Omar-Nuovo, Aprile 2006 - Anno IX

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Omar-Nuovo, Aprile 2006 - Anno IX
Aprile 2006 - Anno IX
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OMAR
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per iodico di cultura e di vita dell’insieme omar ista
(I.T.I. Omar, Associazione Omaristi, Fondazione Omar)
seguito de “l’OMAR” fondato nel 1963 da Luigi Buscaglia
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SOMMARIO
OMAR
nuovo
periodico di cultura e di vita
dell’insieme omarista
(I.T.I. Omar,
Associazione Omaristi,
Fondazione Omar)
seguito de “l’OMAR”
fondato nel 1963
da Luigi Buscaglia
“OMAR nuovo” n. 17
Aprile 2006 - Anno IX
Direttore responsabile
Dorino Tuniz
Direttore
Marco Parsini
Comitato di Redazione
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Amministrazione
baluardo La Marmora, 12 - Novara telefono e fax 0321 33209
www.itiomar.net
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Iscrizione del Tribunale di Novara
al n. 2/98 del
Registro della Stampa Periodica
Questo fascicolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
Studi e informazioni culturali
B. CATANIA – I molti aspetti dell’informazione.
Parte I. Evoluzione della biosfera . . . . . . . . . . . . . . . . . .
D. BALZARETTI – Robot e tecnoetica:
un confronto tra tecnica, scienza e morale . . . . . . . . .
L. PEZZOLLA PAGANIN – La condizione femminile nell’antico Egitto:
C. CARPANI – L’avvento della stampa a Novara
2° - Storia della tipografia Sesalli . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
M. ROSCI – Divisionismo e impressionismo di Verdiano Quigliati
A. MERIGO – Sacri Monti, tesori d’arte e di fede . . . . . . . . . . . . .
Museo Valmaggia – Vivere tra le pietre.
Costruzioni sottoroccia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
M. MATTEI E ALTRI – La paciòliga.
Sapori, colori, onori della tavola di montagna . . . . . . .
G. ROMANO – “Il proverbio” e “Repetita iuvant” (poesie) . . . . .
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Istituto Tecnico Industriale Omar
F. ROMANO – Inaugurato il Museo di Archeologia Industriale
“G. Omar” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Fondazione Omar
Economia
L. MANFREDINI E ALTRI – Le novità fiscali
della legge finanziaria per il 2006 (in sintesi) . . . .
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Fondazione Tera
M. DASANJH E G. MAGRIN – Pieno successo del convegno
internazionale di Oropa sulle particelle subatomiche
in biologia e medicina e sulla terapia adronica . . . . .
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Club Donegani
Programma attività 2006 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Spigolature
Giochi matematici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
G. CAPROTTI – Viaggio di “bozze” ovvero…
negli errori di “stumpa” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Le opinioni degli Autori
non impegnano la Direzione
La rivista non è in vendita
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Questo fascicolo…
Formidabile. Così si può definire l’articolo-lezione dell’ing. Basilio Catania “I molti aspetti dell’informazione”. L’avvento dell’era dell’informazione, succeduta a quella dell’energia, ci propone antiche e
nuove riflessioni sui molti aspetti e significati di ciò che noi chiamiamo “informazione”.Viene considerata sia l’informazione a sé stante, cioè avulsa da ogni supporto materiale, sia l’informazione che si
manifesta – legata o scambiata – nella materia inanimata e nella biosfera, per coglierne un significato comune ed essenziale. Il tema, che ha quasi un aspetto filosofico, viene proposto in due parti: su
questo fascicolo la prima parte che riguarda l’“Evoluzione della biosfera”; sul fascicolo successivo la
seconda parte su “Evoluzione della materia inanimata – Fuori dallo spaziotempo”. Il lavoro è dotato di
una ricca bibliografia.
Nel dotto articolo “Robot e tecnoetica: un confronto tra teoria, scienza e morale” il prof. Dario Balzaretti fa profonde riflessioni permeate di molta cultura umanistica e di filosofia; è un saggio da leggere
con molta attenzione e da meditare.
“La condizione femminile nell’antico Egitto” è brillantemente descritta dalla professoressa Laura Pezzolla Paganin. È sorprendente rilevare il grande potere e la dignità della figura femminile nell’antico
Egitto dei faraoni, non riscontrabili in nessun’altra civiltà contemporanea o successiva.Anche oggi, nei
paesi più evoluti, le donne hanno raggiunto la libertà e i diritti delle egizie, ma limitatamente ai settori politico, sociale ed economico; nel campo religioso i vertici toccati dalle egizie non sono mai più
stati raggiunti dopo la fine della civiltà faraonica.
De “L’avvento della stampa a Novara” della dottoressa Chiara Carpani viene riportato il 2° capitolo
“Storia della tipografia Sesalli”, la prima ad operare a Novara, durante il marchesato dei Farnese.
Verdiano Quigliati è uno dei grandi maestri contemporanei del divisionismo e dell’impressionismo che
ha recentemente esposto a Novara. Di lui e della sua arte ci parla il prof. Marco Rosci, docente della
Facoltà di Lettere dell’Università del Piemonte Orientale e critico d’arte de “La Stampa”.
Annarita Merigo sta per conseguire la laurea in ”Studi e gestione dei beni culturali con indirizzo archeologico e storico artistico” alla Facoltà di Lettere dell’Università del Piemonte Orientale. Già presidente della Nuova Regaldi, è competente e appassionata cultrice di arte sacra e grafica; lo dimostra nell’articolo “Sacri monti, tesori di arte e di fede”.
Per la cortesia del sig. Aron Piezzi, curatore del Museo di Valmaggia (Canton Ticino, Svizzera), si è potuto avere il materiale per l’articolo “Vivere tra le pietre – Costruzioni sottoroccia” che testimonia vita
ed opere, ammirevoli per semplicità e funzionalità, della civiltà alpina. Il Museo di Valmaggia, inaugurato nel 1963, è attivo nella salvaguardia e nella valorizzazione del patrimonio etnografico valmaggese e ha promosso una straordinaria ricerca sulle costruzioni sottoroccia censendo oltre 1600 siti
che evidenziano una sorprendente capacità di adattamento alla montagna.
“La paciòliga” è un gustoso articolo su “sapori, colori, onori della tavola di montagna” nato nell’Amministrazione Comunale di S. Maria Maggiore (VCO), prevalentemente ad opera della dott.a Monica
Mattei. Non mancano piacevoli riferimenti su quanto il tema del cibo e della buona cucina sia stato
oggetto di attenzione da parte di letterati, musicisti, pittori.
Il “Museo di Archeologia Industriale G. Omar” è finalmente stato inaugurato: ce ne parla il preside ing.
Francesco Romano.
Nella rubrica di economia e finanza della Fondazione Omar, il dott. Luca Manfredini e Altri illustrano le
novità fiscali della legge finanziaria per il 2006 (in sintesi).
Concluso l’importante convegno internazionale di Oropa (BI) promosso dalla Fondazione Tera, i dottori Manjit Dosanjh (Cern) e Giulio Magrin (Tera) fanno il punto sulle terapie con ioni di carbonio.
Gli omaristi sono sempre stati legati alle iniziative culturali del Club Donegani, Associazione di Ricercatori dell’Istituto Guido Donegani. Pertanto, si riporta il programma delle attività 2006 di detto Club.
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Non solo contatti commerciali, ma anche innovazione, aggiornamento e comunicazione: Elettrica 2006 é una fiera di successo giunta ormai alla sua terza edizione considerata dagli addetti ai lavori
un punto di riferimento per conoscere i nuovi impulsi del mercato.
La sua sede nel cuore del nord ovest é una scelta strategica che intende ribadire in un momento di grandi trasformazioni e di situazioni particolari del mercato la necessità di dare un segnale di presenza e di volontà di agire, oltre a un forte impulso
per il territorio. Dal 30 marzo al 2 aprile 2006 la
fiera Elettrica ha rappresentato il punto di riferimento per il settore elettrico, elettrotecnico e
illuminotecnico: per quattro giorni, gli operatori hanno potuto visitare i padiglioni preallestiti
nella zona sportiva di viale Kennedy a Novara
e incontrare più di un centinaio di espositori tra
i maggiori costruttori nazionali e internazionali
in una superficie espositiva di oltre 4000 m2.
Quest’anno inoltre, oltre ai settori tradizionalmente ospitati, è stata
riservata un’attenzione particolare al settore dell’illuminazione, davvero in forte espansione con la presenza di espositori qualificati, incontri tecnici e importanti convegni.
Novità! Elettrica, oltre al patrocinio della Regione Piemonte, della
Provincia e del Comune di Novara, ha potuto godere dell’importante patrocinio del Ministero delle Attività Produttive, della FNGDME (Federazione Nazionale Grossisti Distributori di Materiale Elettrico) e di altri organismi istituzionali.
Studi e informazioni culturali I molti aspetti dell’informazione
Parte I: evoluzione della biosfera
Basilio Catania (*)
L’avvento dell’era dell’informazione, succeduta all’era dell’energia, ci propone antiche e nuove
riflessioni sui molti aspetti e significati di ciò che
noi chiamiamo “informazione”. In questo lavoro –
tratto da due conferenze tenute dall’autore presso l’Associazione Elettrotecnica ed Elettronica
Italiana (oggi AEIT), Sezione di Milano, rispettivamente il 13 marzo e il 10 aprile1986 – è considerata sia l’informazione a sé stante, cioè avulsa
da ogni supporto materiale, sia l’informazione
che si manifesta – legata o scambiata – nella materia inanimata e nella biosfera, nell’intento di coglierne un significato comune ed essenziale.
scenza, quindi di informazione, dato che la conoscenza è fatta di informazione.
In altre parole, stiamo vivendo la cosiddetta era
dell’informazione (chiamata anche era postindustriale), avendo praticamente abbandonato l’era
dell’energia, o era industriale, quest’ultima a sua
volta succeduta alle ere in cui gran parte della forza
lavoro era essenzialmente dedita all’agricoltura o
semplicemente a procacciare cibo per sé e per gli
altri. In conseguenza, gli sforzi della tecnologia sono
oggi prevalentemente volti a procurarci l’estensione
della mente, più che l’estensione dei muscoli, come
fatto in passato.
Introduzione
Con l’avvento e l’uso generalizzato dei computer,
cioè del settore dell’informatica, l’importanza dell’informazione è cresciuta al punto che la maggior
parte della cosiddetta forza lavoro è impegnata oggi nel cosiddetto settore terziario, a scapito della
quota impiegata in industria e in agricoltura, anche
perché ambedue beneficiano della cosiddetta robotizzazione consentita dai computer. Ciò significa
che il valore globale della “merce” scambiata oggi
non è che in minima parte rappresentato da prodotti industriali o agricoli, cioè da prodotti che potremmo definire materiali o energetici nei nostri confronti, ma da prodotti prevalentemente immateriali, contraddistinti da elevati contenuti di informazione e/o
da elevate capacità di scambio di informazione.
Questo scambio, come noto, può essere attuato tra
gli esseri umani direttamente, cioè senza l’ausilio di
supporti intermedi o “media” come si chiamano oggi 1, ovvero utilizzando svariati supporti come carta,
nastri magnetici, dischi, fotografie, film, ecc., con o
senza mezzi di telecomunicazione interposti. L’aspetto forse più rilevante è che noi stessi (o almeno
la gran parte dell’odierna forza lavoro) siamo impegnati principalmente come trasformatori di cono-
(*) Dr. Ing. Basilio Catania, già Direttore Generale del Laboratorio di ricerca di Telecom Italia (CSELT), Torino.
1
Anche se, nell’uso corrente, si pronuncia “midia” all’inglese,
vorrei ricordare che “media” è un nome latino, che si pronuncia
come scritto.
Fig. 1 – Informazione pura e informazione legata o
scambiata nei vari stadi di aggregazione della materia.
Tuttavia, esistono altri campi in cui l’informazione
– intesa nel senso matematico di rimozione del dubbio – gioca un ruolo altrettanto importante, che desidero portare alla vostra attenzione. Essa, infatti,
oltre che essere legata agli esseri umani e più in generale agli esseri viventi e loro associazioni di varie
dimensioni e complessità (che potremmo genericamente chiamare “società”) è anche presente nelle
strutture inanimate – da quelle più complicate come
i cristalli fino alla più elementare particella subnucleare – ed infine può anche concepirsi come entità
astratta e libera, cioè non legata ad un particolare
supporto materiale (Fig. 1).
I “gap” della evoluzione complessiva dell’universo si stanno colmando a poco a poco ed è emozionante vedere delineare un meraviglioso quadro d’insieme, che non può non lasciarci stupiti per la semplicità dei principi dai quali sembra essere nato. Con
questo lavoro, vi propongo di fare un viaggio a ritroso nel tempo, partendo dal presente, per scoprire
dove e in quali forme si annida e quale ruolo ha giocato l’informazione, durante l’evoluzione del nostro
Universo.
Il mio proposito, per la verità molto ambizioso, è
quello di dimostrare come questa entità immateriale
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Fig. 2 – Il viaggio
dell’informazione
nello
spaziotempo:
dalla materia
inanimata
alla biosfera
– l’informazione – si manifesti legata (direi incatenata) o scambiata, sia negli esseri biologici (biosfera), e nell’uomo in particolare, che nella materia inanimata e più in generale nell’energia, quasi come
se, sbucata da un superuniverso, le fosse montata
in groppa, continuando a cavalcarla fino ad oggi, a
partire dai primordi, quando la materia emergeva
dal vuoto quantico sotto forma di punti privi di dimensioni.
Per comodità, divideremo il nostro viaggio in tre
parti, partendo dal presente, e cioè (Fig. 2):
1. Evoluzione della biosfera
2. Evoluzione della materia inanimata
3. Fuori dallo spaziotempo, cioè prima dell’“istante di Planck” 2.
L’Evoluzione della biosfera, cioè degli esseri viventi, è quella più vicina al presente ed ha avuto origine poco dopo la formazione del sole e della terra,
avvenute intorno a 5 miliardi di anni fa (t ≅ –5 Ga 3,
Come noto, prima del cosiddetto istante di Planck cessa la
validità della gravità e dello spaziotempo e dominano gli effetti
quantistici. Pertanto, non ci è possibile misurare, quindi conoscere, gli eventi accaduti nell’intervallo di tempo compreso fra il
Big Bang e l’istante di Planck, il cui valore è di circa 10–43 s, come
sarà dimostrato più avanti. Tale barriera alla conoscenza dei
suddetti eventi si suole denominare Barriera di Planck.
2
3
1 Ga è pari a un miliardo di anni.
Chi desiderasse approfondire il tema delle datazioni può
consultare, ad esempio, la “Cambridge Encyclopaedia of Archaeology” [1] o la “Timescale” di Nigel Calder [2].
4
5
L’incertezza sulle origini della vita cresce se si considera l’origine della vita nel cosmo, poiché è stato ipotizzato da alcuni
che qualche molecola organica, progenitrice della vita sulla terra,
possa esservi arrivata da fuori del sistema solare.
6
Omettendo gli eventi relativi alla materia inanimata, i quadratini riportati in figura corrispondono a: 3 - nascita del DNA (vita); 4 - nascita del sistema nervoso centrale (cervello); 5 - nascita dell’uomo; 6 - nascita della ragione (linguaggio evoluto); 7 nascita di Gesù.
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assumendo il presente come tempo zero). Si noti
che il famoso “Big Bang”, nel quale si colloca lo zero del tempo cosmico (scala inferiore), è situato a
circa 15 miliardi di anni fa (t ≅ –15 Ga), intorno a
10–43 secondi prima dell’istante di Planck.
Nella Parte II tratteremo l’Evoluzione della materia inanimata e faremo un brevissimo (e piuttosto ardito) cenno al ruolo (più che al viaggio) dell’informazione fuori dallo spaziotempo, ossia all’epoca in cui
lo spaziotempo non esisteva in termini percepibili.
Ciò accadeva al di là della barriera di Planck, che
preferirei chiamare barriera di Planck-Heisenberg
poiché, come vedremo più in dettaglio nella seconda parte, l’istante di Plance può essere calcolato tenendo in conto il principio di indeterminazione di
Heisenberg.
È pur vero che in questo viaggio ideale verso le
origini del nostro universo le tracce dell’evoluzione
si perdono qua e là, quasi come in un’autostrada in
costruzione, ma congiungendo idealmente i tratti visibili e guardando il cammino percorso dall’evoluzione da un’altezza sufficientemente elevata, vedremo come si possa delineare un quadro logico d’insieme abbastanza convincente. A tal fine non è importante la precisa datazione degli eventi (talvolta
discordante a seconda delle fonti), essendo sufficiente focalizzarci sulle fasi dell’evoluzione stessa e
sulla loro successione logica, più che sui precisi
istanti di passaggio tra una fase e la successiva 4.
Evoluzione della biosfera
Abbiamo riportato in Fig. 3 le fasi evolutive dell’universo secondo una scala logaritmica del tempo,
con lo zero posto idealmente al presente. Questo tipo di scala mostra più espanse le fasi vicine ai tempi odierni, e più compresse le fasi prossime all’origine dell’universo.
Queste ultime, infatti, si trovano, in Fig. 3, addensate in una piccola zona della decade compresa tra
–10 e –100 Ga. Quando, invece, come faremo nella seconda parte, cambieremo l’origine della scala
Fig. 3 – Le fasi
evolutive
della biosfera
dei tempi, ponendo t = 0 al Big Bang anziché al presente e invertiremo il senso di esplorazione, allora
risulterà compressa la storia dei giorni nostri, mentre si vedrà con grande dettaglio tutto ciò che è avvenuto negli istanti immediatamente successivi al
Big Bang.
In Fig. 3 si passa, da destra verso sinistra, da
una classificazione più macroscopica a classificazioni con maggior dettaglio. In particolare, si può
notare, all’estrema destra, la suddivisione dell’evoluzione dell’universo in due parti: Evoluzione della
biosfera ed Evoluzione della materia inanimata, dizione questa che preferiamo a quella, più usata, di
Evoluzione chimica, in quanto comprende anche fenomeni quantistici, come si vedrà nella seconda
parte.
L’evoluzione della biosfera è a sua volta suddivi-
sa in Storia della vita e Storia dell’uomo e della società. La prima inizia dalle prime forme di Vita nel
mare e prosegue con la Vita sulla terraferma. La seconda inizia dall’Evoluzione biologica degli esseri
umani e termina con la cosiddetta Evoluzione culturale, la cui origine si può identificare con la nascita
del linguaggio evoluto e l’avvento delle prime società, estendendosi fino ai giorni nostri. Le linee ondulate poste in corrispondenza delle origini della vita e delle origini dell’uomo vogliono ricordare la notevole incertezza circa la loro collocazione temporale 5. Infine, i numeri 3, 4, 5, 6, 7, riportati nei quadratini a sinistra della figura, riguardano eventi particolari, caratterizzati da una trascurabile probabilità di
accadere spontaneamente, sui quali è stato lungamente discusso nel lavoro [3], pubblicato in questa
stessa rivista 6.
Fig. 4 – La cellula,
unità fondamentale
della biosfera
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Fig. 5 – Nascita
della cellula
dal brodo primordiale
Una considerazione fondamentale riguardante
l’evoluzione della biosfera si deve a Jacques Monod, Premio Nobel per la fisiologia nel 1965, il quale afferma [4]:
È stata rivelata appieno la profonda e rigorosa unità in scala microscopica dell’intero
mondo vivente, cioè a partire dai batteri fino
alle società organizzate. Oggi si sa che dal
batterio all’uomo l’apparato chimico è essenzialmente identico – non simile – identico, come struttura e funzionamento.
Questa unità della biosfera è rappresentata dalla
cellula (Fig. 4). Essa è il costituente elementare di
qualsiasi essere biologico, sia che appartenga al regno vegetale che al regno animale, dal batterio all’elefante e fino all’uomo. Addirittura, negli esseri
unicellulari, come i protozoi, la cellula rappresenta
la più piccola e la più semplice unità vivente.
Tra i componenti della cellula, le proteine e il
DNA sono gli elementi (macromolecole) più importanti e, nello stesso tempo, più complessi e unici nel
loro genere. Infatti, mentre si può facilmente capire
come gli altri costituenti della cellula siano emersi
dal cosiddetto “brodo primordiale”, le proteine e il
7
Alcune di tali molecole sono state trovate su Marte dalla
sonda Viking.
8
In realtà il numero degli amminoacidi è molto superiore, ma
quelli usati per costruire le proteine sono solo venti, e sono quelli che erano a disposizione nel brodo primordiale al momento in
cui si sono formate le proteine.
L’RNA differisce lievemente dal DNA quanto all’alfabeto (costituito da adenina, citosina, guanina e uracile) ed inoltre è composto da una sola elica anziché da due.
9
10
Si tratta, in realtà, di uno “pseudo teorema”, poiché il rigore
matematico è temperato da diverse ipotesi non completamente
condivisibili alla luce delle moderne conoscenze.
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DNA hanno fatto disperare i biologi per capire in
qual modo e perché fossero comparse, nel giro di
soli (si fa per dire) 50 milioni di anni dalla formazione
della terra. Infatti, i primi batteri respiranti solfato sono datati a circa –4,4 Ga a fronte dei –4,45 Ga della
formazione della terra, trascurando l’ipotesi della
creazione di molecole organiche a partire dagli elementi pesanti prodotti nelle grandi fucine costituite
dalle stelle, anche diverse dal nostro sole, e di qui
giunte sulla terra sotto forma di polvere cosmica 7.
La Fig. 5 mostra in dettaglio il processo che ha
portato alla formazione delle proteine e del DNA –
ed alla conseguente nascita della cellula – a partire
dal cosiddetto “brodo primordiale”. Molteplici sono
stati i fattori scatenanti di questa trasformazione, tra
essi le scariche elettriche, le sostanze elementari
preesistenti, liquide e gassose, la radiazione solare
e, probabilmente, anche molecole organiche provenienti dall’esterno del sistema solare (polvere cosmica).
Per quanto concerne la formazione delle proteine, dobbiamo osservare che esse sono costituite da
catene lineari di amminoacidi, ripiegate più volte in
modo da formare una matassa, e che gli amminoacidi costituenti le proteine (cioè l’alfabeto delle stesse) sono in numero di venti 8. Gli amminoacidi sono
composti abbastanza semplici, essendo costituiti da
un minimo di 7 a un massimo di 23 atomi, e pertanto è comprensibile che si siano formati spontaneamente dal brodo primordiale. Esistono milioni di tipi
di proteine, da quelle più elementari, formate da un
centinaio di amminoacidi, a quelle più complesse,
comprendenti decine di migliaia di amminoacidi. Vedremo come la formazione delle proteine più complesse sia causata da un programma scritto nel
DNA.
Così come i venti amminoacidi di base costituiscono l’alfabeto per la costruzione delle pro-teine,
così quattro nucleotidi costituiscono l’alfabeto per la
costruzione del DNA (Fig. 6). I quattro nucleotidi (e
le loro abbreviazioni) sono: adenina (A), citosina
(C), guanina (G) e timina (T) e si presentano, lungo
la catena del DNA, a gruppi di tre (triplette), ogni tripletta avendo un preciso significato funzionale, come vedremo avanti. I nucleotidi sono disposti lungo
un’elica alla quale è contrapposta una seconda elica “complementare” contenete i nucleotidi “complementari” di quelli contenuti nella prima elica: precisamente, la timina è complementare dell’adenina e
la guanina è complementare della citosina. Le due
eliche insieme costituiscono la spirale del DNA. Il
DNA può contenere da poche unità a molti miliardi
di triplette di nucleotidi e, come nelle proteine, le
molecole più lunghe sono ripiegate più volte in modo da formare una matassa. La matassa del DNA
(completata da alcune proteine) viene comunemente denominata cromosoma. Nel caso dell’uomo (il
più complesso), la matassa del suo DNA, srotolata,
raggiungerebbe la lunghezza di due metri.
Per quanto detto, il DNA è il più esteso dei due
componenti fondamentali della cellula (proteine e
DNA), ed è unico per ogni essere vivente, del quale
trasmette i caratteri ereditari.
Inoltre, insieme al suo analogo, l’RNA 9, comanda
la fabbricazione delle proteine necessarie alla crescita e al funzionamento dell’organismo di ogni essere biologico.
Eugene Wigner, analizzando la probabilità di esistenza di una siffatta unità autoriproducentesi, giunse, nel 1961, alla enunciazione di un teorema10, da
allora in poi noto come “teorema di Wigner,” che afferma [5]:
Se l’interazione non è deliberatamente concepita per consentire la riproduzione, è infinitamente improbabile che esista un qualsiasi
stato del nutriente che permetta la moltiplicazione di un qualsivoglia assieme di stati che
comprenda un numero di stati molto più piccolo di quello degli stati possibili del sistema.
Fig. 6 – L’informazione genetica nella biosfera
è contenuta nella spirale del DNA
In parole più semplici, Wigner contestava la tesi
secondo cui il brodo primordiale degli oceani (la cui
temperatura doveva necessariamente essere compresa fra 0 e 100 °C) fosse stato capace di formare
la prima minuscola doppia elica polinucleotidica, sia
pure con l’aiuto dell’energia solare, delle scariche
elettriche, ecc. ossia una molecola capace di produrre “copie” identiche a se stessa, prendendo dall’ambiente quanto necessario alla sua autoreplicazione. Con tale affermazione, Wigner portava acqua
alla tesi della creazione, ossia dell’intervento di una
volontà esterna (divina) alla emergenza del DNA, e
quindi della vita, dal brodo primordiale. L’osservazione che fu fatta al teorema di Wigner è che una
probabilità infinitesima, associata ad un numero infi-
Fig. 7
DNA
del Virus
SV40
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nito di scelte, può dare un risultato non nullo e che è
sufficiente la formazione di una sola unità autoriproducentesi per aversi poi una crescita esponenziale
della stessa 11.
Nella Fig. 9, tratta dal lavoro [6], è mostrata la sequenza di nucleotidi di un DNA abbastanza semplice: quello del virus SV 40 12. Bisogna riconoscere
che questa ricostruzione è veramente suggestiva:
essa ci fa capire chiaramente come un DNA non sia
altro che un ordine scritto affinché l’essere che ne
deriverà sia costruito e funzioni secondo un programma prestabilito.
Tale programma è solo scritto con un alfabeto
“chimico”, cioè ACGT, anziché con un alfabeto fonetico o visivo.
È facile calcolare la quantità di informazione in
bit contenuta in un DNA, tenendo presente che ogni
tripletta è formata con un alfabeto di 4 nucleotidi e,
poiché ognuno dei 4 nucleotidi è individuato da 2
bit, ogni tripletta è individuata da 6 bit. Nel caso del
virus SV 40, il numero delle triplette è 1748, quindi
l’intero DNA è individuato da 10488 bit. In altre parole, il programma per costruire il virus SV 40 contiene un’informazione di circa 10 kbit.
Si noti, inoltre, che lungo la catena del DNA si
trovano ogni tanto triplette di servizio, che rappresentano identificazioni, interpunzioni, preamboli,
correzione di errori, ecc. Ad esempio: ATG indica
“inizio messaggio”, TGA “fine messaggio,” CCG “inizio DNA,” TAA “fine DNA” 13. I codici di inizio/fine delimitano tratti più lunghi del DNA, la maggior parte
dei quali rappresenta un “gene”, cioè il sottoprogramma del DNA relativo a parti o caratteristiche
della struttura complessiva dell’essere biologico,
oppure rappresenta singole istruzioni di “montaggio”, come la collocazione spaziale delle varie parti.
Jacques Monod [4] osserva che per le istruzioni di
montaggio occorrono, grosso modo, tanti bit quanti
ne occorrono per la specificazione delle parti componenti, quindi, nell’esempio del virus SV 40, circa 5
kbit sono dedicati alla descrizione delle singole parti e circa 5 kbit alla loro collocazione spaziale.
Ripetendo questa esercitazione per i DNA di svariati esseri biologici si può (Fig. 8) costruire una scala evolutiva “informatica” della biosfera che, come
d’altra parte ci si poteva aspettare, ricalca l’evoluzione temporale dell’universo. Da essa appare, infatti, che gli esseri più complessi sono proprio quelli che si sono formati più tardi, in quanto risultanti
dall’aggregazione di altri meno complessi. Si potrebbe dunque parlare di storia dell’aggregazione,
cioè del come siano emersi enti sempre più aggregati, cioè formati da enti più semplici preesistenti. È
stato calcolato che l’informazione genetica (DNA)
necessaria per costruire un essere umano è di 1010
bit.
Una volta individuata questa sorta di anamnesi
della complessità nella biosfera, vien fatto di domandarsi se non sia possibile completare la scala
evolutiva individuando aggregati da un lato molto
più complessi dell’uomo e dall’altro molto meno
complessi delle proteine. La risposta è affermativa
ed oltremodo interessante.
Gli aggregati di uomini non possono essere altro
che le società, a partire dalla famiglia, seguita dal
gruppo (il branco degli animali), come le prime
squadre di cercatori e cacciatori (hunters-gatherers)
fino ai villaggi, le città, le nazioni ed oggi alle unioni
di nazioni, come l’Unione Europea. I tre fattori aggreganti sono costituiti dalle “leggi” (anche non scritte, come i costumi) che si dà l’aggregato, dalla “comunicazione” fra i suoi membri e infine dalla “condi-
Fig. 8 – Anamnesi della complessità dell’universo
10 OMAR
nuovo
visione delle risorse energetiche”. Dunque, gli elementi che formano un aggregato mettono in comune l’informazione e l’energia e obbediscono ad un
insieme di leggi. Le leggi, secondo Hermann Haken
[6], rappresentano gli invarianti di trasformazione di
ogni processo evolutivo. Pensando alle società come a trasformazioni evolutive dell’uomo, con aggregazioni di ordine crescente, il numero di bit che ne
identificano la struttura cresce col crescere dello
stadio di aggregazione.
Verso l’altro estremo della scala (debordando
nell’oggetto della Parte II) si trovano anzitutto i cristalli ed i composti organici meno complessi della
più semplice proteina 14, quindi i complessi inorganici, le molecole, gli atomi e le particelle subatomiche,
identificati ciascuno da un numero decrescente di
bit, fino ad arrivare ai 6 quark e ai 6 leptoni, considerati finora i costituenti ultimi della materia.
I cristalli organici complessi possono essere individuati da un migliaio di bit 15. I cristalli inorganici,
che seguono subito dopo, possono essere individuati da alcune centinaia di bit e, al loro riguardo, è
interessante quanto afferma Jacques Monod che li
ritiene dotati di un determinismo interno (teleonomia) non molto diverso da quello degli esseri biologici, dato che ogni nuovo elemento aggregato al nucleo centrale, cioè al germe (o seme) da cui si forma il cristallo, conosce la sua collocazione spaziale,
cioè ubbidisce a un programma contenente le istruzioni di montaggio.
Sorvolando su molecole semplici e atomi (non riportati in figura), dobbiamo osservare che le particelle subatomiche, come il protone, il neutrone e l’elettrone, si possono presentare in forma legata o libera. Quando sono legati, contengono più informa-
11
Se si pensa che una singola mole di azoto (28 kg) possiede
una entropia (numero di stati possibili) di 1,5-1028 bit, si deduce
che l’entropia associata alla enorme massa del brodo primordiale sarebbe data da potenze di 10 di gran lunga più elevate. Pertanto, una probabilità, per quanto infinitesima, di formazione delle molecole del DNA, può dar luogo alla nascita di alcune di esse
e da queste scatenare il processo di autoriproduzione.
12
Si tratta di un virus presente nelle scimmie (Simian Virus
40), ma anche nell’uomo, spesso presente in forma latente e capace di indurre tumori. La struttura del suo DNA è stata identificata nel 1971 [7].
zione, in quanto all’informazione di struttura si deve
aggiungere l’informazione che li vincola ad un ambito prestabilito. Ad esempio, nel caso dell’elettrone
vincolato a un atomo, esso deve ruotare secondo
una delle orbite di Bohr e seguendo un certo ordine,
dall’orbita più interna a quella più esterna 16. Un aggregato contiene dunque maggiore informazione rispetto alla somma delle informazioni dei singoli costituenti, in quanto contiene l’informazione corrispondente ai vincoli imposti ai costituenti medesimi,
proprio come avviene nelle società rispetto agli uomini che la compongono.
È stato già osservato che la successione temporale degli oggetti individuati da un crescente contenuto di informazione, quindi da crescente complessità, come rappresentati in Fig. 8, corrisponde esattamente alla successione temporale della loro formazione durante l’evoluzione dell’universo, come
rappresentato in Fig. 3. Può sembrare una considerazione ovvia, ma non lo è se non si dà per scontato il fatto che l’universo sia evoluto dalla massima
semplicità alla massima complessità, attraversando
stadi intermedi tutti caratterizzati da complessità
crescenti rispetto allo stadio precedente.
Se accettiamo tale assunto, possiamo chiederci
che cosa esisteva al momento in cui è nato l’Universo. Riprenderemo questo discorso nella seconda parte, ma vogliamo anticipare che, contrariamente alla corrente convinzione che quark e leptoni
fossero i costituenti ultimi della materia, il fisico
israeliano Haim Harari [8] propose una nuova teoria
detta dei preoni, in base alla quale il costituente ultimo della materia sarebbe il rishone, che esisterebbe in due sole forme dette rispettivamente rishone T
e rishone V, più le rispettive antiparticelle, antirishone T e antirishone V. Pertanto, l’alfabeto delle particelle ultime elementari sarebbe costituito da due
elementi, ciascuno dei quali sarebbe perciò individuabile da 1 solo bit. Secondo la teoria di Harari,
quark e leptoni sarebbero costituiti da triplette di rishoni. In conseguenza, l’ultimo costituente elementare dell’universo sarebbe individuato dall’informazione elementare, cioè da 1 bit, che rappresenta la
scelta tra due forme equiprobabili 17. Ciò renderebbe
il grafico della Fig. 8 ancora più suggestivo.
Tornando alla biosfera, per completarne la de-
13
Pare che sia stato identificato anche un messaggio in codice che si traduce in un “orologio cellulare” che governa i tempi
dei passi del programma, morte compresa. Tuttavia, come si vedrà più avanti, eventi come la morte saranno anche influenzati da
fattori esterni all’essere biologico.
14
Il DNA si colloca più avanti delle proteine, potendo avere
più di tre ordini di grandezza di contenuto informatico rispetto ad
esse, come già accennato.
15
Non ci dilunghiamo sul modo in cui è calcolato questo numero, in quanto sarebbe necessario considerare le classi di cristallizzazione e altri fattori per stabilire quante sono le scelte, ossia come è costituito l’alfabeto, dato che la quantità di informazione, cioè il numero di bit, dipende dal numero delle scelte possibili.
16
Le orbite di Bohr si ottengono matematicamente imponendo
che l’onda cui equivale l’elettrone, ruotando intorno all’atomo, deve ritrovarsi in fase quando raggiunge la posizione di partenza.
17
Qui la parola “forma” è intesa in senso aristotelico, cioè “ciò
che si percepisce o si immagina di percepire”.
Fig. 9 – “Sistema e Ambiente”, ovvero “Strutture
e Interazioni”
OMAR 11
nuovo
Fig. 10 – L’autoidentificazione
dell’Ego e i quattro referenti
che la determinano
scrizione dal punto di vista informatico, dobbiamo
notare che finora abbiamo preso in considerazione
la struttura di un essere biologico, ma non la sua
capacità di interagire con l’ambiente circostante, ossia con le entità animate o inanimate situate entro il
suo raggio d’azione (Fig. 9). Facendo un parallelo
con la fisica atomica e subatomica, potremmo dire
che abbiamo parlato di strutture ma non di forze.
L’identità di un essere biologico (“cosa è”) non è
soltanto determinata dalla struttura (“come è fatto”),
ma anche dall’interazione (“che cosa fa”), cioè da
come interagisce con l’ambiente.
Si noti, inoltre, che l’interazione, analogamente
alla struttura, si manifesta sia in forma materiale/energetica (come, ad esempio, quando si ingerisce
cibo o si espellono escrementi), che in forma informazionale (ad esempio quando si parla con altri o si
legge un libro). In quest’ultimo caso lo scambio di
informazione con l’ambiente esterno avviene ricevendola attraverso gli organi sensoriali e trasmettendola per mezzo di opportune parti della struttura,
come, ad esempio, l’apparato di fonazione, cioè
usando variamente il proprio corpo o parti di esso.
Come noto, questo tipo di interazione fra esseri
umani si chiama “comunicazione”.
Si noti che, agli effetti della comunicazione, il
DNA si limita generalmente a fornire le istruzioni per
costruire gli organi riceventi e trasmittenti, più quelle per costruire il cervello, incluse alcune semplici
strutture di apprendimento (tipica quella di predi-
Fig. 11 – Esempio di comunicazione spaziale (linguaggio del corpo): la danza dell’ape mellifera.
12 OMAR
nuovo
Fig. 12 – Altro esempio di
comunicazione
spaziale o gestuale:
la danza dello spinarello
sposizione all’apprendimento del linguaggio), lasciando alle interazioni con l’ambiente, successivamente alla nascita, il compito di completare l’opera
genetica. È come se la natura si limitasse a fornire il
tema di una melodia (che va considerato come un
invariante delle trasformazioni) e lasciasse all’interazione del vivente con l’ambiente il compito di svilupparlo in una delle numerosissime variazioni possibili.
È interessante confrontare questo punto di vista
fisico con quello della psicologia, in cui si afferma
che l’autoidentificazione dell’Ego (“Io chi sono?”) è
conseguita mediante la Sopravvivenza, Persistenza e Replicazione (spesso abbreviate in SPR), dei
quattro referenti: struttura materiale, struttura culturale, interazione materiale e interazione culturale, la
struttura determinando l’identità interna, l’interazione l’identità esterna del singolo individuo.
Come si vede, non c’è molta differenza fra il punto di vista della psicologia (Fig. 10) e quello della fisica (Fig. 9). Vedremo che considerazioni analoghe
si possono fare, oltre che per gli esseri biologici
(animali compresi), anche per gli artefatti, per i composti naturali e per i componenti elementari come il
quark e l’atomo.
Se ci pensiamo bene, la funzione (spesso antagonista) dell’ambiente, come, ad esempio, le osservazioni che riceverei su questo lavoro, costringe l’Ego o a cambiare se stesso, adattandosi all’ambiente, o (più raramente) è l’Ego che cerca di cambiare
l’ambiente per adattarlo a se stesso. Ad esempio, ci
dotiamo di indumenti e di mezzi di riscaldamento
per sopravvivere al freddo invernale e di mezzi di
locomozione per raggiungere i luoghi più lontani da
noi, ma che riteniamo possano influenzare la qualità
della nostra vita. La “selezione naturale” non è altro
che il risultato di queste interazioni.
Sebbene gli animali abbiano, in genere, comportamenti informazionali meno evoluti, si trovano, molto spesso, forti analogie con quelli dell’uomo. Un
esempio molto interessante è quello delle api [9,
10], la cui comunicazione con le compagne, mediante movimenti del corpo (danza dell’ape mellifera), non ha nulla da invidiare a quella attuata con le
nostre macchine (Fig. 11).
L’ape mellifera, prima di iniziare la sua danza, fa
un preambolo, che serve ad attirare l’attenzione delle compagne (viene spontaneo pensare all’ATG dell’inizio messaggio nel DNA): parte da ferma, vola
poi velocemente in linea retta, quindi dondola l’addome, descrive un semicerchio, ritorna in linea retta, dondola di nuovo l’addome, e completa il cerchio.
L’asse della danza indica la direzione del pascolo, cioè del luogo in cui si trova il nettare o l’acqua,
dei quali le api hanno bisogno e fanno provvista. La
direzione è percepita secondo l’angolo azimutale
che ha rispetto al sole, che è il punto di riferimento
per l’orientamento delle api. Dopo il preambolo, l’ape invia messaggi più dettagliati, come mostrato in
figura, diversi a seconda della distanza e della ricchezza del pascolo 18.
Le api non comunicano soltanto in forma gestuale/visiva, come illustrato sopra, cioè utilizzando come trasmettitore il corpo e come ricevitore gli occhi.
Esse utilizzano anche una forma di comunicazione
che potremmo definire chimica/olfattiva, mediante
l’emissione di particelle materiali chiamate feromoni
che vengono percepite dai suoi simili mediante gli
organi olfattivi. Vi sono diversi tipi di feromoni, quelli che attraggono il partner, quelli di segnali di pericolo per l’alveare, quelli specifici delle api regine,
ecc. Pertanto, anche per le api, come per gli esseri
umani, le forme di comunicazione utilizzano vari organi. Tuttavia, nelle api, come nella gran parte degli
animali, il sistema nervoso centrale, pur attraverso
l’evoluzione (detta di tipo lamarckiano 19) e le mutazioni, opera largamente in “logica cablata”, come di-
I movimenti illustrati in figura si riferiscono all’ape italiana.
Le api australiane, indiane ecc. eseguono figure diverse, specie
per indicare la distanza del pascolo. Possono esservi anche lievi
differenze tra api appartenenti a diversi alveari della stessa regione geografica.
18
19
Termine tratto dallo studioso francese Chevalier de Lamarck, cui si debbono i primi studi sull’evoluzione, che ispirarono, tra gli altri, Charles Darwin.
OMAR 13
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Fig. 13 – Aumento del volume del cervello umano dai primi ominidi ai giorni nostri [15] 22
ciamo noi per le macchine, cioè determinata dalla
informazione trasmessa geneticamente, più che attraverso l’apprendimento e la simulazione, come
avviene per gli esseri umani.
Altro esempio di comunicazione gestuale/visiva
è quello dello spinarello (Fig. 12), un pesce d’acqua
dolce, studiato nel 1951 dal prof. Nikolaas Tinbergen 20 dell’Università di Oxford, che lo ha fotografato mettendo uno specchio nella vasca in cui nuotava, in modo che vi si vedesse riflesso [11, 12]. Credendo di vedere un nemico, immediatamente lo spinarello assumeva la suggestiva posizione di difesa
e di combattimento mostrata in figura. Oltre ad alza-
A Nikolaas Tinbergen, Konrad Lorenz e Karl von Frisch fu
assegnato il Premio Nobel del 1973 per la Medicina e Fisiologia,
per le loro ricerche nel campo dell’organizzazione e del comportamento individuale e sociale degli animali.
20
21
Vi sono discordanze fra i valori odierni (oltre che fra maschio e femmina) del volume del cervello. Nel grafico si mostra
un volume massimo di 1600 cm3 per un maschio, mentre in altre
pubblicazioni tale valore sale a 2200 cm3.
22
L’indicazione dell’uomo di Cro-Magnon è stata introdotta
dall’autore del presente lavoro.
È interessante osservare che l’evoluzione del cervello di un
bambino fino al suo stato adulto ripercorre le strade evolutive che
ha portato lo stesso al volume di 2200 centimetri cubi nel giro di
due milioni di anni. Lo stesso vale per altri caratteri somatici ed
intellettivi, per cui riassumendo si può dire che “l’ontogenesi è la
ricapitolazione della filogenesi.”
23
24
Si deve precisare che i creazionisti puri interpretano i passi
dell’evoluzione dell’universo attenendosi strettamente a quanto
rivelato dalla Bibbia, mentre molti creazionisti odierni invocano
l’intervento del Creatore in determinati istanti dell’evoluzione,
cercando di dimostrare scientificamente l’impossibilità dell’accadimento spontaneo di un evento.
14 OMAR
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re le pinne, lo spinarello cambiava colore del ventre,
che diveniva bianco-azzurro, mentre i suoi occhi
luccicavano e cambiavano colore. Altra gestualità
caratteristica, studiata da Tinbergen, è quella assunta dallo spinarello nel corteggiamento della femmina.
Gli esempi di comunicazione animale sono moltissimi e svariati: ricordiamo, tra le cose note a tutti,
le comunicazioni con ultrasuoni, indispensabili ai pipistrelli in quanto vivono in ambienti bui, ma comuni
anche ad altri animali, ad esempio, i cani. Ma esistono anche tipi di comunicazione fra animali meno
convenzionali, di natura elettrica, radio e ottica, per
i quali rimandiamo il lettore esigente ad altri lavori
[13, 14].
Veniamo ora alla struttura e alle interazioni informatiche dell’uomo, iniziando con l’osservare che il
volume del nostro cervello è cresciuto dal valore di
circa 400 cm3 dei primi ominidi al valore odierno
massimo di 2200 cm3 (Fig. 13) 21. È stato osservato
e, d’altra parte, appare evidente dalla Fig. 13, che il
volume del cervello umano aveva già raggiunto valori non molto inferiori a quelli attuali fin da prima
dell’avvento dell’uomo moderno (o uomo di Cro-Magnon), databile a 35000 anni fa, e prima ancora che
comparissero le prime forme di linguaggio evoluto
(all’inizio solo parlato), evento databile intorno a
30.000 anni fa, cioè 5.000 anni dopo l’avvento dell’uomo moderno.
A questo proposito, Fred Hoyle ([16], p. 225-228)
riporta le osservazioni di due illustri biologi, l’inglese
Alfred Russel Wallace (1875) e il giapponese Susumu Ohno (1970), i quali sostennero che la capacità
cerebrale, quindi la potenza intellettuale, dell’uomo
dell’età della pietra (vissuto 2,5 milioni di anni fa)
fosse assai simile a quella dell’uomo moderno, anche se tale potenziale intellettivo era sovrabbon-
Fig. 14. Struttura informatica dell’uomo e sue interazioni con l’ambiente esterno
dante rispetto a quello che gli serviva per affrontare
la situazione ambientale della sua epoca. Dall’altra
parte, gli archeologi sono unanimi nel ritenere che
l’uomo, prima di diventare “homo faber,” ovvero homo habilis, cioè capace di fabbricare attrezzi
(–1.7–1.9 Ma), era “homo logos” cioè capace di
creare “parole”, sia per comunicare coi suoi compagni che per sviluppare le proprie facoltà mentali e di
adattamento all’ambiente. Si tratta, tuttavia, di una
contraddizione apparente, perché occorre considerare la qualità e la varietà del linguaggio usato: una
cosa è creare parole semplici, non molto lontane dal
linguaggio degli animali, altra disporre di un linguaggio evoluto per scrivere un romanzo o dissertare di filosofia.
Occorre, inoltre, precisare che il solo volume del
cervello umano non rende conto di una capacità intellettiva evoluta. Infatti, come mostra la Fig. 14, il
cervello umano è formato da tre strati, il più antico
dei quali, rappresentato dalla corteccia paleoanimale (tipica dei rettili), è responsabile della capacità di
conservazione e replicazione, il secondo, rappresentato dalla corteccia limbica (tipica dei paleomammiferi), è responsabile della capacità di emozione e gioco, il terzo, rappresentato dalla neocorteccia, è responsabile della capacità di astrazione e
di ragionamento, cioè dell’attività intellettuale più
evoluta 23.
La neocorteccia rappresenta la parte più esterna, oltre che di più recente formazione, del cervello
e, con uno spessore di 3 mm ed una superficie di
0,25 m2, occupa un volume di circa 750 cm3, pari a
circa 1/3 del volume totale del cervello. Dunque, le
affermazioni di Wallace e Ohno, riferite al volume
totale del cervello, prescindono sia dal volume occupato dalla neocorteccia, sia dalla sua organizzazione.
L’argomentazione che la crescita del cervello
umano si sia verificata molto prima che si manifestasse un inizio di attività intellettuale conseguente
alla nascita del linguaggio evoluto (indicata come rivoluzione mentale in Fig. 3), è stata utilizzata dai
cosiddetti creazionisti per contraddire il presupposto darwiniano che la spinta all’acquisizione di una
così poderosa capacità informatica (mutazione genetica) sia provenuta dall’ambiente seguendo la
legge della selezione naturale, e per dimostrare, invece, l’intervento di una volontà creatrice esterna 24 .
Tale argomentazione si ritrova, seppure con importanti distinzioni, in Jacques Monod, il quale osserva ([4] p. 21):
una delle proprietà fondamentali caratteristiche di tutti i viventi nessuno escluso [è] quella di essere oggetti dotati di un progetto [teleonomia], rappresentato nelle loro strutture
e al tempo stesso realizzato mediante le loro
prestazioni, ad esempio la creazione di ‘artefatti’.
Ma, al contrario dei creazionisti, Monod rifiuta
l’interpretazione dei fenomeni in termini di cause finali ([4] p. 29), sostenendo che il caso sia stato il
responsabile della formazione della prima struttura
replicativa inglobante una mutazione genetica anche di eccezionale portata, dopo di che la necessità, cioè la rigida legge della replicazione e dell’invarianza ha provveduto a fare di un singolo evento
eccezionale una realtà vastissima e onnipresente.
OMAR 15
nuovo
Fig. 15 – Cellule nervose (neuroni), fibre nervose (dendriti), incroci (sinapsi) e loro interconnessione
Scrive, infatti, Monod ([4] p. 99):
… una volta inscritto nella struttura del DNA,
l’avvenimento singolare, e in quanto tale essenzialmente imprevedibile, verrà automaticamente e fedelmente replicato e tradotto,
cioè contemporaneamente moltiplicato e trasposto in milioni o miliardi di esemplari. Uscito dall’ambito del puro caso, esso entra in
quello della necessità, delle più inesorabili
determinazioni. La selezione opera in effetti
in scala macroscopica, cioè a livello dell’organismo.
Un movimento decisamente contrario al gioco
del caso e della necessità propugnato da Jacques
Monod è quello dei sostenitori del cosiddetto principio antropico, primo fra tutti John Wheeler, ell’Università di Austin, Texas, il quale scrive [18] (traduzione dall’inglese):
Non è solo l’uomo adattato all’universo. L’universo è adattato all’uomo. Immaginate un
universo in cui l’una o l’altra delle costanti
fondamentali adimensionali della fisica sia alterata di pochi percento, in un modo o nell’altro. L’uomo non potrebbe esistere in un siffatto universo. Questo è il punto centrale del
principio antropico. Secondo questo principio,
un fattore che dà la vita sta al centro dell’intero meccanismo e disegno del mondo.
Si ritrova, dunque, nelle parole di Wheeler, il principio della causa finale, aborrito dalla scienza fin
dalla rivoluzione di Galileo e Cartesio, come contrario al postulato di oggettività e al conseguente principio di causalità della fisica. Secondo Jacques Monod ([4] p. 30) “il postulato di oggettività è consostanziale alla scienza e da secoli ne guida il prodigioso sviluppo” essendo “impossibile disfarsene,
anche provvisoriamente, o in un settore limitato,
senza uscire dall’ambito della scienza stessa”.
Ma ecco che, a intaccare tale postulato – e a ridare ossigeno alla esistenza della causa finale – interviene la scuola del grande matematico italiano
16 OMAR
nuovo
Luigi Fantappié, il quale, negli anni intorno al 19421944, fece osservare che le equazioni d’onda probabilistiche (proprie della fisica quantistica) ammettono due tipi di soluzioni e quindi due tipi di onde: le
soluzioni dei Potenziali ritardati e le soluzioni dei
Potenziali anticipati. Le soluzioni dei potenziali anticipati, fino allora ignorate dalla Fisica, rappresentano onde di probabilità convergenti, cioè onde che si
fanno sentire prima di confluire alla sorgente (causa), la quale è posta a valle delle stesse. Fantappié
dimostrò [19, 20] che l’evoluzione dei sistemi macroscopici ad onde convergenti evolvono verso stati di maggiore complessità e differenziazione e che,
inoltre, in tali sistemi, la causa dell’evoluzione si trova nel futuro e l’effetto è nel presente. In altri termini, lo stato futuro del sistema è la causa finale, che
esercita la sua influenza nel sistema allo stato presente ([21] p. 128). Una acuta ed estesa analisi dell’opera di Fantappié si trova nell’opera dei fratelli Arcidiacono [21].
Fantappié, sebbene non universalmente conosciuto, fece un quadro abbastanza completo e convincente dei fenomeni naturali, che descrisse come
appartenenti a due classi (spesso coesistenti nella
realtà): quella dei fenomeni entropici, ubbidienti al
Principio di causalità (secondo il quale la causa precede l’effetto) ed al Principio del Livellamento ovvero Secondo Principio della Termodinamica (corrispondente alla tendenza verso il disordine e l’aumento dell’entropia) e quella dei fenomeni sintropici,
ubbidienti al Principio di finalità (secondo il quale
l’effetto precede la causa), e ad un Principio di differenziazione, che equivale ad un principio di organizzazione in senso anti-entropico della materia ([21]
p. 132-136). Verrebbe così giustificata l’evoluzione
sintropica dell’universo, verso stati sempre più complessi e differenziati, come per i fenomeni biologici.
Tornando alla struttura informatica dell’uomo
(Fig. 14), dobbiamo constatare che tale struttura, ivi
inclusi sensori e attuatori, consiste di un numero
elevatissimo di cellule nervose chiamate neuroni
presenti nel sistema nervoso di tutto il nostro corpo,
in numero da 1012÷1013 [4] e delle loro interconnes-
sioni, attuate mediante fibre nervose chiamate dentriti, che ammontano a 1000-10000 per ogni neurone. Le sinapsi, in numero di 1014÷1015, rappresentano i punti di contatto (o incroci, in inglese crosspoint) fra dendriti e assicurano l’interconnessione
fra i neuroni, anche tra punti lontani, che viene attuata mediante impulsi nervosi viaggianti ad una velocità compresa fra 0.9 e 90 m/s (Fig. 15).
La sola neocorteccia possiede un numero di neuroni intorno a 1010÷1011 e un numero di sinapsi dell’ordine di 1014. È stato calcolato che il numero massimo di stati di connessione che può assumere la
neocorteccia è decisamente astronomico, aggirandosi sui 1080, ossia pari al numero di Eddington, che
rappresenta il numero di nucleoni (protoni e neutroni) esistenti nell’universo. Si può quindi comprendere come la neocorteccia, pur occupando solo 1/3
del volume del cervello, possieda una capacità di
elaborazione colossale.
Quanto alla sua organizzazione, la neocorteccia
è formata da colonne, poste trasversalmente alla
corteccia. Ogni colonna ha un diametro di 0,25 mm
e un’altezza di 3 mm, e raggruppa 2500 neuroni;
comunica con una ventina di altre colonne, per
mezzo di 500 dendriti, come quelle del neurone. Essa rappresenta una unità funzionale, cioè un sottoinsieme equivalente a un microcalcolatore. Di
queste colonne, la corteccia ne contiene 4.000.000,
il cui insieme forma una struttura simile a un elaboratore ad architetture parallele.
La comunicazione fra i neuroni, che può essere
inibitoria o stimolatoria, può essere di natura elettrica o chimica. La memoria a lungo termine, ad
esempio, è attivata da messaggeri chimici, perché
essi inducono una modificazione stabile e duratura.
A questo scopo ci richiede uno sforzo maggiore, necessario per scolpire indelebilmente tale informazione. Ciò avviene, ad esempio, quando proviamo
un’emozione per un evento traumatico: questa indurrà una modificazione neuronica di tipo chimico.
Al contrario, la memoria a breve termine, detta anche memoria operativa (come la RAM dei computer), che si carica e si scarica in continuazione, è attuata mediante messaggeri elettrici. Un’altra meravigliosa forma di comunicazione chimica è quella
mediante la quale ogni cellula del nostro corpo comunica il proprio fabbisogno di ossigeno, trasportato da una speciale molecola contenuta nei globuli
rossi del nostro sangue chiamata emoglobina: in tal
modo l’ossigeno entrante nei nostri polmoni viene
convogliato alle cellule che ne hanno bisogno [22].
Anche l’interazione dell’uomo con l’ambiente circostante, per mezzo di sensori e attuatori, ci riserva
strabilianti sorprese. Il nostro sensore più potente è
indubbiamente l’occhio. In esso si trovano circa un
miliardo di sensori ottici binari, i coni, e circa 3 milioni di sensori ottici cromatici, i bastoncelli. La sensibilità ottica di un cono è di un fotone, nella gamma
della luce visibile: non esiste niente al mondo che
abbia una siffatta sensibilità. Il fotone incidente nella retina induce un cambiamento di stato stereoiso-
25
È da notare che solo il 40% dell’energia del fotone è usata
per l’innesco; il resto (60%) è incamerato come energia torsionale di legame, che è restituita dopo il tempo di rilassamento.
merico della molecola di retinolo (contenuta nella
rodopsina della retina), che passa dalla configurazione spaziale di riposo di cis-retinolo a quella eccitata di trans-retinolo, in meno di un picosecondo 25.
Questa, a sua volta, innesca tutta una serie di reazioni fotochimiche, chimiche ed elettrochimiche, che
sarebbe lungo illustrare, svolgenti funzioni di amplificazione (ca 10.000 volte in potenza) a spese del
metabolismo cellulare; dette reazioni portano, in soli 100 millisecondi, alla creazione del segnale elettrico standardizzato (impulso da 30 mV, con durata di
circa 1 ms) al nervo ottico e di qui al cervello. Lo
studio della sensibilità dell’occhio umano ha innescato applicazioni futuribili nel campo della bionica
(vedasi, ad esempio, il lavoro [23]).
E, infine, notiamo che questa stragrande capacità elaborativa e interattiva posseduta dal cervello
umano comporta un consumo di soli 25 watt.
Da quanto precede, e in particolare dai dati riportati in Fig. 14, appare la grandiosità di questo essere che noi chiamiamo uomo, le ragioni della sua supremazia sugli altri esseri viventi, non certo dovuta
alla sua capacità muscolare, ma alla sua capacità
informatica che, come vedremo nella seconda parte
di questo lavoro, è capace di immaginare il non percepibile.
Bibliografia
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Michael, The Logic of Personal Knowledge, Glencoe, IL: Free Press, 1961, p. 232.
[6] Haken, Hermann, Sinergetica – Il segreto del
successo della natura, Boringhieri Editore, Torino,
1983 (trad. dal tedesco, 1981). Schema del DNA
del Virus SV 40 a pag. 96.
[7] Sebring E. D., Kelly T. J. Jr, Thoren M. M.,
Salzman N.P., Structure of Replicating Simian Virus
40 Deoxyribonucleic Acid Molecules, Journal of Virology, October 1971, p. 478-90.
[8] Harari, Haim, The Structure of Quarks and
Leptons, Scientific American, p. 56, April 1983 (see
also: Rishon Model of Elementary Particles by J. D.
OMAR 17
nuovo
Shelton, posted on Internet at http://www.geocities.com/rishonmodel/, June 15, 2005.)
[9] Free, John B., L’organizzazione sociale delle
api, Edagricole Bologna, 1982 (traduzione da The
Social Organization of Honeybees, Edward Arnold
Publisher, London, 1977)
[10] Frisch, K. von, Bees: Their Vision, Chemical
Senses, and Language, Cornell University Press,
New York, NY, 1950.
[11] Tinbergen, Nikolaas, The study of instinct,
Oxford University Press, London, 1951.
[12] Tinbergen, Nikolaas, Il comportamento sociale degli animali, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1969 (traduzione da Social behaviour in animals, 1956).
[13] Richards, Douglas G., Biological Strategies
for Communication - The structure of typical examples of animal signals in the acoustic, radio frequency, and optical modalities, as compared to
manmade signals, IEEE Communications Magazine, June 1985, Vol. 23, No. 6, p. 10-18.
[14] Westby, G. W. M., Il linguaggio elettrico dei
pesci, L’Elettrotecnica, Vol. LXXI, n. 1, gennaio
1984, p. 33-38 (traduzione da: Electrical language
of fish, Spectrum, British Science News, 1982, No.
181).
[15] McHenry H. M., Tempo and mode in human
evolution, Proceedings of the National Academy of
Sciences, USA, 1994, 91:6780-6.
18 OMAR
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[16] Hoyle, Fred, L’Universo intelligente - Creazione ed evoluzione in una prospettiva nuova, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1984 (tradotto da
The Intelligent Universe, Dorling Kindersley Ltd.,
London, 1983)
[17] Ohno, Susumu, Evolution by gene duplication, Springer-Verlag, New York, 1970 (quoted in
[16])
[18] Wheeler, John Archibald, Foreword to The
Anthropic Cosmological Principle, by Barrow J. D.,
Tipler F. J., Clarendon Press, Oxford University
Press, 1987
[19] Fantappié L., Princìpi di una teoria unitaria
del mondo fisico e biologico, Humanitas Nova, Roma, 1944
[20] Fantappié L., Sull’interpretazione dei potenziali anticipati della meccanica ondulatoria e su un
Principio di finalità che ne discende, Rend. Accademia d’Italia, sez. 7ª, vol. 4, fasc. 1-5, 1942
[21] Arcidiacono Giuseppe, Salvatore e Vincenzo, Creazione, Evoluzione, Principio Antropico, Edizioni Il Fuoco, Roma, 1983 (in particolare Cap. VIII
e XII)
[22] Yamane, T., Hemoglobin: Communication
on a Molecular Level, Bell Laboratories Record, October 1970 p. 269-272.
[23] Catania, Basilio, Dall’Elettronica alla Fotonica e dalla Fotonica alla Bionica, L’Elettrotecnica,
Vol. LXXVII, N. 7, luglio 1990, pp 27-43.
Studi e informazioni culturali Robot e tecnoetica: un confronto
tra tecnica, scienza e morale
Dario Balzaretti
“Quando nessuno avrà un servo o una serva, anche un vecchio sarà costretto a farsi ogni servizio
da solo? Per nulla, perché renderò tutto semovente”. È quanto affermava Ateneo di Naucrati, esponente della scuola sofistica, vissuto tra il secondo e
il terzo secolo dopo Cristo, a proposito della tecnologia dell’automazione.
Il sogno di rendere l’uomo libero dalla fatica, dalle gravi incombenze della quotidianità e del lavoro,
attraverso l’impiego delle macchine, ha le sue origini già nei primordi dell’evoluzione scientifica.
Secondo lo storico Gordon Childe 1 il progresso
tecnologico dell’uomo ebbe la propria causa propulsiva nello stato di necessità in cui si trovarono i nostri progenitori milioni di anni fa, data dalla loro sostanziale mancanza di specializzazione. L’uomo, a
differenza delle altre specie animali, ha un corpo
poco efficiente all’adattamento darwiniano all’ambiente circostante. Non abbiamo una pelliccia capace di difenderci dal freddo, non artigli per afferrare,
aggredire, né un becco adunco per lacerare la carne; non possediamo nemmeno i denti robusti e affilati, atti a lavorare il legno, di cui sono dotati i castori, né muscoli nelle gambe che ci consentano di correre velocemente per inseguire le prede, come il
ghepardo. Insomma, siamo nati svantaggiati. L’unico elemento che ci ha resi diversi dagli altri primati,
più fortunati di noi in quanto a specializzazione del
corpo, è stato il pollice opponibile. Questo fu l’agente che pian piano ha dato il via allo sviluppo cerebrale.
Gli strumenti della tecnologia non sono altro che
la risposta a questo problema.
J. M. Galvan 2 ha parlato di Homo technicus, di
un essere che già nel racconto genesiaco e nella
mitologia classica della antica Grecia si distingueva
dagli animali per la capacità di proiettarsi oltre la
propria dimensione corporea, limitata dalla natura,
per creare gli strumenti del proprio adattamento ambientale.
Ma l’evoluzione per la nostra specie è stata dura
e lunga. I primi ominidi comparvero cinque o sei milioni di anni fa, tuttavia soltanto da una manciata di
1
G. Childe: Il progresso nel mondo antico, Einaudi, Torino,
1963.
2
José M. Galvan: La Tecnoetica, Firenze, 2003.
secoli l’uomo ha compiuto, dal punto di vista della
tecnologia, dei passi da gigante. E negli ultimi decenni ha saputo proiettare anche la propria intelligenza nelle macchine.
La macchina capace di svolgere non solo un lavoro meccanico, ma funzioni proprie del cervello,
avvicinandosi così all’uomo stesso, è però un sogno antico.
Già in età ellenistica, nel momento del grande
sviluppo culturale seguito al disfacimento dell’effimero impero alessandrino, nelle capitali del sapere
di quell’epoca, in particolare Alessandria d’Egitto,
sede della favolosa Biblioteca che accoglieva tutto
lo scibile umano, e nelle città greche della Ionia, a
Pergamo, ma anche nelle poleis metropolitane, numerosi scienziati lavorarono alacremente alla costruzione di automi, la cui memoria è a noi giunta,
purtroppo, solo attraverso labili testimonianze dal
sapore mitologico.
La , il saper fare, fu una forma di conoscenza ritenuta prerogativa degli dei, e di cui si impossessò la mitologia e la letteratura.
Nella visione mitologica e letteraria il problema
della tecnologia che mutava la condizione dell’uomo, trasformando il suo rapporto con il mondo naturale e imponendolo come essere dominante, è stato quasi sempre visto come elemento perturbatore,
misterico, con una forte valenza etica.
Il mito di Prometeo, la divinità che a dispetto di
Zeus, volle dare il fuoco all’uomo, impietosito dallo
stato ferino in cui viveva, subendo poi l’ira del padre
olimpico, conferma quanto il conoscere, dal punto
di vista tecnologico (il fuoco infatti rappresenta il primo passo verso la dei metalli), sia sempre
stato pensato come una forzatura della nostra specie nei confronti delle leggi recondite della natura.
Anche il mito del re di Cipro Pigmalione che si innamorò di una statua femminile di avorio, Galatea,
da lui stesso foggiata e che ottenne poi dalla dea
Venere che fosse animata e alla quale si unì, può
essere ricondotto al desiderio di costruire una vita
artificiale, che potesse essere secondo le volontà e
i desideri dell’uomo. Ma al di fuori delle regole della
natura.
Solo agli dei competeva la possibilità di dominare
e di dare la vita, anche quella artificiale. Il dio Efesto
creò degli automi che gli facevano da servi e lo aiutavano a camminare, poiché egli era claudicante, e
persino tripodi a tre gambe che potevano spostarsi
a seconda di come dettava loro la volontà, come
narra Omero nel libro XVIII dell’Iliade.
Aulo Gellio, scrittore latino del secondo secolo
dopo Cristo, nella sua opera Notti Attiche, parla del-
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nuovo
la colomba inventata dallo scienziato greco Archita,
matematico e filosofo di Taranto, amico di Platone,
la quale era capace di volare grazie a un sistema di
contrappesi.
Non solo la tradizione mitologica e classica parla
di automi. Una nota leggenda ebraica è quella del
Golem, una statua di argilla, animata dalla magia
della Cabala.
Una tradizione risalente al tredicesimo secolo richiamava a una leggenda più antica, secondo la
quale il Golem, un uomo creato con la terra, per difendere gli Ebrei dalle persecuzioni, prende vita con
l’inserimento nel cuore, sulla fronte o sotto la lingua,
di un foglio con scritto uno dei tanti nomi di Dio conosciuti solo dai profondi esperti della Cabala. Il Golem, essendo un atto di creazione dell’uomo, costituisce tuttavia una sfida a Dio e alla sua potenza
creatrice. Dunque un atto di presunzione della creatura uomo nel confronto del proprio creatore.
Al Medioevo invece è legata la tradizione alchemica del medico svizzero Paracelso che creò un homunculus, una specie di automa umano, dal seme
dell’uomo imputridito per quaranta giorni in un alambicco mantenuto caldo nel ventre equino e nutrito
con sangue umano per altri quaranta giorni.
Insomma, una specie di uomo in vitro, che richiama le possibilità oggi offerte dalla bioingegneria.
Storicamente le macchine semoventi ebbero un
inizio dalla genialità di Leonardo da Vinci che nel
suo mirabolante eclettismo, verso la fine del XV secolo, riuscì persino a progettare un robot umanoide.
Alcuni documenti di Leonardo contengono disegni
dettagliati per un cavaliere meccanico in grado di alzarsi in piedi, agitare le braccia e muovere la testa e
la mascella.
Il primo robot funzionante fu creato nel 1738 dal
francese Jacques de Vaucanson, che fabbricò un
androide, cioè un robot a forma di uomo, capace di
suonare il flauto, e un’anatra meccanica che mangiava.
Dopo fu la letteratura ad impossessarsi del tema,
man mano che la tecnologia nel XIX secolo compiva passi da gigante, lanciando l’umanità verso quel
futuro di macchine e velocità, destinato, secondo la
voce di Filippo Tommaso Marinetti, a rivoluzionare
profondamente la vita.
Nel 1817 Hoffmann nel racconto “L’uomo di sabbia”, narra di una bambola meccanica. Più tardi nel
1885 Luis Senares ne “L’Uomo elettrico”, narrò di
robot e umanoidi. Fino ad arrivare al più noto romanzo del cecoslovacco Karel Čapek, il quale nel
1920 usò per la prima volta il termine Robot nel suo
dramma “Rossum’s Universal Robots”.
Infine Isaac Asimov con la sua immensa produzione di romanzi e racconti fantascientifici (più di
cinquecento) a partire da Robbie del 1940, per arrivare ai lavori degli anni ’50, in cui scrisse delle famose tre leggi della robotica.
Mito, storia e letteratura si sono mescolati per secoli nel dare forma alla fantasia umana di una vita
artificiale intelligente, capace di interagire con l’uo-
3
Davide Bennato: in Tecnoetica: il ruolo dei valori nei rapporti tra tecnologia e società, Napoli, 2004.
4
U. Galimberti: Psiche e teche, Feltrinelli, Milano, 1999.
20 OMAR
nuovo
mo, anche attraverso i sentimenti. Ma è stato nel
Novecento, dopo la seconda guerra mondiale, che
la scienza e la tecnologia hanno trasformato la fantasia in realtà: il computer, le reti neurali, i robot.
L’intelligenza artificiale, nata nel 1943 dal lavoro
di Warren McCulloch e Walter Pitts che progettarono una rete di neuroni artificiali (rete neurale), dimostrando che ogni funzione calcolabile poteva essere
determinata da qualche rete di neuroni connessi attraverso strutture, ha avvicinato quelli che parevano
fino a quel momento dei semplici processi meccanici e informatici alla intelligenza umana.
Secondo Marvin Minsky, uno degli scienziati pionieri dell’intelligenza artificiale, lo scopo di questa
nuova disciplina sarebbe stato di “far fare alle macchine delle cose che richiederebbero l’intelligenza
se fossero fatte dagli uomini”.
Dunque si è posto il problema della macchina
che pensa come l’uomo e in prospettiva che è capace riprodurre pensieri autonomamente, sulla
scorta degli stimoli ambientali. Un problema che, oltre ad assumere un carattere scientifico, subito divenne anche etico.
Cinquanta anni fa, scienza e tecnologia hanno
iniziato a mostrare una sorta di dualismo manicheo
tra il buono e il cattivo, che ancora oggi sta alla base delle nostre concezioni etico-scientifiche.
Bertrand Russell, in un saggio del ’49 dal titolo
The atomic age, scrive che la tecnica scientifica ha
aumentato nel mondo il principio di interdipendenza
dei gruppi umani “da ciò è seguito che sia gli individui sia i gruppi hanno maggiore possibilità di fare
del male agli altri di quante non ne avessero in epoche precedenti”.
“In una società sempre più permeata di tecnologia – ha scritto Davide Bennato 3, docente presso
l’Università La Sapienza di Roma – in cui dimensioni propriamente umane come identità, relazionalità,
lavoro, politica sono sempre più dipendenti dalla
tecnologia e dalle sue trasformazioni è inevitabile
che sorga un modo diverso di problematizzare la
tecnologia che prenda in considerazione anche il
ruolo dei valori”.
Il potenziale che la tecnologia ha di fare del male
o di condizionare la nostra vita in modo contrario all’etica è oggi molto elevato, soprattutto se pensiamo
all’intelligenza artificiale e alle sterminate possibilità
che offre all’uomo in ogni campo del sapere, del lavoro, nella società. Da qui lo sviluppo di un pensiero etico pertinente alla scienza.
Le bioingegnerie da anni hanno imposto il problema etico in primo piano.
La possibilità di clonare gli esseri viventi e di
creare artificialmente la vita ha visto negli scorsi decenni aprirsi un vasto dibattito. La robotica e lo sviluppo a cui è indirizzata nell’ultimo scorcio del secolo pone altrettanto seriamente tale problema, non
solo nei confronti del singolo individuo o del principio biologico della vita, ma anche al livello delle interrelazioni sociali.
Il filosofo Umberto Galimberti nel saggio “Psiche
e teche” 4 sottolinea come già Kant in “Fondazione
della metafisica dei costumi” abbia posto il problema etico della tecnologia, vista come mezzo, che
può essere usato, come tutto ciò che esiste in natura, ma solo l’uomo “va comunque trattato come fi-
ne”. Tuttavia “nell’età della tecnica l’uomo non è, come lo era il primitivo, un essere indigente con dei
bisogni che chiedono di essere soddisfatti, ma un
essere di cui occorre alimentare l’indigenza, affinché i suoi bisogni non siano troppo scarsi rispetto al
ritmo della produzione, perché da questo ritmo la
tecnica non può astenersi”.
Tutto ciò pone dunque il problema morale dell’uomo sottoposto alla necessità della tecnica, che
svuota se stesso per divenire solo uno strumento,
tra i tanti: un uomo macchina, dunque, in cui l’elemento tecnico si inserisce.
Il numero de “L’Espresso” del 2 febbraio 2006 riportava un articolo firmato da Alessandro Gilioli, in
cui si annunciava una nuova rivoluzione tecnologica.
In una cittadina della Florida, Delray Beach, sorgono i laboratori della VeriChip, un’industria che ha
messo in produzione “capsulette trasparenti grandi
come noccioline da impiantare sotto la pelle”, nelle
quali è contenuto un sistema di informazioni radio
leggibile da una specie di scanner da avvicinare al
punto in cui si è collocato il dispositivo. Dovrebbe
servire a sostituire chiavi, password e carte di credito. Inoltre il microchip può registrare tutte le informazioni relative al nostro stato di salute, al gruppo sanguigno e così via, tanto che potrebbe servire per un
rapido esame nel caso di un ricovero ospedaliero.
Insomma un primo passo verso l’uomo bionico,
che è stato argomento di molti film fino a questo
momento.
OMAR 21
nuovo
Studi e informazioni culturali
La condizione femminile
nell’antico Egitto
Laura Pezzolla Paganin
L’antico Egitto ha sempre affascinato tutti coloro
che fin dall’antichità sono stati attratti dal suo incanto misterioso esercitato attraverso immagini e geroglifici.
Da quando J. F. Champollion, nel 1822, ha decifrato la scrittura geroglifica, l’Egitto ci ha, anche se
non completamente, rivelato un’enorme massa di
informazioni riguardanti tutti i settori della vita sia civile che religiosa. Analizzando quindi gli scritti e le
immagini, ci colpisce subito il grande potere e la dignità della figura femminile che si manifestano sin
dal periodo predinastico. Queste caratteristiche della figura femminile egiziana ne fanno un unicum se
confrontata con la posizione delle donne presso altre civiltà contemporanee o successive dove i diritti
femminili erano pressoché inesistenti e dove la donna era sottoposta all’autorità maschile dalla culla alla tomba assumendo praticamente il solo ruolo di
fattrice e donna di casa. Questa indiscutibile parità
di diritti e libertà d’azione della donna egizia fecero
gridare allo scandalo i Greci che visitarono l’Egitto:
anche se in quell’epoca ormai tarda della storia egiziana la condizione di libertà della donna si stava
avviando verso un periodo meno felice. Per capire
come mai gli antichi egizi ebbero una simile concezione della figura femminile dobbiamo rifarci alle figure femminili che popolano il pantheon divino dell’Antico Egitto.
Il principio creatore ATUM afferma: “IO SONO
LUI-LEI”, una figura ermafrodita. Da ATUM vengono generati coppie di dei e dee che rappresentano il
principio maschile e femminile necessari per mantenere l’equilibrio e l’armonia del cosmo. Dall’unione
di queste coppie vengono generati dei figli che costituiscono insieme ai genitori le più importanti triadi
divine: ISIDE-OSIRIDE-HORUS e AMON-MUTKHONSU ecc. Poche divinità rimangono single e
sono quasi tutte di sesso femminile come MAAT. Se
l’armonia del cosmo viene mantenuta grazie all’azione di una coppia divina, anche sulla terra ci deve
essere una coppia che faccia da tramite tra il mondo terreno e quello celeste: il FARAONE e la
GRANDE SPOSA REALE. Queste due figure hanno la stessa importanza nel mantenere i legami tra
cielo e terra perché per compiere in modo ottimale i
riti che devono conservare la benevolenza degli dei
22 OMAR
nuovo
è necessaria la presenza della grande sposa reale;
anzi, in tutta la lunga storia egiziana non ci fu mai
un faraone celibe, ma si conoscono numerose regine che governarono senza un partner umano poiché, a differenza del maschio, quando venivano incoronate faraone erano investite di quella parte maschile che non possedevano, ma essendo già grandi spose reali, potevano costituire un’entità completa. Prendendo quindi esempio dalla coppia reale
che era costituita da due entità complementari di
uguale importanza, anche l’intera società egiziana
si adeguò a considerare la donna dotata degli stessi diritti dei maschi. Infatti, a qualsiasi condizione sociale la donna egizia appartenesse, poteva possedere beni, acquistarne, stipulare contratti, ereditare,
alienare beni, gestire attività commerciali, accedere
alle alte cariche dello stato come visir o alle massime cariche religiose. Certo la madre veniva considerata come perno della famiglia, ma la sua autonomia non le derivava da questa posizione. I diritti
acquisiti alla nascita non venivano in nessun modo
modificati in seguito al matrimonio e alla maternità.
La sua capacità giuridica era piena e completa sin
dalla maggiore età e anche al momento del matrimonio, ma pare che anche una bambina fosse in
grado di stipulare atti giuridici appena fosse in grado
di afferrarne il senso e valutarne la portata. La donna egizia non conobbe mai la pesante tutela che
dovettero subire la donna greca, romana od ebraica
e la potestà dei genitori fu soprattutto una forma di
protezione. Anche per la scelta dello sposo la donna egizia godette di una notevole libertà e se il matrimonio non si era dimostrato felice era libera di divorziare riprendendosi i beni portati in dote.
Questa nozione di parità tra i due sessi fu talmente sentita dagli egiziani da essere penetrata
nell’ANTROPONIMIA, in modo che lo stesso nome
poteva talvolta designare indifferentemente un uomo o una donna. Il titolo più ambito da ogni fanciulla egiziana era quello di NEBET PER (signora della
casa) che designava il suo rango di donna sposata.
Però per avere diritto a questo titolo doveva giungere vergine al matrimonio e successivamente non
doveva commettere adulterio.
Anche dal punto di vista penale la donna egizia
veniva giudicata alla stessa stregua dell’uomo, per
cui se trasgrediva le leggi dello stato veniva processata e condannata, anche se a volte le pene comminate erano meno severe che per i maschi.
La schiavitù femminile non può essere parago-
nata agli eccessi raggiunti presso i greci e i romani:
infatti un individuo maschio o femmina poteva perdere la libertà vendendosi per debiti oppure gli
schiavi venivano reclutati a basso prezzo presso
mercanti stranieri (siriani) o infine costituivano la
massa dei prigionieri di guerra. Per la donna che
entrava a far parte di una ricca famiglia con diverse
mansioni (cuoca, nutrice, ancella) la vita poteva anche non essere gravosa, possedeva il diritto di essere trattata umanamente e poteva appellarsi alle
autorità se questo diritto non veniva rispettato, poteva quindi integrarsi facilmente nella vita familiare e
se sposava un cittadino egiziano automaticamente
acquisiva i diritti della donna libera. Una buona parte delle prigioniere di guerra veniva assegnata ai
templi come forza lavoro o come danzatrici, cantanti, musiciste, tessitrici, ecc. Un certo numero di donne finiva nelle “case della birra” come prostitute e
danzatrici e pare che le straniere, soprattutto le siriane, fossero particolarmente apprezzate. Altre
donne potevano venire affittate per svolgere particolari lavori a giornata. Quindi anche se la condizione servile era molto diversa da quella della donna libera, la schiava aveva diritti superiori a quelli della
serva della gleba di epoca medioevale e godeva di
una certa considerazione, come traspare da un detto del saggio PRAHOTEP: “la vera saggezza è più
rara della pietra verde, ma la si trova talvolta in una
serva che lavora alla macina”.
Per le donne libere la vita cominciava con una
breve infanzia in cui il gioco era l’attività predominante. All’età di circa 4 anni potevano accedere al
primo livello della scuola egizia per apprendere i primi rudimenti della scrittura. Se la fanciulla era meritevole poteva accedere ai livelli superiori di istruzione e frequentare la “casa della vita” in cui veniva
istruita in diverse branche del sapere. Stranamente
è proprio l’Antico Regno ad offrire alla donna una
moltitudine di cariche e attività di alto livello, infatti si
conoscono donne visir, giudici, medici, intendenti,
capi del dipartimento commerciale del Palazzo,
ispettori del Tesoro, controllori dei magazzini reali,
direttori delle filature reali, responsabili delle necropoli, maggiordomi degli appartamenti reali, ecc.
Progressivamente le donne perdettero in parte queste prerogative, ma nei casi in cui le mantennero il
salario ricevuto era pari a quello maschile.
La donna poteva gestire tutte le attività commerciali e partecipare alle attività agricole, anche se
uno strano tabù che è arrivato fino a noi, le proibiva
di partecipare alla vendemmia e alla fabbricazione
del vino.
Un particolare settore della vita egizia in cui troviamo molte donne è quello del clero: infatti l’egiziana poteva accedere alle più alte cariche sacerdotali
o come nel Medio Regno poté fregiarsi del titolo di
SPOSA DEL DIO, una carica che nel Nuovo Regno
divenne esclusivo appannaggio della famiglia reale. Bisogna tenere presente che il servizio religioso
non comportava il celibato, per cui la fanciulla entrata nel tempio con varie mansioni poteva tranquillamente sposarsi. Il matrimonio per l’egiziana era
salvo rare eccezioni monogamico, per cui la padrona di casa era una sola, anche se in particolari periodi o presso gli strati alti della popolazione altre
donne furono ammesse nella famiglia come concubine con un rango sociale subordinato a quello della prima moglie. Anche i figli nati da queste unioni
avevano uno status giuridico diverso da quello dei
figli legittimi.
Il modello femminile a cui si ispirarono tutte le
donne egizie dalla SPOSA REALE alla più umile
donna del popolo fu la dea ISIDE (il trono) che riuniva in sé tutti gli attributi femminili: moglie esemplare,
sorella affettuosa, maga, dispensatrice di prosperità
e ricchezza, detentrice della conoscenza dei misteri dell’universo e vittoriosa sulla morte, dotata di un
coraggio incrollabile di fronte alle avversità.
La regina IAHOTEP (il dio-luna è in pace) è una
delle figure femminili più rappresentative del Medio
Regno, colei che diede inizio alla riconquista del
Paese dopo l’invasione degli HYKSOS. Dopo la
morte del marito in battaglia, il faraone SEQUENENRA, proseguì la guerra con l’aiuto del figlio
maggiore KAMOSE (la potenza è nata) che mantenne il controllo del fronte settentrionale. Quando
scoppiò la rivolta in Nubia, la fronteggiò da sola riuscendo a bloccare le forze nubiane a Elefantina.
Quando anche KAMOSE uscì di scena regnò da
sola fino a che il secondogenito AHMOSE (figlio del
dio - luna) raggiunse l’età per proseguire la guerra
di liberazione che terminò con la cacciata degli
HYKSOS ben oltre le frontiere egiziane. IAHOTEP
morì ottuagenaria e venne sepolta in una tomba a
Tebe in cui furono trovati gioielli e armi in oro che
denotavano lo spirito guerriero della regina, ma il
gioiello più importante era rappresentato da tre mosche d’oro, la più alta onorificenza al valor militare
che il faraone elargiva a coloro che si erano particolarmente distinti sul campo di battaglia.
Un’altra regina del Nuovo Regno che possiamo
ricordare fu la sposa di TUTANKHAMON (simbolo
vivente di AMON) ANKHESENPATON (ella vive per
ATON) che si macchiò di un grave crimine agli occhi degli egiziani. Quando rimase vedova, chiese al
re ittita SUPPILULIUMA di inviarle uno dei suoi figli
per farne il suo sposo. Il principe ZANNANZA non
arrivò mai in Egitto perché fu ucciso prima di varcarne i confini. La regina fu probabilmente obbligata
a sposare AY, capo dell’amministrazione. Non sappiamo quale fu il destino della regina dopo il matrimonio con AY.
Conosciamo molte biografie riguardanti donne
non appartenenti alla famiglia reale come quella di
NANEFER (la bella) moglie di NEBNEFER capo di
scuderia. NEBNEFER amava moltissimo la moglie
ma non avevano figli, per cui era angosciato per il
futuro della moglie in caso di sua premorte. Per
metterla al riparo di una eventuale contestazione
dell’eredità da parte dei parenti, adottò la moglie come figlia in modo da renderla indiscutibilmente l’unica erede. Diciotto anni dopo NANEFER pensò di
renderne partecipi il fratello minore PADIU e la sua
serva, madre della futura sposa del congiunto.
Adottò il fratello come figlio lasciandogli la sua fortuna con la clausola di dividerla con la famiglia della
serva.
OMAR 23
nuovo
Durante l’Antico Regno PESESHET fu nominata
capo dei medici, trovandosi così a dirigere il servizio sanitario dello stato. PESESHET aveva frequentato, come molte altre donne, la “ casa della
vita” dove aveva imparato studiando su numerosi
trattati di diagnosi e prescrizioni. Era quindi in grado di preparare farmaci, unguenti ed effettuare
operazioni chirurgiche. Fra le specialità di PESESHET la ginecologia fu molto importante. Infatti le
malattie femminili e la sterilità venivano curate con
buoni risultati e veniva praticata anche la contraccezione. Il cancro dell’utero era una malattia conosciuta e che si tentava di curare, anche se con esito infausto con fumigazioni con carne bruciata oppure con datteri freschi, foglie di lauracea ed estratti di molluschi.
L’Egitto abbondava di donne d’affari come CHAT
(la giovane donna) che, durante la XII dinastia, era
ministro delle finanze di un governo locale e lavorava alle dipendenze di KHNUMHOTEP governatore
locale che poi sposò e al quale diede due figli. Anche HENUTTAUY fu di grande aiuto al marito che
sostituì degnamente come scriba della necropoli
quando questi dovette assentarsi per una missione.
Anche una principessa poteva diventare un’imprenditrice come HEMETRA (serva della luce divina)
che aveva alle sue dipendenze un intendente e numerosi scribi e che probabilmente gestiva tutto un
settore dell’amministrazione statale.
Le grandi tenute agricole necessitavano di dirigenti capaci che a volte erano donne come nel caso
di ASHAIT (colei che possiede l’abbondanza) che
oltre ad essere sacerdotessa di HATOR gestiva in
proprio la tenuta.
I lavori artigianali, specie se pesanti, erano svolti
da uomini, ma attività connesse alla bellezza e alla
cura del corpo erano appannaggio femminile. Conosciamo il nome di una parrucchiera della XI dinastia: INENU.
Il KA era l’energia creatrice che animava ogni forma di vita: depositandosi nell’essere umano ne determinava infatti la sopravvivenza. Era quindi essenziale che i ritualisti, dopo la morte dell’individuo,
compissero i gesti rituali indispensabili al mantenimento di questa potenza invisibile e immateriale.
Oltre ai “servitori del KA”, e fin dalle prime dinastie,
esistettero donne chiamate “quelle che servono il
KA”. Esse officiavano nelle cappelle delle tombe,
bruciavano incensi e profumi, presentavano offerte
e le rendevano efficaci enunciandole ad alta voce.
24 OMAR
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La materia veniva, così, trasformata in spirito. Una
di queste donne, NEFERTIABET (la bella orientale), era un personaggio eccezionale: sulla sua stele,
risalente al regno di CHEOPE, ella è rappresentata
su uno sgabello: vestita con una pelle di pantera,
con una lunga parrucca a trecce, tiene la mano sinistra sul petto mentre tende la destra verso una tavola delle offerte. Con questo gesto consacra mille
pani, mille orci di birra, mille capi di bestiame e mille di selvaggina, mille vasi di alabastro, mille pezze
di stoffa, incenso, olio, belletto verde, belletto nero,
frutta, ecc. Tutte queste offerte purificate serviranno
per le feste e i banchetti nell’aldilà. Davanti al viso di
NEFERTIABET che agisce come animatrice del KA,
si trova il geroglifico che significa “acqua di rigenerazione”: consacrando alimenti e prodotti rituali ella
li rendeva vivi per sempre.
Un gruppo importante di donne che appartenevano ad una sorta di dinastia furono le divine adoratrici del dio AMON, dal 1000 a. C. al 525 a. C.,
MAATKARA (la potenza creatrice della luce divina è
la regola) fu la prima di una serie di 12 donne che
scelsero il celibato sacro, sposandosi solo con il dio
AMON. Questa scelta le distinse nettamente dalle
“spose del dio” che le precedettero perché a queste
ultime non era precluso il matrimonio. La divina
adoratrice MAATKARA adottò la seconda HENUTTAUI (la sovrana delle due terre) e così di seguito.
Conosciamo tutti i nomi delle “divine adoratrici” che
si distinsero anche come costruttrici e amministratrici dei beni templari: MAATKARA, HENUTTAUI,
MEHYTUSEKHET (la potente dea MEHYT), KAROMAMA (amata da MUT), KEDEMERUT, SHEPERNUPET I (dono di UPET), AMENARDIS (la perfezione di MUT è raggiante), SHEPERNUPET II, NITOCRIS (NEITH eccellente), ANKHNESNEFERIBRA (che il faraone viva per lei, perfetto è il cuore
della luce divina), NITOCRIS II.
È stato TOLOMEO FILOPATORE (221-205 a. C.
ad abbassare la donna egizia allo stesso livello di
quella greca, imponendole un tutore per ogni atto
giuridico o commerciale annullando quell’ampiezza
di diritti che erano stati appannaggio delle egizie e
che fu solo parzialmente posseduta dalla popolazione femminile di un altro popolo: gli ETRUSCHI.
Oggi alle soglie del XXI secolo la donna ha raggiunto la libertà e i diritti delle egizie soltanto in alcuni Paesi e limitatamente al settore politico, sociale ed economico, infatti in campo religioso i vertici
toccati dalle egizie non sono mai più stati raggiunti
dopo la fine della civiltà faraonica.
Studi e informazioni culturali L’avvento della stampa a Novara
2° - Storia della tipografia Sesalli
Chiara Carpani
Durante il marchesato dei Farnese, Novara conobbe l’avvento della stampa.
Fino a quel momento i bisogni dei pochi letterati
cittadini erano soddisfatti dalle tipografie milanesi;
inoltre l’odissea politica che gravava sul territorio
non offriva certo un fertile terreno per l’impianto di
un’attività del tutto nuova per il Comune.
Alcuni Novaresi risultano dediti all’attività tipografica già dalla fine del Quattrocento ma tutti operarono lontani dalla città, come Domenico da Vespolate,
stampatore a Milano, e Bernardino Rizzi, attivo a
Venezia. Un Francesco Tornielli, autore nel 1517 di
un libretto dal titolo Del modo di fare le lettere maiuscole, fu forse un tecnico dell’incisione.
Una piccola officina tipografica venne aperta, prima della metà del Cinquecento, nel vicino Burgum
Lavizarium ma non ebbe né importanza né durata.
Il vero inizio dell’arte della stampa a Novara si
deve alla famiglia Sesalli e, più precisamente, a
Francesco Sesalli.
Gli studiosi Alberto Durio e Giovan Battista Morandi lo ritengono oriundo di Agarle in Valsesia in
quanto, in un documento del 1536, viene menzionato un certo “presbiter Baptista de Sesalli de Agarla Vallis Sicide” e perché, secondo alcune ricerche,
il cognome Sesalli (sotto varie forme) ricorreva sovente nei registri parrocchiali di detto comune.
Effettivamente il primo documento uscito dalla tipografia reca la dicitura “Appresso gli Heredi di Battista Sesalli” e, constatando la provenienza del religioso da Agarle, è stato naturale attribuire la stessa
patria anche a Francesco.
Così però non è. In un altro atto del 1558, da me
rinvenuto, si dice chiaramente che il nostro stampatore era sì della Valsesia ma di un paese vicino alla
frazione di Agarle e cioè Quarona.
Altri aspetti della sua vita familiare ci vengono
chiariti da altre carte: figlio del fu Bernardino, abitante in Novara, fratello di Giovanni Giacomo, nipote del suddetto Battista, si sposò con Margherita de
Gritti ed ebbe, secondo sua stessa ammissione, dodici figli.
Nel 1549, mentre si trovava a Venezia, fu chiamato dalla comunità di Novara per esercitare la
stampa in città; secondo due Ordinati del 1587-88
pare che la famiglia Sesalli possedesse già una rivendita di libri ma non una tipografia.
Ottenute varie immunità e concessioni, più volte
confermate nel tempo anche dal re di Spagna Filippo II e da un Motu proprio di Gregorio XIII, Francesco e Giacomo affiancano alla bottega già posseduta una officina per la stampa. A tal fine il Comune
concesse loro dei locali nel palazzo del Broletto,
sotto l’Arengo.
I fratelli lavorarono insieme almeno fino al 1559
poi, nelle indicazioni tipografiche, appare il solo
Francesco. Questo è dovuto al fatto che Giacomo,
già chierico, nel 1557 diventa canonico di San Gaudenzio e, pian piano, rinuncia agli utili dell’officina,
prendendo pieno possesso delle prebende a lui assegnate. Non deve stupire che un religioso prendesse parte ad attività lavorative redditizie: in quei
tempi la scarsa disciplina del clero era cosa provata
e solo il Concilio di Trento riuscì a dare un taglio a
queste “pubbliche” abitudini.
Nel 1567 Giacomo muore in circostanze misteriose tanto da indurre Francesco a fare delle indagini per sequestro di cadavere.
Verso questo stesso anno l’attività tipografica si
fece più intensa grazie allo spirito d’iniziativa di
Francesco che, oltre ad essere tipografo e libraio,
divenne anche editore, promovendo la stampa sia
di alcuni manoscritti da lui stesso ricercati presso
vecchie biblioteche sia di testi trattanti argomenti
che pensava potessero interessare ai lettori.
Egli non fu un semplice commerciante ma anche
uomo di una certa cultura: più volte scrisse, sia in
latino che in volgare, delle premesse o dediche ai libri da lui stampati, per non parlare del poemetto in
ottave sulla Descrittione del Sacro Monte di Varale
e delle Vite dei Santi Patroni della città di Novara da
lui scritti (o trascritti) in volgare.
L’ambiente culturale novarese della seconda
metà del Cinquecento era dominato, soprattutto,
dalla figura del giureconsulto milanese Bartolomeo
Taegio e dall’Accademia dei Pastori d’Agogna. Il
Sesalli viene a farne parte, se non come vero e proprio membro, almeno come stampatore delle opere
dei letterati che ne facevano parte e intrattenendo
con loro una sicura amicizia, attestata, per esempio, da una delle Risposte del 1554 di B. Taegio indirizzata proprio a Francesco.
Il Durio ritiene che il lavoro nella tipografia non
fosse parcellizzato ma che, oltre a stampare, i fratelli Sesalli fondessero anche i caratteri di cui si servivano, ne eseguissero la composizione ed effettuassero le correzioni, oltre a vendere il prodotto finito. Ritengo che ciò non sia del tutto corretto; purtroppo non si è ritrovato alcun documento che parli
dei caratteri o delle xilografie utilizzate e di come il
Sesalli se li procurasse ma da alcune carte è possi-
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nuovo
bile chiarire alcuni aspetti della bottega.
Già G. B. Morandi parla di un atto del 1558 in cui
un magister Petrus de Burghesiis de Vercelli figura
come aiutante di Francesco Sesalli. A questo posso
aggiungere un altro nome: quello di Gerolamo Frova o de Froa che il 23 settembre 1578 stipula un accordo con lo stesso Sesalli per aprire una libreria e
tipografia in Como. In detto documento il Frova viene indicato come coadiutoris del Sesalli.
Probabilmente, dopo la rinuncia del fratello Giacomo, Francesco non riuscì a tener testa da solo al
lavoro dell’officina e cercò qualcuno che lo aiutasse.
Questo Gerolamo Frova, acquisita una certa
esperienza, decide di aprire una propria tipografia
nella cittadina lacustre e stipula un accordo col Sesalli, il quale si incarica per cinque anni di comprargli dei libri a Venezia e di farne venire altri da Lione.
Inoltre, dividendo le spese, il Sesalli avrebbe potuto
far stampare e vendere libri anche a Como tramite il
Frova.
Un altro atto rinvenuto all’Archivio di Stato di Alessandria mette in contatto il tipografo novarese con
Giovanni Francesco Giolito de Ferrari, appartenente
alla famosa casata di stampatori che da Venezia fecero ritorno a Trino Vercellese. Da esso si apprende
che il Sesalli doveva pagare scutor, quinquaginta et
septem auri Italie per dei non precisati libri.
Sapendo che Trino fu un centro di smistamento
per i libri provenienti da Lione in Italia e da Venezia
verso la Francia e che i Giolito commerciarono con
i vari librai dei dintorni, non è difficile supporre che
anche il nostro Sesalli fosse un “affezionato cliente”.
Detto questo ritengo possibile che la tipografia
sesalliana si servisse anche di altri aiuti: probabilmente i caratteri non venivano fusi in loco ma acquistati altrove. Non è detto che, durante uno dei
suoi viaggi a Venezia, Francesco non portasse indietro qualche “pezzo” utile all’officina o che, tramite i Giolito, non gli riuscisse di acquistare da qualche persona specializzata nella fusione.
Il successo della tipografia fece sì che nel 1575 il
Comune gli concedesse un’area per allargare la
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bottega ma, dodici anni dopo, volendo rimettere a
posto il Broletto, il Consiglio decise di abbattere l’officina. Il Sesalli si rivolse al Sovrano per avere protezione e, nel 1588, la divergenza venne appianata.
Diverse concessioni e immunità ottenne il Sesalli per la sua bottega; più di una volta egli disse di essere pauper, ac gravatus filiis, ac filiabus nubendis
e ciò dovette fargli ottenere qualche beneficio sebbene risulti possedere, a Novara e dintorni, alcuni
terreni, case e addirittura una cascina che diede in
affitto. In più non bisogna dimenticare che era anche editore: le opere che decideva di dare alle
stampe, se non commissionate, doveva finanziarle
egli stesso.
Dopo l’agosto 1588 non si hanno più notizie della sua attività; un atto di affitto del 28 aprile 1589 rivela che egli è già morto.
Ciò segna la decadenza dell’officina: ne prende
possesso fino al 1593 il figlio Giovanni Battista e poi
l’altro figlio Gerolamo che stampa, anche a nome
dei fratelli, fino al 1630.
La cattiva qualità di stampa, la lentezza nell’esecuzione e l’esosità dei prezzi gli alienarono la clientela novarese tanto che, nel 1599, il Comune minaccia di togliergli i privilegi e di darli ad un’altra
persona.
Spaventati, i Sesalli migliorarono il loro lavoro e
nel 1612 Gerolamo non si imbarazza a chiedere privilegio di stampa per sé e i suoi eredi dicendo “che
esso supplicante ha ridotto detta sua stampa a perfettione tale, che è sicuro di satisfare a qual si voglia
opera…”.
Forse fu anche per ingraziarsi il Consiglio che
Gerolamo, come riporta G. B. Morandi, divenne un
factotum per il Comune.
La tipografia, comunque, perse il lustro che aveva raggiunto con Francesco e, ben presto, un altro
stampatore ottenne privilegi e immunità: Giovanni
Angelo Caccia iniziò a pubblicare nel 1597, aprendo
una ricca bottega e i suoi successori, prendendo il
titolo di stampatori della Città e stampatori vescovili, esercitarono quest’arte fino al XIX secolo.
Studi e informazioni culturali Divisionismo e impressionismo
di Verdiano Quigliati
Percorrendo la strada colorata lunga una vita
di Verdiano Quigliati dalla Bicocca della “fatal
Novara” alla valle dei pittori. Via Venezia e Parigi
(Mostra a Novara dal 29-12-2005 al 22-1-2006)
Marco Rosci
I settant’anni di travolgente gioia pittorica di Quigliati nascono da sue particolari virtù: l’intreccio fra
una nativa vocazione dell’artista alla costruzione
cromatica e la necessità e capacità professionale
del tecnico cronista e dirigente editoriale di riproduzione artistica, formatosi e attivo con grande stima
in tempi in cui la sensibilità e la memoria ottica, e
non lo scanner, erano il motore primo della creazione tipografica, di penetrare nelle più intime fibre della manifattura pittorica antica e moderna; la capacità di cogliere la peculiare essenza cromatica e atmosferica, e di variare con essa e per essa le sue
modalità pittoriche, delle sue
città e luoghi di elezione, tappe dei vagabondaggi professionali nelle città d’arte d’Italia
per De Agostani, a Parigi per
Cino del Duca, fino alla Val
Vigezzo del maestro liberamente scelto nei primi anni
Quaranta della piena vocazione pittorica, Carlo Fornara.
Questa mostra vuole appunto scandire e ripercorrere
queste tappe, Venezia, Parigi, Valle Vigezzo, ciascuna
delle quali porta un suo particolare e peculiare tassello di
confronto in un tessuto pittorico che rimane alle linee di
fondazione della naturalità
paesistica del XX secolo, dal
postimpressionismo al divi-
sionismo, con una forza e una qualità di espressione cromatica e una consapevolezza culturale che
riscattano ogni aura di inattualità.
Per sottolineare a livello simbolico e di memoria
locale le origini dell’artista si è voluto esporre all’inizio in forma autonoma e distinta Tramonto alla Bicocca, una delle opere divisioniste di più forte impatto simbolico e fantastico, in cui una grande lucidità di riflessione sui modelli storici richiama, agli
antipodi della tangibile concretezza di natura di Fornara, le punte più estreme del simbolismo solare di
Pellizza da Volpedo. L’artista rievoca nella maturità
il lavoro nella campagna, in lieve ascendenza verso
il rilievo morenico su cui sorge Novara, in cui si svolse la battaglia, alle spalle della parrocchiale del sobborgo dove nacque il 17 luglio 1915.
La stessa aura espressionistica e fantastica che
A fianco: “La gerla”;
nella pagina seguente,
in alto: “Il ponte - Venezia”;
a piè pagina:
“Sole d’autunno”
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simbolizza l’immagine della
realtà ricompare in una delle
vedute veneziane che aprono
la mostra, Ave Maria sulla laguna, con uno dei tipici tabernacolini con statua sacra su
pali emergenti sulle acque lagunari sotto l’irrealtà di un
cielo striato rosso arancio.
Tutte le altre, dalle pietre solenni amate da Ruskin in
piazzetta San Marco ombrate
d’azzurro o rosate sotto il sole
agli intonaci poveri ma fioriti,
rossi, verdi, violacei di Cannaregio, riflessi nelle acque
materiate di bianco e azzurro
del canale, e agli altrettanto
materiati rossi blu e neri delle
barche nei canali di Chioggia,
con la loro compatta modellazione cromatica che conferisce a Venezia un’aura fauve
anche nel caso della fibrillazione divisionista del Ponte, presentano il versante
più lussureggiante e solare della tavolozza di Quigliati.
Altra luce, altra atmosfera, emergono dalle vedute parigine, soffuse di memorie impressioniste, ma
come riecheggianti echi e suoni e immagini pertinenti alla generazione del pittore, introdotto cinquantenne nella città di Cino del Duca nel 1956: davanti a quelle imposte di negozi di vernice rosso
carminio di place Maubert hanno passeggiato gli
amanti di Prévert, in quei vecchi falansteri dai muri
grigiazzurri stinti delle Halles non ancora rase al
suolo per far posto al Centre Pompidou è stato girato qualche film di Carné o di Clair, sui canali dalle
acque plumbee o ghiacciate scivola l’Atlante di Vigo, gli alberi imbiancati sulla Senna davanti alla
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chiesa di Saint-Gervais sono figli o nipoti dei filari di
Sisley nei villaggi lungo la Marna o la Senna. Pioggia, neve, il cielo grigiopallido di Parigi: esso si riflette in viola sul selciato bagnato di place de la
Concorde, con le statue delle fontane in controluce
neroviola, con il fantasma grigio della cupole degli
Invalidi sul fondo.
Sono il frutto di Vingt années à travers Paris illustrati nel 1973 nella monografia di Carlo Bo e Raffaele De Grada edita da Cino del Duca. Ma la penultima fotografia a colori di quella monografia, con
tanto di firma e di data in calce al di sotto, illustra la
mano dell’artista con il pennello mentre dà l’ultimo
tocco a un paesaggio divisionista di quella Val Vigezzo dove il giovane ventiseienne già saliva in bicicletta da Novara nei giorni liberi per per incontrare
e “imparare” da Fornara. A questo terzo e fondamentale volto dell’arte di Quigliati è dedicata la seconda metà della mostra, conclusione trionfale con
la sua sinfonia divisionista grigiazzurra e bruno dorata della Val Vigezzo, soprattutto primaverile e autunnale, preceduta come anello di congiunzione da
una Forêt de Fontainebleau en automne e accompagnata da una grande bellissima veduta sul Lago
Maggiore. È una sinfonia di compatta coerenza lungo sessant’anni, a partire dalla Primavera a Courmayeur datata 1942. Gli espliciti omaggi a Fornara,
da Primavera a Craveggia a Prestinone in marzo e
Neve e sole e Crepuscolo d’ottobre, in cui aleggia la
memoria di quella Processione in Val Vigezzo del
maestro che il giovane probabilmente aveva già
ammirato nelle sale inaugurate negli anni Trenta
della collezione Giannoni al Broletto che oggi lo
ospita prima ancora di salire ed essere accolto a
Prestinone, si alternano ad autonome letture della
valle di grande respiro spaziale come il Lazzaretto
di Prestinone, Nebbie d’autunno, Pascoli d’ottobre,
Paesaggio primaverile, La chiesa bianca – Paggio.
Sua peculiare, da Fontainebleau alla valle, è la poesia autunnale dei boschi rosso e oro simboleggiata
da Trionfo d’autunno e svariate da Sottobosco in
autunno a Inverno senza neve.
Marco Rosci
L’intervista
Vorremmo chiederle – al di fuori delle tradizionali note biografiche – dell’avvio della sua vita artistica.
La mia scelta per il divisionismo è stata l’inizio
della mia vita artistica.
Come ha influito nella sua vita di artista la carriera professionale prima presso la De Agostani, poi in
Francia alla Cino del Duca?
Alla De Agostani e alla Cino del Duca il lavoro
della riproduzione d’arte mi ha influenzato positivamente.
Come è arrivato in Val Vigezzo?
In Val Vigezzo andai per conoscere il maestro
del divisionismo Carlo Fornara. Da qualche anno,
lasciato l’acquarello, mi ero dedicato allo studio del
divisionismo.
Ci racconti il suo primo incontro con Carlo Fornara. Quali sensazioni ha provato nell’incontro?
Era il 1941. Il maestro mi accolse molto gentilmente. Gli dissi che ammiravo la sua pittura e che
da qualche anno avevo scelto la stessa tecnica divisionista. Mi incoraggiò e da allora le mie visite si fecero più frequenti. Era un uomo eccezionale e lo
ammiravo molto.
Come erano i rapporti con il maestro? Che cosa
le diceva quando lei gli sottoponeva i progetti o il
bozzetto di qualche quadro che poi avrebbe realizzato?
Diventammo amici. Le nostre conversazioni erano sempre improntate sull’arte e sulle tendenze del
momento. Mi parlava del suo maestro Cavalli e dei
suoi amici pittori: Segantini, Pellizza, Grubicy e rievocava gli anni della belle époque.
La Val Vigezzo è definita la “valle dei pittori”, perciò lei avrà incontrato altri artisti: ce ne sono alcuni,
in particolare, che si sono “incrociati” nel suo stile e
come erano i vostri rapporti?
Abitando a Parigi, rari erano gli
incontri con gli altri pittori della valle.
La Val Vigezzo, Parigi, Venezia, Milano: sono
grandi “aree” che lei ha vissuto e vive trasportandole nelle sue opere. Ci può rivelare lo spirito interpretativo e realizzativo posto in esse?
Così la Valle Vigezzo, Parigi, Venezia e Milano
sono realizzate in stili diversi e interpretate in ambienti diversi. Ciò spiega le varie tecniche.
Abbiamo avuto modo di conoscere la sua signora, Delfina. Quale ruolo e che importanza ha, nella
sua vita di artista, questa “donna” che la segue molto da vicino e “vive” la sua arte?
Le ripeto quanto ha scritto Giuseppe Possa: “È la
moglie – una signora tranquilla e calma che mi fa
pensare a un placido mare che accoglie l’impetuosità di un fiume in piena – a suggerirgli di stare calmo, di non agitarsi”.
Verdiano Quigliati è nato a Novara il 17-7-1915.
Ha lo studio in Val Vigezzo (Prestinone 28852 –
Craveggia (VB) – tel. 0324 98167. È disponibile per
chiunque voglia mettersi in contatto con lui.
Ci parli degli artisti incontrati nel
suo periodo parigino. Vi siete scambiati idee, emozioni, progetti? Quale era il vostro rapporto artistico?
Degli artisti incontrati nel periodo
parigino, uno in particolare mi ha impressionato: Salvador Dalì. L’ho conosciuto e apprezzato anche nelle
sue stravaganze.
Le sue opere vivono in vari “stili”:
il divisionismo, l’impressionismo o
postimpressionismo. Sono, queste,
realizzazioni dovute all’ambiente in
cui vive, oppure all’interpretazione
che lei assume o ad altro?
I vari stili delle mie opere sono
dovuti all’ambiente e alle emozioni
del momento della visione.
Piazza della Concordia - Parigi
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Studi e informazioni culturali
Sacri Monti, tesori di arte e fede
Annarita Merigo
A partire dal XV secolo e in particolare nel periodo
che seguì il Concilio di Trento, prese forma, nell’ambiente naturalistico del territorio prealpino, un particolare tipo di complesso devozionale definito Sacro Monte. Per l’edificazione di un Sacro Monte veniva scelto di
preferenza un luogo che già possedeva una valenza di
devozione, quale poteva essere un santuario (ad
esempio a Crea esisteva già il santuario dedicato alla
Vergine), all’esterno del quale, una serie di cappelle o
edicole ospitanti gruppi statuari, con dipinti e sculture,
rappresentava i “misteri” della storia di Cristo, le scene
della vita di Maria o di santi (san Francesco, san Carlo
ecc.). Le cappelle, il più delle volte, erano di considerevoli dimensioni architettoniche, ed erano collegate
tra loro da un percorso labirintico guidato dalla natura,
come nei giardini all’italiana dell’epoca. Esse erano distribuite preferibilmente sul versante di una montagna,
la quale, trasformata in uno spettacolare scenario di
natura e arte, offriva al credente la possibilità di compiere quello che oggi chiamiamo un “itinerario dello spirito”. Durante la visita a un Sacro Monte il passo del
pellegrino, modulato sul ritmo dell’“ascendi”, del “descendi” e del “seguita poi”, efficacemente espresso in
una guida del 1514, scandiva il progressivo compimento di un percorso devozionale altamente simbolico
attraverso un necessario connubio di fatica e contemplazione dei meravigliosi gesti dei testimoni della storia
cristiana. Al culmine del rilievo montuoso, il raggiungimento dell’ultima cappella segnava il compiersi di una
vera e propria catarsi. Per certi versi un pellegrinaggio
penitenziale: “Dura Via est? Christi est”. Che significa:
la strada è dura? È quella di Cristo. Così leggiamo sul
muro di una cappella del Sacro Monte di Domodossola. Più che una domanda un invito a non fermarsi, ad
accogliere con gioia e stupore l’idea di un viaggio alla
scoperta della storia della salvezza. Ma non è tutto. Il
percorso da compiersi al Sacro Monte non di rado richiamava la Via Dolorosa, il cammino che Cristo compì
a Gerusalemme per raggiungere il Calvario. Per questo motivo, soprattutto nel caso del Sacro Monte di Varallo, si parlò di Nuova Gerusalemme, poiché l’intento
dichiarato dall’ideatore del complesso padre Bernardino Caìmi, frate dell’Ordine Francescano che aveva vissuto per un certo periodo in Terra Santa, era quello di
riprodurre con fedeltà i luoghi che erano stati testimoni
di alcuni importanti episodi della Vita di Gesù Cristo. I
pellegrini avrebbero avuto così la possibilità di visitare
“virtualmente” la Terra Santa, esperienza fondamenta-
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le per qualunque cristiano che desiderava accostarsi
con particolare intensità al mistero di Cristo. Ma il viaggio a Gerusalemme era un’avventura che non tutti potevano concedersi e che, gradualmente, a causa dei
costi, dei pericoli e della complessiva instabilità politica, pochi decidevano di affrontare. Visitare un Sacro
Monte diveniva una pratica sostitutiva non rischiosa e
ripetibile per ottenere un’indulgenza, senza che ci fosse la necessità di mettere a repentaglio la propria vita.
Come succede spesso, le creazioni sublimi dell’arte
sacra attraversano indenni i secoli, così che oggi il pellegrinaggio ai Sacri Monti rimane una pratica popolare
ancora piuttosto diffusa, e mantiene intatta la suggestione che dovettero provare i primi cristiani che ebbero la possibilità di compierlo: emozione, sorpresa, mistero. Attualmente, anche il visitatore un po’ distratto,
che si aggira tra le cappelle con intento “turistico”, oltre
alla soddisfazione degli occhi, guadagna facilmente un
desiderio di riflessione e contemplazione interiore. La
visione delle scene rappresentate nelle cappelle, i gesti
drammatici, le espressioni intense delle statue distribuite in quadri “quasi viventi”, e ancora, l’ombra degli
edifici, il raccoglimento dei luoghi, costituiscono una
stupefacente esperienza alla quale è difficile sottrarsi.
Merito anche degli straordinari artisti che vi lavorarono, alcuni dei quali segnarono i momenti più significativi della cultura pittorica e plastica dei secc. XV XVII. Pensiamo a Gaudenzio Ferrari, a Giovanni d’Errico, al Morazzone, a Tanzio da Varallo. Merito anche
dei numerosi aiutanti, capomastri, scultori, plasticatori,
pittori, falegnami, fabbri e vetrai che con i loro sforzi
contribuirono a fare dei Sacri Monti un unicum della
storia dell’arte occidentale. La diffusione dei Sacri
Monti incontrò una particolare fortuna nell’Italia nordoccidentale. A poca distanza da casa nostra possiamo
trovare il Sacro Monte di Varallo, il Sacro Monte d’Orta,
il Sacro Monte di Arona, il Sacro Monte di Varese, di
Domodossola, di Ghiffa, di Crea, di Oropa, di Graglia,
di Ossuccio.
Sacri Monti Patrimonio dell’Umanità
L’eccezionale testimonianza di arte e fede rappresentata dai Sacri Monti è stata recentemente riconosciuta dall’Unesco, che così li definisce: “I Sacri Monti
dell’Italia settentrionale sono gruppi di cappelle e di altri elementi architettonici realizzati tra la fine del XV e la
fine del XVII secolo dedicati a diversi aspetti della fede
cristiana. In aggiunta al loro significato religioso simbolico, sono inoltre di una grande bellezza grazie all’abile
integrazione degli elementi architettonici nei paesaggi
naturali circondati di colline, foreste e laghi. Contengono inoltre opere d’arte molto importanti sotto forma di
affreschi e di statue”. Il Comitato del Patrimonio Mondiale, in particolare, aggiunge: “La realizzazione di un’opera di architettura e di arte
sacra in un paesaggio naturale, per scopi didascalici e religiosi, ha raggiunto la sua più alta espressione nei Sacri Monti dell’Italia settentrionale e ha avuto una profonda influenza
sui successivi sviluppi del fenomeno nel resto
d’Europa. I Sacri Monti dell’Italia settentrionale, realizzati per ragioni religiose in un periodo
critico della storia della Chiesa Cattolica, rappresentano la riuscita integrazione tra architettura e belle arti in un paesaggio di notevole
bellezza”. L’Unesco ha valorizzato l’importanza dei Sacri Monti del Piemonte e della Lombardia in modo mirabile, inviando, nel 2001,
una delegazione di esperti che ha effettuato
sopralluoghi e incontri. Al termine di questa indagine, nel luglio 2003, i Sacri Monti di Belmonte, Crea, Domodossola, Ghiffa, Oropa, Orta, Ossuccio, Varallo e Varese sono stati inseriti nella lista
dei beni culturali Patrimonio dell’Umanità.
Valorizzazione e tutela
L’iscrizione dei Sacri Monti del Piemonte e della
Lombardia nella lista dei beni culturali Patrimonio dell’Umanità è stato un evento di particolare conforto per
tutti quegli Enti ed Istituzioni, pubblici e privati che, a diverso titolo, si sono occupati e si occupano di promuovere iniziative culturali, studi e ricerche intorno alla conservazione e alla valorizzazione di questo insostituibile
patrimonio storico-religioso. Va rilevata ad esempio
l’attenzione dimostrata dai Parchi Naturali che gestiscono i Sacri Monti, che si concretizza in interventi di
diverso tipo, a volte meno appariscenti sul piano della
comunicazione – per usare le parole di Luigi Merlo,
Presidente del Parco Naturale del Sacro Monte di Crea
– ma più rispettosi, a livello di contenuti, dell’intima natura e della sacralità di questi luoghi.
Non possiamo dimenticare inoltre lo sforzo che viene compiuto dalle varie Diocesi attraverso l’animazione
spirituale e catechetica, che si avvale delle bellezze artistiche dei Sacri Monti per riscoprire la profondità del
messaggio cristiano. Lo stesso Papa Giovanni Paolo
II, protagonista di una indimenticabile visita al Sacro
Monte di Varallo, sottolineò l’importanza del
connubio tra arte e fede: “Per trasmettere il
messaggio affidatole da Cristo, la Chiesa ha
bisogno dell’arte. Essa deve infatti rendere
percettibile e, anzi, per quanto possibile, affascinante, il mondo dello spirito, dell’invisibile,
di Dio”.
La valorizzazione dei Sacri Monti non sempre avviene “in loco”. Essi vengono celebrati
“a distanza” attraverso altre manifestazioni.
L’ultima, in ordine di tempo, è la mostra allestita presso il Museo Borgogna di Vercelli dal
titolo “Verso il Sacro Monte”. Nella presentazione si legge: “La mostra si propone di tracciare, intorno al tema della Passione, un percorso artistico ideale che, dipanandosi nel territorio vercellese a partire dalla seconda metà
del Quattrocento, si conclude con la creazione
del Sacro Monte di Varallo. Il titolo della mostra - Verso il Sacro Monte - assume quindi un
Sacro Monte di Varallo
duplice significato: geografico, a indicare un cammino
di avvicinamento fisico; storico, a individuare presupposti e precedenti religiosi e artistici che caratterizzano
le espressioni figurative in campo pittorico e scultoreo”.
Da pochi anni inoltre, per allargare l’orizzonte italiano a tutte quelle esperienze di arte e fede che hanno
un’origine comune con i Sacri Monti è stato costituito a
Crea il Centro di Documentazione dei Sacri Monti, Calvari e Complessi devozionali europei, il cui obiettivo è
quello di “...sistematizzare e sviluppare quel processo
di conoscenza, documentazione, ricerca e scambio di
informazioni emerso a seguito della conclusione della
prima fase del lavoro di censimento dei Sacri Monti avviato nel 1995 e terminato nel 2000…”. Un esempio di
questo impegno è costituito dal Convegno Internazionale “Religioni e Sacri Monti” svoltosi nell’ottobre 2004,
frutto della collaborazione con la Regione Piemonte e il
Dipartimento di Orientalistica dell’Università degli Studi
di Torino. Un’organizzazione complessa che si è sviluppata in tre sedi diverse (Torino, Moncalvo, Casale
Monferrato), per la durata di cinque giorni e di cui sono
stati recentemente pubblicati gli Atti. Esso ha rappresentato un momento fondamentale del percorso di tutela e valorizzazione dei Sacri Monti intrapreso dalla
Regione Piemonte dal 1980 e si inserisce nelle iniziative che, in questo difficile momento storico, intendono
favorire il dialogo interculturale e interreligioso.
Sacro Monte di Oropa
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Studi e informazioni culturali
Vivere tra le pietre
costruzioni sottoroccia
Introduzione
In Valmaggia (Canton Ticino, CH) sono numerose ed estese le zone di franamento che coprono i
versanti e che occupano vaste fasce pedemontane.
Il rilievo impervio e la povertà dei suoli hanno costretto l’uomo ad adattarsi ad un paesaggio dominato dalla pietra. Vennero ampliati e scavati numerosi anfratti naturali per adattarli a rifugio, per conservare prodotti e per soddisfare altri bisogni essenziali tipici di un’economia di sussistenza.
L’Associazione del Museo di Valmaggia ha promosso e compiuto un’ampia ricerca sulle costruzioni
sottoroccia, presenti in questa valle in grande numero e con forme anche straordinarie. Sono stati inventariati più di 1500 vani, distribuiti dal fondovalle ai pa-
Uomo e natura
in una valle sudalpina
scoli più elevati. Lo studio delle loro caratteristiche e
delle loro funzioni ha permesso di scoprire una sorprendente capacità di adattamento alla montagna e
di documentare una frequentazione durata millenni.
Tipologie
Splüi
Gli splüi sono rifugi situati sotto macigni singoli o
accavallati e si trovano generalmente in zone di franamento. L’uomo ha saputo sfruttare al meglio gli
anfratti naturali e, per soddisfare i propri bisogni, li
ha ampliati con lavori di scavo e migliorati con la
realizzazione di opere murarie e coperture più o
meno importanti.
Grondan
Il termine gronda indica generalmente uno spazio coperto da una parete rocciosa strapiombante o
da un singolo macigno con una porzione aggettante
che può offrire riparo all’uomo e agli animali.
Manufatti di poco conto, grossolane recinzioni o rustici muretti completano una gronda semplice. Strutture architettoniche elaborate e complesse, appoggiate alla roccia, caratterizzano le gronde ampliate.
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Cantìn
Questo tipo di cantina è costituito da vani ricavati
fra blocchi di un franamento o scavati sotto singoli
macigni. E’ reso fresco dalla profondità e talvolta dall’acqua che vi scorre o dalle correnti d’aria provenienti dagli anfratti sotterranei. Si trova generalmente quindi vicino agli insediamenti temporanei o permanenti e accoglie il frutto del lavoro contadino: latte,
formaggio, vino.
Le cantine sono anche spesso impropriamente denominate grotti. Questi ultimi hanno la stessa funzione (ossia conservare principalmente vino e formaggi), ma rispetto alle cantine
i grotti sono generalmente
manufatti più variegati: capita spesso che accanto
siano insediate altre piccole costruzioni, a volte provviste di focolari, destinate ad usi diversi: vi si poteva eseguire la vinificazione e trascorrere le poche ore di libertà
(spesso all’esterno erano presenti tavoli in sasso).
Caratteristiche costruttive
Accessi
A dipendenza delle situazioni naturali si scavavano
trincee, si costruivano scalini e scale, a volte anche ripide, o si sistemava semplicemente il terreno all’esterno del vano. Il trasporto di materiale e il passaggio dei bovini risultavano talvolta difficoltosi e rischiosi.
Murature
Il perimetro di una costruzione sottoroccia è completato con
opere murarie di vario tipo: da semplici recinzioni a muri di facciata di ottima fattura. Il muro, formato da pietre informi o ben
squadrate, ha raramente funzione di sostegno. L’abilità e la cura
con cui è stato edificato dipendono dalla perizia del costruttore e
dalla funzione del vano.
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Coperture
Non sempre la copertura naturale del blocco
preservava da infiltrazioni di acqua piovana; era
quindi necessario realizzare diversi manufatti per
proteggere l’interno o per ampliare il vano. Alcuni
sono piccoli accorgimenti, altri consistono in tettucci di piode sostenuti da carpenterie a volte elaborate.
Pavimentazioni
Generalmente la superficie è costituita da terra
battuta, da ciottoli o da pietrame livellati.
Il pavimento più diffuso è quello in piode di forma
e spessore variabili, meno frequente è l’impiego di
assiti o di travetti posti uno di fianco all’altro. L’acciottolato si riscontra raramente e sempre in ambienti frequentati dal bestiame.
Serramenta
L’entrata che permette l’accesso al vano sottoroccia aveva quasi sempre un elemento di chiusura
con caratteristiche assai diverse a dipendenza della
funzione della costruzione. Negli splüi e nelle gronde si trovano semplici cancelli o porte rustiche; il
contenuto delle cantine è per contro protetto da porte massicce, munite di robusti catenacci e di serrature.
Canalette
Per evitare infiltrazioni dell’acqua piovana che
scorre sulla superficie del blocco, in certi casi vennero scolpite nella roccia canalette. Si trovano generalmente sulla parte anteriore e riducono lo stillicidio sopra l’entrata. L’acqua raccolta veniva poi dispersa nel terreno circostante.
Sfiatatoi (fiandröi)
Nelle cantine sottoroccia presenti sul fondovalle
e specialmente in quelle adibite alla conservazione
del vino è frequente la presenza di correnti d’aria
sotterranee. L’aria fresca affluisce da pertugi presenti nel corpo della frana e determina la temperatura dell’ambiente. La circolazione muta nel corso
delle stagioni dando alla cantina aria fredda in estate e mite in inverno.
Suppellettili
Vani così arcaici e semplici sono poveri anche di
arredamento, che varia a dipendenza della funzione
cui la costruzione era destinata. Gli oggetti venivano
posti in nicchie o su ripiani in pietra, talvolta sostenuti da mensole. Nelle cantine si rinvengono botti,
resti di bottiglie e di misure di capacità, nelle cascine si trovano spesso torno e spersole di legno o di
pietra.
Funzioni
Cascina
Sono poco frequenti i casi in cui l’uomo cerca rifugio sotto le rocce, adattando gli anfratti naturali al
soggiorno. Questo accade in generale sugli alpeggi,
dove la permanenza estiva era molto breve, tanto
da rendere sopportabili anche condizioni di vita pri-
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mitive e spartane. Nei pochi metri quadrati di superficie coperti da un blocco, pastori e alpigiani dormivano attorno al fuoco e lavoravano il latte.
Stalla
Il bestiame sugli alpeggi cerca momentaneamente rifugio sotto i macigni quando il tempo è inclemente, poiché di solito resta giorno e notte all’aperto. Sui maggenghi e nel fondovalle si trovano ambienti sottoroccia scavati ed adattati per una permanenza più prolungata dei bovini (vachièra). Solo in
pochi casi si può parlare di vere e proprie stalle munite di mangiatoie e con uno spazio che funge da
fienile.
Cantina
In un’economia di sussistenza era fondamentale
saper conservare i prodotti della terra e dell’allevamento. Le cantine si trovano spesso in zone di franamento dove tra i macigni si possono scavare freschi ambienti sotterranei, ideali per conservare il latte e i latticini. Il vino veniva custodito nei grotti, presenti nella fascia dove si coltiva la vite.
Telaio
L’attività della tessitura sembra essere preclusa
in un ambiente sottoroccia, ma a Sabbione e in Val
Bavona uno splüi ospitava un telaio. In un piccolo
vano sormontato da un macigno a forma piramidale
le donne potevano tessere. La luminosità indispensabile proveniva da un’ampia finestra ed era riflessa
da un rustico intonaco a calce.
Forno
A Mondada in Val Bavona uno splüi raccoglie un
forno per il pane, costruito a circa tre metri dall’entrata, su un basamento che ha integrato alcuni blocchi difficili da evacuare. L’interno del forno ha un
diametro di metri 1,20 ed è eseguito con pietre ben
tagliate e posate in modo da formare una cupola. Il
fumo ed il profumo del pane fresco si espandevano
dapprima all’interno della cavità e poi nei dintorni.
Metato (gra)
Nella fascia castanile sopra a Someo, una zona
oggi completamente abbandonata, è stato trovato
un metato 1 ottenuto sotto un macigno. L’altezza del
vano ha reso possibile la suddivisione in due parti
separate da un graticcio: sotto si accendeva il fuoco
e sopra venivano poste le castagne per l’essicazione. Una rudimentale canna fumaria scavata nel terreno permetteva l’evacuazione del fumo.
Cisterna di Scinghiöra
È una costruzione singolare in stretto connubio
con un macigno, di cui sfrutta la parte superiore a
forma di imbuto. L’acqua piovana, raccolta grazie a
canalette scolpite nella roccia, converge verso la cisterna posta nella parte concava del macigno. Una
soluzione ingegnosa per un maggengo di Menzonio
povero di corsi d’acqua.
1
Locale per l’essicazione delle castagne
Latrina
Basta una piccola concavità protetta da un blocco per realizzare una semplice latrina. Un posticino
appartato e discreto, attrezzato con il minimo indispensabile, permette di soddisfare un sacrosanto
bisogno fisiologico.
Interno
di un grotto
Forgia
In una cavità che si trova a Sonlerto in Val Bavona, formata da due blocchi rizzati e convergenti,
venne allestita una piccola officina da fabbro dove
venivano forgiati e riparati gli attrezzi di lavoro. Oggi di questa attività restano ben poche tracce: un’incudine, un tronco conficcato nel terreno e i segni lasciati dalla battitura del ferro rovente sulla roccia.
Deposito
Ogni cavità naturale, anche quelle lontane dagli
abitati e dai sentieri, se possibile veniva ampliata e
completata con semplici manufatti. Ogni spazio riparato dalla pioggia, per quanto angusto fosse, poteva tornare utile alle persone che percorrevano e
sfruttavano l’intero territorio. Vi si raccoglievano legna, fieno di bosco, attrezzi di lavoro.
Funzioni moderne
Il radicale cambiamento di vita degli ultimi decenni ha portato all’abbandono di gran parte delle costruzioni sottoroccia. Sono rare quelle che mantengono la loro funzione primitiva e poche quelle trasformate e adattate ai bisogni attuali. Tra queste si
trovano: una residenza secondaria, servizi igienici
moderni, cantine e ripostigli.
Cappelle
Sono poco frequenti, ma interessanti le costruzioni con funzione religiosa e i luoghi di culto ospitati
sotto blocchi aggettanti. Solo in un caso, a Lodano,
si costruì un piccolo oratorio di cui resta la mensa e
un umile dipinto eseguito direttamente sulla roccia.
Pianta di un grotto
contesto architettonico e paesaggistico di grande
valore: i due palazzi si trovano infatti nel quartiere di
Cevio Vecchio, formato da case borghesi costruite
a partire dal 1500 dalle famiglie Franzoni, che per
oltre due secoli affiancarono i landfogti svolgendo
un’importante funzione politica ed economica. Nel
settecentesco palazzo Franzoni sono allestite diverse esposizioni permanenti legate all’uomo e al territorio in cui vive. Un secondo palazzo, a breve distanza dalla sede principale, raccoglie altre interessanti esposizioni sulla civiltà contadina e alpina.
Il sito Internet www.museovalmaggia.ch può fornire altre indicazioni.
Sentiero dei Grotti a Cevio
Ai piedi del versante destro della valle, proprio alle spalle delle due sedi del Museo di Valmaggia, giace il deposito di una grande frana causata dal crollo
della parete rocciosa situata a circa 300 metri più in
alto. Fra questi grandi blocchi, su una superficie di
circa due ettari, vennero scavate oltre sessanta cantine che formano il nucleo così detto dei Grotti. Una
rete di angusti sentieri percorre l’intera area, oggi in
gran parte abbandonata, e rende possibile l’accesso
a tutti i vani, alcuni dei quali sono molto profondi. È
un percorso didattico preparato dall’Associazione
del Museo di Valmaggia nell’ambito della ricerca sulle costruzioni sottoroccia.
Palazzo Franzoni,
Cevio
Sala
della pietra
ollare
Uomo e natura in una valle sudalpina
La Valmaggia occupa un quinto della superficie del
Canton Ticino e si estende per 50 km dal Lago Maggiore fino alle vette che si innalzano oltre i 3000 m.
Il Museo di Valmaggia, con sede a Cevio e inaugurato nel 1963, è attivo nella salvaguardia e nella
valorizzazione del patrimonio etnografico valmaggese. Le due sedi espositive sono inserite in un
La ricerca sulle costruzioni sottoroccia è descritta e riccamente illustrata nell’elegante pubblicazione “Vivere tra le pietre”,
curata dal Museo di Valmaggia e edita da Armando Dadò Editore, Locarno.
Copyright fotografie: Museo di Valmaggia - CDE Bellinzona, foto
R. Pellegrini.
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Studi e informazioni culturali
La paciòliga (1). Sapori, colori, onori
della tavola di montagna
(Mostra a Santa Maria Maggiore dal 26-12-2005 al 2-4-2006)
Monica Mattei ed Altri - Amministrazione
Comunale di S. Maria Maggiore (VCO) 2
scrittori e compositori i quali affrontarono questi temi
o come attinenti al campo semantico del gaudio, del
buonumore, della convivialità, oppure a quello dell’immoralità, della bassa corporeità e dello stravizio
o, ancora, come protagonisti ellittici, in un’ottica di
purificazione fisica e spirituale.
Testi introduttivi
Nell’opera di ricognizione e recupero di tutto ciò
che compone il quadro della cultura alpina, non si
poteva tralasciare la cucina che è la sola, esatta testimonianza della civiltà di un popolo.
Questa esposizione, che prende ispirazione e
nome dal titolo dell’ultimo libro di Benito Mazzi, vuole onorare la tavola alpina: i cibi, i colori, i sapori, i
profumi. Parlare di “tavola alpina” per vocazione, è
forse improprio, nel senso che molti, tra i prodotti
che l’arricchiscono, non sono “alpini” per definizione, ma lo sono diventati per caso, nel senso che sono arrivati sulle Alpi nel preciso momento in cui le
popolazioni alpine avevano bisogno di essi per integrare lo scarso fabbisogno alimentare, insidiato da
carestie e altri flagelli. Ma, anche in questo caso, diventarono alimenti tradizionali delle valli alpine solo
quando le loro preparazioni riuscirono ad integrarsi
con la produzione locale, dimenticando o addirittura
ignorando gli usi dei paesi d’origine. Infatti, la selezione del gusto e della cultura ha modificato i prodotti fino al punto di renderli autoctoni (valga per tutti l’esempio del mais che sulle tavole alpine viene
consumato solo sottoforma di polenta).
Le stoviglie presenti in mostra (vasellame, piatti,
posate) sono esemplari sia dei materiali con cui venivano realizzate (legno, peltro, ceramica) sia del
ceto dei proprietari. Esse presentano una varietà di
foggia e decorazione, di stili e di provenienze (le famiglie facoltose utilizzavano le raffinatissime ceramiche di Premia, ma anche quelle eleganti di Laveno o, addirittura, quelle importate dalle città estere
nelle quali i nostri avi emigravano).
I brani letterari e musicali esposti danno solo una
vaga idea di quanto il tema del cibo e della buona
tavola siano stati oggetto di attenzione da parte di
1
Dialetto vigezzino che significa riunione conviviale con grandi mangiate e abbondanti bevute.
2
Si ringraziano per la collaborazione e per il materiale messo
a disposizione: il sig. Franco Bonardi Sindaco di S. Maria Maggiore (omarista), il prof. Claudio Cottini Assessore alla Cultura, la
dott.a Monica Mattei che è stata magna pars nell’impostazione e
nella preparazione della mostra.
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Una nutrita sezione della mostra è dedicata al tema pittorico della natura morta con cibo. Come genere a sé stante, la natura morta nacque nel Seicento, sulla scia di una rivoluzione laica e della nascita del naturalismo. Essa fu connotata da una forte valenza simbolica degli oggetti rappresentati, come perentorio richiamo, soprattutto, alla caducità
della vita. Anche se gli antichi si riferivano alla rappresentazione di “cose inanimate” con il termine positivo “xenia”, cioè doni ospitali ... i doni offerti dal
padrone di casa ai propri ospiti.
Sono qui riportate nove sintetiche biografie di autori vigezzini che hanno profondamente segnato la
storia della pittura locale, alle prese con un soggetto eccentrico e poco studiato rispetto a quelli che
hanno reso famosi gli artisti vigezzini, cioè il paesaggio e il ritratto.
Gli alimenti
Le farine
La farina di frumento
Il frumento utilizzato per produrre il pane bianco
è quello tenero. Esso è il cereale più coltivato in Italia, per la sua plastica capacità di adattarsi a diverse
peculiarità pedoclimatiche. Raramente, in Ossola, si
faceva il pane di solo frumento il quale, non crescendo in Ossola, veniva importato dal novarese e
dal milanese.
Il pane di frumento, come già confermato da un
editto di epoca romana, era più sano e preferibile
alla polenta e agli impasti di altri cereali, ma esso
veniva consumato solo dalle classi più abbienti, cioè
da coloro che basavano la propria alimentazione
sulla carne.
La farina di grano saraceno
Il grano saraceno è uno dei prodotti anticarestia
che entrano a far parte della produzione agricola alpina nel XVI secolo, quando l’aumento demografico
costrinse ad attuare le consuete misure correttive
per difendersi dalla penuria alimentare, introducendo alcune delle specie vegetali nuove, tra le quali
quelle arrivate dall’America.
Il grano saraceno è considerato un cereale per
l’uso alimentare della granella simile alle cariossidi
delle Graminacee, ma appartiene alla famiglia delle
Poligonacee. Di origine asiatica, fu introdotto in Cina nel X secolo e poi in Europa dai Turchi attraverso la Grecia e la penisola balcanica.
In Italia settentrionale è stato coltivato soprattutto
in Sud Tirolo, in Valtellina e nelle valli alpine in genere tra il 1600 e il 1700, raggiungendo il massimo
nella prima metà dell’Ottocento negli appezzamenti
meno fertili e meno esposti al sole, poiché la specie
tollera climi freddi ed è resistente ai parassiti; inoltre, il suo breve ciclo vegetativo consente di sfruttare i terreni nei mesi estivi, dopo il raccolto di segale
o orzo. Occorre, però, molta mano d’opera per la
raccolta e la preparazione dei chicchi che devono
essere decorticati per diventare commestibili. Le farine del “grano nero” o “furmentùn” sono state l’alimento onnipresente sulle tavole dei contadini anche
in Vai Vigezzo (dove erano utilizzate anche le foglie
lessate come verdure), in particolare a Coimo, per
la realizzazione degli amiasc, le tipiche sfoglie sottili cotte su piastra e consumate avvolte su se stesse
con sale e burro fuso.
La farina di segale
Molto coltivata nel Nord Europa e in montagna,
poiché cresce anche in terreni poveri e con climi
freddi e perché ha uno sviluppo precoce.
La cariosside è simile al frumento (chicchi grigioverdastro, con forma allungata e appuntita), anche
se la farina che se ne ottiene è più scura e i granuli
di amido più grossi.
Il glutine della segale contiene le stesse proteine
della farina di frumento, anche se in proporzioni diverse. Per questo motivo, oltre al fatto che si otterrebbe un pane con struttura fine e difficile da cuocere, la farina di segale non si utilizza da sola, ma viene miscelata con quella di grano: il pane è gustoso
e dura a lungo.
Essa viene seminata in autunno e, poche settimane dopo, il germoglio esce e rimane sotto la neve durante tutto l’inverno. Ai primi tepori, comincia a
svilupparsi fino a raggiungere un’altezza anche di
due metri, A fine giugno avviene la mietitura, la raccolta in covoni, l’essiccazione e la battitura. Un tempo, essa si effettuava con il correggiato, un attrezzo
costituito da due bastoni legati tra loro da un laccio
di cuoio: quest’operazione separava le spighe dai
chicchi, i quali venivano puliti con il vaglio, essiccati
e macinati per ottenere la farina per la panificazione.
Il pane di segale è il tipico pane nero della tradizione montana: nella nostra area, la sua produzione
è stata portata avanti con continuità e con tecniche
tradizionali dai panificatori di Coimo, ma è prodotto
e venduto in tutta l’Ossola. È un pane rustico, rotondo e piatto, dalla crosta marrone molto scura e
dalla pasta bruna.
La farina di mais
Il mais era coltivato nel Nuovo Messico da almeno 7500 anni e da qui si era esteso all’America Centro-Meridionale e del nord, fino alle regioni dei grandi laghi, quando Colombo lo portò in Europa già al
ritorno dal suo primo viaggio. Una delle sue denominazioni comuni è stata a lungo quella di grano
turco, forse perché la sua coltura si era affermata in
Turchia o, forse, per sottolineare la convinzione che
si trattasse di un alimento per animali, in particolare
per il tacchino che già le popolazioni precolombiane
nutrivano con questo cereale e che gli inglesi chiamavano turkey: grain turkey era, appunto, il grano
dei tacchini.
Nelle nostre montagne esso verrà accolto solo
quando la sua preparazione sarà interpretata localmente, cioè quando sarà adattato alla cultura alimentare della montagna. Infatti, il mais, in America,
veniva mangiato bollito, arrostito o impastato, mentre nelle nostre valli si ottiene farina, impiegata nella tradizionale polenta: il “diverso” viene così trasformato e adattato in modo da riconoscerlo come
proprio.
Nel 1800 e nei primi del Novecento, la polenta di
mais fu l’alimento pressoché unico per gli strati sociali più poveri e la mancanza di niacina, vitamina
del gruppo B indispensabile per l’uomo, in questo
cereale, causò le epidemie di pellagra, simbolo di
povertà e monotonia alimentare senza precedenti.
La farina di castagne
La castagna ricopriva un ruolo fondamentale nell’integrare la dieta alpina e costituiva un sicuro baluardo contro la fame: un castagno centenario era in
grado di sfamare una persona per almeno sei mesi!
Motivo per il quale gli statuti ossolani disciplinavano
con attenzione il pascolo nei boschi di castagno, il
taglio delle piante e la raccolta stessa dei frutti.
In tutte le aree alpine sono presenti le “pescte”, i
frantoi che servivano per ridurre in farine i frutti secchi e i frutti oleosi, che venivano poi utilizzate per le
zuppe e le minestre. In mistura con altre farine, veniva utilizzata anche per la panificazione.
Il pane di castagne era “ul pan mutìgn”. Più frequentemente, però, si faceva un pane misto ottenuto con le farine di segale, frumento, miglio, orzo,
granoturco, riso e castagne; ma, quando infierivano
le carestie, alla poca farina disponibile si aggiungevano molta crusca e farine poco nutrienti: di saggina, ghiande di faggi e querce, bacche selvatiche, vinacce e fusti di granoturco. Il Cavalli lamentava, a
proposito della carestia del 1553: “Povere famiglie,
non avevate voi, e per voi, che farina di corteccia di
rovere, e di noci, che poca crusca, che qualche erba bollita nell’ acqua...”
Le patate
“Un anno da patate non è un anno da fame” recita un proverbio trentino.
Al Rijksmuseum di Amsterdam si trova un grande quadro a olio di Vincent van Gogh, eseguito nel
1885: “I mangiatori di patate”, cinque figure di contadini che, illuminati dalla fioca luce di una lampada
a olio, prendono dei pezzetti di patata da un piatto
posto al centro della tavola. Van Gogh disse della
propria opera “Ho cercato di evidenziare come questa gente ha scavato la terra con le stesse mani che
stanno sulla tavola”. Terra da scavare, fatica, lavoro
duro, mani pesanti e ruvide, miseria. Il dipinto di van
Gogh rispecchia con crudo realismo ciò che le patate erano all’epoca: cibo povero per i poveri.
Della patata originaria del Perù, Bolivia e Colombia, è noto l’uso iniziale in Europa come pianta or-
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namentale per i fiori di forma originale e di diversi
colori, bianco, azzurro e violetto. Il tubero era considerato, al massimo, cibo per porci finché le crisi alimentari della fine del XVIII secolo e quelle del XIX
indussero a tentarne l’uso come cibo di riempimento. Le resistenze furono, comunque, notevoli e giustificate, poiché le prime patate avevano spesso la
polpa acida e acquosa e, soprattutto, non consentivano di produrre pane. Divenne d’uso corrente, e
molto gradito, solo quando si inventarono preparazioni nuove capaci di farla apprezzare sia dai ceti
poveri sia nella cucina “alta”, e quando si smise di
panificarne la farina.
In Valle Vigezzo, nel paese di Coimo, la patata
era conosciuta con l’appellativo di “tartiful dul priu”
(patata del priore), perché introdotta in paese da un
curato. La sua coltivazione, divenuta importantissima, soppiantò quella, anticamente più importante,
delle rape.
Le patate venivano raccolte in autunno: sul campo stesso avveniva la cernita tra le varie pezzature
(quelle da mangiare, quelle da semina e quelle piccole da dare alle bestie, specie al maiale); si lasciavano un po’ al sole perché si liberassero della terra
appiccicata e poi le donne, con gerlate molto pesanti (fino a 60 chili), le portavano nella cantina suddivise in mucchi. Ogni famiglia dava un po’ di patate al frate che passava con la bisaccia e alle donne
della parrocchia addette alla questua per la chiesa,
per il prete e per il suffragio dei morti.
Oggi, dimenticata l’antica diffidenza verso il saporitissimo tubero, le tavole alpine, dalle Alpi Marittime alle Alpi Giulie, sono ricche di gustose pietanze
a base di tartiful o pommes de terre o krompirja o,
ancora, Kartoffel.
Gli ortaggi
Nel passato, la coltivazione di ortaggi, insieme
con la raccolta di varie erbe spontanee, era basilare
nell’economia di sussistenza montana e veniva praticata essenzialmente negli innumerevoli terrazzamenti costruiti per “strappare” terreno coltivabile ai
boschi e ai pascoli, spesso anche ad altitudini elevate.
In Valle Vigezzo, la paziente laboriosità e l’impegno dei primi abitanti sono testimoniati dai campi
terrazzati sostenuti da muri a secco spessi e dai
fossi costruiti a scopo di irrigazione. Ogni palmo di
terreno era considerato importante per l’economia.
Infatti, a Coimo, il territorio dell’antico comune
presenta confini irregolari, non solo a causa delle
condizioni naturali, ma anche delle lotte con i comuni viciniori per l’accaparramento degli spazi.
La prolungata stagione invernale che caratterizza
le aree montane, determina un ciclo vegetativo più
breve e lento che si traduce in produzioni quantitativamente minori, ma con caratteristiche organolettiche migliori (sapore, odore, colore più intensi) e
maggiore contenuto di elementi nutritivi; inoltre, la
rigidità del clima, pur rendendo difficoltosa la coltivazione di alcune specie, offre il vantaggio di una
minore diffusione di malattie e parassiti delle piante.
Alcuni tipi di alimenti, per secoli hanno svolto una
funzione sostitutiva del pane, per esempio le rape fino al XVIII secolo e successivamente le castagne, il
mais per la polenta e le patate.
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Non minore importanza ha rappresentato, storicamente, la produzione di fagioli di varietà diverse
(Spagna, Borlotti, Lima) fondamentali per consentire un apporto di proteine difficilmente reperibile in
altro modo. A questi alimenti di base si aggiungevano le cipolle, l’aglio, le varie insalate, le biete, le zucche e le zucchine. Particolarmente importanti per
l’utilizzo nei mesi invernali, i cavoli, la verza e i porri. Prodotti rinomati dell’Ossola sono gli asparagi
dalla testa bruna, coltivati soprattutto a Vogogna e
Oira.
In territorio ossolano, assistiamo ad una ripresa
della coltivazione di ortaggi, soprattutto ad opera di
giovani coltivatori e cooperative che utilizzano le
tecniche dell’agricoltura biologica al fine di una produzione non più rivolta alla sussistenza, ma alla
vendita e alla promozione del prodotto locale genuino.
Vini e liquori
Il vino è sempre stato una fondamentale risorsa
di lavoro umano e l’intermediario per eccellenza della convivialità sociale. Tra i frutti della natura e del
lavoro dell’uomo, l’uva e il vino hanno avuto diritto
ad un dio: Dioniso, Bacco per i Romani, dio della civilizzazione (in quanto inventore del vino) e dell’ebbrezza che fa perdere la ragione agli uomini (a causa degli effetti dello stesso), dell’arte di vivere, della
licenziosità, accompagnato in uno sfrenato corteo
da Baccanti, Satiri, Fauni e dal dio Sileno, grasso e
ubriaco traballante a dorso di un asinello.
Bacco riassume in sé il fascino e il timore esercitati dalla potenza inebriante del vino, possibile artefice di un incontrollabile debordamento della fragile
natura umana. L’uva e il vino compaiono spesso negli episodi biblici (dopo il diluvio, il primo lavoro di
Noè fu quello di piantare un vitigno) per poi assumere significati complessi e salvifici in era cristiana,
quando pampini e grappoli ornano abiti sacerdotali,
fregi e capitelli delle chiese a simbolo della Comunione con Cristo. Nelle aree alpine, il suolo e il clima
difficili, le pendenze accentuate, i terreni da sostenere con muretti posizionati a mano, sasso dopo
sasso, evocano una viticoltura ardimentosa, sofferta, fatta di piccoli terrazzamenti strappati ai ripidi
versanti. Tutti questi fattori contribuiscono a definire
una produzione vinicola “al limite”, tipicamente montana, di dimensioni e rendimento ridotti, quale è
quella della nostra area, ma di ottima qualità specifica.
In Ossola, la vite era abbondantemente coltivata,
tanto che i vigneti ne ricoprivano le pendici. Anche
in Vigezzo si coltivava la vite, ma venne poi abbandonata, poiché, diceva il Cavalli “quelle coltivazioni
erano disapprovate da madre natura, lo quale prescrisse che lo vite non germogliasse oltre una data
elevazione”. I centri vinicoli più rinomati erano Caddo, Calice, Trontano, Masera, Montecrestese e Crevoladossola. Il vitigno più diffuso era il Nebbiolo, localmente conosciuto come Prunent. La più antica
citazione di questo vitigno risale al 1300: in una pergamena del 1309 si faceva riferimento ad un legato
che aveva per oggetto nove staia di vino (220 litri)
denominato pruynentum , destinato alla chiesa domese di S.Francesco. Autore del lascito era tale Dumino fu Vicino di Pello di Trontano.
All’inizio dell’Ottocento scriveva il Sottile: “L’Ossola ha viti e fa vini anche buoni...i vini raccolti sul
pendio dei vicini monti non hanno quell’asprezza ributtante che si ravvisa in altre valli meno felicemente situate. Sono buoni, forti, carichi di colore e di sali: onde vengono ad avere un facile smercio ben anche nella Svizzera”.
La forma di viticoltura utilizzata in Ossola è quella a pergola (la topia), sorretta da grossi sostegni in
legno o, più comunemente, da pilastri di pietra: sotto si seminavano altre colture (segale, grano saraceno, fagioli) o vi cresceva il fieno. I tralci correvano
su pali orizzontali ma si diramavano anche su alberi, tetti in piode e ricoprivano strade e sentieri. La viticoltura entrò in difficoltà dapprima con l’apertura
della strada del Sempione che agevolò il trasporto
nel Vallese dei vini novaresi e poi, a metà Ottocento, dall’infestazione della filossera, a cui seguì la distruzione delle viti e la riduzione del raccolto a un
quinto del precedente, oltre all’innalzamento del dazio che chiuse il Vallese all’importazione del vino.
Oggi, il rinnovato interesse per questa genuina
produzione locale ne ha favorito la ripresa e degli
antichi ceppi di Prunent sono state costituite e messe a dimora le nuove barbatelle (cioè le talee di vite
che hanno emesso le radici): questa variante locale
di Nebbiolo si presta particolarmente al nostro territorio grazie alla permanenza di un elevato grado
zuccherino anche nelle annate infelici, ai pochi
grappoli e alla resistenza alle malattie.
I vini attualmente prodotti in Ossola sono:
Prunent: clone del Nebbiolo, invecchiato in piccole botti di rovere, colore brillante, forti riflessi aranciati, profumo intenso, ampio, sapore potente, tannico, speziato al retrogusto.
Nouv Bruschétt: prodotto con uve Croatina e
Nebbiolo, imbottigliato in tarda primavera, da bere
giovane, colore rosso rubino brillante, profumo fresco.
Cà d’Matè: così chiamato perché il suo affinamento avviene in piccole botti di rovere nelle antiche e fresche cantine di Cà d’ Matè (Casa di Matteo) di Oira. Vino irruente, corposo, adatto a piatti
robusti, carni rosse e formaggio.
Balòss: prodotto con uve di Pinot nero, è frutto di
ricerche fatti nei vigneti del Comune di Trontano.
Carattere fresco, sapore aromatico, pieno e acidulo,
tipico della zona.
Tarlàpp: ottenuto da uve di Merlot, fermenta di
botti di acciaio inox, in tarda primavera viene messo
in bottiglia dove si affina per almeno due mesi prima
di essere consumato.
Cà d’Susana: uvaggio di Nebbiolo e Cabernet
Sauvignon, affinato in piccole botti di rovere, si abbina bene con primi piatti, carni rosse e formaggi
stagionati.
Tipica offerta invernale delle fiaccolate, delle feste di piazza e di tutte le occasioni conviviali è il vin
brulè, preparazione ottenuta unendo al vino rosso
fatto bollire, chiodi di garofano, cannella, succo e
scorza di limone, zucchero. La ricetta è un vero toccasana contro il gelo montano.
Tutte le popolazioni alpine hanno sviluppato tecniche per la produzione di bevande alcoliche, dispensatrici di calore, di ebbrezza e convivialità in un
ambiente dal clima particolarmente rigido. Alcuni li-
quori si preparano distillando il liquido alcolico in
presenza della pianta di cui il distillato trascina con
sé il principio aromatico; altri sono succhi di frutta o
di piante aromatiche in alcol diluito e zuccherato, altri ancora si ottengono semplicemente sciogliendo
nel liquido alcolico un’essenza.
La distillazione (operazione con la quale si separano i componenti diversamente volatili di una miscela liquida), sviluppata in antichità dagli alchimisti,
e la preparazione di liquori, sono state perfezionate
nel corso dei secoli soprattutto all’interno dei monasteri, che furono per lungo tempo i centri della conservazione e dello sviluppo della civiltà e del sapere
umano. All’ombra dei monasteri, venivano coltivate,
raccolte e conservate le erbe officinali, utilizzate per
preparare essenze medicinali. Fu l’esigenza di poter conservare nel tempo e rendere trasportabili i
prodotti curativi a indurre i monaci erboristi a sperimentare la distillazione. E’ ben impressa nell’immaginario collettivo la figura di San Bernardo che, con
la sua botticella di acquavite al collo, rinvigorisce e
porta in salvo i viandanti dispersi sulle montagne.
Nella nostra area, la presenza di piante aromatiche come la genziana, il genepy, il ginepro ha sempre consentito la produzione liquoristica casalinga.
La grappa, ottenuta dalla distillazione delle vinacce
fresche fermentate, cioè dalle bucce degli acini d’uva rimaste dopo la produzione del vino, nelle sue
svariate aromatizzazioni, doveva essere il contenuto più frequente dei brindisi degli Ossolani. Sembra
che un tempo venissero prodotti anche il kirsch e il
maraschino, tramite la distillazione delle ciliegie selvatiche.
Ecco gli altri liquori prodotti:
Genepì: liquore tipico delle valli ossolane ottenuto mediante la lunga macerazione artigianale, in soluzione idroalcolica, delle piantine del Genepy maschio
Genzianella: liquore caratteristico dal gusto dolce-amaro ottenuto mediante la macerazione artigianale di genziana, fiori di genzianella e vaniglia in
bacche in soluzione idroalcolica.
Camomilla: liquore ottenuto dalla macerazione
dei fiori di camomilla corrente, di camomilla romana
e scorze di limone in soluzione idro-alcolica.
Mirtilli: ottimo liquore da dessert dal sapore delicato del succo di questo noto frutto di montagna e
da una piccola parte di succo di sambuco.
Fil da fer: liquore ottenuto dalla lavorazione artigianale di latte, zucchero, alcool e tuorli d’uovo, aromi naturali. Particolarmente apprezzato caldo.
Fragolino: infuso dolce a aromatico che si beve
freddo. È ottenuto dalle fragoline di bosco, quindi è
disponibile nei mesi estivi.
La frutta
In passato, per le popolazioni alpine, i frutti più
importanti per l’alimentazione erano la noce e la castagna. Le noci erano anche utilizzate per produrre
olio alimentare e per l’illuminazione. Le castagne
avevano il pregio di conservarsi a lungo, essiccate
al sole in filze o disposte su una grata sopra al camino, ed erano adatte anche alla panificazione in
mistura con altri cereali.
Un tempo, la montagna era innanzi tutto un serbatoio di ricchezza forestale, poi venivano il pasco-
OMAR 39
nuovo
lo del bestiame e la raccolta dei frutti. Fra questi,
particolarmente necessari alla sopravvivenza di uomini e animali erano le castagne.
In Valle Vigezzo, si trovano moltissimi castagni,
in particolare a Villette, dove formano quasi una corona intorno all’abitato.
Ecco quali erano le tecniche e gli arnesi di raccolta e conservazione delle castagne.
le castagne venivano fatte cadere dalla pianta
con la pértia (restavano umide e maturavano bene
nel loro riccio) e, a seconda delle necessità, potevano essere subito battute con la sbatèla (una sorta di
rastrello in legno per battere i ricci e far uscire le castagne).
Quando le castagne venivano utilizzate subito,
potevano essere consumate crude, lessate o in
“brascarola”.
Per liberare il frutto dal riccio, veniva usata la
giùa, una pinza in metallo (chi non possedeva questa, ne poteva costruire una piegando il legno di
una pianta con caratteristiche di “elasticità” i cui
bracci rimanevano. legati da una cordicella),
oppure lo spicìn, un “martelletto” di legno.
Per conservare i frutti per l’inverno, si formava la
riccèria, mucchio di ricci coperto di felci e ginestre,
al fine di impedire che le capre se li mangiassero.
Un’altra modalità di conservazione delle castagne, consisteva nel mantenerle dentro i ricci a mollo nell’acqua... esse, così, si potevano consumare
ad aprile o maggio, ancora saporite.
Oppure, venivano poste sulla grà, il ripiano ai
due lati del camino dove si asciugavano e abbrustolivano leggermente.
Comunemente, però, la castagna veniva fatta
seccare al sole e usata intera nella minestra.
Le castagne, ridotte in farina (pestandole in un
mortaio, setacciate con il val) venivano portate al
mulino e si consumavano poi come polenta, focaccia o minestra.
Gli altri frutti costituivano, invece, un prodotto accessorio sulla tavola dei montanari, che ne coltivavano le piante compatibilmente con le condizioni climatiche. Le testimonianze del passato assicurano
che la Val d’Ossola era ricca di molte specie: oltre
alla coltura principale, la vite, abbondavano mele,
pere, pesche, ciliegie, fichi, nespole, albicocche, susine, prugne. Gli appezzamenti coltivati a frutteto e
le numerose vigne conferivano all’Ossola l’aspetto
di un giardino ben curato. L’abbondanza era tale
che, secondo il Mortaretti, “sul mercato di Domodossola, durante l’estate, arrivavano gerle e gerle di
frutta, sia d’innesto che selvatica, da tutte le parti
col risultato di svilire i prezzi, al punto che, per disfarsene, si vendeva la merce sotto costo.”
Molto apprezzata è la produzione ossolana di
mele. Nel Settecento, gli emigranti importarono in
Piemonte semi, varietà e tecniche di coltivazione
dalla Francia: infatti, oggi le stesse antiche varietà si
trovano, con nomi diversi, nei due versanti alpini.I
frutticoltori ossolani seguono criteri di coltivazione
integrata, che consentono di ottenere un’ottima
qualità utilizzando al meglio le tecniche agronomiche naturali e limitando gli interventi parassitari al
minimo.
Le mele della nostra terra sono presenti sul mercato da fine luglio con le varietà estive Summered,
40 OMAR
nuovo
Royal Gala e Mondial Gala, all’autunno inoltrato con
le varietà Elstar, Golden delicious, Red delicious,
Jonagold, Renetta del Canada, Granny Smith.
I piccoli frutti
Essi crescono spontanei in natura e sono degli
alimenti ricchissimi di proprietà nutrizionali e salutari. Come le “affini” fragole e ciliegie, contengono coloranti preziosi, le antocianine, che svolgono una
preziosa azione antiossidante.
Tutti i frutti andrebbero acquistati e gustati freschi, possibilmente nel giro di uno o due giorni dalla
raccolta e non dovrebbero mai stare in frigorifero (a
bassa temperatura, essi perdono il 50% del gusto e
dell’aroma).
Anche l’Ossola, al pari delle località tipiche di
produzione quali il Trentino e il Cuneese, si sta attrezzando per una produzione capillare.
I piccoli frutti che si trovano in Ossola sono: mirtillo, fragola, lampone, mora. Raramente, si trovano sui banchi del fruttivendolo il ribes bianco (più
diffuso quello rosso), l’uva spina, il lampone giallo,
l’uva giapponese e gli incroci mora-lampone.
Il miele
Il miele, fino all’introduzione dello zucchero, costituì l’unico dolcificante esistente, ma veniva anche
utilizzato nella preparazione di carni, pesce e legumi.
La propoli (sostanza resinosa prodotta da alcune
piante, che le api raccolgono e utilizzano per rivestire e proteggere l’arnia) veniva usata dagli Egizi per
l’imbalsamazione, dai Greci come cicatrizzante.
L’Ossola si presta all’apicoltura, poiché vi sono
numerose fasce altimetriche e ambientali che presentano ciascuna una grandissima varietà di fiori.
In passato, l’apicoltura praticata in questa zona era
del tipo “a favo fisso” e consisteva nell’uso di contenitori (bugni), costituiti da pezzi di tronco, ceste di vimini o vasi di terracotta, che le api riempivano con i
loro favi. Al momento del raccolto, le api venivano
allontanate con getti di fumo oppure anche uccise,
si staccavano i favi dai bugni, si tagliava via la cera,
si faceva gocciolare il miele (ul torch via ad la mel) e
si spremeva il miele di seconda scelta. In questo
modo, i favi venivano distrutti e si poteva recuperare soltanto la cera. Il torchio del miele ossolano era
interamente in legno e combinava abilmente il principio della leva e quello della vite: nella sua semplice ingegnosità, testimonia come la vita alpina si basasse sulla necessità di sfruttare al massimo anche
le minime risorse locali.
Oggi, l’apicoltura è per l’Ossola una delle attività
agricole più fiorenti e gli addetti ai lavori si sono uniti in un’associazione (APAVO). Gli apicoltori, oggi,
non utilizzano più i metodi tradizionali, ma arnie razionali e, durante il raccolto, da marzo a settembre,
spostano le api in diverse zone, secondo la fioritura
delle piante (nomadismo). In questo modo, è possibile effettuare più raccolti nell’arco della stessa stagione ed è possibile ottenere, ad esempio, il miele
di rododendro, portando le api in alta montagna a
suggere questo fiore.
Quando l’ape bottinatrice torna all’alveare con il
nettare raccolto nei fiori, lo rigurgita in bocca ad
un’altra ape, che fa lo stesso con un’altra e così via
per una ventina di minuti: in questo modo il nettare
si combina con altre sostanze e diventa miele che,
molto liquido, viene deposto in una delle cellette
dell’alveare e resta lì ad asciugarsi, dopo di che l’ape sigilla la celletta con un coperchio di cera (opercolo). L’apicoltore apre le cellette, estrae il miele, lo
purifica da particelle di cera, di insetti e d’aria per
poi confezionarlo.
Ecco, qui di seguito, i mieli più diffusi in Ossola:
• miele di castagno: scuro, ricco di polline e sali minerali, molto nutriente,
• miele millefiori: racchiude in sé le proprietà di
molte piante officinali
• miele di rododendro e lampone: di difficile
produzione, raffinato, chiaro e delicato
• miele di tiglio: colore ambrato-chiaro, effetto
sudorifero e sedativo
• miele d’acacia: molto delicato, chiarissimo,
gradito ai bambini
• miele di melata: prodotto solo in particolari annate, colore quasi nero, gusto dolce, alimento
di alto valore biologico.
Carni e insaccati
Un tempo, tutte le comunità contadine limitavano
il consumo di carni fresche a poche occasioni di festa. Un problema che tutte le popolazioni preindustriali dovevano affrontare era quello della conservazione della carne: gli insaccati nascono, quindi,
dall’esigenza di. conservare il più a lungo possibile i
cibi ricorrendo soltanto agli unici mezzi disponibili in
passato: il sale, l’aria, il calore. Sulle tavole ossolane, quindi, la carne si consumava soprattutto conservata, sotto forma di insaccati e carni secche, affumicate, salate.
I capi di bestiame che venivano allevati dalle famiglie consistevano, di solito, in poche bovine, qualche capra e, in numero minore, alcune pecore, tutti
animali utilizzati principalmente per procurarsi il latte e la lana, non per la macellazione. Si consumava
la carne delle galline che non facevano più uova, di
qualche coniglio, della cacciagione, dei maiali.
L’utilizzo di ogni animale macellato era, per
quanto possibile, integrale: nel caso del maiale è
appropriato citare un vecchio proverbio “Se vuoi
star bene un anno ammazza un porco”; infatti a
gennaio e febbraio ci sono salsicce e sanguinacci; a
marzo “si avviano” i salami; ad aprile e maggio, si
affettano i guanciali e si banchetta con la porchetta;
per settembre le spallette e a ottobre e novembre
“si avviano” i prosciutti. Le ossa, un tempo, venivano salate per ricavarne il brodo per la minestra e
persino la pelle (cotenna) veniva usata per insaporire minestre e zuppe.
Di particolare qualità erano i maiali che, inalpati
con il bestiame bovino, trascorrevano l’estate all’aria aperta del pascolo e venivano nutriti con il siero
residuo della lavorazione del latte.
L’uccisione del maiale era un evento topico del
calendario agropastorale. Si tratta di una spettacolo
cruento ma anche di un momento di festa al quale,
un tempo, partecipava tutta la famiglia: l’uccisione
dell’animale e le successive lavorazioni richiedono
molte braccia. Il maiale, quasi presentendo la fine,
lancia grida strazianti che terminano nell’istante dello sgozzamento. Il sangue viene raccolto pronta-
mente in recipienti per poi farne sanguinacci (fatti
con sangue defibrillato unito a pane bagnato, una
piccola parte di carne e grasso duro, conciato con
sale, spezie miste, marsala, sapore di aglio, insaccati e cucinati a dadini, con cipolle e alloro). Segue
la pelatura con acqua bollente, raschiando a poco a
poco il pelo con un coltello. Poi, l’animale viene appeso ad una trave, squartato in due e sezionato in
pezzi: alcune parti vengono macinate e insaccate,
altre si salano per farne prosciutti, mentre le frattaglie vengono consumate fresche.
Tra gli insaccati prelibati del nostro territorio,
spiccano il Prosciutto Montano Valle Vigezzo e Prosciutto Tipico Vigezzino prodotti in Valle Vigezzo, il
violino di capra, preparato con la coscia dell’animale, il lardo, la mocetta (particolari tagli di carne preparati e conservati in modo tradizionale), la mortadella.
A proposito del prosciutto vigezzino, citiamo un
paragrafo del libro “La pacioliga: umori e sapori della vecchia Vigezzo” appena pubblicato da Benito
Mazzi: “Quando entrava Scopinich – statura da corazziere, baffi nerissimi e imponenti sotto gli occhiali chiari, macchina fotografica o da presa – in qualche trattoria valligiana, il proprietario si raccomandava al santo patrono poiché, col pretesto degli assaggi per le ricette che andava cercando, il voluminoso ospite, a detta di più di un testimone, si trasformava a volte in commensale “pericoloso”. (...)
Le merende e gli assaggi erano all’ordine del giorno
per Scopinich e la sua compagnia, della quale il Gostino e il baffuto Mingo erano colonne portanti. Uno
dei loro locali prediletti era l’Osteria delle Alpi, sulla
strada di Domodossola, nota anche come “Bettola”,
dove si disponevano attorno al caminone della
grande cucina dalla cui cappa pendevano, inebrianti di profumi, mortadelle, salamini, sanguinacci, lardi, pancette, cudighìt e prosciutti, prelibatezze che il
proprietario “Vanin” Arancini e il figlio Savino confezionavano con le ottime carni dei loro maiali, allevati secondo la miglior tradizione. Era quello un angolo di paradiso da godersi in tutte le sue beatitudini:
quegli affettati, rinforzati dalla formaggella di cantina, dal pane nero di Coimo e innaffiati dal vino fresco della botte, erano un gaudio per il corpo e per lo
spirito.
Particolarmente allettante era il prosciutto, sapido e morbido, salato e invecchiato al punto giusto.
Ma aveva un difetto: era prodotto in quantità limitata, ad uso della famiglia, e per gli avventori si esauriva dopo qualche merenda. Cosa assolutamente
inammissibile per i “maciùi” (mangioni), i quali, rincasando una sera dalla Bettola, decisero di farselo
loro il prosciutto, provando un’inedita ricetta a base
di ginepro, fumo ed erbe vigezzine che l’Ermanno
aveva messo insieme dopo assaggi ed esperimenti
vari nella cantina dell’amico. È nato così il famoso
prosciutto vigezzino alle erbe, dolce o leggermente
affumicato, che è tuttora un vanto della valle”.
Il latte e i suoi derivati
L’economia dell’Ossola, nei tempi più antichi, era
di tipo agropastorale, come mostra la grande quantità di norme degli Statuti comunali, redatte a proposito del bestiame e dei diritti sulla terra comune, pascolo e boschi.
OMAR 41
nuovo
Il latte (läc) era il prodotto primario dell’allevamento del bestiame. La maggior parte della produzione casearia era consumata direttamente dalle famiglie, ma discrete quantità potevano essere vendute nei piccoli mercati delle Valli, al mercato di Domodossola o anche fuori Ossola. Racconta il Sottile
all’inizio dell’Ottocento: “si sa che i formaggi dell’Ossola si vendono in tutto il Dipartimento, e anche
fuori, e che godono di una riputazione”. Secondo il
Casalis, a metà Ottocento una grande quantità di
burro ossolano veniva spedita a Genova e nelle regioni vicine.
Il bestiame veniva mantenuto nelle stalle durante
il lungo inverno, nutrendolo con il fieno raccolto d’estate. Poi, veniva trasferito nei pascoli di fondovalle,
a quelli di mezza montagna e, infine, sugli alti pascoli: si inalpava e disalpava a date fisse, allo scopo
di impedire che qualcuno sfruttasse i pascoli più degli altri. La maggior parte degli allevatori possedeva
da una a tre bovine. D’estate, negli alti pascoli di
proprietà comunale, il bestiame veniva messo in comune e pascolato collettivamente: in questo modo
la manodopera veniva ridotta al minimo. Il bestiame, infatti, veniva affidato ad un casaro e ad alcuni
pastori alle sue dipendenze: una o due volte durante la stagione i proprietari salivano all’alpe per la misurazione del latte prodotto dalle loro bestie, per poi
spartire proporzionalmente i prodotti del caseificio,
della cui realizzazione si occupava il casaro. Anche
il pentolone (cauleria) per la lavorazione del latte
era, spesso, di proprietà comune. L’opera del casaro non aveva sosta: fin dal primo giorno egli mungeva e caseificava. Il secondo giorno doveva salare le
forme del giorno prima e nuovamente mungere e
caseificare. Il terzo giorno girava le forme del primo,
salava le successive e mungeva e così via per tre
mesi. Durante il resto dell’anno il latte veniva lavorato in modo comunitario nelle latterie turnarie, formate dai soci che lavoravano il latte a turno, oppure
ogni proprietario si occupava del proprio latte, fabbricando burro e formaggio in famiglia.
Oggi, il latte di alcuni allevatori vigezzini converge al Caseificio di Valle a Santa Maria Maggiore,
dove viene lavorato per ottenere i formaggi vaccini,
di capra e misti e gli yogurt venduti nel negozio annesso all’edificio della Comunità Montana Valle Vigezzo.
I formaggi d’alpeggio venivano rinchiusi a stagionare nei caratteristici cerchi di legno che davano loro la forma desiderata. Quello che rimaneva del siero dopo la produzione del burro, del formaggio e
della ricotta, veniva dato da mangiare ai maiali.
Il latte, alla sua uscita dalla mammella, riceve
dall’ambiente una grande quantità di microrganismi
e per utilizzarli a proprio vantaggio, il casaro limita o
corregge la loro azione. L’attacco microbico non inizia subito, ma dopo alcune ore: per sfruttare questo
intervallo, alcuni formaggi alpini (come la Fontina)
42 OMAR
nuovo
vengono prodotti con latte appena munto, secondo
norme che stabiliscono il tempo massimo entro cui
deve avvenire la lavorazione. Un altro fenomeno
importante, è il progressivo affioramento nel latte
della sua parte grassa: insieme ad essa, infatti, arriva in superficie una grande quantità di microrganismi. La tradizionale sosta del latte dalla sera alla
mattina, quindi, non è solo un sistema di scrematura per produrre il burro, ma anche un modo per ridurre il numero di microrganismi nel latte scremato
e produrre con esso formaggi a maturazione più
controllata.
Ecco alcuni tradizionali formaggi e latticini della
nostra zona:
• Bettelmat: è il formaggio ossolano più rinomato, noto con tale nome almeno dal Settecento.
La sua denominazione deriva dall’alpeggio walser Battelmatthorn (Punta dei Camosci) in Vai
Formazza. Il suo gusto inconfondibile è dato
dalla speciale qualità dell’erba dei ricchi pascoli posti al di sopra di 2000 metri, in cui sono presenti specie particolari come il Ligustrum Muttelina, da cui il formaggio prende l’altra sua denominazione, “Mottolina”. E’ simile alla fontina, ha
forma cilindrica con diametro da 45 a 55 cm e
altezza di 9 cm. La pasta è giallo paglierino,
dolce, burrosa e delicatamente aromatica.
• Nusctran (mezza-pasta e semi-grasso): è il
maggior prodotto caseario dell’Ossola e viene
prodotto con latte di vacca scremato. A pasta
cotta, stagiona almeno sei mesi, colore paglierino e occhiatura minuta, sapore pieno e robusto.
• Formaggio fresco: ha le caratteristiche della
crescenza, si fa con latte bovino non cotto. Si
consuma anche fresco di giornata
• Caprini: prodotti da aprile a ottobre con latte
caprino intero, a pasta cotta. Si consumano freschi, con sapore dolce, oppure stagionati, con
sapore piccante.
• Ricotte: -ricotta di capra fresca, condita con
molto pepe e posta in salamoia; -masarett ricotta salata con sale grosso e pepe e stagionata per 3-4 mesi nel beuts, caratteristico recipiente di corteccia di betulla; -mascarpa - ricotta grassa - ricotta con aggiunta di panna, si
consuma fresca; -mascarpin - ricotta stagionata - si prepara condendo la ricotta magra con
tanto sale e pepe, poi si forma in pani o si mette in recipienti di terracotta e si lascia nel camino per affumicare e stagionare. La ricotta si copre di proprie muffe che si tolgono prima di servirla. I bambini, un tempo, la spalmavano sul
pane di segale mescolata a cacao e zucchero.
• Formaggio dello spazzacamino
• Nostrano di Vigezzo
• Tomini di capra
• Yogurt
(continua)
Studi e informazioni culturali - Poesie “Il proverbio (deposito di saggezza)”
e “Repetita iuvant ovvero
Bis repetita placent”
Giuseppe Romano
Il proverbio
(deposito di saggezza)
La geniale trovata di un’arguzia,
un detto breve con sottile astuzia,
esprime molto spesso una sentenza
legata, quasi sempre, all’esperienza.
Un’espressione pratica o morale,
frequentemente in forma dialettale,
tratta dalla saggezza quotidiana
ed ispirata alla vita mondana.
Il proverbio era molto valutato
nel gergo popolare del passato;
effetto fonico o inattesa rima
della frase accentuavano la stima.
Meditata ed esperta l’accortezza
degli anziani e apprezzata la saggezza,
per abitudine, uso o tradizione
del proverbio si attuava l’adozione.
Un prontuario per dire sulla vita,
giovinezza, vecchiaia e dipartita,
sull’elogio del fare, dell’azione,
dell’osare con detti di opinione.
Su amori e femmine i comportamenti,
per mesi e stagioni ampi avvertimenti.
Vari i dialetti, uguali i contenuti,
spesso incerti, in contrasto o ravveduti,
tramandati così, di padre in figlio,
alla stessa maniera di un consiglio.
Per concludere con proverbi in rima,
senza dar preferenza o disistima:
“I panni sporchi lavali in famiglia”
“Chi dorme sodo i pesci non li piglia”.
Repetita iuvant
ovvero Bis repetita placent
Per dare più valore ed attrattiva
alla lingua latina narrativa,
e render la materia più gioviale,
era d’uso il linguaggio proverbiale.
I proverbi o “sententiae” dei latini
spesso arguti, altre volte libertini,
erano conosciuti ed impiegati
anche dai più famosi letterati.
Uno dei più diffusi tra la gente
è il “repetita iuvant” certamente.
Se ci s’imbatte in qualche distrazione,
nel corso di un colloquio o una lezione,
piace, infatti, riudire un’altra volta
l’argomento dell’audizion stravolta.
Proferire di nuovo quanto detto
spazza via qualsiasi preconcetto.
Confermare, ripetere un invito
è un atto gentilissimo e gradito.
Riascoltare due volte un motivetto
rimane nell’orecchio in modo schietto.
Il bis di applausi, in recitazione,
rappresenta una viva approvazione.
Uno studente va a ripetizione
per imparare meglio la lezione.
Questi citati ed altrettanti casi
son del “bis repetita placent” pervasi;
ma quando il detto si ripete spesso,
invece di apportare un gran successo,
si procura una grossa seccatura
perché assomiglia a una canzonatura.
OMAR 43
nuovo
Istituto Tecnico Industriale Omar
Inaugurazione del Museo
di Archeologia Industriale Omar
Prolusione del Dirigente scolastico Ing. Francesco Romano - 17-12-2005
Finalmente siamo giunti all’inaugurazione di questa importante opera.
È stato un percorso lungo.
L’idea di destinare i locali dell’ex fonderia dell’Istituto a spazio museale risale infatti al 1997.
Il progetto ha incontrato subito l’interesse e la disponibilità della Provincia di Novara nell’allora Presidente Paolo Cattaneo e nell’Assessore all’Istruzione Anna Cardano.
Anche la Regione Piemonte nella persona dell’Assessore ai Beni Culturali Sezione Musei e Patrimonio Culturale ha promosso di buon grado l’iniziativa con un proprio determinante contributo.
Del progetto, elaborato nella sua prima stesura
nel gennaio 1998, vi parlerà successivamente l’Arch. Paolo Gambaro.
Io voglio brevemente illustrare quelle che sono
state e sono le finalità di questa opera.
– La storia dell’Istituto Omar ha interpretato nel
tempo le volontà del suo fondatore Giuseppe
Omar: “Istruzione, Lavoro, Industria”, attraverso
uno stretto collegamento con lo sviluppo industriale del territorio. Valorizzare questo legame
significa capire le relazioni tra sviluppo tecnologico e sviluppo sociale, tra tecnica e società.
– Anche il sapere tecnico-scientifico-professionale ha una sua storia e le testimonianze devono essere conservate e valorizzate con la
stessa importanza dei beni artistici.
– Strettamente legata allo sviluppo industriale è
anche la storia della didattica sulla quale è bene meditare. Da questo punto di vista l’Istituto
Omar, con i suoi quasi 110 anni di vita, ha molto da dire.
– La conoscenza dello sviluppo della tecnica
può essere un valido contributo all’orientamento di scelte alle quali sono chiamati i nostri
giovani. Conoscere per orientarsi è molto importante. Sono in previsione, in un futuro molto prossimo, proposte didattiche ed attività di
laboratorio indirizzate ad alunni delle scuole
elementari e medie. Tra i vari temi si possono
elencare:
– • Acqua, vento, sole e produzione di energia
elettrica (per le scuole secondarie di primo
grado);
– • Consumi domestici (per le scuole secondarie di primo grado);
– • Sicurezza, prevenzione ed energia elettrica
(scuole di primo e secondo grado);
– • Robotica, Demotica, Celle a idrogeno sono
altri argomenti che potrebbero essere trattati.
44 OMAR
nuovo
Il Museo di Archeologia Industriale Omar non
vuole essere una collezione statica dei reperti del
passato (ci stiamo già attivando per il nuovo allestimento che riguarderà molto probabilmente l’Elettronica e la sua storia), ma partendo da essi vuole diventare un momento ed uno spunto di illustrazione
e conoscenza della tecnica, della didattica, della
tecnologia e della sua evoluzione.
Credo molto in questa iniziativa e spero e mi auguro che possa svilupparsi in modo adeguato per
diventare un luogo di testimonianza importante.
Questa prima esposizione riguarda l’Elettrotecnica. Accanto ad una brevissima esposizione su pannelli della produzione, trasporto ed utilizzo dell’energia elettrica, sono stati messi in mostra strumenti di
misura ed apparecchiature significative, ma di questo vi parlerà nel corso della visita al museo l’Ing.
Giovanni Bonetti.
Il materiale che è stato predisposto consiste in
due opuscoli: uno riguardante la sede del museo e
le sue origini e l’altro relativo alla prima esposizione.
A supporto di questa iniziativa si è costituito un
Comitato Tecnico Scientifico per supportare lo sviluppo e le iniziative del Museo. Di questo organismo
fanno parte:
Ing. Giovanni Bonetti
Coordinatore
Dott. Marco Parsini
Segretario
Ing. Mauro Codini
Ing. Gianni Ticozzi
Ing. Silvano Andorno
P.i. Francesco La Sala
P.i. Giancarlo Cesa
Prof. Domenico Cutrupi
Arch. Paolo Gambaro
Progettista
Dott.ssa Margherita Carrer
Archivista
Ass. Amm. Piermaria Sacchetti
Ass. Tecn. Cosimo Dell’Anna, Raffaele Pernice,
Stefano Curcio, Domenico Roccaforte.
Ringraziamenti: Provincia di Novara, Ass. Giovanni Sacco, Ing. Mario Geddo, Studio Giovetti,
Personale dell’Istituto.
Momenti
dell’inaugurazione
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Fondazione Omar - Economia e finanza
Le novità fiscali della legge finanziaria
per il 2006 (in sintesi)
Luca Manfredini e Stefano Baron
in collaborazione con Associazione
Dottori Commercialisti di Milano
e Gruppo di Studio - Eutekne
gno della ricerca e di altre finalità sociali;
– art. 6 del DL 10.1.2006 n. 2 (c.d. “DL agricoltura”), per effetto del quale è stato modificato il
comma 131, in materia di determinazione delle
plusvalenze e delle minusvalenze realizzate in
seguito alla cessione di partecipazioni.
1 Premessa
2 Principali novità fiscali
La legge Finanziaria 2006 (L. 23.12.2005 n.
266) è stata pubblicata sul Supplemento Ordinario n. 211/L della Gazzetta Ufficiale 29.12.2005 n.
302.
Il provvedimento è strutturato sulla base di un articolo unico, suddiviso in 612 commi.
Ai sensi del co. 612 dell’articolo unico, l’entrata in
vigore delle disposizioni recate dalla L. 266/2005 è
individuata alla data dell’1.1.2006.
Giova peraltro ricordare che, ancor prima della
sua entrata in vigore, la L. 266/2005 è stata oggetto
di modifiche, a cura dei seguenti provvedimenti:
– art. 31 co. 2 del DL 30.12.2005 n. 273 (c.d. “DL
milleproroghe”), per effetto del quale sono stati
modificati i commi 337 e 340, in materia di destinazione del 5 per mille dell’IRPEF a soste-
Di seguito, si propone in forma schematica una
breve elencazione delle principali novità di carattere
fiscale introdotte dalla L. 266/2005, rinviando poi a
successive circolari monotematiche per l’approfondimento degli istituti più rilevanti, di pari passo con
la diramazione dei relativi provvedimenti attuativi e
dei chiarimenti applicativi da parte dell’Agenzia delle Entrate.
Infine, è opportuno ricordare che la “manovra finanziaria per il 2006” si compone, oltre che della L.
266/2005 (legge Finanziaria 2006), anche del DL
30.9. 2005 n. 203 (conv. L. 2.12/2005 n. 248), c.d.
“collegato fiscale” alla Finanziaria 2006.
Per l’esame delle novità fiscali introdotte dal richiamato DL 203/2005, si rinvia alla precedente Circolare ADC 20-12-2005 n. 20.
NORMA
ARGOMENTO
Art. 1 co. 42
L’aliquota IVA ridotta del 10% (prevista dal n. 103 della parte III della tabella A allegata al DPR 633/72) si applica anche alle somministrazioni di energia elettrica
per il funzionamento degli impianti irrigui, di sollevamento e di scolo delle acque,
utilizzati dai consorzi di bonifica e di irrigazione.
Art. 1 co. 103
Possibilità di utilizzo in compensazione nel modello F24, nell’anno 2006, delle
somme versate nel periodo di imposta 2005, a titolo di contributo al servizio sanitario nazionale sui premi di assicurazione per la responsabilità civile per i danni derivanti dalla circolazione di veicoli a motore adibiti a trasporto merci.
L’ammontare recuperabile in compensazione non può comunque eccedere
300,00 euro per ciascun veicolo.
Art. 1 co. 106
Limitatamente al periodo d’imposta in corso al 31.12.2005, la deduzione forfetaria delle spese di trasporto non documentate riconosciuta agli autotrasportatori
(ex art. 66 co. 5 del TUIR) si applica anche con riferimento ai trasporti personalmente effettuati dall’imprenditore all’interno del Comune in cui ha sede l’impresa,
per un importo pari al 35% di quello spettante per i medesimi trasporti nell’ambito della Regione o delle Regioni confinanti.
Art. 1 co. 107
Limitatamente all’anno 2005, è riconosciuto, alle imprese di autotrasporto, un
esonero parziale dal versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali do-
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vuti all’INPS, per la quota a carico dei datori di lavoro, in relazione ai dipendenti
con qualifica di autisti di livello 3o e 3o super, secondo quando sarà stabilito da
un successivo DM.
Art. 1 co. 109
Inapplicabilità della disciplina delle c.d. “carte carburante” (di cui al DPR 444/97)
agli autotrasportatori di cose per conto di terzi.
Art. 1 co. 111
Ulteriore differimento dal 30.6.2006 al 31.12.2007 della durata del regime transitorio per la liberalizzazione dell’attività di autotrasporto di cose per conto di terzi.
Art. 1 co. 115
Proroga per l’anno 2006 delle agevolazioni relative alle accise.
Art. 1 co. 117
Proroga al 31.12.2006 della detrazione IRPEF delle spese per gli interventi di
manutenzione e salvaguardia dei boschi.
Per effetto delle modifiche apportate alla detrazione IRPEF per gli interventi edilizi, anche in tale caso la percentuale di detrazione aumenta dal 36% al 41%.
Art. 1 co. 118
Proroga, per il periodo d’imposta in corso all’1.1.2005, dell’aliquota IRAP
dell’1,9% per il settore agricolo e le cooperative della piccola pesca; aumento al
3,75% per il periodo d’imposta in corso all’1.1.2006.
Art. 1 co. 119
Proroga per l’anno 2006 delle agevolazioni fiscali previste dagli artt. 4 e 6 del DL
30.12.97 n. 457, convertito nella L. 27.2.98 n. 30, per le imprese che esercitano
la pesca costiera o nelle acque interne e lagunari.
Art. 1 co. 120
Proroga al 31.12.2006 delle agevolazioni tributarie per la formazione e l’arrotondamento della proprietà contadina.
Art. 1 co. 121
Proroga al 31.12.2006 della detrazione IRPEF delle spese sostenute per:
• l’effettuazione di interventi di recupero edilizio;
• l’acquisto, entro il 30.6.2007, di unità immobiliari in edifici completamente ristrutturati da imprese entro il 31.12.2006.
In entrambi i casi l’ammontare detraibile passa dal 36% al 41%.
Art. 1 co. 122
Ulteriore proroga, per l’anno 2006, della parziale tassazione dei redditi di lavoro
dipendente dei transfrontalieri
Art. 1 co. 123
Ulteriore proroga, per l’anno 2006, del limite di 3.615,20 euro di non concorrenza
alla formazione del reddito di lavoro dipendente dei contributi di assistenza sanitaria integrativa.
Art. 1 co. 124
Proroga al 2006 della “clausola di salvaguardia” ai fini IRPEF, facendo riferimento alle disposizioni del TUIR in vigore al 31.12.2002, ovvero al 31.12.2004, se più
favorevoli.
Art. 1 co. 125
Proroga al 31.12.2006 dell’indetrabilità dell’IVA relativa all’acquisto o al leasing di
veicoli. La percentuale di indetraibilità si riduce dal 90% all’85%.
Art. 1 co. 127
Proroga al 31.12.2006 dell’esenzione dalle imposte di registro, ipotecarie e catastali con riferimento agli atti relativi al riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB) in aziende di servizi o in persone giuridiche di diritto privato.
Art. 1 co. 128
Esenzione dall’imposta sulla pubblicità (di cui al capo I del DLgs. 507/93) della
pubblicità, in qualunque modo realizzata da società e associazioni sportive dilettantistiche, rivolta all’interno degli impianti dalle stesse utilizzate per manifestazioni sportive dilettantistiche con capienza inferiore ai 3.000 posti.
Art. 1 co. 129
Estensione al periodo d’imposta in corso al 31.12.2006 della deduzione forfettaria dal reddito d’impresa (ex art. 21 co. 1 della L. 448/98) in favore degli esercenti di impianti di distribuzione di carburante.
Art. 1 co. 130
Estensione ad ulteriori imprese (individuate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate), oltre a quelle operanti nella grande distribuzione, dell’esclusione (a determinate condizioni) dall’obbligo di certificare mediante scontrino
fiscale i corrispettivi riscossi dai clienti.
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Art. 1 co. 131
Ai fini della determinazione delle plusvalenze e delle minusvalenze realizzate in
seguito alla cessione di partecipazioni effettuate successivamente al termine del
regime transitorio indicato nelle lettere c) e d) dell’art. 4 co. 1 del DLgs. 344/2003,
il costo fiscalmente rilevante è assunto al netto delle svalutazioni dedotte nei precedenti periodi d’imposta (a seguito della modifica apportata con l’art. 6 del DL
2/2006).
Art. 1 co. 132
Modifiche alla procedura prevista dall’art. 27 della L. 62/2005 per il recupero delle agevolazioni fiscali fruite dalle spa a partecipazione pubblica maggioritaria,
esercenti servizi pubblici locali, dichiarate illegittime dalla decisione 5.6.2002 n.
2003/193/CE.
Art. 1 co. 133
Esclusione della possibilità di ottenere il rimborso dell’ICI versata, fino al
2.12.2005, in relazione agli immobili degli enti non commerciali, impiegati nell’esercizio di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative, sportive, di religione o di culto (ancorché in forma commerciale),
con riferimento ai quali l’art. 7 co. 2-bis del DL 203/2005, inserito in sede di conversione nella L. 248/2005, ha previsto l’esenzione dal versamento dell’imposta.
Proroga all’1.1.2007 dell’obbligo di introdurre la tariffa al posto della tassa raccolta rifiuti solidi urbani (TARSU).
Art. 1 co. 134
Art. 1 co. 137
A decorrere dall’1.1.2006, non si esegue il versamento del debito o il rimborso del
credito se l’importo riferito alla singola imposta o addizionale, risultante dalla dichiarazione dei redditi, compreso il modello 730, non supera il limite di 12,00 euro. Se il modello 730 viene comunque presentato, non è dovuto, ai soggetti che
prestano assistenza fiscale o al sostituto dell’imposta, alcun compenso a carico
del bilancio dello Stato.
Art. 1 co. 152
Conferma anche per il 2006 delle disposizioni in materia di compartecipazione
provinciale e comunale al gettito dell’IRPEF.
Art. 1 co. 155
Proroga al 31.3.2006 del termine per l’approvazione del bilancio di previsione degli enti locali.
Art. 1 co. 163
Modifiche al regime fiscale dei proventi dei titoli obbligazionari emessi da enti territoriali, ai sensi degli artt. 35 e 37 della L. 724/94.
Art. 1 co. 165
Proroga per il 2006 del “blocco” degli aumenti delle addizionali regionali IRPEF e
delle maggiorazioni IRAP, salve le previsti deroghe.
Art. 1 co. 256
Possono essere istituite Commissioni di certificazione dei contratti di lavoro (ex
art. 76 del DLgs. 276/2003, c.d. “riforma Biagi”) anche presso:
• il Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Direzione generale della tutela
delle condizioni di lavoro, in determinati casi;
• i Consigli provinciali dei consulenti del lavoro.
Art. 1 co. 269
Modifiche all’art. 8 del DL 203/2005 convertito nella L. 248/2005, che ha istituito
il Fondo di garanzia per agevolare l’accesso al credito e previsto una riduzione
dei contributi sociali, quali misure compensative per le imprese che conferiscono
il trattamento di fine rapporto (TFR) a forme pensionistiche complementari.
Le modifiche sono anche collegate al fatto che la riforma del TFR e della previdenza complementare, di cui al DLgs. 5.12.2005 n. 252, entrerà in vigore solo
l’1.1.2008.
Art. 1 co. 276
Modifiche alla disciplina della trasmissione telematica al Ministero dell’economia
e delle finanze dei dati delle ricette mediche; introduzione del regime sanzionatorio in caso di mancata, tardiva o incompleta comunicazione dei dati.
Anticipazione al 31.3.2006 del termine per concludere la consegna della nuova
tessera sanitaria, rispetto alla scadenza del 30.6.2006 prevista dall’art. 8 co. 3 del
DL 203/2005 convertito nella L. 248/2005.
Art. 1 co. 277
Applicazione, con riferimento all’anno d’imposta 2006, della misura massima prevista dalla vigente normativa dell’addizionale regionale IRPEF e delle maggiorazioni IRAP, qualora il Presidente della Regione interessata, in qualità di commissario ad acta, non abbia adottato, entro il 31 maggio, i provvedimenti necessari
per il ripianamento del disavanzo di gestione della spesa sanitaria.
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In tal caso, i contribuenti devono liquidare e versare gli acconti d’imposta dovuti
nel medesimo anno sulla base della misura massima dell’addizionale IRPEF e
delle maggiorazioni IRAP.
Art. 1 co. 299
Facoltà di estensione delle agevolazioni IRAP previste per le ONLUS alle Aziende pubbliche di servizi alla persona (ASP), succedute alle Istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza (IPAB).
Art. 1 co. 306
Abolizione della possibilità di applicare l’aliquota ridotta del 4% (prevista dal n.
41-bis della Tabella A, parte II, allegata al DPR 633/72) alle prestazioni socio-sanitarie, educative, ecc., rese in favore dei soggetti svantaggiati da cooperative e
loro consorzi, sia direttamente che in esecuzione di contratti di appalto e convenzioni in genere.
Art. 1 co. 319 - 324
Modifiche alle disposizioni in materia di federalismo fiscale, di cui al DLgs. 18.2.2000
n. 56.
Art. 1 co. 325 e 327
Previsione di una specifica disciplina “a regime” per la determinazione degli ammortamenti dei beni materiali delle imprese esercenti le attività di distribuzione e
trasporto di gas naturale ed energia elettrica.
Art. 1 co. 326
In relazione ai beni materiali delle imprese esercenti le attività di distribuzione e
trasporto di gas naturale ed energia elettrica, le indicazioni nel registro dei beni
ammortizzabili possono essere effettuate con riferimento a categorie di beni omogenee per anno di acquisizione e vita utile.
Art. 1 co. 328
A seguito dell’entrata “a regime” della disciplina per la determinazione degli ammortamenti dei beni materiali delle imprese esercenti le attività di distribuzione e
trasporto di gas naturale ed energia elettrica, vengono abolite le particolari disposizioni, previste per tali soggetti, ai fini della determinazione degli acconti
IRES e IRAP del periodo d’imposta 2006.
Art. 1 co. 329
Aggiornamento degli importi fissi delle sanzioni pecuniarie, anche penali, da effettuare mediante un DPCM da adottare entro il 28.2.2006.
Art. 1 co. 331 e 333
Concessione di un assegno pari a 1.000,00 euro per ogni figlio nato ovvero adottato nell’anno 2005 e definizione delle relative modalità di riscossione.
L’assegno spetta ai soli nuclei familiari con un reddito complessivo lordo, riferito
all’anno precedente, non superiore a 50.000,00 euro.
Art. 1 co. 332 e 333
Concessione di un assegno pari a 1.000,00 euro per ogni figlio nato nell’anno
2006, secondo o ulteriore per ordine di nascita, ovvero adottato, e definizione
delle relative modalità di riscossione.
L’assegno spetta ai soli nuclei familiari con un reddito complessivo lordo, riferito
all’anno precedente, non superiore a 50.000,00 euro.
Art. 1 co. 335
Limitatamente al periodo d’imposta 2005, per le spese documentate sostenute
dai genitori per il pagamento di rette relative alla frequenza di asili nido, per un
importo complessivamente non superiore a 632,00 euro annui per ogni figlio ospitato negli stessi, è prevista una detrazione dall’IRPEF lorda nella misura del 19%
dell’onere sostenuto (ex art. 15 del TUIR).
Art. 1 co. 336
Istituzione, presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, di un Fondo per la
concessione di garanzia di ultima istanza, in aggiunta alle ipoteche ordinarie sugli immobili, agli intermediari finanziari (bancari e non bancari) per la concessione di mutui, diretti all’acquisto o alla costruzione della prima casa di abitazione,
da parte di determinati soggetti (es. giovani di età inferiore ai 35 anni, lavoratori a
termine o “atipici”, soggetti a basso reddito).
Art. 1 co. 337 - 340
Per l’anno finanziario 2005 (a seguito delle modifiche apportate dal DL
273/2005), viene prevista la destinazione di una quota pari al 5‰ dell’IRPEF alle
seguenti finalità (secondo la scelta operata dal contribuente):
• sostegno del volontariato e delle altre ONLUS di cui all’art. 10 del DLgs.
460/97, delle associazioni di promozione sociale (APS) iscritte negli appositi registri nazionale, regionali e provinciali, nonché delle fondazioni e associazioni
riconosciute che svolgano determinate attività;
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• finanziamento della ricerca scientifica e dell’università;
• finanziamento della ricerca sanitaria;
• attività sociali svolte dal Comune di residenza del contribuente.
Resta fermo il meccanismo della destinazione dell’8‰ dell’IRPEF per il finanziamento di confessioni religiose riconosciute.
Art. 1 co. 343 - 345
Istituzione di un Fondo per indennizzare i risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, sono rimasti vittime di frodi finanziarie e hanno sofferto un danno ingiusto non altrimenti risarcito.
Il suddetto Fondo è finanziato con le somme presenti sui conti correnti e nei depositi all’interno del sistema bancario, finanziario e assicurativo, definiti come
“dormienti”, con le modalità che saranno stabilite con un successivo DM.
Art. 1 co. 346
Modifiche al Testo unico delle leggi concernenti il sequestro, il pignoramento e la
cessione degli stipendi, salari e pensioni, sia dei dipendenti pubblici che privati.
Art. 1 co. 351 e 352
Abolizione della tassa di concessione governativa e dell’imposta di bollo in relazione alle istanze, agli atti e ai provvedimenti relativi al riconoscimento in Italia di
brevetti per invenzioni industriali, di brevetti per modelli di utilità e di brevetti per
modelli e disegni ornamentali.
Art. 1 co. 353
Deducibilità, in capo ai soggetti IRES, dei fondi trasferiti per il finanziamento della ricerca, a titolo di contributo o liberalità, a favore di:
• università;
• fondazioni universitarie (ex art. 59 co. 3 della L. 388/2000);
• istituzioni universitarie pubbliche;
• enti di ricerca pubblici;
• fondazioni e associazioni regolarmente riconosciute a norma del DPR
361/2000, aventi per oggetto statutario lo svolgimento o la promozione di attività di ricerca scientifica, individuate con apposito DPCM;
• enti di ricerca vigilati dal Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca,
ivi compresi l’Istituto superiore di sanità (ISS) e l’Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro (ISPESL);
• enti parco regionali e nazionali.
Art. 1 co. 354
Agli atti relativi ai trasferimenti a titolo gratuito di cui al precedente comma si applicano:
• l’esenzione da tasse e imposte indirette (diverse dall’IVA) e da diritti dovuti a
qualunque titolo;
• la riduzione del 90% degli onorari notarili.
Art. 1 co. 355
Per effetto delle nuove disposizioni in materia di deducibilità IRES delle suddette
erogazioni (co. 353), vengono abrogati:
• l’art. 100 co. 2 lett. c) del TUIR;
• l’art. 14 co. 8 del DL 35/2005 convertito nella L. 80/2005.
Art. 1 co. 356
Ai fini dello sgravio dell’IVA per i beni acquistati in Italia dai viaggiatori extra-comunitari, gli estremi del passaporto (o di altro documento equipollente) devono
essere apposti sull’esemplare della fattura rilasciata al viaggiatore anteriormente
all’apposizione, da parte dell’Ufficio doganale, dell’apposito visto di uscita.
Art. 1 co. 357 - 360
Istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Fondo per l’innovazione, la crescita e l’occupazione, destinato a finanziare i progetti individuati
dal Piano per l’innovazione, la crescita e l’occupazione.
Art. 1 co. 361 e 362
Esonero dei datori di lavoro dal versamento, fino all’1%, dei contributi sociali alla
Gestione prestazioni temporanee dei lavoratori dipendenti (es. assegni per il nucleo familiare, maternità e disoccupazione).
Si tratta della riduzione dell’incidenza degli “oneri impropri” sul costo del lavoro
(c.d. “cuneo fiscale”).
Art. 1 co. 366 - 372
Introduzione della c.d. “tassazione consolidata di distretto”.
Art. 1 co. 374
A decorrere dall’1.1.2006, le domande di iscrizione e annotazione nel Registro
delle Imprese e nel REA presentate dalle imprese artigiane e da quelle esercenti attività commerciali hanno effetto, sussistendo i presupposti di legge, anche ai
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fini dell’iscrizione agli Enti previdenziali e del pagamento dei contributi agli stessi
dovuti.
Art. 1 co. 381 - 384
Al fine di favorire i processi di privatizzazione e la diffusione dell’investimento
azionario, gli statuti delle società nelle quali lo Stato detenga una partecipazione
rilevante possono:
• prevedere l’emissione di strumenti finanziari partecipativi, ai sensi dell’art. 2346
co. 6 c.c.;
• creare categorie di azioni, ai sensi dell’art. 2348 c.c., anche a seguito di conversione di parte delle azioni esistenti.
Art. 1 co. 390 - 392
L’autenticazione degli atti e delle dichiarazioni aventi ad oggetto l’alienazione o la
costituzione di diritti di garanzia sui veicoli è effettuata:
• gratuitamente, dai dirigenti del Comune di residenza del venditore, dai funzionari di cancelleria in servizio presso gli uffici giudiziari appartenenti al distretto di
Corte d’Appello di residenza del venditore, dai funzionari degli uffici del Dipartimento per i trasporti terrestri del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, dai
funzionari dell’ACI e dai titolari delle agenzie automobilistiche presso le quali è
stato attivato lo Sportello telematico dell’automobilista;
• ovvero da un notaio iscritto all’albo.
L’applicazione di tali disposizioni è però subordinata all’emanazione di un apposito DPCM attuativo.
Vengono conseguentemente abrogati i co. 4 - 6 dell’art. 3 del DL 35/2005 convertito nella L. 80/2005.
Art. 1 co. 412
Ai fini del riconoscimento del credito d’imposta per nuove assunzioni, di cui agli
artt. 7 della L. 388/2000 e 63 della L. 289/2002 (e successive modifiche), ove il
datore di lavoro presenti l’istanza di accesso all’agevolazione prima di aver disposto le relative assunzioni, le stesse vanno effettuate entro 30 giorni dalla comunicazione dell’accoglimento dell’istanza da parte dell’Agenzia delle Entrate. In
tal caso, l’istanza è completata, a pena di decadenza, con la comunicazione dell’identificativo del lavoratore, entro i successivi 30 giorni.
Le risorse derivanti da rinunce o da revoche del credito d’imposta per investimenti in aree svantaggiate, attribuito a partire dall’1.1.2003 alle condizioni previste dall’art. 62 co. 1 lett. c) della L. 289/2002, sono utilizzate dall’Agenzia delle
Entrate per accogliere le richieste di ammissione al beneficio, secondo l’ordine
cronologico di presentazione, precedentemente non accolte per insufficienza di
disponibilità.
Art. 1 co. 418
Viene considerata un’operazione rilevante ai fini dell’attribuzione del c.d. “premio
di con centrazione” (ex art. 9 del DL 35/2005 convertito nella L. 80/2005) anche la
concentrazione realizzata attraverso:
• il controllo di società di cui all’art. 2359 c.c.;
• la partecipazione finanziaria al fine di esercitare l’attività di direzione e coordinamento ai sensi degli artt. 2497 e ss. c.c.;
• la costituzione del gruppo cooperativo previsto dall’art. 2545-septies c.c.
Art. 1 co. 419
Estensione del c.d. “premio di concentrazione” (ex art. 9 del DL 35/2005 convertito nella L. 80/2005) anche agli imprenditori agricoli.
Art. 1 co. 420
I giovani imprenditori agricoli possono essere ammessi agli incentivi di cui all’art.
3 del DLgs. 185/2000 (es. contributi a fondo perduto e mutui agevolati per gli investimenti, contributi a fondo perduto in conto gestione, ecc.) anche se organizzati in forma societaria.
Inoltre, le società subentranti, alla data di presentazione della domanda, devono
avere la sede legale, amministrativa ed operativa:
• nei territori di cui agli obiettivi 1 e 2 dei programmi comunitari;
• ovvero nelle aree ammesse alla deroga di cui all’art. 87, paragrafo 3, lett. c) del
Trattato di Roma;
• ovvero nelle aree che presentano “un rilevante squilibrio tra domanda e offerta
di lavoro”.
Art. 1 co. 423
La produzione e la cessione di energia elettrica da fonti rinnovabili agroforestali
effettuate dagli imprenditori agricoli costituiscono attività connesse ai sensi dell’art. 2135 co. 3 c.c. e si considerano produttive di reddito agrario.
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Art. 1 co. 444
In caso di espropriazione per pubblica utilità, le indennità di occupazione costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi se riferite a terreni ricadenti nelle zone omogenee di tipo A, B, C e D, come definite
dagli strumenti urbanistici.
Art. 1 co. 445 - 448
Proroga da 15 a 25 anni della durata dei finanziamenti agevolati concessi ai soggetti danneggiati dagli eventi alluvionali del mese di novembre 1994.
Art. 1 co. 454
Sui contributi integrativi concessi alle imprese editoriali non è più corrisposta l’anticipazione di cui all’art. 3 co. 15-bis della L. 250/90. I contributi sono comunque
erogati in un’unica soluzione entro l’anno successivo a quello di riferimento.
Art. 1 co. 455
A decorrere dall’1.1.2005, ai fini del calcolo dei contributi integrativi concessi alle
imprese editoriali (ai sensi dell’art. 3 co. 2, 8, 10 e 11 della L. 250/90), i costi sostenuti per collaborazioni, ivi comprese quelle giornalistiche, sono ammessi fino
ad un ammontare pari al 10% dei costi complessivamente ammissibili.
Art. 1 co. 456 - 461 e 574
Modifica dei requisiti per la concessione dei contributi di cui all’art. 3 co. 8 e 11
della L. 250/90.
Art. 1 co. 466
Istituzione di un’addizionale (pari al 25%) alle imposte sul reddito dovuta:
• dai soggetti titolari di reddito di impresa;
• dagli esercenti arti e professioni;
• dai soggetti di cui all’art. 5 del TUIR (es. società di persone commerciali e soggetti a queste assimilati).
L’addizionale è indeducibile ai fini delle imposte sul reddito e si applica alla quota del reddito complessivo netto proporzionalmente corrispondente all’ammontare dei ricavi o dei compensi derivanti dalla produzione, distribuzione, vendita e
rappresentazione di materiale pornografico e di incitamento alla violenza, rispetto all’ammontare totale dei ricavi o compensi (c.d. “porno tax”).
Art. 1 co. 467
L’aliquota IVA ridotta del 10% (prevista dal n. 123-ter della parte III della tabella A
allegata al DPR 633/72) per i canoni di abbonamento alle radiodiffusioni circolari
trasmesse in forma codificata, nonché per la diffusione radiotelevisiva con accesso condizionato effettuata in forma digitale a mezzo di reti via cavo o via satellite (ivi comprese le trasmissioni televisive punto-punto) non si applica ai corrispettivi dovuti per la ricezione di programmi di contenuto pornografico (i quali sono quindi soggetti all’aliquota ordinaria del 20%).
Art. 1 co. 468
Ulteriori disposizioni in materia di personale delle società concessionarie della riscossione, a seguito della costituzione di “Riscossione s.p.a.”.
Art. 1 co. 469 - 476
Riapertura della rivalutazione dei beni d’impresa e delle aree fabbricabili, risultanti dal bilancio relativo all’esercizio in corso alla data del 31.12.2004, tramite il
versamento di un’imposta sostitutiva (12% per i beni ammortizzabili, 6% per i beni non ammortizzabili e 19% per le aree fabbricabili) delle imposte dirette e dell’IRAP.
Art. 1 co. 481
Modifiche al regime di applicazione della ritenuta del 12,5% sui proventi derivanti dalla partecipazione a fondi comuni d’investimento immobiliare.
Art. 1 co. 495
Nel quadro delle attività di contrasto all’evasione fiscale, l’Agenzia delle Entrate e
la Guardia di Finanza destinano quote significative delle proprie risorse al settore delle vendite immobiliari, avvalendosi delle facoltà previste dagli artt. 31 - 45
del DPR 600/73 e dagli artt. 51 e 52 del DPR 131/86.
Art. 1 co. 496
Introduzione della possibilità di applicare un’imposta sostitutiva dell’IRPEF, pari al
12,5%, sulle plusvalenze derivanti da cessioni di immobili, effettuate non in regime d’impresa, detenuti da meno di 5 anni, in luogo della tassazione ordinaria come redditi diversi.
Art. 1 co. 497
In deroga all’art. 43 del DPR 131/86, per le sole cessioni fra persone fisiche che
non agiscano nell’esercizio di attività commerciali, artistiche o professionali,
aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo e relative pertinenze, all’atto della
cessione e su richiesta della parte acquirente resa al notaio, la base imponibile ai
fini delle imposte di registro, ipotecarie e catastali è costituita dal valore dell’im-
52 OMAR
nuovo
mobile determinato ai sensi dell’art. 52 co. 4 e 5 del DPR 131/86, indipendentemente dal corrispettivo pattuito indicato nell’atto.
Gli onorari notarili sono ridotti del 20%.
Art. 1 co. 498
I contribuenti che si avvalgono delle disposizioni di cui ai precedenti co. 496 e
497 sono esclusi dai controlli di cui al precedente co. 495 e nei loro confronti non
trovano applicazione le disposizioni in tema di rettifica delle dichiarazioni (di cui
all’art. 38 co. 3 del DPR 600/73) e di rettifica del valore dell’immobile (di cui all’art.
52 co. 1 del DPR 131/86).
Art. 1 co. 499 - 520
Introduzione a regime della programmazione fiscale, vale a dire della possibilità
di definire preventivamente il reddito d’impresa o di lavoro autonomo per il successivo triennio (es. 2006-2008), sulla base di un’apposita proposta inviata dagli
Uffici.
Ai contribuenti destinatari delle suddette proposte di programmazione fiscale, l’Agenzia delle Entrate formula altresì una proposta di adeguamento dei redditi di
impresa e di lavoro autonomo, nonché della base imponibile IRAP, relativi ai periodi d’imposta in corso al 31.12.2003 ed al 31.12.2004, per i quali le dichiarazioni sono state presentate entro il 31.10.2005.
Art. 1 co. 521
Modifica del periodo minimo di ammortamento dell’avviamento, che viene portato a 18 anni.
Art. 1 co. 522
Modifica dei criteri di calcolo (applicabili al periodo d’imposta 2005) dell’ammortamento dei beni materiali delle imprese esercenti le attività di distribuzione e trasporto di gas naturale ed energia elettrica.
Art. 1 co. 525 - 548
Ulteriori modifiche alla disciplina amministrativa e fiscale degli apparecchi e congegni da divertimento e intrattenimento.
In particolare, gli apparecchi per il gioco lecito previsti dall’art. 110 co. 6 del TULPS, collegati alla rete telematica dell’Amministrazione autonoma dei Monopoli di
Stato, vengono suddivisi in due categorie, rispettivamente disciplinate dalle nuove lettere a) e b).
Il prelievo erariale unico (PREU):
• per gli apparecchi di cui all’art. 110 co. 6 lett. a) del TULPS, a decorrere
dall’1.7.2006 è fissato nella misura del 12% delle somme giocate (attualmente
13,5%);
• per gli apparecchi di cui all’art. 110 co. 6 lett. b) del TULPS, le cui caratteristiche tecniche saranno definite con un successivo DM, avrà un’aliquota compresa tra l’8% e il 12% delle somme giocate; le modalità attuative di assolvimento
del tributo saranno stabilite con provvedimenti dell’Amministrazione autonoma
dei Monopoli di Stato.
Per gli apparecchi da divertimento e intrattenimento di cui all’art. 110 co. 7 del
TULPS e per quelli meccanici o elettromeccanici, invece, viene previsto il controllo automatico dei versamenti dell’imposta sugli intrattenimenti e dell’IVA dovuta. L’esito dei controlli è comunicato al contribuente che, entro 30 giorni, può
fornire chiarimenti o procedere al pagamento delle somme richieste, con riduzione delle sanzioni ad un terzo. In caso di mancato pagamento si procede all’iscrizione a ruolo a titolo definitivo.
Art. 1 co. 553
La presentazione da parte delle imprese del documento unico di regolarità contributiva (DURC) è necessario per accedere ai benefici ed alle sovvenzioni comunitarie per la realizzazione di investimenti.
Art. 1 co. 572
Concessione di un contributo per gli apparecchi riceventi dei segnali televisivi in
tecnica digitale terrestre, nel rispetto di determinati requisiti, di importo pari a:
90,00 euro, per gli acquisti o noleggi effettuati dall’1.1.2005 al 31.12.2005;
70,00 euro, per gli acquisti o noleggi effettuati dall’1.1.2006.
Art. 1 co. 579
Disciplina, con successivo DM, delle caratteristiche dei titoli di debito che possono essere emessi dalle società per azioni a ristretta base azionaria, per la raccolta di fondi da destinare agli investimenti.
OMAR 53
nuovo
Fondazione Tera
Pieno successo del convegno internazionale
di Oropa sulle particelle subatomiche
in biologia e medicina e sulla terapia adronica
Oropa (Biella), 15 – 19 giugno 2005
Manjit Dosanjh (Cern)
Giulio Magrin (Tera)
La rete europea per ricerca sulle terapie con
ioni leggeri, ENLIGHT, ha avuto il suo congresso
conclusivo ad Oropa. Un lavoro di importanza
cruciale che deve continuare.
La rete europea per ricerca nella terapia con ioni
leggeri (ENLIGHT), ha tenuto il suo congresso inaugurale al CERN di Ginevra nel febbraio del 2002.
Questa iniziativa è stata creata per coordinare gli
sforzi dei gruppi europei che studiano ed impiegano
i fasci di ioni leggeri per la radioterapia. Finanziata
da un fondo della Commissione Europea per tre anni, la rete è formata dalla collaborazione dei centri e
delle istituzioni europee che con oltre 100 esperti lavorano per la ricerca, l’avanzamento e la realizzazione di centri per l’adroterapia in Europa. Il congresso conclusivo ha avuto luogo in giugno in Oropa, l’antico santuario nelle Alpi biellesi. Organizzato
dalla Fondazione per Adroterapia Oncologica (TERA), il convegno è stato presieduto dal professor
Ugo Amaldi, il cui incessante lavoro di promozione
dell’adroterapia è internazionalmente riconosciuto
ed apprezzato.
Il meeting conclusivo di Enlight
Il meeting di ENLIGHT si è trasformato in un
evento internazionale riuscendo ad accogliere i
clinici, i radiobiologi, i fisici e gli assistenti tecnici
che in un unico ambito comune hanno potuto discutere e confrontarsi sugli ultimi sviluppi dell’adroterapia. Le presentazioni e le discussioni hanno abbracciato i temi chiave del progetto europeo:
l’epidemiologia e selezione dei pazienti; le prove
cliniche; lo studio biologico delle radiazioni; la produzione dei fasci ionici e la dosimetria; la formazione immagini; gli aspetti economici dell’adroterapia.
È noto che gli adroni sono un’alternativa importante ai fotoni nella radioterapia. La radioterapia
convenzionale con i fasci di fotoni è caratterizzata
dal rilascio di energia che, dopo un massimo ad una
profondità di 2-3 centimetri, diminuisce rapidamente. Gli adroni, al contrario, rilasciano una densità di
energia più elevata alla fine del loro percorso. Di
conseguenza un fascio dei protoni o di ioni permet-
54 OMAR
nuovo
te un trattamento di volumi tumorali profondi con
precisione del millimetro, con minimo danno al tessuto circostante.
La rete ENLIGHT è stata fondamentale nel riunire i diversi centri europei e nel promuovere terapia
con adroni, in particolare con gli ioni carbonio. Essa
ha contribuito al confronto in ambito internazionale
sui vantaggi dei diversi trattamenti quali IMRT (il
trattamento con raggi X ad intensità-modulata), le
terapie con protoni e ioni carbonio. Inoltre ha dato la
possibilità di comparare metodologie e mezzi tecnici necessari per tali terapie. Questo impegno comune ha permesso un confronto di dati clinici per la terapia con protoni (al centro d Protonterapia di Orsay, Francia) e con ioni carbonio (GSI, Germania)
su determinati tipi di tumore della base del cranio
(chordomas e chondrosarcomas).
Terapia con ioni carbonio
Sono state condotte prove cliniche per identificare, per un certo tipo di tumore ed una posizione specifica, la quantità totale di dose da fornire, il numero
ottimale di frazioni (le frazioni sono il numero di trattamenti con radiazioni in cui la dose totale richiesta
è rilasciata) e la combinazione possibile con altri
trattamenti. L’esperienza maturata dai risultati clinici ottenuti con gli ioni del carbonio all’acceleratore
medico di ioni a Chiba (HIMAC) in Giappone e del
GSI ha mostrato che le particelle come il carbonio
sono molto efficaci a trattare i tumori poiché producono una rottura multipla irreparabile nella doppia
elica del DNA, localizzata nella regione delle cellule
del tumore; inoltre, i tassi di sopravvivenza dopo il
trattamento sono migliorati.
Un gruppo dei clinici dell’HIMAC ha presentato al
meeting alcuni risultati importanti. Sono state condotte prove su tumori polmonari “non piccoli” in cui
e’ stato ridotto il numero di frazioni da 16 a 4; per tumori al polmone piccoli sono stati effettuati trattamenti in soltanto una o due sessioni di irradiazione;
il cancro della prostata è trattato in meno di 20 sessioni, mentre circa 30 sessioni sono necessarie per
la terapia con protoni e 40 per la radioterapia convenzionale. All’HIMAC il numero medio di frazioni si
è ridotto a 13, meno che la metà di quanto è necessario per il trattamento con protoni o la radioterapia
tradizionale. Questo allo stesso tempo fa diminuire il
disagio del paziente, aumenta il numero di pazienti
che possono essere curati ogni anno ed abbassa il
costo totale del trattamento.
Con due nuovi centri di adroterapia che presto diventeranno operativi a Heidelberg e Pavia, è di fondamentale importanza analizzare il costo della terapia con ioni rispetto alla radioterapia tradizionale.
Una sessione del meeting è stata dedicata alla discussione degli aspetti economici dei centri di trattamento. Varie valutazioni in ambito europeo indicano il costo di un centro di adroterapia attorno ai
100 milioni di euro. Uno studio effettuato al centro
tedesco di ricerca sul cancro (DKFZ), ha confrontato il costo di trattamento di cordoma della base del
cranio, in cui la rimozione chirurgica è seguita da radioterapia convenzionale o radioterapia con ioni
carbonio. Il trattamento primario con 20 frazioni di
ioni carbonio ha un costo valutato tra i 20.000 ed i
25.000 euro, più elevato di un trattamento con radioterapia convenzionale primaria. Tuttavia, la terapia con adroni diventa più economica a lungo termine, vista la minore probabilità di recidiva tumorale.
Inoltre, il costo della terapia con ioni carbonio potrebbe diminuire ulteriormente diminuendo il numero di frazioni.
Durante il convegno si sono analizzati i principi di
pianificazione ed ottimizzazione di trattamento. Il
centro del PSI in Villigen in Svizzera ha studiato i
piani di trattamento del cosiddetto IMPT, cioè il trattamento con protoni ad intensità modulata, in cui tre
o quattro campi di radiazione con fluenze di particelle complesse si combinano per generare una dose uniforme nel volume di trattamento. In questo
modo, è possibile ottimizzare e risparmiare del tessuto sano. Un progetto simile è allo studio per gli ioni carbonio al GSI.
Sono stati intrapresi degli studi per realizzare dei
sistemi basati sulla tecnica della tomografia ad
emissione di positroni (PET) capaci di registrare le
immagini durante il trattamento stesso. La tecnica
usa i positroni emessi dai frammenti nucleari del fascio di trattamento e sistemi di formazione di immagine della PET convenzionale. È questo un metodo
non invasivo per confrontare la dose prevista e la
dose effettivamente fornita nei siti tumorali. I dati
possono essere usati per correggere e ridefinire le
frazioni di trattamento successive. Inoltre è stato
presentato un lavoro sul PET on line da utilizzare
nella terapia con protoni.
Al congresso è stato presentato un progetto che
confronta le distribuzioni di dose realizzate con i
raggi X, protoni e ioni carbonio. Grazie ai programmi disponibili per la determinazione dei piani di trattamento delle diverse tecniche quali IMRT, la diffusione passiva per protoni e la scannerizzazione attiva per protoni e ioni carbonio, si è confrontata l’efficacia delle differenti radiazioni nel trasporre la dose
nel volume di interesse risparmiando gli organi al rischio. Una volta realizzato, questo progetto potrà
trasformarsi in uno strumento di uso quotidiano, fondamentale per radioterapisti ed oncologi.
Strutture del futuro
All’interno della rete di ENLIGHT sono state studiate le caratteristiche dei centri di adroterapia basati su sincrotroni ottimizzandone il design in vista
di possibili strutture di adroterapia di seconda generazione. Il lavoro ha coinvolto l’ottimizzazione
dei sistemi di iniezione ed estrazione, la diagnostica del fascio, il controllo del trattamento e la dosimetria.
Nella sessione finale sono stati discussi il ruolo e
l’efficacia dell’iniziativa di ENLIGHT e le prospettive
future. È stato riconosciuto che la rete è certamente
riuscita a focalizzare l’attenzione dei paesi europei
sull’importanza degli adroni nel trattamento del cancro. Quattro centri nazionali sono stati approvati: il
centro HIT di Heidelberg, il Centro Nazionale di
Adroterapia Oncologica (CNAO) a Pavia, i centri di
Med Austron a Wiener Neustadt e di ETOILE a Lione. Vi è un interesse crescente verso analoghe iniziative e diversi altri paesi stanno considerando la
possibilità di creare progetti nazionali, in particolare
la Svezia, i Paesi Bassi, il Belgio, la Spagna ed il
Regno Unito.
Anche l’interesse dell’industria sta velocemente
prendendo piede. Varie aziende con esperienza in
acceleratori per protoni stanno preparandosi per
lanciare sul mercato macchine per la terapia con ioni carbonio. Durante il meeting stesso, Roberto Petronzio, presidente del Istituto Nazionale di Fisica
Nucleare (INFN), ha annunciato un accordo tra
INFN, Ansaldo Superconduttori ed ACCEL per sviluppare e lanciare un ciclotrone superconduttivo da
250 MeV per unità di massa adatto a protoni e ioni
carbonio.
L’interesse nella terapia degli ioni carbonio inoltre
sta riattraversando l’Atlantico verso gli Stati Uniti,
dove più di 50 anni fa furono iniziati i primi studi pionieristici sull’utilizzo degli adroni presso il laboratorio
del Lawrence Berkeley. Anche se le strutture più recenti installate negli Stati Uniti sono basate sugli acceleratori per protoni, sta crescendo l’interesse nell’uso di ioni più pesanti ed è sempre più probabile
che vengano sviluppati nuovi centri con sistemi doppi sia per protoni che per ioni carbonio.
Un importante successo di ENLIGHT è stato la
creazione di una piattaforma pluridisciplinare, capace di unire comunità tradizionalmente separate e far
collaborare clinici, fisici, biologi ed assistenti tecnici
con esperienza in ioni e protoni. È stato riconosciuto dai partecipanti il ruolo chiave di ENLIGHT nella
creazione della rete europea e nel fare avanzare l’adroterapia. Esiste una volontà comune nel far continuare questa collaborazione fruttuosa, essendo
ENLIGHT un ingrediente cruciale per progresso dell’adroterapia che quindi dovrebbe essere mantenuto ed ampliato.
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Club Donegani
Programma attività 2006
Conferenza presso la sala Leonardo dell’Est Sesia, ore 21
1° PERCORSO
2° PERCORSO
NUOVI MATERIALI
Coordinatore dott. Giovanni Giunchi
Vicepresidente Club Donegani
NOVARA: LA CITTÀ E IL SUO TERRITORIO
Coordinatore ing. Giuseppe Frego
Consigliere Club Donegani
Lunedì 13 febbraio
Biomateriali per implantologia clinica:
applicazioni in campo dentale e vascolare
Prof. Gabriele Dubini
Politecnico di Milano Dipartimento Ingegneria
Strutturale
Lunedì 13 marzo
Il fenomeno dell’“Incastellamento”
nell’Italia padana e nel novarese (sec. IX-XII)
Prof. Aldo Angelo Settia
già professore Università di Pavia
Lunedì 3 aprile
Nuovi materiali per l’edilizia
Dott. Luigi Cassar
Consulente Italcementi per materiali da costruzione
Lunedì 12 giugno
Nuovi materiali: riutilizzazione scarti legnosi
P.i. Giampaolo Segurini
Amministratore delegato Farcoll S.p.A.
Filago (BG)
Lunedì 22 maggio
I centri nodali della penetrazione della città
nel territorio:
i borghi franchi e la loro evoluzione (sec. XII-XV)
Prof. Giancarlo Andenna
Professore Università Cattolica di Milano
Lunedì 18 settembre
Il contado, le valli e i laghi. Dipendenze
ed autonomie da Novara in Antico Regime (1540-1775)
Dott. Giampietro Morreale
Direttore Archivio storico Unicredit Italiano - Milano
Lunedì 6 novembre
Materiali funzionali per sistemi energetici
più efficienti
Dott. Giovanni Giunchi
Ricerca e sviluppo Edison S.p.A.
Lunedì 9 ottobre
Novara e il suo territorio nell’Ottocento
Dott. Giovanni Silengo
già Direttore Archivio di Stato di Novara
Giovedì 16 novembre – ore 20
XVII Concorso Poetico “Premio Paniscia”
Sabato 16 dicembre – ore 20
Convivio Natalizio
Il programma
Visto il successo degli anni scorsi, sia in termini di frequenza che di apprezzamento, il programma culturale del nostro Club viene proposto anche quest’anno in due percorsi, uno di carattere scientifico-tecnologico
e l’altro storico-sociale.
Nel 1° percorso si affronterà il tema dei nuovi materiali. Essi rappresentano uno dei motori principali dello
sviluppo della nostra società, in quanto sono in grado di cambiare il nostro modo di vivere, ma anche, in prospettiva, di estendere ad un numero sempre maggiore di utenti standard di vita più umani. Nel vasto panorama dei nuovi materiali abbiamo scelto esempi che partono dalle esperienze di ricerca in corso anche in Italia.
Essi riguardano sia prodotti già collaudati e in fase di applicazione, come le protesi nel settore biomedicali o i
materiali per l’edilizia, sia materiali ancora in fase di studio, come quelli necessari per i futuri sistemi energetici. In questo percorso sarà anche trattato il tema del riciclo dei materiali usati con l’illustrazione di interessanti
esperienze industriali di riutilizzo dei materiali legnosi. Ci auguriamo che questo percorso abbia lo stesso successo del precedente “Inquinamento e protezione ambientale” del 2005 che ha registrato grande partecipazione di studenti a cui sono indirizzate, in particolare, le attenzioni culturali del Club Donegani.
Il 2° percorso ha come titolo “Novara: la città e il suo territorio” ed è la naturale prosecuzione dei percorsi
“L’urbanistica di Novara nei secoli” del 2003; “Novara da vedere: colori e forme della città” del 2004; “La Novara del Novecento: architettura ed urbanistica” del 2005. In questo percorso validissimi ed appassionati
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esperti di notevole prestigio focalizzeranno l’attenzione su temi fondamentali utili a chiarire il rapporto tra Novara e il suo territorio nel corso della loro storia.
In appendice alle conferenze, a fine anno si svolgeranno ancora il tradizionale concorso di poesia “Premio
Paniscia”, che raggiunge la XVII edizione, e, infine, il convivio augurale di Natale.
Seguendo la tradizione abbiamo posto il nostro programma sotto il patrocinio del Comune e dell’Amministrazione Provinciale, cui va un sentito ringraziamento.
Profonda riconoscenza esprimiamo inoltre:
- ai relatori che hanno accettato con liberale generosità l’onere di tanta collaborazione;
- agli sponsor per il loro graditissimo contributo.
…Per non dimenticare
Realizzare un buon programma culturale potrebbe costituire sufficiente motivo di soddisfazione per il nostro Club; ma non è così se si tiene conto che tra i suoi scopi istituzionali prevale quello di “diffondere i tradizionali valori professionali dell’Istituto Guido Donegani”. Per mantenere questo impegno infatti non basta l’apprezzamento dei simpatizzanti, occorre la concretezza di tanti associati che ci dia sostegno non solo morale
nel diffondere una congrua sopravvivenza di quei valori che lo statuto ci prescrive di diffondere. E’ un impegno
che diventa sempre più oneroso considerato il prolungarsi di una crisi che non accenna minimamente a risolversi.
L’Istituto Guido Donegani, che trae origine dal protolaboratorio di ricerche costituito da Giacomo Fauser
nel 1922 e che è stato la fucina della chimica industriale italiana, valida competitrice dei colossi statunitensi e
tedeschi durante il cinquantennio del marchio Montecatini, è andato in crisi a partire dal 1990 quando, sotto la
gestione EniMont, l’organico venne ridotto drasticamente in due anni da 450 a 250 unità.
Peggiorata la situazione sotto le successive gestioni di EniChem e poi di Polimeri Europa, l’organico è oggi ridotto a 170 unità. E ciò a dispetto delle promesse di rilancio fatte da Polimeri Europa alla Regione Piemonte nell’ottobre 2004, quando l’organico era ancora di 200 unità! Su 5 assunzioni dichiarate in programma
dalla Direzione dell’Istituto Donegani all’inizio del 2005 ne risultano effettuate soltanto 2.
D’altra parte non si può dimenticare che Comune e Provincia, nella seduta aperta e congiunta dei rispettivi Consigli coordinata il 3 dicembre 2003 dal Presidente del Consiglio Regionale, avevano assunto solenne impegno di congrue azioni per rilanciare l’Istituto Donegani, impegno “benedetto” dal Ministero delle Attività Produttive con lettera di “supporto” al Sindaco di Novara in data 30 marzo 2004.
Il Club Donegani confida che il solenne impegno venga concretamente riattivato a brevissimo termine,
confermando disponibilità di collaborazione a congrue, efficaci iniziative. Motivi di speranza (spes ultima dea)
possono riporsi in un “ventilato” nuovo piano strategico per la chimica in ambito ENI e nella ratifica della legge
della Regione Piemonte sul finanziamento della ricerca.
Il Presidente
Dott. Francesco Traina
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Spigolature
Giochi matematici
a cura di Silvano Andorno
Problema n. 1
Angelo e Renato si allenano per il prossimo Campionato del mondo di ciclismo, utilizzando una pista ovale
avente uno sviluppo di 360 metri. Angelo e Renato partono dallo stesso punto della pista e si sa che Angelo
sorpassa Renato ogni tre minuti. Se invece uno dei due corresse in senso inverso (partendo sempre dallo
stesso punto della pista), si incrocerebbero ogni venti secondi. Quale è la velocità di Angelo?
Problema n. 2
Dispongo di un mazzo di 10 carte da gioco. Pongo sotto al mazzo la carta che si trova in cima al mazzo, poi giro la carta successiva sul tavolo: è un asso. Pongo in fondo al mazzo la carta in cima per due volte consecutive, poi giro la successiva: è un 2. Metto la successiva in fondo al mazzo, poi giro una carta: è un 3. Continuo
in questo modo, mettendo alternativamente una o due volte una carta in fondo al mazzo, poi girando la successiva. Le carte girate, nell’ordine, sono: 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10. Qual era l’ordine di partenza delle carte?
Soluzioni dei problemi apparsi sul n. 16
Soluzione del problema n. 1
Innanzi tutto determiniamo il dominio della soluzione, individuato dalle terne di numeri che fattorizzano 36.
Queste sono otto:
(1,1,36), (1,2,18), (1,3,12), (1,4,9), (1,6,6), (2,2,9), (2,3,6), (3,3,4).
Poiché i numeri civici su lati opposti di una via sono di diversa parità, la somma delle età dei figli è dispari e solo quattro tra le fattorizzazioni precedenti è formata da numeri la cui somma sia dispari: (1,2,18), (2,3,6), (1,6,6)
e (2,2,9). Il fatto che ci sia un figlio maggiore esclude la terna (1,6,6), mentre l’asserzione che tale informazione è univoca e sufficiente a definire il problema permette di escludere le terne (1,2,18) e (2,3,6). Quindi la soluzione è fornita dalla terna (2,2,9).
Soluzione del problema n. 2
Sia C la circonferenza della terra (4000 km). Il raggio della prima circonferenza è: R1 = C / 2π. Il raggio della
seconda circonferenza è: R2 = (C + 1) / 2π = C / 2π + 1/ π. Perciò la distanza fra la terra e il filo, nel secondo
caso, è circa 16 cm e un gatto ci può passare.
2
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Spigolature Viaggio di “bozze”
ovvero… negli errori di “stumpa”
Giorgio Caprotti
Giorgio Caprotti è un medico-giornalista che ha
pubblicato sul “Notiziario della Banca Popolare di
Sondrio” n. 97 dell’aprile 2005 uno spiritoso articolo
che cita errori di “stumpa” per lo più rilevati in sede
di correzione di bozze … “anche se, in taluni casi, la
correzione è stata fatta a malincuore”. Si riportano il
titolo dell’articolo e lo stralcio dei gustosi errori...
Alla prima rappresentazione assoluta del Don
Pasquale di Gaetano Donizetti, che ebbe luogo il 3
gennaio 1843 al Théâtre des Italiens di Parigi, prese
parte un cast di prim’ordine, reclutato tra i migliori
cantanti europei del mondo.
Altri collegamenti
Stazione ferroviaria lungo la linea Calalzo – Belluno – Padova, con diramazione per Treviso. Autolinee per Pedavena, Belluno, Trento, Milano e S.
Martino di Castrozza. Autolinee estive per Venezia,
Cortina d’Amplesso, Canazei e Treviso.
A La Salle. Dal centro di Pré-Saint-Didier si segue la vecchia strada alla sinistra della Dora Baltica,
Al bivio per la frazione di Dailley di Morgex si svolta
a sinistra, quindi, attraversato Lavancher (route des
vins attraverso i …
Pertanto hanno costruito per le gite sul fiume e
per le crociate di lusso l’Emei, esclusivamente con
cabine di prima classe, che percorre un tratto di
1371 km …
Il conte di Carmagnola – Tragedia in cinque versi.
Scheda biografica
1469 – Nasce a Firenze il 3 maggio da Bernardo,
uomo di legge, e da Bartolomeo de’ Nelli. Non si
hanno notizie certe sulla sua formazione culturale.
Per lo sciopero
200 g di zucchero, la buccia di 1 arancia e di 1 limone non trattati, 5 cucchiai di rum.
Dopo 10 minuti, quando le cipolle saranno appassite, unire la carne, la foglia di allora tritata e i
chiodi di garofano. Fate insaporire, girando spesso
la carne.
Qui inizia la catena, che separa la valle dell’Orco,
o valle di Locana, dalla val Grande, costituita da cime e polli poco frequentati sul loro versante canavesano: sono la cima dell’Angiolina (2168 m), il
monte …
Località che sorge su un’altura allo sbocco della
valle solcata dal torrente Chalamy; la testata di questa valle è cotonata da cime tra le quali spicca la
singolare piramide del monte Avic, che dà il nome al
Parco Naturale Regionale qui costituito.
Candidatura leggera
Ingredienti: 500 g di agrumi (limoni, arance), 100
g di zucchero, 2 dl d’acqua.
Galantina di pollo
Tempo di esecuzione: 2 h oltre il tempo di riposo
Ingredienti per 8-10 persone: 1 gallina da 500 kg
(oppure un pollo) …
Lessate un petto di pollo in brodo vegetale; tritatelo e disponetelo in una terrina; aggiungete le melanzane, la ricotta, l’uomo e amalgamate il tutto.
Il Nostro, però, deve ritornare in Arizona. E allora
ripercorre l’autostrada spezzata dal vento, che sospinge a rotoloni i tumbleweeds, cespugli secchi e
vaganti.
… erano invitati a libare con vini di Samo. Qualcuno suonava la lira, emettendo di tanto in tanto il
grido che le Beccanti lanciavano per salutare Dionisio: “Evoè”.
Senza precedenti in tutta l’America del Sud, sono
due conquiste della rivoluzione: il diritto alla congestione dei sindacati e una riforma agraria.
Avvolgere la pasta in un figlio di pellicola trasparente, lasciarla riposare in luogo fresco per circa
mezz’ora. Riprendere la pasta con il matterello (oppure con l’apposita macchina) e stenderla in una
sfoglia sottilissima.
Nel frattempo preparare lo sciroppo. Versare
mezzo litro d’acqua in un tegame e aggiungervi lo
zucchero e le bucce d’arancia e di limone accuratamente lavate; porre il tegame sul fuoco e portare a
ebollizione, mescolando di tanto in tanto con un
cucchiaio di legno; far bollire lo sciroppo per circa 2
mesi, poi toglierlo dal fuoco.
Versare il composto nello stampo foderato di pa-
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sta, porlo in frigorifero preriscaldato a 160 °C e far
cuocere la torta per 50 minuti circa. A cottura ultimata sformarla delicatamente e farla raffreddare.
Gli inverni sono piuttosto ripidi.
Sformato di formaggio di carpa alle olive nere.
Lepre in salmì
Per 4 persone occorre una lepre di almeno 1 km.
… capponi cotti in enormi pantaloni … tritate fi-
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nemente l’uomo in un altro piatto. … Tritatelo e disponetelo in una terrina, aggiungete le melanzane,
la ricotta e l’uomo e amalgamate il tutto. … A fine
cottura unite il prezzemolo tritolo … e una spolveratina di pene macinato al momento.
A casa nostra i braccianti mangiavano alla stessa
tavola i nostri stessi cibi … loro ricevevano le teste e
le zampe dei coniugi.
… bella collezione di teiere decorate con rutti e fiori.
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