Auto e Fisco: vari profili di incostituzionalità, di

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Auto e Fisco: vari profili di incostituzionalità, di
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APPROFONDIMENTO
Auto e Fisco: vari profili
di incostituzionalità
di Giampiero Guarnerio
Le modifiche normative sulle auto aziendali
hanno inciso sulla determinazione del reddito
imponibile di alcuni soggetti (autonomi) e non
di altri (dipendenti), a scapito del principio di
uguaglianza.
Motivare tali modifiche con esigenze di gettito piuttosto che fondarle su una più accurata
misurazione del parametro indice di capacità
contributiva ne aggrava la irricevibilità.
La previsione di parziale indeducibilità delle
auto concesse in uso ai dipendenti determina
un’imposta a carico del soggetto che è addirittura impossibilitato a realizzare il reddito
in natura in esse sotteso.
1. Premessa
L’esigenza di giustizia e di uguaglianza permea
gli ordinamenti legislativi di tutte le comunità.
Ciò dimostra, per chi non ne fosse convinto, che
il tradimento di questi principi porta inevitabilmente alla disgregazione della società1.
La nostra Costituzione scolpisce molto bene tali
principi, che, per quanto riguarda il diritto tributario, potremmo riassumere negli artt. 3 (uguaglianza e ragionevolezza) e 53 (capacità contributiva). Articoli che muovono da due profili
essenziali:
x da un lato la proporzionalità dell’imposta,
che deve essere tale da correlare il contributo
di ciascuno allo Stato “in proporzione” alle
proprie (effettive) capacità;
x dall’altro la corretta ripartizione dell’onere
1
Per una disamina approfondita del tema della Giustizia
tributaria e degli effetti della sua non corretta applicazione, si veda G. Falsitta, Giustizia Tributaria e Tirannia Fiscale, Giuffrè, Milano, 2008.
tributario tra chi partecipa alla vita sociale.
Una errata ripartizione si tradurrebbe in un
ingiusto aggravio per taluni e in uno sgravio
altrettanto ingiusto per altri2.
A giudicare da quanto emerge dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale, il nostro ordinamento tributario sembrerebbe essere pressoché immune da difetti, giacché le pronunce di
incostituzionalità in campo tributario sono alquanto rare. Anzi, sembra che la situazione sia
persino in miglioramento, dato che le pronunce
di incostituzionalità sono sempre più risalenti.
Tuttavia, osserviamo una certa “fatica” da parte
della Corte medesima nel fare salve le disposizioni tributarie, constatando che nell’ultimo ventennio la maggior parte delle decisioni si conclude con dichiarazioni di inammissibilità dei quesiti piuttosto che di infondatezza delle questioni
sottoposte al suo esame. Il che appare un fatto
quantomeno anomalo se si considera che il potere di sollevare questioni di incostituzionalità non
è proprio del cittadino o della sua difesa tecnica
professionale, ma è a sua volta di un giudice, cioè
di un soggetto che ha particolare cognizione tecnica della materia e un approccio imparziale per
definizione.
Nonostante si sia ormai radicata la percezione
che le probabilità di ottenere un giudizio di incostituzionalità siano scarsissime, la quantità di
questioni che vengono sollevate dai giudici tributari sembra invece evidenziare che l’ordinamento tributario italiano non sia affatto indenne
da ripetute violazioni dei principi di capacità contributiva e di uguaglianza/ragionevolezza. Soprattutto da quando è diventato di
moda un certo modo di legiferare, che, seppur
2
G. Falsitta, op. cit., pag. XXII, Prefazione.
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animato da intenzioni apparentemente oneste, si
rivela ingiustificato e ingiustamente punitivo per
chi ne viene colpito. Ci riferiamo alla subdola
“creazione degli ‘estrogeni tributari’, delle aliquote, cioè, in apparenza moderate che vanno,
però, a scaricarsi su una base imponibile costruita con regole artificiose e fittizie, scompagnate
da ogni logica economica, di cui pullula, a scopo
di ‘illusione finanziaria’ (ossia di raggiro), oppure di sanzione impropria, il sistema italiano di
tassazione reddituale e l’imposizione patrimoniale”3, con presumibili effetti catastrofici sul sistema.
Una dimostrazione indiretta del fenomeno si ha
osservando l’andamento del PIL nazionale messo a raffronto con l’andamento del PIL di vari
paesi: da quando è stata introdotta l’Irap (l’archetipo dell’imposta che colpisce una capacità
contributiva tanto artificiosa quanto virtuale), la
crescita del PIL italiano è inferiore a quello medio di confronto4.
2. Il caso dei costi auto
L’attuale formulazione dell’art. 164 del D.P.R. n.
917/1986 consente una deduzione oltremodo limitata dei costi per autovetture.
Tralasciando per semplicità il caso dell’utilizzo
esclusivo di tali beni nell’attività propria dell’impresa5, e quello degli agenti e rappresentanti di
commercio, i costi per l’impiego delle auto soffrono delle seguenti limitazioni:
x indeducibilità dell’80% del costo di acquisto, con il tetto di € 18.075,99, laddove impiegate esclusivamente o promiscuamente nell’attività d’impresa o di lavoro autonomo (c.d.
auto “aziendali”);
x indeducibilità del 30% del costo di acquisto per i veicoli concessi in uso promiscuo ai dipendenti per la maggior parte del periodo d’imposta. Su tali veicoli, inoltre, viene
3
G. Falsitta, op. cit., pag. XXIII, Prefazione.
4
Dati elaborati su fonte FMI, in dollari internazionali, PIL
misurato a Parità di potere d’acquisto. Nel periodo dal
1980 al 1997, il PIL nazionale è mediamente cresciuto dello 0,9% in meno della media mondiale, dello 0,2% in meno della media dell’area Euro, dello 0,1% in meno della
media dell’UE, dello 0,9% della media paesi G7. Nel periodo dal 1998 al 2013 (2013 previsione FMI) dopo l’introduzione dell’Irap il divario negativo aumenta rispettivamente
al 3,1%, al 0,9%, all’1,2% e all’1,3%.
5
Sull’interpretazione del termine “attività propria dell’impresa” vi sarebbe molto da argomentare. Ma ai fini della
presente trattazione diamo per corretta l’interpretazione
restrittiva fornita dall’Amministrazione finanziaria.
calcolato a titolo di “fringe benefit” un compenso in natura tassato in capo al dipendente
nella misura del 30% del relativo costo.
Le domande a cui vogliamo dare una risposta sono le seguenti:
x l’aumento della indeducibilità del costo delle
auto aziendali, cresciuto (con varie manovre)
dal 50% all’80%, e il “tetto” di € 18.075,99 rispettano il principio della capacità contributiva?;
x il differente trattamento fiscale dell’“autoconsumo” in capo al dipendente (30% - senza tetto) e in capo all’imprenditore o lavoratore autonomo (80% con tetto) rispetta il principio
della capacità contributiva e quello di uguaglianza?;
x l’indeducibilità parziale in capo al datore di
lavoro dei costi delle auto date in uso promiscuo ai dipendenti rispetta il principio di capacità contributiva e di uguaglianza, considerato che in tali casi l’autoconsumo è ipotizzabile soltanto in capo al dipendente e non al
datore di lavoro?
Occupandosi del tema della capacità contributiva, la Corte Costituzionale ha sempre precisato
che rientra nella piena discrezionalità del legislatore l’individuazione del parametro indicatore
della capacità contributiva, con il solo limite della non arbitrarietà6. Concetto di arbitrarietà che
è usualmente interpretato in modo molto restrittivo.
Diversamente, la Corte si è dimostrata più sensibile al rispetto del principio di uguaglianza, che
tutto sommato è assai connesso a quello della
capacità contributiva: a parità di capacità deve
sussistere analoga tassazione, e a diversa capacità non può corrispondere medesima tassazione7.
Dunque, il vero parametro per valutare se una
norma rispetti il principio della capacità contributiva è se il fatto generatore sia determinato in modo arbitrario o irragionevole, pur
6
Cost., n. 426/2002, in banca dati “fisconline”: “[…] rientra
nella discrezionalità del legislatore, con il solo limite della
non arbitrarietà, la determinazione dei singoli fatti espressivi della capacità contributiva che, quale idoneità
del soggetto all’obbligazione di imposta, può essere desunta da qualsiasi indice che sia rivelatore di ricchezza e non
solamente dal reddito individuale (sentenze n. 111 del
1997, n. 21 del 1996, n. 143 del 1995, n. 159 del 1985)”.
7
Cfr. Cost., n. 328/2002, in banca dati “fisconline”, laddove
la pronuncia di incostituzionalità, sebbene sollevata in ordine agli artt. 3 e 53 della Costituzione, è stata motivata
essenzialmente dal mancato rispetto del principio di uguaglianza.
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considerando che il legislatore ha la più ampia
discrezionalità.
Esaminando la vicenda dei costi per auto aziendali, è di tutta evidenza che il tema riguarda l’ipotesi dell’autoconsumo, ovverossia della possibilità che “il titolare” dell’impresa (si pensi essenzialmente all’imprenditore individuale, ma
anche al lavoratore autonomo e al socio della
società di capitali con compagine societaria familiare) possa far figurare il costo dell’auto come “uso aziendale” ma poi utilizzarla solo privatamente.
Il fenomeno, astrattamente, è già espressamente
regolato dall’art. 57 (per le imprese individuali), dall’art. 54 comma 3 (per i lavoratori autonomi) e dall’art. 85 comma 2 (per le società)
del Tuir, in forza dei quali la destinazione a uso
personale di beni aziendali provoca l’emersione
di ricavi figurativi tassabili, ovvero una deducibilità di costi forfettariamente rideterminata nel
50% (per i lavoratori autonomi).
Tuttavia, presumibilmente sulla scorta dell’esperienza di “abusi” passati, nel 1997 venne introdotto l’art. 121-bis del Tuir (ora 164) che, per la
fattispecie individuata, stabiliva per tutti una
percentuale di deducibilità del 50% con il “tetto”
di 35 milioni delle vecchie lire.
La ragionevolezza di una simile disposizione,
che a nostro avviso assume una chiara natura
antielusiva (si voleva evitare che, utilizzando le
regole generali, comunque il contribuente potesse semplicemente sostenere che l’impiego dell’auto era esclusivamente aziendale, lasciando
l’onere della prova all’amministrazione, ma anche trovare un aiuto nei consulenti fiscali che, di
fronte a una chiara disposizione, avrebbero assunto una responsabilità rispetto al cliente nel
“far passare” costi auto deducibili al 100%), sta
nel parametro “salomonico” del 50% (tanto salomonico quanto poco discutibile da una e dall’altra parte) e nella possibilità comunque riconosciuta al contribuente di presentare domanda di
interpello disapplicativo ex art. 37-bis, comma 8,
del D.P.R. n. 600/1973 per ottenere la piena deducibilità nel caso di utilizzo esclusivamente aziendale o professionale8.
Su questo impianto normativo, che tutto som8
Non la pensa così l’Amministrazione finanziaria, la quale
ritiene che l’art. 164 abbia natura di norma “di sistema” e
quindi non suscettibile di interpello disapplicativo. Assunto non condivisibile poiché sarebbe arbitrario – e quindi
non costituzionale – impedire la deduzione integrale di un
costo con una presunzione senza ammettere nemmeno la
prova contraria.
mato aveva risolto con ragionevolezza9 un annoso e persistente contenzioso, si sono innestate
modifiche in ordine alle percentuali di deducibilità “a danno” dei contribuenti che non appaiono
adeguatamente motivate.
Nessuno dubita della correttezza dell’individuazione del “reddito fiscale” come parametro indice per la contribuzione quale “imposta sul reddito”, pur tuttavia la determinazione effettiva di
tale parametro, come dice la Corte Costituzionale, non deve essere “arbitraria”, cioè non deve
dipendere da una mera determinazione volontaria non fondata su una distinzione oggettiva.
Altrimenti detto, le modifiche relative all’aliquota impositiva possono essere certamente fondate
su una “mera esigenza di gettito”, giacché lo scopo esatto dell’aliquota è proprio quello di stabilire “quanta parte” della capacità contributiva già
determinata deve contribuire alle spese dello stato. Al contrario, la misurazione del parametro
indice della capacità contributiva – cioè del reddito imponibile – non può essere arbitrario, ma
deve rispondere a criteri di oggettività e, soprattutto, di realità, giacché la capacità contributiva
deve essere “attuale” e non ipotetica o falsata.
3. L’iter parlamentare delle modifiche:
motivazioni del legislatore
Orbene, la prima modifica normativa intervenne
nel corso del 2006: la percentuale di deducibilità
del costo per le auto aziendali è stata ridotta dal
50% al 40%, e al contempo la percentuale di deducibilità per le auto date in uso ai dipendenti è
scesa dal 100% al 90%.
Le ragioni di tali modifiche, introdotte dal Ministro Visco10, non erano affatto fondate su constatazioni oggettive circa l’inadeguatezza del salomonico parametro del 50% a esprimere la reale capacità contributiva delle aziende, né dalla considerazione almeno ipotetica che i dipendenti utilizzassero le auto loro assegnate per uso aziendale e
privato proprio anche per “portare a spasso” il titolare dell’impresa. Al contrario, e la circostanza
venne pubblicamente dichiarata proprio dal Ministro, la modifica dei parametri era dovuta alla circostanza che il Governo Italiano è stato obbligato
dalla nota sentenza della Corte di Giustizia Europea (caso “Stradasfalti”) – a riconoscere la detrazione, almeno parziale, dell’Iva sulle auto azienda9
Ragionevolezza che però avrebbe necessitato di una “manutenzione” del valore del “tetto”.
10
Lo stesso che introdusse l’Irap, con il quale evidentemente
abbiamo visioni diverse.
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li. E venne “naturale” pensare di recuperare il
gettito necessario per restituire l’imposta (finora illecitamente riscossa) dagli stessi soggetti
cui doveva essere restituita11.
E infatti, nelle relazioni rese al Parlamento non
v’è traccia di motivazioni di tipo statistico a supporto della variazione del parametro/indice di
capacità contributiva.
Successivamente, in due tappe ravvicinate (dapprima con la “Riforma Fornero”, L. n. 92/2012, e poi
con la Legge di Stabilità n. 228/2012) le percentuali sono state modificate nella misura attuale.
La relazione governativa alla riforma Fornero,
che ridusse la percentuale di deducibilità al
27,5% per le auto aziendali e al 70% per le auto
date in uso promiscuo ai dipendenti, non dà alcuna indicazione sulle ragioni delle modifiche
suindicate. Traccia di motivazione invece sussiste nel dossier di documentazione alla Camera
dei Deputati12, alla cui pag. 185 si dà chiara indicazione che le disposizioni introdotte sono
“volte a reperire maggiori entrate, destinate a confluire nella copertura degli oneri
della legge”.
Quanto alla successiva modifica apportata dalla
Legge di Stabilità, che ha ridotto ulteriormente
la percentuale di detraibilità delle auto aziendali
al 20%, nessuna motivazione specifica è stata riferita nelle relazioni governative. Tuttavia, sia
nella relazione introduttiva del Governo (del 16
ottobre 2012) che nel dossier preparato dal servizio studi alla Camera si indicano gli effetti finanziari della manovra, che viene descritta come “riduzione delle agevolazioni per l’acquisto di auto ad uso aziendale”.
In pratica, nel primo provvedimento si è data
quale motivazione la necessità di “fare cassa”, e
nella seconda si è dipinto il provvedimento come
“riduzione di agevolazione”, come se la deduzione anche di un solo punto percentuale del costo
di un’auto aziendale fosse un regalo. Ed in tal
modo si è viziata la volontà dei parlamentari,
che hanno votato la legge pensando di eliminare
un’agevolazione (decisione sì che può essere adottata senza troppe spiegazioni, al pari di un
aumento di aliquota) e non di incidere sulle regole di determinazione del parametro/indice per
11
12
Con ciò, in buona sostanza, violando il principio comunitario che vuole che gli Stati Membri non possano introdurre imposte “a effetto equivalente” di quelle che sono
state dichiarate non conformi al Trattato UE.
Reperibile
all’indirizzo:
http://documenti.camera.it/leg16/dossier/testi/LA0619b.htm
un migliore allineamento del parametro alla realtà.
Chiarito dunque che non v’è traccia negli atti
parlamentari di motivazioni fondate sulla necessità di adeguare il parametro/indice di capacità
contributiva a canoni di più stretta attinenza alla realtà, mentre risulta invece acclarata la motivazione di “fare cassa” (nei primi due provvedimenti) o di ridurre un’apparente agevolazione
(nel terzo), resta da valutare se, nonostante le
motivazioni, l’impianto normativo regga il vaglio
alla luce dei parametri costituzionali.
4. Variazione del parametro/indice:
discrezionalità o arbitrarietà?
Un primo profilo di analisi è quello della natura
discrezionale (e quindi legittima) o arbitraria (e
quindi illegittima) delle rettifiche apportate.
Per quanto concerne i lavoratori autonomi (professionisti o imprenditori individuali), va innanzitutto osservato che la loro capacità contributiva deve essere messa a confronto con la capacità contributiva di altri soggetti che sono colpiti dalla medesima imposta, quali ad
es. i pensionati e i dipendenti. Per il principio di
uguaglianza, a parità di capacità contributiva (e
quindi di reddito realizzato), deve corrispondere
un identico onere tributario – trattandosi della
stessa imposta.
Ebbene, per quanto riguarda i pensionati, non
essendo in una posizione “attiva”, non hanno alcuna spesa da sostenere per percepire il relativo
reddito. Ragion per cui la deduzione di una parte dei costi che sostengono per l’utilizzo dell’autovettura non sarebbe riconducibile a una misurazione della propria capacità contributiva. Tuttalpiù, sarebbe riconducibile a un’agevolazione.
Per quanto riguarda i dipendenti, occorre distinguere se hanno o non hanno ottenuto dal datore di lavoro un veicolo a uso anche personale
(o promiscuo).
Nel caso non avessero l’auto in uso promiscuo,
si troverebbero nello stesso caso dei pensionati:
salvo che per la spesa necessaria per recarsi sul
luogo di lavoro (che peraltro è forfettariamente
riconosciuta nelle “detrazioni per lavoro dipendente” ex art. 13 Tuir (che nella versione precedente conteneva la specifica indicazione “anche
a fronte delle spese inerenti alla produzione del
reddito”), non necessitano di sostenere una spesa per auto “per ragioni di produzione del reddito”. Nella eventualità che fosse richiesto loro di
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utilizzare l’auto “privata” per ragioni di lavoro,
possono contare sul risarcimento integrale della
spesa “a piè di lista”, senza oneri tributari, a carico del datore di lavoro. Con queste regole, dunque, il dipendente non ha ragione di ottenere il
riconoscimento tributario di un costo di utilizzo
dell’auto, non essendovi un legame nemmeno
potenziale di inerenza tra la spesa e il ricavo
(stipendio).
Nel caso avessero in uso l’auto aziendale, l’art.
51 del Tuir determina nel 30% del costo del veicolo quale componente a uso privato, su cui viene calcolata la propria “capacità contributiva” e,
conseguentemente, versata l’imposta. In pratica,
quale che sia la necessità aziendale, la legge presume in capo al dipendente una quota di utilizzo
privato pari al 30% del costo sostenuto, senza
limite dimensionale o di valore dell’auto medesima13.
Come in tutte le determinazioni forfettarie, si
potrebbe discutere se tale percentuale forfettaria
esprima correttamente il valore della capacità
contributiva che – astrattamente – è certamente
esistente. Tuttavia si può trarre una prima conclusione: se, già all’epoca in cui la regola venne
introdotta, esisteva nell’ordinamento una presunzione generale per lavoratori autonomi e imprenditori di impiego privato di beni suscettibili
di essere utilizzati promiscuamente pari al 50%,
percentuale spesso confermata dal legislatore
anche in casi espressamente regolati (es. telefonini, spese abitazione utilizzata anche come ufficio, le stesse spese auto), se dubbio poteva esservi circa la effettiva ragionevolezza del parametro del 30% a esprimere la corretta capacità
contributiva, dubbio doveva essere che fosse sottostimata, piuttosto che sovrastimata, in favore
del contribuente.
Non che mancassero allo Stato le informazioni
utili per effettuare un’indagine statistica quantomeno di massima (ad esempio analizzando i
flussi di traffico autostradale tra orari lavorativi
e orari feriali). Tuttavia, rinunciando a ulteriori
indagini, e in assenza di “lamentele” dell’una (dipendenti) o dell’altra (autonomi) parte sociale,
tali percentuali potevano considerarsi “statisticamente buoni indicatori” della situazione
reale.
Passando a esaminare la situazione dei lavoratori autonomi, distinguiamo l’analisi tra coloro
13
La determinazione del costo è effettuata forfettariamente
sulla base delle tariffe ACI, che, per esperienza pratica,
sembrano piuttosto generose per il dipendente. Ma questo
è un altro discorso.
che non necessitano dell’utilizzo dell’auto e coloro che ne hanno necessità.
Per quanto riguarda i primi, non vi sarebbe ragione di concedere una deduzione, per quanto forfettaria e limitata, della spesa per auto. Anche se
occorre tener presente che residuerebbe una disparità di trattamento rispetto al caso del lavoratore dipendente, perché a differenza di quest’ultimo, non sarebbe nemmeno coperto il costo del
trasferimento casa/ufficio.
Si potrebbe ipotizzare che l’autonomo sia tentato ugualmente di detrarre la spesa per l’utilizzo
dell’auto anche quando non ne ha assolutamente
bisogno. Ma una simile circostanza può essere
facilmente verificata osservando le modalità operative di svolgimento della professione. Per fare qualche esempio, un medico che effettua visite a domicilio, o un revisore che svolge gran parte dell’attività presso le sedi dei clienti, o un avvocato penalista che difende clienti presso vari
tribunali, o un idraulico, o un commerciante avranno giocoforza necessità di impiegare l’autovettura. Meno probabile che questo si verifichi
per un dentista. Peraltro le disposizioni generali
(ma non l’art. 164 del Tuir) sono già scritte sulla
base di questi principi, prevedendo la deduzione
al 50% dei costi di utilizzo solo per i beni impiegati “promiscuamente” per l’attività e per l’uso
personale, e non anche per quelli impiegati esclusivamente a titolo personale.
Per quanto riguarda i secondi, invece, la deduzione va riconosciuta. La misura della deduzione ovviamente deve essere parametrata all’effettivo impiego professionale. Tuttavia, volendo
forfetizzarla, e in assenza delle “rilevazioni statistiche medie” sul traffico veicolare, è accettabile affidarsi a criteri forfettari, purché non
arbitrari.
Ebbene, considerato che la percentuale di indeducibilità – che per tutti gli altri beni a uso promiscuo è pari al 50% – è stata via aumentata sino all’80%, con anche un limite nel valore assoluto riconosciuto, mentre in analoghe circostanze per i dipendenti la percentuale di indeducibilità è pari al 30%, senza alcun vincolo di valore,
la violazione del principio di uguaglianza e di
capacità contributiva tra le due situazioni appare in tutta la sua evidenza. Evidenza che si rafforza proprio constatando come tali aggravi discriminatori non siano stati motivati da ragioni
legate a una più corretta valutazione estimativa
della capacità contributiva sottesa all’autoconsumo di tali beni tra le due categorie.
Anzi: gli aggravi portati dai primi due interventi
legislativi a carico della sola categoria dei lavora47-48/2013
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to portare a un adeguamento sia in ragione dell’inflazione monetaria, sia perché l’introduzione
sempre più stringente di norme antinfortunistiche presuppongono che i veicoli non appartengano alle categorie più economiche, ma che invece siano dotati dei dispositivi più moderni disponibili per la tutela dell’integrità dei lavoratori
(ABS, ASR, Airbag, Radar anticollisione, segnalatore cambio di corsia involontario, dispositivi
“antisonno” e “salvapedone”, navigatore, telefono per chiamate d’emergenza, etc…).
Per fare un esempio pratico, ipotizzando il caso
di un veicolo “medio” dal costo di € 35.000, e utilizzando la nota metodologica di ACI per il calcolo dei costi effettivi, si ottiene:
tori autonomi sono stati apertamente motivati da
banali esigenze di cassa, che come tali avrebbero caso mai dovuto pesare allo stesso modo per entrambe le categorie. Addirittura, per
il terzo intervento, si è data una visione distorta al
Parlamento, tradendone la fiducia e quindi viziandone la decisione, equivocando apertamente questione dipingendo la deduzione di un costo “inerente” come una “agevolazione fiscale”.
Per non parlare del “tetto” massimo di deducibilità del valore dell’auto, applicabile agli autonomi ma non ai dipendenti. Tetto che peraltro non
è mai stato aggiornato dai tempi della sua introduzione (1997), laddove invece vi sono plausibili
e più che ragionevoli motivi che avrebbero dovuKm annui 15.000
Dipendente
Autonomo
Autonomo
Costi effettivi
Costi effettivi
costi deducibili
Costo
35000
Tetto costo fiscale
35000
18075,99
Importo deducibile in ammortamento (20%)
Costo per interessi annuo
1497
1497
299,4
1968,345
1968,345
1807,599
2600
2600
520
327
327
65,4
Carburante
2384,295
2384,295
476,859
Pneumatici
440,25
440,25
88,05
Manutenzione/riparazione
1168,2
1168,2
233,64
10385,09
10385,09
3191,548
Costo capitale*
Assicurazione annua
Bollo annuo
Totale costo annuo effettivo
Fringe benefit/costo non deducibile
Imposta (40%)
2804
7193,542
1121,6
2877,4168
* ACI ipotizza che l’auto sia impiegabile per 10 anni
In pratica, la quota parte di impiego personale
comporta per il dipendente un’imposta pari a €
1.121,60, e per il lavoratore autonomo di €
2.844,41, con un aggravio fiscale non spiegato, né spiegabile, pari al 157%.
L’obiezione “atecnica” che potrebbe essere formulata è che il lavoratore autonomo “fa il nero”,
e quindi il diverso trattamento è giustificato dalle diverse opportunità “truffaldine”. Ciò sarebbe
corretto se, tuttavia, l’erario accettasse il “nero”
come sistema. Ma sinché – giustamente – lo persegue, applicando le doverose sanzioni per i trasgressori, l’argomento non regge. E peraltro non
si può nemmeno escludere che pure il dipenden-
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te percepisca una parte di stipendio “fuori busta”.
Si dimostra, dunque, che, a parità di situazione
– vale a dire di impiego dell’auto promiscuamente per l’attività e per uso personale – il trattamento fiscale per il lavoratore autonomo/imprenditore è decisamente peggiorativo, e perciò
lede il principio di uguaglianza. Ovvero, l’emergente disuguaglianza è essa stessa sintomatica
dell’errore nella misurazione della capacità contributiva del lavoratore autonomo/imprenditore.
Mutatis mutandis, la situazione si ripete anche
considerando la situazione delle auto impiegate
o intestate dalle società, applicando i medesimi
ragionamenti sopra esposti per l’imprenditore
individuale al socio lavoratore.
5. Lo spostamento della capacità
contributiva dal dipendente al datore
di lavoro
Un ulteriore profilo di incostituzionalità riguarda l’interrogativo sopra esposto sub C): è coerente con il principio della capacità contributiva
che il costo dell’auto concessa in uso promiscuo
al dipendente sia solo parzialmente deducibile
in capo al datore di lavoro?
Come già detto, il canone interpretativo della
Corte Costituzionale rispetto al vincolo della capacità contributiva è quello della arbitrarietà ovvero della discriminazione ingiustificata.
La “ratio” sottostante alle limitazioni di deducibilità di costi realmente sostenuti è sempre riconducibile alla totale o parziale “non inerenza” del costo rispetto all’attività che
genera ricavi. Limitazioni diverse, ovvero limitazioni che fossero motivate da ragioni diverse
da quelle collegate al fatto che il costo non è necessario e nemmeno utile al perseguimento dei
ricavi14, sarebbero arbitrarie, in quanto consentirebbero una sorta di “arricchimento indebito”
per l’erario che può godere del contributo alla
realizzazione dei ricavi fornito – anche indirettamente – dall’utilizzo del bene, senza partecipare
all’onere relativo. Ovvero, sotto un altro aspetto,
14
In realtà possono sussistere alcune ragioni di indeducibilità
che solo apparentemente sono diverse da quelle dell’inerenza, come ad esempio le limitazioni alla deduzione degli accantonamento ai fondi rischi, oppure alle aliquote di ammortamento. Ma tali ragioni, purchè non arbitrarie, sono
motivate da esigenze di certezza e obiettiva determinabilità,
ovvero da salvaguardia erariale rispetto a possibili comportamenti elusivi. Si pensi all’amministratore che prudentemente, ma in realtà per risparmiare imposte, calcolasse aliquote di ammortamento eccessive.
vi sarebbe un arricchimento indebito da parte di
alcuni cittadini che godrebbero ingiustificatamente del fatto che altri cittadini, hanno pagato
imposte su una capacità contributiva ingiustificatamente accresciuta rispetto a quella vera.
Osserviamo che nel contratto tipico che regola il
rapporto di lavoro dipendente la concessione in
uso di un veicolo aziendale costituisce parte integrante della retribuzione. Ed anzi potremmo dire
decisivo, giacché, a parità di stipendio, il dipendente preferirà lavorare per il datore di lavoro che
gli concede questo “benefit”.
Normalmente non vengono concordate clausole
che obblighino il dipendente a lasciare l’auto aziendale nella disponibilità personale del datore
di lavoro. Più chiaramente, il dipendente non è
tenuto anche a “lasciare le chiavi” al datore di
lavoro il sabato e la domenica, proprio perché è
lui, e solo lui, che ha diritto a impiegare l’auto a
titolo personale e versa un’apposita imposta in
cambio di tale utilizzo.
La norma in esame, dunque, nella misura in cui
colpisce anche il datore di lavoro con una ulteriore indeducibilità del costo auto (cioè aumentando l’indice di capacità contributiva del datore
di lavoro per un potenziale utilizzo estraneo al
fine aziendale senza che questo nemmeno abbia
la possibilità teorica di beneficiare di tale consumo personale) realizza un vero e proprio
spostamento di capacità contributiva ingiustificato dal lavoratore al datore di lavoro. Se non anche una forma di doppia imposizione che pure è proibita sia dai principi costituzionali che dall’art 163 del Tuir.
C’è da chiedersi se il mero fatto che il datore di
lavoro sia disposto a concedere l’utilizzo dell’auto al dipendente, conoscendo comunque l’aggravio fiscale che subirà in proprio sia, a sua volta,
un fenomeno suscettibile di essere indicatore di
una ulteriore capacità contributiva.
Osserviamo sul punto che certamente questo
non è il caso per le situazioni che vengono colpite dalla norma ma che preesistevano15: l’aggravio
non era prevedibile, e pertanto si verterebbe in
una applicazione retroattiva non giustificabile.
Ma anche sotto questo angolo di visuale persisterebbe una violazione del principio di uguaglianza.
In effetti, il valore della retribuzione in natura
che corrisponde al diritto per il dipendente al15
Non solo quindi ai casi in cui una specifica auto viene concessa al dipendente, ma a tutti i casi in cui il contratto di lavoro sia stato firmato prima dell’introduzione della norma e
preveda il diritto del dipendente a ottenere l’auto.
47-48/2013
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APPROFONDIMENTO – Reddito di lavoro autonomo
l’impiego di un veicolo aziendale per fini privati
può essere stimato numericamente. E difatti,
ancorché in modo forfettario, il Fisco lo ha stimato in misura esatta: non vediamo per quale
ragione tale stima non sia possibile anche nell’ambito della trattativa sul compenso tra datore
di lavoro e lavoratore per arrivare a un punto di
equivalenza. Ovvero raggiungerlo in base a una
stima peritale.
Ebbene, ipotizzando di determinare il valore
dell’impiego privato da parte del dipendente in
una certa misura, cosa accadrebbe al datore di
lavoro se riconoscesse al dipendente il medesimo valore economico sotto forma di retribuzio-
ne in denaro invece che in natura?
Nessun dubbio vi sarebbe che l’intero costo del
compenso erogato al dipendente sia pienamente
deducibile16.
E allora, quale sarebbe la ragione “non arbitraria” per la quale se una certa remunerazione viene erogata in natura il datore di lavoro soffrirebbe un aggravio fiscale rispetto al caso in cui la
stessa remunerazione venisse erogata in denaro?
16
A nostra memoria, ancora non si è assistito a valutazioni
di congruità sugli stipendi dei dipendenti, che porti a una
parziale indeducibilità. Ma attendiamo smentite.
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