, possibilmente di proprietà, anche se
violata sistematicamente dalla televisione, ci sembra il
luogo dove possiamo sentirci sicuri. Appartiene sempre
di più al passato, al tempo dei centri sociali INA Casa, il
sentimento che la nostra casa non si fermasse all’alloggio;
che la vera casa fosse, almen un poco, tutta l’intera città.
Ancora prima di Ugo La Pietra, l’ha detto Eduardo…
Io, ripeto, sono un animale urbano. Sarà per quando
sono nato, durante la guerra, per cui i primi ricordi
della mia vita sono stati i bombardamenti che ci
costringevano a scendere di notte al rifugio (e - questo è
ovvio - hanno tinto d’insicurezza il modo in cui vivevo la
mia abitazione). Ho cominciato a vivere senza paura nel
momento in cui i bombardamenti sono cessati; e quindi
ho subito sentito - proprio fisiologicamente come prima
- come abitazione in cui mi sentivo sicuro tutta la città di
Roma. Per essere preciso: il mio quartiere prima, e poi la
città.
Il luogo pubblico è un luogo in cui si può stare con quella
stessa libertà con cui decidiamo di scegliere il percorso,
quando entriamo in un luogo.
Su questo tema, molte cose sono state fatte: pensiamo
a tutta la tradizione surrealista, la dérive, ecc. Sono
state scritte delle cose molto belle, da Walter Benjamin,
un mondo straordinario, forse passato. Oggi che cosa
possiamo fare, partendo sempre da questo punto di vista?
come possiamo, insomma, muoverci nella città con la
stessa libertà con cui decidiamo il percorso da fare in
un edificio? Questo è il problema che dovremmo porci.
Dovremmo porcelo tutti, architetti, sociologi… Perché, o
noi riusciamo a creare di nuovo un qualche fondamento
che ci unisce consentendoci anche il conflitto… Perché lo
spazio pubblico cosa significa? Valori condivisi, dunque
significa costituzione, significa civiltà. Se non c’è spazio
pubblico, tutto questo muore… diventa come le opinioni
di un talk show televisivo, in cui si fa gara a chi urla più
forte. E naturalmente, questo è molto lontano dalla ricerca
della verità.
Dobbiamo muoverci in questa direzione, in cui davanti
a noi incontriamo due grandi ostacoli: che sono già stati
descritti molto bene da due straordinari scrittori del secolo
passato: George Orwell e Aldous Huxley.
Orwell, con 1984, ci ha fatto riflettere sul Grande Fratello,
e mi fa un po' impressione ogni volta che voglio vedere il
Grande Fratello in TV, pensare che si chiama come quel
libro… e però ancora più pericoloso è il Meraviglioso
nuovo mondo, The brave New World, descritto da Aldous
Huxley che è uno scrittore forse ancora più acuto di
Orwell, nel capire i pericoli che ci minacciano. Perché
cos’è la prigione per gli uomini del futuro (coincidente col
nostro presente…) del mondo immaginato da Huxley? È
il piacere.
L’uomo, nella descrizione del futuro spaventoso
immaginato da Huxley, è prigioniero del fatto che è
continuamente stimolato sul livello più basso dei propri
desideri, delle proprie immaginazioni: restando stimolato
sempre sul livello più basso, finisce per restare prigioniero
all’interno di quel tipo di pulsioni. Quindi, non arriverà
mai a porre la questione del potere, o di un’altra, diversa
organizzazione della società: è tanto felice che non riesce
a progettare e quindi è completamente maturo per
un’invasione Skrull al grido di “lui vi ama”.
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UGO
LA PIETRA.
NICOLINI.
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LASENZA
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LA CITTà SENZA NOME.
SEGNI E SEGNALI NEL PAESAGGIO
CONTEMPORANEO.
che l’uomo fosse misura di tutte le cose. Io, quando posso,
la mattina, quando faccio ginnastica, cerco di mettermi
in posizione, ricordando Cesare Cesariano, Vitruvio, il
cerchio, il quadrato, il mio ombelico come il centro della
misura proporzionale…
C’è un articolo molto bello di Giuseppe Vaccaro, un
architetto anche lui straordinario, che dice: “bella
quest’idea di Le Corbusier, de le modulor, delle
proporzioni!” però le proporzioni in architettura
a differenza dalla musica, non seguono una legge
prestabilita. Quando un uomo entra in una chiesa, in
un teatro, quando cammina per una strada o vive nella
propria abitazione, non segue lo stesso percorso, non lo
ripete identico tutte le volte. E allora? Dove vanno a finire
questi rapporti proporzionali su cui c’ha intrattenuto Le
Corbusier?
Sono rapporti che si sovrappongono all’uomo, che
compaiono per frammenti come valori estetici, ma
in qualche modo estranei agli aspetti essenziali della
sua esperienza. E quindi via, arrivederci, dobbiamo
dimenticarcelo - io dovrò smettere di leggere la
Gerusalemme liberata - e dobbiamo mettere in soffitta
l’idea che l’uomo sia misura di tutte le cose. E quindi,
ritorna Elias Canetti, perché se l’uomo non è misura di
tutte le cose, dobbiamo indagare su una cosa straordinaria:
l’individuo nel momento in cui si smarrisce.
Canetti ricorda una sua esperienza da giovane, in cui a
Vienna c’era stata una delle tristemente ricorrenti vicende
per cui, la polizia insomma, aveva sparato sugli operai.
Quindi c’è un corteo, Canetti partecipa a questo corteo
che ad un certo punto prende la direzione del Palazzo
di Giustizia e finisce per incendiarlo. Canetti da allora si
terrà sempre lontano dalle manifestazioni di massa, - cosa
che non c’è bisogno di fare, si possono fare benissimo
i cortei ma non c’è bisogno di incendiare i palazzi perché comincia a riflettere sul perché ha partecipato a
quell’incendio. Capisce che c’è una tendenza della massa
a inglobare in sé l’individuo e io credo che su questo
dovremmo un po' ragionare. Nel senso che quando
parliamo di luogo pubblico, non deve intendersi quello
dell’adunata, e nemmeno quello della manifestazione,
magari anche quelle belle, in cui ci si stringe al compagno
per sentirsi una sola cosa…