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Primo test europeo post Brexit
/ 27.02.2017
di Paola Peduzzi
Il primo test europeo ci sarà in Olanda, il 15 marzo, in occasione delle elezioni: che cosa ha deciso di
fare l’Europa, di muoversi di scossone in scossone finché non viene giù tutto, o di provare a
rimettere ordine al suo nuovo eppure eterno disordine? In questo 2017 così cruciale per le tenuta
dell’Ue, ad aprire le danze sono gli olandesi, e non potrebbe essere che così: negli anni, l’Olanda ha
conquistato uno strano primato – è il Paese in cui tutto accade prima. La terza via nacque qui prima
che nel Regno Unito blairiano e nella Germania schröderiana; il populismo anche nacque qui, con
Pim Fortuyn, assassinato nel 2002 a nove giorni dalle elezioni in cui la sua lista ottenne un grande,
seppur temporaneo, successo. Anche il primo, grande dispiacere europeo del millennio è arrivato in
Olanda, quando nel 2005 fu bocciato il referendum sul Trattatto costituzionale europeo.
L’anno scorso c’è stato infine in Olanda un assaggio dell’insofferenza che stava montando in Europa,
prima del referendum sulla Brexit, prima dell’elezione di Trump: ad aprile del 2016, gli olandesi
votarono contro l’accordo di partnership con l’Ucraina. Il quorum, che è al 30 per cento, fu
raggiunto per un soffio, vinse a valanga il rifiuto all’apertura all’Ucraina, ma pure se molti giornali
titolarono «è l’antipasto della Brexit», pochi ci fecero davvero caso. E invece allora c’era già tutto:
c’era l’astio nei confronti di Bruxelles e del governo liberale; c’era soprattutto lo zampino russo: oggi
sappiamo che nella regia di quel voto pressoché ignorato operarono molti politici legati alla Russia, e
contrari al nuovo corso filoeuropeo dell’Ucraina.
Ora che si tengono le elezioni generali, gli europei sono molto più vigili, anche se piuttosto
impotenti. Molti nei palazzi bruxellesi dicono di essere più timorosi di quel che accadrà in Olanda
che in Francia, forse più per una questione di tempi che di reale peso specifico – la Francia, si sa, è
too big to fail – ma i media internazionali sono pieni di racconti su quel che sta accadendo in questo
piccolo pezzo d’Europa e sul possibile contagio. I sondaggi registrano un costante avanzamento del
Partito delle libertà di Geert Wilders, uno dei cantori del trumpismo europeo, deciso a portare
l’Olanda fuori dall’Ue (la chiamano Nexit) e chiuso a ogni dialogo: ha appena deciso di non
partecipare a un dibattito televisivo previsto per questa settimana, al quale parteciperanno tutti i
leader di partito tranne lui. Il distacco con l’attuale premier liberale Mark Rutte si è in realtà ridotto
negli ultimi giorni anche in seguito all’ultima controversia in cui è finito Wilders, dopo aver definito
«feccia» i «marocchini che infestano le nostre strade»: sui 150 seggi parlamentari in palio, 24-28
sono accreditati a Wilders, 23-27 a Rutte, una quasi parità.
Ma il leader del Partito delle libertà è da tanti anni l’ago della bilancia della politica olandese, ha
anche garantito per un breve lasso di tempo l’appoggio esterno all’esecutivo, pur pentendosene
presto: come tutti i movimenti populisti, la prova del governo non è quasi mai di successo. Anche se
dovesse confermarsi primo partito, Wilders dovrebbe trovare alleati per formare un governo, e
questo comporterà molti traumi e molto tempo, ma intanto ha già conquistato una grande influenza
sul dibattito elettorale: anche Rutte è stato costretto a rilasciare dichiarazioni dure nei confronti
dell’immigrazione, e molti l’hanno accusato di voler inseguire Wilders in una retorica di chiusura –
xenofoba – che non appartiene al linguaggio e all’elettorato tradizionale del suo partito liberalconservatore.
Nei negoziati di governo potrebbe non comparire la sinistra olandese, che secondo alcune rilevazioni
arriverebbe al settimo posto, dietro a tutti, nonostante oggi sia il secondo partito in Parlamento.
Come in Francia – dove il candidato dei socialisti Benoît Hamon è sotto al 20 per cento nei sondaggi,
e al momento è escluso dal ballottaggio – e come in Inghilterra – dove Jeremy Corbyn è distaccato di
18 punti percentuali dai conservatori e non trova una strategia utile per far sentire il proprio peso –
anche in Olanda il Partito laburista non riesce a fare presa sul suo elettorato tradizionale, dirottato
da altri partiti, anche da quello di Geert Wilders. Più di un quarto degli elettori del Partito laburista
del 2012 oggi dice di non essere più sicuro di votare nello stesso modo: la questione immigrazione e
l’austerità hanno alienato il voto della working class, che ora cerca un’altra casa.