Machete Kills,Non si sevizia un paperino,Bling

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Machete Kills,Non si sevizia un paperino,Bling
Machete Kills
Con ogni probabilità il film di punta dell’autunno
cinematografico doveva essere Machete Kills, soprattutto
perché l’ultimo lavoro del beneamato Robert Rodriguez era già
stato annunciato dopo i titoli di coda del primo capitolo
della saga del messicano.
Il regista di Sant’Antonio accontenta presto i fan schierati
in sala e i detrattori appostati dietro l’angolo del cinema,
riproponendo sullo schermo il grottesco peone che sta volta ha
l’espressività di un manichino e che condivide con il primo
Machete Cortez, quello nato quasi per scherzo dal famigerato
fake-trailer di Planet Terror e girato nei ritagli di tempo,
soltanto il nome e l’enorme coltello.
Il truce Machete (Danny Trejo), toccato dall’assassinio della
sua collega e compagna Sartana Rivera (Jessica Alba), accetta
l’ingaggio del presidente degli Stati Uniti (Carlos Estevez,
in realtà Charly Sheen) e l’aiuto della miss americana Blanca
Vasquez (Amber Heard) per passare il confine e bloccare il
capo dei rivoluzionari del Messico, folle e dalla dubbia
personalità, che tiene sotto scacco la Casa Bianca con un
missile nucleare. Allettato dalla promessa di cittadinanza
americana come incensurato, scovato il delirante boss affetto
da schizofrenia, ma fondamentalmente dalla parte dei peones,
Machete capisce che il vero cattivo da fermare è lo scienziato
che ha creato il razzo Luther Voz (Mel Gibson). Intanto un
killer senza volto, o meglio con mille volti, e una banda di
prostitute assassine bramano inspiegabilmente la morte di M.
Cortez. La trama, seppure densa dal punto di visa degli
avvenimenti, è ancor più esile rispetto al film del 2010.
Tuttavia Rodriguez aveva istruito il suo pubblico a un certo
tipo di pellicole esplosive e apparentemente illogiche che
tendevano a emulare i motivi di quelli che negli anni Settanta
venivano chiamati b-movies, regalando agli spettatori veri e
propri capolavori.
Il giudizio finale su Machete Kills potrebbe essere
rintracciato già in quella battuta di inizio film che recita:
“Tu conosci il Messico, cavolo, tu sei il Messico!” che nel
nostro caso potrebbe suonare: “Tu conosci l’exploitation,
cavolo, tu sei l’exploitation!”.
Rodriguez e Tarantino
avevano riportato il violento e il grottesco sui nostri
schermi, deliziandoci con gli sgorbi zombificati, con i
coltellacci inverosimilmente taglienti e le spericolate corse
in macchina a prova di morte. L’operazione grindhouse aveva
riesumato un genere cafone lontanissimo dal cinema di serie A,
offrendo una coppia di pellicole divertenti, spettacolari,
violente e al tempo stesso pregne di complesso linguaggio
filmico perpetuato attraverso un quasi eccessivo sfoggio di
tecnica, che risultava inversamente proporzionale alle scarne
vicende riprese.
Rodriguez potrebbe tranquillamente bluffare con Machete Kills
e rientrare nel panorama sopra citato, ma gioca una partita
tutt’altro che vincente. L’affezionatissimo Robert scarta
l’effetto pellicola rovinata che aveva caratterizzato già
alcuni suoi film, non gli riesce la coppia ‘trovate genialibattute irriverenti, si abbandona a mosse scontate e
prevedibili, si fa scoprire a causa delle riprese degne
soltanto di un esordiente e alla fine poggia il cappellaccio
texano sul tavolo verde, guarda al cospicuo piatto del
botteghino, punta tutto sul cast più facile della storia e
scopre le sue carte: peccato, niente poker face.
Assistere a questa partita di 107 minuti ci ha fatto sospirare
un messaggio per il regista di Sin city che, mondata da
villanie e brutte imprecazioni, potrebbe essere proposta così:
“Caro Robert, nostro señor de Desperado, lascia Machete ai
fake-trailer e torna a mostrarci parabole cinematografiche
degne della tua folgorante potenza. Noi aspetteremo fedeli
sulla poltrona del cinema, in attesa di una luce dall’alto che
torni a infiammare la sala.”
Attilio Pietrantoni
Non si sevizia un paperino
Era il 1972 e, Lucio Fulci aveva alle spalle una carriera
decennale, però ancora non aveva dimostrato il suo talento
visionario. Con il giallo “Non si sevizia una paperino” si
scrolla di dosso le parodie come “002 agenti segretissimi”
(con Franco e Ciccio) e i musicarelli tipo “I ragazzi del
Jukebox” e intraprende i primi passi verso il mondo
dell’horror che lo consacrerà come uno dei registi più
eclettici e truculenti del genere.
Ad Accendura, un anacronistico e immaginario paesino del
meridione, agisce un serial killer di bambini. Dopo la prima
vittima, viene incolpato lo scemo del villaggio, seguiranno
altre due vittime e di conseguenza, il primo sospettato verrà
scagionato. Gli abitanti del borgo esigono un colpevole. I
sospetti si concentreranno sulla “maciara” (Florinda Bolkan),
una sorta di fattucchiera-voodoo. Mentre i carabinieri si
renderanno conto che è innocente, i contadini bigotti, spinti
dall’ignoranza e da un’assurda sete di giustizia, la
uccideranno a bastonate, senza pietà. Proseguiranno le
indagini e questa volta a essere accusata è l’avvenente
Patrizia (Barbara Bouchet), ragazza ricca e viziata, figlia di
un abitante del paese che “ha fatto fortuna al nord”. Con
l’aiuto del giornalista Andrea Martelli (Thomas Milian), la
ragazza riuscirà a far decadere le accuse su di lei e a fare
chiarezza sulla torbida vicenda.
Nel borgo di Sant’Angelo in Puglia, Fulci tesse, in maniera
quasi perfetta, la tela di questo spietato giallo a forti
tinte horror e ultragore. Il regista romano si scatena
esagerando in crudeltà e in politicamente scorretto
soffermandosi spesso e volentieri sullo sguardo di chi subisce
violenza: emblematica e raccapricciante la scena del pestaggio
alla maciara in cui ogni bastonata, ogni colpo di catena,
tutte le ferite e tutti gli schizzi di sangue sono mostrati
con dovizia di particolari e anche ad uno stomaco avvezzo a
simili scene risulta di difficile digestione, in netto
contrasto in questa scena le note di “quei giorni insieme” di
Ornella Vanoni che accompagnano il tutto. Altra scena clou per
violenza splatter è quella finale, dove l’assassino precipita
dalla montagna e il corpo, specialmente la testa, viene
squartato da spuntoni di rocce e quant’altro, addirittura ci
sono improbabili scintille che fuoriescono dal contatto tra il
cranio e le pietre.
La trama ruota attorno alle credenze popolari, alla magia
nera, e all’ignoranza della gente in netta antitesi con il
mondo delle grandi città rappresentato dal lungo cavalcavia
dell’autostrada sul quale sfrecciano le automobili e che sta
distante, ma appiccicato al paese. Oltre al giallo e alle
scene splatter, abbiamo un’attenta analisi antropologica della
gente che abita i piccoli paesi, così radicati nel territorio
da avere paura dell’estraneo e di tutto ciò, come la maciara,
che rompe la routine provocando piccoli cambiamenti.
La netta separazione che c’è tra la campagna e la città è
rappresentata anche dalle due protagoniste: Barbara Bouchet,
che si mostra nuda davanti a bambini, rappresenta il fascino e
l’eccesso borghese e quindi l’inarrivabilità per i contadini,
il proibito; il personaggio di Florinda Bolkan è l’emblema
delle tradizioni e del mondo rurale, ma al tempo stesso si
trova a subire quello stesso mondo che ha deciso, senza motivo
concreto, di emarginarla.
Il thriller di Fulci è, nonostante quasi tutte le scene siano
all’aperto, molto claustrofobico, si discosta veramente di
poco dal condominio di “quer pasticciaccio brutto de via
Merulana” di Gadda, il paese in qualche modo è una prigione
opprimente che fagocita i propri figli e non li fa evolvere.
La pellicola fu censura in maniera pesante, Fulci ebbe guai a
causa della scena in cui Barbara Bouchet nuda adesca un
bambino, molte inquadrature furono tolte perché ritenute
troppo eccessive e violente, anche gli effetti speciali di
Rambladi (il papà di E.T.) subirono modifiche perché
esageratamente realistici.
I fan più sfegatati di Fulci considerano il film come il
capolavoro del maestro romano, e forse è così, comunque è
oggettivamente un ottimo thriller: suspense e particolari
orripilanti catturano lo spettatore e lo fanno entrare in un
mondo che poi non è tanto distante dalla triste realtà della
cronaca.
Bling ring
La pellicola che ha aperto la sezione “Un certain regard” a
Cannes 2013, porta la firma di Sofia Coppola. La regista
italoamericana dirige la sua quinta opera dal titolo “Bling
ring” partendo da una storia vera.
Un gruppo di teenager di Los Angeles, perversamente attratti
dal jet-set e dal glamour più patinato, penetra nelle
abitazioni private dei divi hollywoodiani per appropriarsi di
abiti e accessori costosi. I furti hanno cadenza quasi
quotidiana e i bottini rappresentano a pieno le estreme
conseguenze del desiderio emulativo perpetuato attraverso
l’appropriazione degli oggetti status symbol delle star.
Avendo svaligiato abitazioni famose per un totale di quasi tre
milioni di dollari, i cinque ragazzini vengono individuati e
fermati dalle autorità.
La Coppola, quasi come caratteristica autoriale, torna a
occuparsi di adolescenza con particolare attenzione al
delicato passaggio all’età adulta. Con pellicole come “Il
giardino delle vergini suicide” o “Somewhere”, la regista
esponeva un qualche punto di vista personale in materia,
questa volta invece tende semplicemente a descrivere le
vicende riportando gli avvenimenti in maniera puntuale, senza
mai interrogarsi sulle cause.
La cosa che sconvolge è il desiderio costante dei giovani
protagonisti di conformarsi al mondo degli adulti, attraverso
quegli oggetti così costosi e inarrivabili per un ragazzino, e
non di ribellarsi ad esso.
Il messaggio evidente che la regista di “Marie Antoinette” ha
voluto lanciare è che ormai gli adolescenti hanno perso tutti
i valori perché l’avere ha surclassato l’essere, quindi
apparire e ostentare sono l’unica via per affermare la propria
personalità.
La visione corre veloce come un servizio televisivo sulla moda
– Sofia Coppa non nega di essersi avvicinata alla vicenda
attraverso un articolo di cronaca di “Vanity fair”- abbandona
i lunghissimi e dilatatissimi tempi di narrazione dei
precedenti film, realizza un film a tratti quasi nevrotico,
che annoia poco e dove il ritmo è incalzante. Abbandonando i
tempi allungati e quasi noiosi la regista accantona anche i
movimenti di macchina e i virtuosismi stilistici, per una
regia di stampo più televisivo.
Dopo la visione del film si rimane quasi basiti difronte a
come argomenti interessanti e importanti a livello sociale
vengano trattati con troppa leggerezza, senza mai soffermarsi
su nulla, addirittura le fasulle dichiarazioni dei teenager
sono solo abbozzate, come se ci sia la voglia e la paura di
chiudere in fretta la narrazione per non annoiare. La
frivolezza dei teenager, della storia e dello stile è ben
sottolineata anche da un tappeto musicale composto da
chiassosa musica “house” ed elettronica, che si sposa bene con
la storia, ma fa pregare che in sala il volume si abbassi.
L’elemento che maggiormente fa giudicare negativamente il film
è la recitazione: la banda di ragazzini, capitanati da Emma
Watson (Hermione della saga di Harry Potter) non è capace di
fare espressioni: le urla, i pianti, le risate sembrano sempre
forzati e mai genuini.
La Coppola si allontana dal suo terreno cinematografico, si
spinge verso nuovi lidi annaspando in un mare di glitter ed
accessori a la page e, priva di qualsiasi appiglio narrativo o
stilistico, non riesce a convincere ed appassionare. Purtroppo
con Bling Ring cade proprio in quella rete che i suoi
detrattori più accaniti le tendono ormai da tempo: il
detestato raffronto con il padre Francis, che quarantuno anni
fa realizzava “Il Padrino” mentre Sofia, all’età di
quarantadue anni, è ancora alla ricerca di un linguaggio
narrativo che risulti tanto convincente da tenerla a galla.
Mood indigo – La schiuma dei
giorni
Un romanzo di culto, un regista di culto, un film così così.
Michel Gondry porta sullo schermo il celeberrimo romanzo di
Boris Vian “La schiuma dei giorni”: Colin (Romain Duris) vive
in una strana casa nel cuore di Parigi, con un minuscolo topo
antropomorfo e con il suo Chef personale, non che assistente,
Nicolas (Omar Sy). Durante una festa Colin conosce Chloè
(Audry Tautou): tra i due nasce la passione che li porterà
dopo sei mesi a sposarsi. Pazzo di gioia, Colin suggerirà a
Chick (Gad Elmalesh), amico fraterno e compagno di “pianococktail”, di sposare la sua ragazza storica Alise e vivere
felice come lui. Colin donerà all’amico un’ingente somma di
denaro per organizzare il matrimonio, ma Chick spenderà tutto
nell’acquisto di opere di Jean Sol Patre, filosofo
esistenzialista, chiara parodia di Jean Paul Sartre. Le nozze
di Chick saranno rimandate, ma parteciperà attivamente allo
sposalizio dell’amico. L’idillio amoroso di Chloè e Colin è
interrotto dalla curiosa malattia della ragazza: una ninfea le
cresce nel petto e l’unico modo per tenere a bada il
progredire di questo strano morbo è quello di coprire
costantemente il corpo della ragazza con fiori freschi. Per
curare la ragazza Colin spenderà tutti i suoi averi e una
volta finiti i soldi farà ogni sorta di lavoro.
Gondry, attraverso svariate tecniche cinematografiche che
vanno dallo stop-motion a semplici sovrimpressioni, costruisce
un universo parallelo e surreale con strane invenzioni,
pazzesche dimore, cibo animato, e oggetti vivi. L’effetto
fiabesco è sicuramente ottenuto e riuscito e a tratti
affascina anche, ma alcune cose, come le gambe che si
allungano a dismisura durante i balli (lo “strusciastruscia”), o le scene del pattinaggio sul ghiaccio, fanno
storcere il naso anche allo spettatore più coinvolto.
La parte più interessante della pellicola è quella che verte
verso il dramma, veramente bella e dolce l’immagine del fiocco
di neve che, ingerito nel sonno da Chloè, le ammala il cuore.
La parabola discendente della salute della ragazza è ben resa
dall’immagine dei fiori, unica salvezza per lei, ma destinati
miseramente ad appassire. La malattia stravolge le vite di
Colin e Chloè, trasforma non solo i loro corpi, ma anche la
loro abitazione che sfiorisce insieme a loro, fino a ridursi
alle dimensioni di un topo, testimone impotente della rovina
economica del suo amico-padrone e della caducità dei corpi.
Lo stile di Gondry in questo film è particolarmente barocco,
troppo ricco visivamente e a volte ridondante, sembra che il
cineasta transalpino si sia chiuso in una ricerca spasmodica e
schizofrenica di immagini oniriche e surreali che soffocano
gli attori tanto quanto gli inermi spettatori. Gondry ha, in
certo senso, perso il modo di narrare fluido e convincente di
film come “Eternal Sunshine of the Spotless Mind” o di “Be
kind rewind” in favore di un personale surrealismo fatto di
effetti speciali e di immagini curiose.
“Mood indigo” appassiona: è piacevole, struggente, ma forse
troppo carico visivamente, fino a disturbare lo spettatore:
così come la ninfea distrugge l’amore di Colin e Chloe la
ricerca convulsiva dello stile distrugge un film sicuramente
romantico e delicato ma, come l’amore, a volte solo illusorio.