Libertà Edizioni
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Libertà Edizioni Francesca Moretti SOTTO L’ERBA IL CIELO POESIE E RACCONTI Libertà Edizioni A mio padre SOTTO L’ERBA IL CIELO 31/07/07 Sale la discesa di sentieri marini che travolgono la spiaggia da meduse abitata. Discende dal ponte che conduce dai suoi pensieri ai miei per potersi avvicinare. Il fiume raffredda sudori estivi e porta acqua al mare. Nel mare annega la voglia di sognare ancora e sognare ancora. 9 09/08/07 Davanti a me il mio viso non si rispecchia Crescono parole prive di senso le guardo e me ne compiaccio Lo specchio dell’anima confusa riflette ignaro e muto Il monitor mostra pensieri altrimenti vacui e li fissa Io poi li rileggerò e mi stupirò ricordandomi un giorno fra tanti I pensieri sono attimi di presenza 10 nell’assenza della monotonia del quotidiano 11 16/01/08 Piedi veloci corrono su un terreno sconosciuto distanziando la propria ombra. Mentre la paura alberga in menti inquiete. Mani tremanti raccolgono frutti troppo maturi che si sfanno in bocca, dolcissimi. Mentre la sorpresa stupisce in menti attente. Arrivare al di là di ciò che possiamo è la meta di chi scommette sui propri desideri. Mentre l’incertezza risiede in menti sagge. 12 28/07/08 La strada dissestata scorre in discesa fra sassi e pozzanghere, pezzi di terra. La memoria percorre viaggi lontani da avventure ripetute. Cammino, con te al fianco, mio bastone, e perderti equivale a cadere. Mi rialzo con fatica maggiore. Ai lati erba verde ed alti alberi. L’ovvio non mi è mai stato comprensibile, oggi meno che mai. Difficile diventa tutto ciò che è semplice e semplice ciò che è difficile, in questo imbroglio di realtàimmaginazione. Mi perdo in solitari monologhi, speranze afflitte, voglie sconfitte, e pessimismo umano. Torno a cercare, dentro e fuori, la radice conficcata in quella terra dissestata, a sostegno di questo misero corpo. 13 03/09/08 Dirompenti risvegli al mattino, l’alba asciuga il sudore della notte. Cammino solitario verso il sole coprendomi di verde e di azzurro appagato da sogni infantili vivendo un senile quotidiano. Marroni le foglie dopo l’arsura estiva, piango lacrime di gioia per la presenza assente della mia realtà. 14 03/09/08 Asfalto bollente macchine che vi scorrono sopra Mezzanotte di un giorno qualsiasi di novembre Aspetta Lady conturbante, seduta, gambe incrociate attira gli innamorati occasionali Dono di un paradiso artificiale, qualche spicciolo, poco amore Chi acquista dignità chi la perde Punti di vista 15 19/09/08 Dondolare appesi a un filo tra felicità e tristezza. In assenza di aria un moto perpetuo, immersi nell’aria mediocrità. 16 19/09/08 Icaro rubò al cielo le illusioni La terra rubò a lui il coraggio 17 19/09/08 Silenzio Piove Tambureggia l’acqua Sul suolo umido Invento ciò che sembra “Coraggio” Mi dicesti 18 30/09/08 Ci siamo corsi incontro dicendoci addio solitudini piene di compagnia forse … domani l’alba rischiarerà pensieri troppo lontani per essere raggiunti Immagino 19 15/12/08 intransigenze ricche di povertà spettacoli superficiali per non pensare ridicolo ascoltare parole vuote mordersi la coda sorridere per niente sognare la realtà immergersi in se stessi santificare le feste bestemmiare verità ostacolare la velocità rallentare pensieri e azioni riflettere ascoltare il silenzio silenzio lentezza arrivi quando parto non ci incontriamo ledere dignità perverse frustrazioni giacere immobile 20 masticare ingiustizia rincorrere un passato scivolare nel futuro essere se stessi solo per se stessi 21 17/12/08 Le parole esprimono concetti, a volte raccontano fatti, o inventano storie. Le parole esprimono opinioni, a volte raccontano bugie o inventano poesie. Le parole dicono la verità tante volte quante mentono. Le parole sono oggettive ma il significato è soggettivo, l’interpretazione è soggettiva. Le parole illudono, rallegrano, divertono, gratificano. Le parole feriscono. Le parole fanno compagnia, comunicano, parlano. Le parole sono nel quotidiano la normalità, anche se non per tutti. Le parole si intrecciano rotolando libere, si allungano contraendosi inventano il presente. Soffiate come vento, agitate come mare, sono ciò che sono, per me, per te. Le parole penetrano profonde 22 scolpendo solchi dove scorre linfa. Sono talee che attecchiscono se lo vuoi, si disperdono se lo vuoi. Rimescolio di 21 lettere, originariamente solo suono a cui è stato attribuito un significato. Ogni popolo ha la sua lingua. Ogni popolo ha collegato al suono un segno e all’insieme di segni ha dato un significato, i significati sono gli stessi per tutti i popoli, i segni diversi e a causa di questo non ci capiamo. Liberi di fraintendersi giocando con la pelle comunichiamo al di là del vento e del mare. 23 08-09/01/09 Ti racconto la mia malinconia sussurrata a voce alta, piango senza lacrime una gioia che non sento. Scaglio sassi verso l’alto per colpire colui che sa, e questi mi colpiscono, ricadendo, lapidandomi. Non c’è giustizia nel caos della vita, per i troppi che non hanno colpa di essere nati lì e in quel momento. Afghanistan Israele e troppi paesi ancora. 24 12/01/09 Crocevia di intenzioni Attraverso cui si diramano Le direzioni come possibilità Scelgo una via Casualmente E casualmente mi ritrovo al crocevia 25 02/03/09 Brevi tormenti idilliaci rendono incandescente l’aria mentre sfuggono gli sguardi dall’altrui piacere per ritrovarsi soli, ma con se stessi. Intanto intensa ritorna l’incessante vacuità dell’oggi e si spaccano massi, granito e marmo, nel giorno dopo quello del piacere. 26 26/03/09 Malandrine aspettative domandarono all’uditore ironico: cos’è che vuoi? Non voglio riempire panchine in ferro calpestando erba. Goliardici desideri domandarono all’uditore attento: cos’è che vuoi? Non voglio fissare il cielo o il muro davanti a me. E mentre ascoltava il mormorio del vento di maestrale … … Invecchiò 27 01/04/09 Andirivieni di logiche anacronistiche nel tempo che fu. Nell’oggi tratto luoghi comuni con sorprendenti novità e liberi paesaggi. 28 28/04/09 Spaccati di vita lustrati a lucido traspaiono polvere di terra. Andirivieni di petulanti raziocini, arroventati da fornaci di mattoni, ammirano la trasparenza. E tutto è così come appare. 29 06/05/09 Antiche coniugazioni di intenti generosi sopraffanno isolate esplosioni primaverili. Ritornano i passi di rondini migranti, dal nido al cielo, volteggiano azzurre. Dopo la pioggia cala silenzio raro, tanto prezioso quanto uragano nell’universo. Sale memoria, futuro imprevedibile ritorna da lontano oggi. 30 07/05/09 Liberi di fraintendersi sotto questo cielo io e te da domani azioni significanti da non voler comprendere, perché fluido è il divenire. Se la notte segue il giorno chi segue la notte? Il sole e la terra si incontrano al crepuscolo non sfiorandosi mai. 31 28/05/09 L’acqua lava la polvere riflette lo specchio la trasparenza raffigurando immagini oblique. Ancora mi dilungo a ingannare il tempo, preda di passaggi ostacolati dall’imbrunire dell’alba. Ritorno da fugaci sensazioni indietro verso l’indomani di parole sussurrate ad alta voce, perché capire non è facile. Sorride l’allodola del nido del cuculo, ed io plasmo argilla perché la forma prenda vita. 32 11/06/09 Trasparenze ingombranti affilano lame ormai sbeccate e tu ti muovi sornione all’interno di quattro mura esasperato dall’insperata persistenza. Dal recipiente fuoriesce lava incandescente che riempie un mosaico calpestato da troppi piedi. Ed io sfoglio pagine di un diario pubblico camminando avanti pur guardando indietro. Il vento agita le foglie come i miei capelli grigi e tinti. Fluisce aspettativa da una recondita seconda vita … pensata ma non desiderata, solo voluta. Come possibilità 33 il cavaliere errante trafigge il drago con una spada spietata dritta nel cuore. Indietreggia la puzzola dall’istrice. Io canto canzoni stonate perché non sempre piove di domenica e poi porto con me l’ombrello. Salgo sul proscenio in punta di piedi, applausi e fischi a non finire, non ricordando la mia parte divento rossa come un peperone, il regista si arrabbia: mi licenzia. Vorrà dire, se ho fortuna, che farò qualcos’altro. 34 15/06/09 Marchingegni arrugginiti quanto le mie membra chiedono olio per sopravvivenza L’acqua li ha lavati troppo a lungo finché rossa è superficie Corrosa e distorta poiché Recuperare l’irreversibile è come chiedere al rinoceronte di volare con leggerezza Semplicemente Non può 35 25/06/09 Melodia sfuggente tramandi ricordi ancestrali privi di trama che accarezzano i capelli Sovente ritorna l’armonia prima del tuono 36 26/06/09 Volete libero Gesù o Barabba? La Dea bendata Miete grano Ancora acerbo Per la propria Ingordigia Pilato si lava le mani Con acqua di fonte Il Padre acconsente Ai propri piani Segreti Insondabili Ingiusti Suoi La Dea bendata arriva Anche se non la vuoi vedere E ti porta con sé Anche se non la vuoi seguire Ti seduce Non c’è più domani Non c’è più futuro 37 Non c’è più niente Se non un vuoto Ed un silenzio Perenni 38 09/07/09 Immersa nella palude dei miei pensieri, galleggio a stento. 39 ANTONINO E LO SCIOPERO DELLE FINESTRE Antonino era vicino alla pensione e aveva un compito: aprire tutte le finestre al mattino e chiuderle tutte alla sera. Il personale del comune di Roma si aspettava questo da lui, e lui lo faceva diligentemente. Conosceva le finestre una per una: c’era quella che strusciava, quella bloccata , quella coi cardini forzati, quella che sembrava oliata, insomma erano tutte diverse le une dalle altre. Ogni cinque anni toglieva le persiane, le passava con la cartavetra, poi le riverniciava e le rimetteva al loro posto come nuove. Gli voleva bene, lui, alle sue finestre! Poi l’economia andò in crisi, mancavano i soldi, si pensò che il lavoro di Antonino lo potessero fare anche gli altri impiegati e fu licenziato. Quando le finestre, al mattino, non videro Antonino, pensarono che si fosse ammalato, poi udirono i pettegolezzi dei colleghi e decisero che se Antonino non fosse stato riassunto loro avrebbero fatto sciopero a oltranza. Fu così che il mattino dopo nessuno riuscì ad aprire una finestra. Provarono tutti gli 40 impiegati, anche col piede di porco, ma non ci fu verso. Accesero le luci. Il giorno dopo le finestre si aprirono, ma a metà mattinata tutte d’accordo sbatacchiarono così forte che tre vetri si ruppero. Gli impiegati accorsero a togliere i pezzi di vetro e si tagliarono tutti uno dopo l’altro. Il terzo giorno quattro maniglie girarono a vuoto, il quarto si bloccarono le persiane, il quinto pioveva a dirotto e le finestre erano tutte spalancate. Insomma non si sapeva più che fare con queste finestre. Il sindaco, interrogando gli impiegati, capì che i problemi con le finestre coincidevano con il licenziamento di Antonino e allora decise di riassumerlo. Ma Antonino era orgoglioso. Rifiutò l’offerta ed aprì un piccolo negozio di serramenti con sua moglie, e con questo riuscì a sbarcare il lunario. Nel frattempo in comune le finestre non trovavano pace, facendo impazzire gli impiegati. Finché si dovettero smontare e fu proposto ad Antonino di prenderle con sé. Antonino le restaurò una per una, parlandoci dolcemente per smorzare la rabbia, e le rivendette a persone di sua fiducia sicuro che ne avrebbero avuto cura. Il negozietto andava bene e non si pentì della sua scelta. 41 Il comune invece spese un sacco di soldi per acquistare tutti gli infissi nuovi, più di quanto avrebbe speso per pagare lo stipendio del nostro Antonino fino ad arrivare alla pensione. 42 BADÙ Una volta, su un’isoletta sperduta del Pacifico, i vecchi del villaggio, alla sera, scrivevano con un bastone le proprie preoccupazioni sulla sabbia, in modo che le onde e il vento le portassero via ed al mattino non ci fossero più. Quella sera i vecchi chiesero al mare che non facesse più crescere Badù, una ragazzina nell’età dello sviluppo, che già misurava un metro e ottanta di altezza. Le preghiere non sempre vengono esaudite, e Badù l’anno dopo era un metro e novantacinque . I vecchi ripeterono la cerimonia e scrissero la preoccupazione tanto grossa che un’aquila poteva leggerla dall’alto dei cieli. Ma i cieli evidentemente volevano che Badù fosse molto alta, perché, come l’anno precedente, acquistò altri 15 centimetri. Ogni anno si chiedeva che la ragazza smettesse di crescere ed ogni anno questa cresceva sempre più. I vecchi allora si domandarono il perché, ma non trovarono risposta finché non giunse un periodo di grande siccità e l’acqua potabile finì. 43 Fu così che si scoprì il grande dono di Badù: lei con le sue lunghe braccia allungava le caraffe fino alle nuvole cariche d’acqua che passavano nel cielo, riempiendole di acqua piovana. Così tutti si dissetarono e capirono che forse c’è sempre un perché. 44 LA RETE TESSUTA CON I CAPELLI C’era una volta un piccolo paese su un’isola dove gli abitanti si facevano crescere i capelli lunghi fino ai piedi. Sia uomini sia donne portavano un ciuffo alto sulla testa fermato da un bastoncino appuntito e decorato che il capo villaggio costruiva e regalava alla nascita. Una volta l’anno veniva celebrata una festa, nella quale si donavano noci di cocco e banane al dio del mare e lo si ringraziava per i frutti del mare regalati per sfamare la popolazione. In questa festa venivano tagliati i capelli a tutte quelle persone che li avevano lunghi fino ai piedi e con questi, nei mesi successivi, le donne avrebbero tessute le reti da pesca per i propri uomini. Le reti così costruite erano molto resistenti e non si consumavano facilmente, erano nere e lucide e poi avevano con sé un po’ di tutti, e questo era considerato propiziatorio. Un giorno, a quattro uomini che pescavano sulla loro barca, successe una cosa impossibile: fra tutti i pesci che erano nella rete, ce n’era uno molto più grande degli altri: era blu, con capelli biondi sulla testa e sapeva parlare. Presi dallo stupore i quattro uomini decisero che non si poteva uccidere un pe45 sce che sapeva parlare e aveva i capelli, così, una volta sistemati gli altri pesci sulla barca, deposero il pesce gigante nell’acqua avvolto dalla rete, per portarlo vicino alla riva ed esaminarlo meglio. Il pesce piangeva non conoscendo il suo destino. Il capo villaggio interrogò il pesce gigante che gli raccontò la sua storia: - Sono nato in un paese del nord, dove ghiaccio e neve nascondono il mare quando la notte è lunga quanto il giorno. Da allora ho vagato verso sud da solo, mosso da un’irresistibile istinto e profumo che mi faceva decidere che questa era la direzione giusta, e scappando agli squali che mi rincorrevano ovunque. Finché ho trovato ciò che inseguivo: l’odore delle vostre reti. Così mi avete catturato. Il capo villaggio era perplesso. Non sapendo cosa altro domandargli e volendo riflettere sulle parole appena udite, si ritirò per la notte, sperando che questa portasse consiglio. Al mattino tornò sulla riva e trovò il pesce gigante che si mangiava i capelli che dal giorno precedente erano cresciuti di un buon palmo. - Perché ti mangi i capelli? 46 - Perché crescono troppo velocemente e se non li mangio mi impediscono di nuotare. Il capo villaggio se ne andò e rifletté anche su queste parole. Il giorno successivo ritornò dal pesce blu con sicurezza: - Ho una proposta da farti: tu ci doni ogni dieci giorni i tuoi capelli e noi ti lasciamo vivere nella nostra baia dove non ci sono squali. Non è che avesse molta scelta, comunque il pesce gigante accettò. E fu finalmente felice della sua decisione due anni dopo, quando una pesciolina gigante dai capelli rossi, attratta dall’odore dei capelli e della sua stessa razza, si ritrovò invischiata nelle reti come era successo a lui. Si sposarono ed ebbero molti figli. Nel frattempo nel villaggio le usanze erano cambiate. Poiché non era più necessario farsi crescere i capelli visto che i pesci giganti provvedevano per questo, gli abitanti del villaggio chiamarono un famoso parrucchiere dalla città della terra grande. Questi tagliò i capelli a tutti, facendo le più bizzarre capigliature con messe in piega voluminose e stravaganti. La tradizionale festa annuale fu trasformata in una gara per 47 l’acconciatura migliore e tutti vissero felici e contenti … anche così. 48 MIRELLA, APPRENDISTA STREGA C’era una volta Mirella, una giovane apprendista strega di 146 anni. Viveva a Tiglio, in una piccola casetta nel bosco, circondata da mirto e con un albero di nocciolo a fianco. La sua specialità erano i dolci magici, che preparava con cura e propinava agli ignari assaggiatori. Questi dolci, preparati con ingredienti che solo lei conosceva, avevano diverse capacità: c’era quello che faceva perdere i capelli, quello che faceva venire i brufoli, quello che faceva invecchiare, quello che provocava la carie, quello che faceva venire le verruche e così via. Bastava che una persona dicesse a Mirella qualcosa di storto che questa, tempo qualche giorno, trovasse il modo di farle gustare uno dei suoi dolci. Fra le varie ricette, c’era la torta che faceva ingrassare. Mirella l’aveva cucinata un’infinità di volte per le sue amiche e anche per le nemiche. Questa volta la preparò per il suo maiale, che ingrassò così tanto da non stare più nel cortile. Fu ammazzato e se ne ricavarono tante salsicce che Mirella vendette al mercato del sabato. 49 Le salsicce erano così tante che i soldi che guadagnò le bastarono per tutto l’anno. Mirella si mise in affari. Costruì un recinto più grande, comprò una coppia di maiali che procrearono tanti maialini. Una volta cresciuti, li nutrì con il suo dolce magico ed ebbe così tanti maiali grassi grassi da vendere come salsicce. L’anno dopo raddoppiò, allevando due coppie di maiali, l’anno dopo quattro e così via. Accadde l’imprevisto che le salsicce mantenessero le qualità del dolce magico e chi le mangiava ingrassasse a dismisura. Fu così che tutti diventarono grassi grassi, non c’era alcuno sotto gli 80 chili. Nessuno sapeva perché e come questo fosse successo. Pian piano le persone si abituarono ad essere grasse e più uno era grasso e più era considerato bello. Sulle riviste c’erano foto di personaggi famosi tutti obesi. Fu così che cambiò la moda prima e la storia poi. Infatti i giovani, essendo obesi, non ce la facevano più a combattere le guerre. Nel mondo, grazie a Mirella, da allora in poi regnò la pace. 50 PABLITO Viveva tanti anni fa, in un paesino del Brasile, Pablito, un ragazzo di una bellezza disarmante. Fin da quando era bambino chiunque lo vedeva gli ripeteva quanto era bello e lui crebbe innamorato di se stesso e della sua immagine. Ogni giorno, poiché gli specchi non esistevano ancora, per potersi guardare andava sul fiume e si specchiava nelle acque limpide. Un giorno, mentre il ragazzo stava ammirando la sua immagine, all’improvviso un coccodrillo uscì dall’acqua, repentinamente lo avvolse nelle sue fauci e lo ingoiò. Per combinazione passava di lì un re con due servitori che, vista la scena, corsero ad uccidere il coccodrillo. Con un coltello gli aprirono la pancia e riuscirono a tirare fuori il giovane, stordito, ma ancora vivo. Una volta prestati i primi soccorsi, misero il ragazzo sul carro con cui erano venuti e si avviarono verso il paese dove trovarono la madre che, preoccupata, fece portare il giovane nel suo letto dove lo avrebbe curato fino alla completa guarigione. Pablito guarì in tre mesi e volle a quel punto andare a sdebitarsi dal suo salvatore. Partì col suo cavallo e dopo quattro settimane ar51 rivò alla fortezza di … dove abitava il re con i suoi servitori. - Sire ti ringrazio innanzitutto per avermi salvato la vita, poi vorrei che tu mi chiedessi di fare qualcosa per te per potermi sdebitare. - La vita è corta ma anche lunga, capiterà un momento in cui avrò bisogno di te, allora ti chiamerò. - Ti prego di chiedermi qualcosa ora, perché io non posso andarmene senza averti ringraziato concretamente. - Allora ti chiedo una cosa: vai sulla cima del monte più alto delle Ande e portami un uovo di aquila tenendolo al caldo in modo che ne possa nascere l’aquilotto. Pablito partì sul suo cavallo con un sacco sulle spalle, percorsero prati, foreste, colline e montagne finché arrivarono alla base del monte più alto da dove dovette continuare a piedi da solo. Camminò a lungo finché non ci fu più sentiero e dovette arrampicarsi fra rocce e sassi. Rischiò di cadere più volte ma, alla fine, arrivò in cima e trovò il nido con due uova. Avvolse un uovo in un fazzoletto e se lo legò intorno al petto in modo che stesse al caldo, come aveva ordinato il re. Il vi52 aggio di ritorno fu veloce o almeno così a lui sembrò, contento del successo della sua missione. Arrivato di fronte al re gli dette il suo uovo. Il re rimase un po’ perplesso e gli disse: - Ma questo è un uovo di cornacchia! - Scusami sire, ripartirò e ti porterò l’uovo che desideri. - Va bene, però questa volta ti chiedo di portarmelo dal monte più alto delle Alpi. Pablito prese una nave che lo avrebbe portato nella vecchia Europa. La nave approdò, cinque mesi dopo la partenza, a Lisbona e da lì, a piedi, Pablito attraversò Portogallo, Spagna, Francia, fino ad arrivare alle Alpi. Era estate e le nevi erano sciolte, il Monte Bianco si ergeva alto ed imponente sui paesaggi intorno. Pablito salì verso la vetta della montagna. L’unico nido d’aquila che vide, si trovava su un pendio verticale dove era impossibile andare. Non c’era proprio nessuna possibilità. Pablito dovette arrendersi. Mortificato tornò dal re e gli espose il suo fallimento, chiedendo però di poterci provare ancora. - Non te la prendere, l’impresa è difficile, ti do un’altra possibilità, questa 53 volta ti chiedo di andare a prendermi l’uovo di aquila sulla cima dell’Himalaya. Pablito partì anche questa volta con le migliori intenzioni, attraversò il mare e molte terre, deserti e città, fu il viaggio più lungo. Quando arrivò alla base dell’Himalaya era già stanco e si fermò due giorni per riposarsi prima di iniziare la salita. L’ascesa fu la più dura perché il monte più alto del mondo era difficile da scalare. Arrivato in cima trovò il nido d’aquila con le due uova: ne prese una, se la avvolse di nuovo intorno al petto e cominciò la discesa. Mentre camminava per tornare a casa sentì uno strano rumore, guardò l’uovo e vide che questo si era riempito di crepe. - Come faccio, come non faccio - pensava; per fortuna c’era una casa sulla sua destra e così chiese ai residenti una pagnotta per nutrire l’aquilotto appena nato. L’aquilotto se ne stava appollaiato sulle spalle, e cresceva a dismisura ogni giorno che passava. Mangiava sempre di più e pigolava sommessamente. Pablito, oltre al pane, raccoglieva i vermetti che trovava per 54 terra e glieli dava e per ognuno di questi l’aquilotto sbatteva le ali per l’entusiasmo. Pablito pensò che era vero che il re gli aveva chiesto un uovo, ma era anche vero che lo voleva per far nascere l’aquilotto, così se lui gli avesse portato quest’ultimo probabilmente sarebbe stata la stessa cosa. Intanto l’aquilotto cresceva sempre più.. Mancavano le ultime tre settimane di viaggio, quando nel cielo comparve un’aquila, su, alta e maestosa che sembrava galleggiare nell’aria con i suoi volteggiamenti. L’aquilotto la vide e si agitò, non le tolse gli occhi di dosso per un bel po’, finché infine spiccò il volo, prima incerto, poi più sicuro e la raggiunse. Era primavera. Pablito fu spettatore meravigliato del primo volo del suo protetto, ma il problema fu che l’aquilotto non ci pensava neanche a tornare indietro e, dopo un po’, Pablito cominciò a sospettare sull’esito della sua missione. Infatti triste e dimesso arrivò dal re: - O mio signore, ho fallito anche stavolta, ti chiedo perdono. - Caro Pablito, io l’ho sempre saputo che avresti fallito, perché l’impresa era impossibile da realizzare. Però ti ho messo alla prova, perché volevo insegnarti che, oltre alla bellezza, tu possiedi l’intelligenza e la devi usare 55 anche quando a darti un ordine è un re. E prima di partire per una missione ti devi informare bene di tutti i perché, i come e i quando. Inoltre volevo insegnarti la prudenza e a non essere precipitoso e irruente perché, nella vita, per ogni cosa c’è il suo momento. Io ti avevo chiesto di aspettare e tu hai voluto subito una missione da compiere, così ti ho punito. Però non sono stato troppo cattivo perché ti ho punito “premiandoti”. Cioè ti ho dato la possibilità di viaggiare e vedere il mondo, conoscere altre genti e posti diversi, spero tu l’abbia sfruttata guardandoti intorno. Pablito abbassò lo sguardo. Insicuro di quanto avesse in realtà imparato. Era afflitto. Passarono alcuni secondi di silenzio poi il re disse: - Comunque caro Pablito, non ti devi più sdebitare perché in realtà non hai fallito: l’unica aquila che era rimasta in Brasile ha finalmente trovato un compagno e così potrà riprodursi e non estinguere la specie, che è esattamente l’obiettivo che volevo raggiungere, scusa se ti ho ingannato po56 co fa. Mi sono divertito un po’. Adesso sono io che vorrei farti un regalo. È una nuova invenzione viene dall’Oriente, tieni. Pablito prese lo specchio tra le mani e vi si guardò dentro. Non si era mai visto così bene e così bello. Il viso era raggiante perché, al contrario di quanto pensasse, era riuscito ad esaudire il desiderio del re. Il giorno dopo Pablito ed il re si salutarono con la promessa di rivedersi di nuovo presto e Pablito tornò al suo paese, alla sua casa. Mise lo specchio attaccato al muro, così la mattina non aveva più bisogno di andare al fiume a specchiarsi nell’acqua e i coccodrilli fecero a meno di lui. 57 PIEDI LUNGHI QUANTO TANTE PAROLE Non c’erano sensazioni più forti di quelle che le offrivano i propri piedi, tramite tra lei e il mondo. Eppure vedeva, udiva, gustava e toccava come tutte le altre persone. Da bambina, un medico le disse che aveva dei piedi proprio brutti; ma cosa poteva sapere lui di tutto quello che questi le comunicavano? Usava le scarpe solo perché così bisognava fare, d’inverno era freddo e sarebbe stata indicata a dito se avesse fatto diversamente ma, quando poteva, stava a piedi nudi per sentire tutto ciò che c’era sotto. Attraverso la pelle passavano il calore della sabbia o dell’asfalto estivo, il fresco delle mattonelle in casa, il solleticare dell’erba in giardino, il morbido avvolgersi dell’acqua, il soffio dell’aria, lo sprofondare del fango e la calda ruvidezza della pietra sotto il sole. Erano così tante e svariate le sensazioni che non c’erano parole per descriverle tutte. Lui con le parole faceva quello che voleva con grande naturalezza: dialogare, convincere, insegnare, poetare, raccontare, rimare. Era una dote innata, infatti le parole erano venute prima dei suoi primi passi incerti. A 58 tredici anni aveva pubblicato un libro di poesie, a diciotto un romanzo, ma era nel “parlato” che faceva stupire chi lo ascoltava. Il giorno che si incontrarono la prima volta, avevano entrambi sei anni, e si odiarono profondamente perché lui, per sbaglio, pestò i piedi a lei e lei se ne andò mentre lui stava ancora parlando. Si incontrarono di nuovo alle scuole medie, si riconobbero e stettero alla larga l’uno dall’altra: troppo timida lei, troppo espansivo lui. Gli anni passavano, lei studiò all’accademia delle belle arti e lui si iscrisse a scienze politiche. Quasi contemporaneamente si innamorarono: lei di un musicista di qualche anno più vecchio, lui di una compagna di studi, con cui entrambi andarono a convivere. Dopo due anni lei ebbe una bambina; lui non ebbe figli. Lei trascorreva le giornate a dipingere, a crescere la figlia e tenere in ordine la casa. I suoi quadri ebbero un certo successo, e allestì diverse mostre qua e là. All’inizio andava spesso in giro per il mondo per i concerti del compagno, poi trovò una sua dimensione più casalinga e preferì restare più spesso a casa. 59 Lui trovò lavoro come rappresentante di macchinari industriali, contemporaneamente scriveva per un quotidiano locale e sperava di riuscire, un giorno, a scrivere per qualche grande rivista. Dopo circa vent’anni a Los Angeles si tenne un concerto. La notte non era particolarmente fredda e fiocchi di neve cadevano lentamente. L’aria vibrava alle note del quartetto, il pubblico era entusiasta. Qualche chilometro più in là, per le strade, migliaia di persone camminavano frettolosamente con pacchi nelle mani, alla ricerca dell’ultimo regalo, Natale era vicino. Lui e lei camminavano lungo la solita strada, uno verso l’altra, immersi ciascuno nei propri pensieri. Lui era lì perché doveva scrivere un articolo sulla vita notturna della città, lei perché il suo compagno partecipava al concerto. Stavano camminando quando, all’improvviso, si scontrarono. Lei quasi cadde e lui cominciò a scusarsi per averle pestato un piede. Lei lo guardò, gli sorrise e se ne andò che ancora stava parlando. Ci rimasero male entrambi, sentendosi feriti nel profondo. A volte il destino gioca strani scherzi. 60 STANZE Luigi entrò dentro una stanza: aveva pareti tinteggiate di giallo, una porta sul lato destro, un tavolo al centro, una sedia, due quadri appesi ad una parete ed una vecchia macchina da scrivere verde appoggiata al tavolo. Dalla finestra si vedeva lo scorrere di un corso d’acqua sulle cui rive crescevano erba e fiori arancioni e bianchi. Aperta la finestra assaporò l’aria che profumava di mughetto, lasciò che il vento gli sfiorasse i capelli ed il sole scaldasse il suo viso, poi richiuse la finestra, si sedette al tavolo di fronte alla macchina da scrivere ed iniziò a premere sui tasti velocemente, macchiando di inchiostro la macchina dei suoi pensieri: … Dalla porta si passava in una seconda stanza azzurra con un lampadario di rame al centro. Aveva una sedia nell’angolo con una tromba appoggiata sopra. Non c’era altro oltre a un’altra porta e alla finestra a soffitto da cui poteva vedere il cielo. Luigi soffiò nella tromba e da questa uscì un suono pacato e profondo che sapeva di dialogo. Suonò una musica asimmetrica, fatta di note semplici e si calmò. 61 La terza stanza era grigia col soffitto blu, c’era un letto con accanto un comodino ed una sveglia che indicava le 4.10. Luigi si sdraiò e si addormentò per un tempo indefinito. Quando si svegliò credeva di aver dormito per ore ma l’orologio indicava ancora le 4.10, probabilmente non funzionava. Nella quarta stanza trovò un cavalletto con su una tela bianca, dei colori a olio, pennelli, un bicchiere ed un piatto di plastica. Luigi dipinse l’angolo della stanza così come lo vedeva: tre rette che si univano e bianco tutto intorno. Sentì un cinguettio arrivare da lontano ma non c’erano finestre, era solo con la sua tela e tre righe nere. La quinta stanza di quel misterioso edificio aveva quattro porte e basta. Luigi era indeciso da che parte proseguire, poi scelse quella di fronte a sé e passò così nella sesta stanza. La sesta stanza era la più grande di quelle che aveva fino ad ora visitato. Era un monolocale a tutti gli effetti ed era fornita di tutto. Una persona vi avrebbe potuto vivere in tutta comodità, la sua essenzialità la rendeva particolarmente bella e ariosa. Per Luigi era solo di passaggio e dopo uno sguardo qua e là se ne uscì. 62 Nella settima stanza trovò una donna seduta su una panca, nuda e raccolta con tristezza intorno a se stessa. Luigi le chiese chi fosse, perché fosse nuda, se avesse freddo, ma questa non rispose, sembrava non sentire ed essere assorta completamente nei propri pensieri. Non sapendo cosa fare si sedette vicino a lei e lì stette a lungo in silenzio. Ad un certo punto la donna si voltò verso di lui, gli sorrise e gli porse una piuma, dopodiché se ne andò. Luigi pensò che forse era matta. L’ottava stanza era beige, aveva un grande tavolo rettangolare apparecchiato al centro e otto sedie intorno. Al centro una fruttiera piena di fragole. Luigi saziò la sua fame prima di entrare nella nona stanza. La nona stanza era rossa come il sangue. La decima era violetta come il fiore. L’undicesima era nera come la notte. A quel punto Luigi decise che era ora di tornare indietro, ma attraversando le porte si ritrovava sempre in stanze nuove diverse da quelle che prima aveva attraversato. Da principio fu sorpreso, pensò che forse ricordava male, ma poi un senso di panico lo invase lentamente e sempre più forte. 63 Quello strano edificio sembrava non avere né inizio né fine, si ripeteva sempre nuovo e Luigi ne rimase prigioniero. Prigioniero di quattro mura che si moltiplicavano infinite, piene di accessori da rendere piacevole il passaggio, ma sempre prigioniero. Prigioniero di se stesso. Ogni porta era la speranza di uscire all’esterno. Ogni porta era la delusione di rimanere all’interno. Aperta l’ennesima porta, vide un vecchio, con una lunga barba bianca ed un bastone. Se ne stava seduto su una sedia impagliata e lo guardava come si guarda il mare d’inverno, poi iniziò a raccontare: - Sono cresciuto dove il grano mi superava in altezza e i girasoli si piegavano per farmi ombra a mezzogiorno. Dalla mia famiglia ho imparato il rispetto e l’umiltà. Ed ho lavorato tanto da piegarmi la schiena e asciugare il sudore. Ti voglio dire una cosa: non lasciare che il giorno scenda dal sole senza aver lasciato un momento per ascoltare la musica dell’aria. Non ho altro da dirti. Il vecchio continuò a guardare il mare d’inverno, ma nessuna parola seguì a quelle già dette. 64 Luigi perplesso se ne andò nella stanza successiva senza aver capito molto di quelle parole sussurrate troppo in fretta. La stanchezza si faceva sentire, anche se poteva dormire non riposava completamente. Le occhiaie si scurirono sotto i suoi occhi e capelli bianchi comparvero sulla sua testa. Angosciato continuava a procedere di stanza in stanza, con la speranza di trovare un’uscita. Da un’alba ad un tramonto di luce artificiale in quel falso giorno interminabile, ora dopo ora, continuavano a essere le 4.10 e lui era ancora lì, nello strano e indecifrabile edificio. Attraverso mille stanze passò il tempo senza passare. Nell’ultima stanza trovò uno specchio. Vi si guardò incredulo per ciò che vedeva. Era cambiato, invecchiato, aveva la barba ed i capelli bianchi. L’orologio segnava le 4.10 e lui non ne poteva più. Non aveva più voglia di aprire porte per ritrovarsi sempre dentro un qualcosa che non riusciva a capire. Quello strano edificio lo aveva logorato, e piangeva per ciò che non era potuto essere, per l’erba che non aveva calpestato, per il mare che non lo aveva ba65 gnato, per la sabbia che non lo aveva scottato e per tutto ciò che non c’era stato. Un’ultima porta … pregò per l’ultima porta, perché fosse l’ultima. L’aprì … Una luce immensa lo avvolse come in un abbraccio. Luigi fece un passo avanti, la luce era densa, fresca e bianca come la nebbia, non si vedeva niente. Proseguì con le mani avanti a cercare una parete (come era solito trovare) ma non la trovò. Ad un certo punto gli mancò la terra sotto i piedi e cadde, cadde nel vuoto, in una caduta libera che non finì mai più. Era finalmente libero. 66 UNA MUCCA, UN MAIALE Abitava a Kabul una mucca giovane a cui piaceva leggere. Le sue giornate erano piuttosto libere e lei le impiegava a mangiare e a leggere sia le riviste sia i libri che i bambini le portavano una volta tornati da scuola. Conosceva il suo destino: una volta divenuta grande e grassa sarebbe stata uccisa per nutrire, con le sue carni, gli abitanti di Kabul. Un giorno un bambino le portò un libro che si intitolava I misteri dell’India; lei, che amava le storie degli altri paesi, iniziò a leggerlo con entusiasmo. Nel quarto capitolo trovò una notizia che cambiò la sua vita: in India le mucche erano considerate sacre ed era proibito ucciderle. La meraviglia fu grande perché non sapeva che paesi diversi potessero avere abitudini ed idee così contrastanti, ma soprattutto pensò al suo futuro: se fosse riuscita ad andare in India non sarebbe diventata una bistecca. Il giorno dopo partì nella direzione del sorgere del sole. Viveva a Calcutta un maiale giovane che era un chiacchierone e gli piaceva fermare tutte le persone che incontrava per chieder67 gli qualsiasi cosa gli venisse in mente, tante volte anche a sproposito. Era un burlone e rideva sempre, però purtroppo conosceva il suo destino: una volta diventato grande e grasso sarebbe stato ucciso per nutrire, con la sua carne, gli abitanti di Calcutta. Un giorno conobbe un musulmano e quando, discutendo, quest’ultimo gli raccontò che in Afghanistan, da dove veniva lui, i maiali non venivano mangiati, per poco non gli venne un infarto. Il giorno dopo partì nella direzione del sole che tramonta. Sia la mucca sia il maiale viaggiarono molto, trovarono tante difficoltà ed il tragitto fu molto lungo. Un giorno la mucca guardò davanti a sé e vide un maiale con uno zaino sulle spalle, lo stesso successe al maiale che vide una mucca con una valigia in bocca. Curioso le chiese gentilmente chi era, da dove veniva e dove andava. - Mi chiamo Lola, vengo da Kabul e sto andando in India perché là le mucche non vengono mangiate ed io non voglio morire prima del tempo. - Anch’io non voglio morire prima del tempo e sto andando in Afghanistan dove i maiali non vengono mangiati. 68 Questo destino comune li intenerì e decisero di andare al ristorante insieme per raccontarsi i propri vissuti e le proprie aspettative. Entrambi volevano avere molti figli ed arrivare alla vecchiaia in salute e circondati da nipoti e pronipoti, avere tanta erba da mangiare e poter stare tranquilli su un pezzo di terra. Si salutarono il mattino dopo e continuarono il proprio viaggio, uno rivolto verso il sole, l’altra verso la luna. Un mese dopo arrivarono entrambi a destinazione e cominciarono a cercare un pezzo di terra dove poter stare, solo che le altre mucche e gli altri maiali avevano già occupato tutti i terreni possibili e ne erano molto gelosi, così non gli rimaneva che trovare uno sposo o una sposa per potersi inserire nella comunità. Lola era tutta bianca a macchie nere e ai tori di Calcutta piacevano le mucche marroncino con le tette piccole: a quanto pareva non la voleva nessuno. La stessa cosa successe al maiale: lui era rosa ed in Afghanistan piacevano i maiali grigi. Il maiale non si fece prendere dallo sconforto, si rimboccò le maniche ed iniziò a lavorare gratis vuotando le latrine, cosa che non voleva fare nessuno e grazie al suo bel ca69 rattere in poco tempo conquistò le simpatie degli abitanti di Kabul. Fu così che un giorno un vecchio maiale andò da lui e gli disse: - Io ho una figlia in età da marito che però ha un difetto: capisce tutto all’incontrario, per cui quando parli con lei devi dire le cose col significato opposto a quanto vuoi esprimere, altrimenti non capisce. Nessuno la vuole: se tu la sposi ti offro una casa dove poter abitare. Il maiale non ci pensò due volte, accettò e trovò la sposa pure bella. La mucca invece non riuscì a trovare marito, ma si impiegò in una fattoria insieme a tante altre mucche: praticamente donava il suo latte, grazie alle sue tette grosse, in cambio di cibo e acqua. Era un lavoro un po’ monotono, però poteva chiacchierare con le nuove amiche e ci si divertiva abbastanza. Il maiale ebbe tanti figli e tanti nipoti. La mucca nutrì tanti bambini che quando furono un po’ cresciuti le portarono i loro libri da leggere. E così questa storia si conclude con il maiale e la mucca che vissero a lungo, felici e contenti a dispetto del loro destino. 70 1984 Era perso nella realtà che escludeva il suo destino, rimasto impigliato in un lontano 1984. Il suo umore, per lo più depresso, ogni tanto aveva sprazzi di gioia ed entusiasmi onnipotenti che duravano quanto il fiorire di una rosa. Per il resto lottava fra noia e malinconia, desiderando un futuro migliore ma non ricordandosi quale dei suoi passati gli fosse stato più congeniale. La sua insicurezza lo aveva reso incapace di scegliere fra le infinite possibilità di azione che ogni giorno si presentavano. Lasciava quindi agli altri ed a volte al caso di scegliere per lui, nel bene e nel male, in ricchezza e povertà. Per strada aveva sempre paura di incontrare un conoscente, perché non gli piaceva raccontare balle, gli spiaceva non essere riconosciuto ma non riusciva a fingere, non sapeva cosa dire e si emozionava facilmente. Così se poteva tirare dritto lo faceva, incurante del pensiero altrui. Non era stimato, e risultava per lo più antipatico. In passato questa era una cosa che lo avrebbe distrutto, adesso ci conviveva, la accettava come si accetta che l’acqua di un 71 fiume non si esaurisca mai del tutto. Il suo era un egoismo generoso. A volte si sentiva piccolo come una formica, a volte grande quanto un elefante. A volte lento come un bradipo, altre volte veloce come una gazzella. Mai feroce come il leone, però pigro sì. Le giornate, per lui, non finivano mai, ma allo stesso modo il tempo passava come un battere di ciglia, e se da un lato aveva voglia di fare ancora un sacco di cose nella sua vita, nello stesso tempo avrebbe accolto la morte a braccia aperte come la più desiderata amante, qualora fosse arrivata all’improvviso. Erano anni che non andava in centro per una passeggiata e malgrado si sentisse giù, prese la macchina e si diresse in città. I cartelli attaccati al muro parlavano di iniziative presenti e future, alcune passate. Bambini giocavano nel poco verde a loro disposizione, con le rispettive madri poco distanti, attente. Un palco e delle foto di compagni di classe: difficile dire quanti anni potevano avere adesso quelle persone, non riconobbe nessuno. Sole negli occhi, procedeva lento ed indeciso. C’erano negozi nuovi, alcuni in vendita, turisti e cittadini si confondevano nel trantran quotidiano, macchine circolavano con pochi passeggeri. 72 Bevve un caffè, ma dopo un po’ cominciò a domandarsi cosa ci facesse lì. Lì in città, voglio dire. Cominciò a pensare che avrebbe potuto incontrare qualcuno, e non lo desiderava. E come sempre il suo sentirsi fuori luogo ovunque prese il sopravvento. Era diventata una necessità: cambiare luogo il più spesso possibile. Maggiore era la distanza tra un posto e l’altro, meglio era, perché piacevole era il viaggio, il desiderio. Una volta arrivato il sentimento di malinconia si impadroniva di nuovo della sua mente lasciandolo esausto. Tornò a casa. Fra le quattro mura domestiche si sentiva al sicuro, protetto dagli altri ma non da se stesso. Accese il computer e cominciò a scrivere: “1984 …” 73 ARTURO E I PACCHI DI GHIACCIO Tra i ghiacci e le nevi perenni del Polo Nord viveva un signore di nome Arturo, piuttosto anzianotto, con lunghi capelli e barba bianca, cugino di Babbo Natale. Lavorava per la “Universal Global Ice System” una grande multinazionale di cui non si capiva chi fosse il proprietario ed il suo lavoro consisteva nel confezionare in pacchi termici, blocchi di ghiaccio grandi all’incirca quanto una radio. Questi pacchi, una volta sigillati ermeticamente, venivano accatastati in pile di un metro e mezzo per un metro e mezzo e poi stoccati su furgoni volanti che il pilota veniva a ritirare ogni giorno a fine mattinata. Nessuno sapeva dove venissero trasportati e a cosa servissero, quello che si sapeva è che ogni giorno partivano pacchi pieni e tornavano pacchi vuoti Un lunedì, il direttore del personale chiamò Arturo nel suo ufficio e gli disse che era prevista per lui una promozione con cambio di ruolo operativo: doveva prendere la patente per guidare i furgoni volanti. Arturo, che non era mai montato neanche su un aereo, era un po’ preoccupato e non molto contento di quella che non gli sembrava proprio una promozione, però pareva che gli 74 aumentassero lo stipendio, allora fece buon viso a cattivo gioco. Dopo un mese iniziarono le lezioni di guida. Affiancato dal maestro, Arturo fece il suo primo volo e ne rimase incantato: non credeva che ritrovarsi fra le nuvole desse un tale senso di libertà. Cambiò idea sulla promozione e non vide l’ora di effettuare la sua prima missione da solo per scoprire dove andavano a finire tutti quei pacchi. Il giorno fatidico arrivò dopo due settimane. Venne convocato dal direttore e gli venne detto che doveva andare nel deserto del Sahara a consegnare il ghiaccio. Arturo accese il motore e partì, e dopo solo dieci ore arrivò sul Sahara ed iniziò a scendere quando vide una pista di atterraggio sotto di sé. Sembrava lo aspettassero. Una fila molto lunga di uomini, donne e bambini stava in piedi al lato della pista e lo salutò quando scese dal furgone. A ciascuno consegnò un pacco e all’ultimo della fila chiese: - Ma cosa ve ne fate del ghiaccio? - Seguimi. Camminarono a lungo in silenzio finché non arrivarono ad una capanna dietro la quale c’era un piccolo spiazzo dal quale spuntava una pianta di pomodoro. 75 - Qui abbiamo poca acqua e quella che c’è non è nutriente, mentre l’acqua del Polo Nord è ricca di tutti i nutrimenti necessari a far crescere i pomodori. Quando questi sono maturi, metà li teniamo noi e metà li diamo alla “Universal Global Ice System” per i loro affari. A questo serve il ghiaccio. Così Arturo continuò a lavorare per la multinazionale contento. 76 GEGIA LA TARTARUGA In una vallata attraversata da un piccolo ruscello vivevano, mangiando e dormendo, dieci tartarughe di terra. L’ultima nata era svagata e sognatrice e le tartarughe vecchie ritenevano che avrebbe procurato dei problemi per questo suo “campare per aria”. Un giorno Gegia (l’ultima nata) spinta dalla curiosità cominciò ad allontanarsi dalle compagne e a salire su verso il monte. Le compagne la chiamarono perché tornasse indietro, quelli erano posti sconosciuti e pericolosi, ma lei non le ascoltò. Gegia non cercava niente di particolare, voleva solo vedere cosa c’era più in là, così mangiava e dormiva ma risalendo il ruscello. Il percorso era in salita, quindi un po’ più duro, ma lei andava così piano che in fondo non durava molta fatica. Gli alberi si infittirono e un giorno Gegia si trovò davanti un fungo molto bello, tutto rosso a puntini bianchi e le lamelle sotto. Stette ad ammirarlo per un bel po’ domandandosi se fosse anche buono da mangiare come quei prataioli che si trovavano giù nella vallata. Passava di lì un istrice che non aveva mai visto una tartaruga e le si avvicinò: - Non lo mangiare è velenoso! 77 - Grazie per avermi avvisata, mi stavo giusto domandando se fosse commestibile. - Non ti ho mai vista da queste parti, da dove vieni? - Vengo giù dalla valle e sto risalendo il ruscello, mi piacerebbe vedere cosa c’è in cima. - Io in cima non ci sono mai andato, la mia zona è questa, qui trovo ghiande e patate, qui ho la mia tana che è tutto quello che mi interessa, comunque … buona fortuna - e se ne andò. Certo che era proprio un fortuna avere la propria casa da portarsi dietro, trovare da mangiare dappertutto e poter andare dove si vuole. Ad un certo punto le cadde un riccio di castagna proprio sulla testa. Si guardò intorno e si accorse che c’era pieno di queste cose pungenti e che contenevano qualcosa di marrone. Si avvicinò ad una castagna e da un piccolo buco spuntò la testa di un vermetto che stava masticando con ingordigia. Gegia, visto il vermetto che mangiava la castagna, pensò che questa sicuramente non fosse velenosa , ma magari pure buona, così vi diede un morso. Che ghiottoneria !!!! 78 Fece una tale scorpacciata di castagne che per due giorni fu incapace di muoversi, così si riposò. La bella stagione stava volgendo al termine e Gegia, come tutte le tartarughe, stava per andare in letargo. Cercò un posto riparato, scavò una buca, si ricoprì e lì si addormentò. Si sarebbe risvegliata a primavera. Passò il tempo, venne il freddo, gli alberi persero le foglie, gli uccelli migrarono e cadde la neve, finché un giorno un timido sole si affacciò nel cielo e tutto ricominciò da capo. Gegia fece un bello sbadiglio, si stirò le zampe anchilosate, e si scavò la via per uscire dalla tana. Era sempre una sensazione sorprendente il risvegliarsi a primavera. Gegia si sentiva piena di energia, di voglia di fare, in pace ed entusiasta, e cosi ricominciò il suo viaggio in salita seguendo il ruscello. Ma a volte le avventure hanno un prezzo da pagare, e fu così che la tartaruga si ritrovò nel mezzo ad un branco di lupi affamati che quando la videro muovere le saltarono addosso. Lei si ritirò tutta in se stessa mostrando solo il guscio, difendendosi così dai loro morsi. I lupi la rigirano più volte, la sballottarono da uno all’altro cercando di morderla, e solo dopo un bel po’ si stanca79 rono e se ne andarono. Gegia rimase chiusa nel suo guscio a lungo, tutta sudata ed impaurita, finché non trovò il coraggio di mettere la testa fuori accorgendosi così che il pericolo era scomparso. Quanti giorni erano passati da quando aveva lasciato la valle? Aveva nostalgia, le mancavano le sue compagne. Quel giorno Gegia era triste e si domandava se avesse fatto bene ad andarsene. Le avevano insegnato che quando si ha un problema da risolvere la cosa migliore è dormirci sopra che al mattino le idee sono più chiare; era notte, era il momento dei sogni e Gegia si addormentò. Al sorgere del sole decise però di non tornare indietro, camminò e camminò, e dopo tanti giorni e tante avventure arrivò finalmente in cima alla montagna. Qui c’erano un grande prato verde, un laghetto e dieci tartarughe di terra che vi vivevano mangiando e dormendo. Fra loro, la più giovane sognava di andare un giorno a vedere cosa c’era giù nella valle seguendo le acque del ruscello. 80 STORIA DI UNA GOCCIA D’ACQUA Sono una goccia d’acqua e voglio raccontarvi la mia storia. È una storia lunga, tanto lunga che non mi ricordo quando è iniziata. La mia memoria mi porta a quando ero un bel cristallo di neve e ovunque c’erano mie compagne e non facevamo niente perché era freddo e col freddo ci si riposa. Restammo cosi per tanto tempo, poi pian piano i raggi del sole diventarono più caldi e col calore ci sciogliemmo fino a diventare acqua e così mare. Era bello essere mare, dondolarsi dolcemente in armonia col vento e le correnti. Passare dalla superficie calda alle profondità più fredde e guardare i pesci e gli altri abitanti degli abissi. Era bello essere sempre così abbracciate e sagomarci con ciò che toccavamo fino ad assumere tutte le forme. Poi un giorno, mentre galleggiavo cullata dal sole, mi sentii leggera, sempre più leggera. Mi sciolsi dall’abbraccio delle mie compagne e cominciai a volare. Diventai trasparente e oscillando salivo verso l’alto. All’inizio potevo toccare le mie compagne, poi diventammo sempre più distanti e salivo e salivo avvicinandomi al sole . 81 Ad un tratto quasi d’improvviso un colpo di vento e un poco di freddo mi ridettero il colore e la densità. Divenni bianca e grassa e presi per mano due mie compagne e loro le altre: eravamo nuvole . Cominciammo a danzare muovendoci in tutte le direzioni: formavamo spirali e cerchi ed il vento cullava la nostra danza. Sotto di noi la terra girava e anche noi ci muovevamo e la luna splendeva. Cambiammo colore, diventammo grigie e sempre più numerose. La danza era veloce e frenetica e sembravamo quasi impazzite, poi di colpo tutto si fermò. Cominciammo a cadere una dopo l’altra. Cademmo tutte e la caduta sembrava infinita ... Esplosi al suolo su di una roccia, sulla cima di una montagna. Quella fu la prima volta che toccavo terra. Mi sentivo un po’ impaurita così vicina a questo nuovo elemento tanto diverso da me. La roccia era dura, liscia, in discesa. Io cominciai a scivolare verso il basso, attraversando scanalature, aggirando massi e pietre. Ad un certo punto la roccia si ruppe e si mescolò al terreno ed io venni risucchiata da questo e lo resi umido. Lì sotto c’erano le radici delle piante e a qualche mia compagna capitò di essere as- 82 sorbita da queste, trasformandosi in foglia o fiore. Io proseguii la mia discesa purificandomi delle scorie che avevo accumulato nel mio percorso e scesi in rigagnolo al confine fra roccia e terra, finché non diventai sorgente di un piccolo ruscello che andava verso la valle. Il ruscello si unì al fiume dalle tante acque, ed io e le mie compagne eravamo di nuovo abbracciate e correvamo in una sola direzione . Il fiume, grazie a noi, si era scavato un letto su cui scorreva, scivolando fra una collina e l’altra in morbide curve. Non ci crederete ma alla fine del percorso, dopo un lungo vagare, ci ricongiungemmo con nostro padre: il mare. Quello che vi ho raccontato in poche parole è il mio primo ricordo come goccia, da allora questa stessa mia storia si è ripetuta un’infinità di volte, sempre uguale e sempre diversa. Dal mare salgo in cielo e poi torno sulla terra: questo è ciò che si ripete, però a volte vado verso est, a volte verso ovest, sud o nord. A volte cado a terra come pioggerella leggera primaverile, altre come violento acquaz83 zone estivo. Qualche volta scendo sottoforma di neve o di grandine. Sempre atterro in un posto diverso. Sono diventata albero, poi fiore e addirittura anche uomo. La mia vita scorre varia e infinita come il sole e le stagioni, la luna e le stelle. 84 IL GIORNO CHE GLI OROLOGI SI FERMARONO Un giorno successe all’improvviso che tutti gli orologi del mondo si fermarono. Gli uomini non c’erano abituati e si disperarono perché non sapevano più quando era l’ora di andare a lavorare, quando l’ora di mangiare e quella di dormire. Non sapevano quando andare a prendere i figli a scuola e quando potevano andare in ferie. Era il panico. Il sindaco disse: - Togliete persiane ed avvolgibili, quando sorge il sole è l’ora di alzarsi, quando il sole tramonta è l’ora di andare a letto. Era semplice, ma gli uomini avevano paura dei ladri. Il sindaco disse: - Se qualcosa vi verrà rubato lo stato ve lo restituirà - e assunse 1000 poliziotti che dovevano lavorare di notte per controllare che non ci fossero furti. Ed infatti nessuno rubò più perché chi voleva qualcosa denunciava di aver subito un furto e lo stato gli dava quello che voleva. 85 Poi all’improvviso andò via la luce in tutto il mondo. Gli uomini si disperarono, perché non potevano più usare i computer, i macchinari si fermarono e non funzionavano più le lampadine. Insomma non si poteva più lavorare negli uffici e nelle fabbriche. Gli uomini non sapevano cosa dare da mangiare ai propri figli. Fu di nuovo il panico. Il sindaco disse: - Ognuno coltivi l’orto nel proprio giardino e chi ha il giardino più grande lo faccia anche per chi non ce l’ha. Gli uomini ricchi si adirarono perché non erano abituati a lavorare per gli altri. Si ripopolarono equamente le campagne e gli uomini tornarono all’agricoltura e all’allevamento, svegliandosi all’alba e andando a letto al tramonto. Un giorno, qualche anno dopo, successe che si esaurirono i pozzi di petrolio. Gli uomini non potevano più usare le automobili ed i trattori. Non si potevano più fabbricare oggetti di plastica e asfaltare le strade. Fu ancora panico. Il sindaco disse: - Riunite tutti gli scienziati del mondo e fategli inventare un motore ad acqua. Così fu fatto. 86 Furono anni difficili perché gli uomini non erano abituati a lavorare la terra senza macchine sotto il sole. L’erba ricrebbe su tante strade e le comunicazioni erano difficili. Fu così che la vita tornò ad essere dura ma semplice, più piena di natura e nessuno rompeva le scatole al prossimo perché aveva da pensare per sé. Ma gli scienziati trovarono la soluzione e allora, di nuovo … ricominciò tutto da capo. 87 KAMÒ C’era una volta un paese sulle pendici dell’Himalaya dove gli abitanti, quando nevicava, raccoglievano la neve e ne facevano delle palle belle grosse e rotonde, che mettevano dentro un cestino all’ombra di un grande albero, nel punto più alto del paese. Era usanza che quando qualcuno era triste andasse sotto il grande albero, e piangendo versasse le proprie lacrime su una palla di neve. Esaurite le lacrime, lasciava andare la palla di neve nel ruscello ai piedi del grande albero, liberando così il dolore. L’acqua del ruscello scorreva veloce e tortuosa giù lungo la vallata fino ad arrivare alla pianura del paese di Kamò, dove si apriva ad irrigare delle grandi risaie. Gli abitanti del paese di Kamò raccoglievano il riso, che era il loro principale alimento, e la sera (poiché il paese era piccolo) si riunivano tutti, bambini, adulti e anziani, nella piazza, dove veniva acceso un fuoco e su questo veniva posta una grande pentola e vi si cuoceva il riso. Come per magia, una volta mangiato, tutti si sentivano pervadere da allegria e leggerezza e provavano una gran voglia di ridere. I vecchi raccontavano storie e tutti ridevano; i 88 giovani danzavano e i bambini si divertivano un sacco, giocando fino a non poterne più. 89 LA PRINCIPESSA BRUTTA ED IL PASTORE C’era, pochi anni fa, una principessa brutta, ma così brutta che chi se la trovava di fronte senza aspettarselo faceva un salto per aria dallo spavento. La stessa principessa era però ricca, ma così ricca che poteva esaudire tutti i propri desideri. I genitori cercavano di educarla in modo che avesse almeno un buon carattere. Ma la principessa era anche ribelle, ma così ribelle che, se si sentiva obbligata a fare qualcosa, col cavolo che lo faceva! Arrivata alla maggiore età, la principessa si comprò una bella moto da strada e una volta finita la scuola partì per le vacanze con questa e con una tenda a igloo da poter montare dove voleva. Visitò Vienna, Praga, Amsterdam e poi Parigi. Percorreva la campagna francese mentre si avvicinava la sera. Doveva trovare un posto dove poter montare la tenda per la notte, prese allora una stradina secondaria che la portò alla base di una collina dove c’era anche una sorgente d’acqua. Si accampò lì: montò la tenda, si rinfrescò con l’acqua, 90 preparò il bivacco dove arrostire le due salsicce acquistate per la cena, mangiò, poi si distese fuori dalla tenda per poter guardare le stelle e riflettere, finché si addormentò. Senza sapere quanto tempo fosse passato si svegliò di colpo perché si sentì toccare il viso. Era circondata da un gregge di pecore. Si alzò velocemente senza sapere se essere contenta o arrabbiata e vide un poco distante un ragazzo con un viso d’angelo ed occhi spenti che a sua volta fece uno scatto e domandò se c’era qualcuno. Parlarono, e poi parlarono di nuovo, e di nuovo ancora. Gli occhi di lui non videro la bruttezza di lei, e gli occhi di lei colsero la bellezza e la sensibilità di lui, insomma si innamorarono così su due piedi con la velocità di un battito di ali. La principessa restò per tutto il resto delle vacanze a casa del ragazzo, vivendo in povertà, semplicità, ma divertendosi un sacco e piena di entusiasmo. Arrivò il momento di rientrare al castello ed entrambi erano disperati. Piansero insieme e si salutarono con la promessa che si sarebbero rivisti presto senza sapere se fossero parole vane o reali. La principessa partì ed il pastore restò con le sue pecore, portandosi 91 dietro, entrambi, il ricordo di quei giorni d’amore. Fu un anno difficile. L’ultimo anno delle superiori. La principessa non riusciva più a fare niente, non le riusciva di studiare perché la testa se ne andava altrove. Le mancava il suo pastore cieco, forse l’unico che si fosse innamorato di lei, e sicuramente l’unico con cui aveva vissuto insieme. Perse il sonno, non mangiava più, non voleva vedere né parlare con nessuno, viveva di ricordi. La madre, preoccupata, intuì che quelle dovevano essere pene d’amore e capì senza parole quello che era successo; una sera disse alla figlia: - Nella vita le cose non sempre sono facili, a volte bisogna soffrire per poter essere contenti e a volte non basta neppure questo perché i momenti felici si alternano a quelli tristi come in una giostra. Bisogna saper aspettare e non arrendersi mai. Bisogna lottare, ma anche sapere quando è il momento di mollare. Avere pazienza e fiducia in se stessi, nelle verità che solo noi conosciamo e che non valgono alcun consiglio. Ci sono dei doveri che rendono più forti e che dobbiamo 92 rispettare, ma questo non toglie che la cosa più importante sia seguire la propria strada, ovunque essa porti, e questo è quello che devi fare tu. Valuta cosa è importante per te, pensa a tutte le difficoltà che incontrerai, e segui questa strada, rispettando sia gli altri sia te stessa. Essendo leale agli altri e a te stessa. La principessa scoppiò in lacrime e raccontò tutta la sua storia alla regina madre. Chiaramente le madri preoccupate non sanno mantenere un segreto e quella sera il re venne a conoscenza del vissuto della figlia. Lui non era un romantico come la moglie, ma da uomo pratico qual’era non aspettò cinque minuti ed al mattino la principessa lo trovò a fare colazione. Il re le disse: - Devi pensare al tuo futuro, tu sei una principessa, hai un regno da guardare. Ti devi laureare, sposare con un buon partito, soprattutto un uomo intelligente e di buon carattere che sappia aiutarti a governare. Gli innamoramenti vanno e vengono, e poi un ragazzo cieco pensa i problemi che ti potrebbe procurare. Ma la principessa i problemi (ci saranno pure stati) proprio non li vedeva. 93 Arrivò il tempo dell’esame finale e la principessa, a fatica, lo superò. Con tutta la felicità che aveva preparò lo zaino, caricò la moto, salutò i genitori con la promessa di tornare dopo qualche mese e se ne partì col cuore in gola. Mai le strade erano state tanto belle, mai la felicità di un qualcosa appena sbocciato più grande, mai il futuro era parso più roseo, mai e poi mai vi erano state parole adatte a descrivere le emozioni di quell’estate. Finalmente arrivò e non vide le pecore. Il tempo passava ed il pastore non tornava a casa. Preoccupata andò in paese, vide un signore di una certa età che le sembrava del posto, lo fermò e gli chiese se avesse notizie del pastore - È morto, una macchina lo ha investito mentre attraversava la strada, è successo circa un mese e mezzo fa, mi dispiace. 94 MARGHERITA Margherita cercava un quadrifoglio. Verde era il prato, dal centro non ne vedeva i contorni, solo una quercia lontana verso ovest. Osservava attentamente fra l’erba i trifogli che si mescolavano fra loro, a volte le sembrava di vedere quattro foglie, ma non era così. Aleggiava una lieve brezza ed il sole era tiepido. Nuvole bianche si stagliavano contro un cielo azzurro, pulito, limpido. Margherita era allegra. Con le mani carezzava l’erba e con lo sguardo contava le foglie. Prima vicino e poi sempre più lontano, poi faceva un passo, girando intorno a spirale dal centro verso l’esterno e di nuovo osservava con le mani e con gli occhi. Il primo quadrifoglio lo avrebbe regalato a suo fratello, perché portasse fortuna a entrambi. Il secondo lo avrebbe seccato e ne avrebbe fatto un quadretto da appendere in camera sua: un quadrifoglio a sinistra, tre trifogli a destra e fili d’erba con qualche piccolo fiore qua e là. Dicono che la fortuna prima o poi arrivi a chi la insegue e Margherita trovò entrambi i 95 quadrifogli al calare del sole, quando le nuvole s’erano tinte di rosa . La bambina inseguiva la sua lunga ombra andando verso casa. Aveva il sorriso sulle labbra. Poco dopo il giorno si addormentò. 96 NEVE, SOLE, INVERNO C’era una volta una ragazzina che si chiamava Neve. Era bella e pura, ingenua e buona. Di lei erano follemente innamorati due uomini; si litigavano, si odiavano, tutti e due l’avrebbero voluta per sé. Il primo uomo si chiamava Sole, era biondo, era forte e caldo, passionale ed emotivo. Il secondo uomo si chiamava Inverno, era moro, era freddo ma sensibile, razionale e calmo. Entrambi le chiesero il suo amore e lei si ritrovò indecisa su quale scegliere perché le piacevano entrambi. Chiese tempo per decidere. Un giorno chiese a Sole: - Tu dici che mi ami, ma cosa farai per me? - Riscalderò le tue giornate, porterò luce nei tuoi pensieri, e farò sciogliere il tuo corpo con le mie carezze. Qualche giorno dopo pose la stessa domanda a Inverno e questo rispose: - Saprò capirti in ogni tuo momento, saprò darti sicurezza quando ne hai bisogno, e ti manterrò sempre giovane con il mio amore. 97 Neve vedeva in entrambi aspetti diversi a cui avrebbe con tristezza rinunciato e non sapeva cosa fare, infine decise. La prima volta che si ritrovò sola con Sole gli propose: - Io sarò la tua donna, la tua amante, la tua amica dalle 6 di mattina alle 6 di sera, ogni giorno, finche tu lo vorrai, però non chiedermi di più, ti darò tutta me stessa ma non sarò soltanto tua. Spero che tu accetti la mia proposta altrimenti dovrai rinunciare a me. Allo stesso modo disse ad Inverno: - Io sarò la tua donna, la tua amante, la tua amica, dalle 6 di sera fino alle 6 di mattina, ogni giorno, finché tu lo vorrai, ti darò tutta me stessa , ma non sarò soltanto tua. Spero tu accetti la mia proposta altrimenti dovrai rinunciare a me. I due uomini andarono in crisi, combattuti tra dubbi, tristezza e angoscia, ma infine, non volendo rinunciare a lei, accettarono la proposta. All’inizio fu difficile, perché entrambi si logoravano dalla gelosia, poi, pian piano, grazie al carattere di Neve, riuscirono a smettere di pensare all’altro e ad accontentarsi dei momenti condivisi. 98 Neve di giorno si scaldava e si scioglieva al sole ed alla sera si rinfrescava e rinnovava la sua giovinezza. 99 TOMBOLINA Se è vero che della vita bisogna accettare anche la sofferenza, diversamente la pensava chi conosceva Tombolina, una ragazzina di tredici anni dai riccioli ribelli, grassa e tonda come una palla. Tombolina viveva in montagna e passava le sue giornate a cercare e raccogliere un’erba che aveva il potere di regalare bei sogni a chi ne beveva l’infuso. Le persone che soffrivano d’insonnia andavano da lei, così anche chi aveva dei desideri irrealizzabili e ne era afflitto. Lei li faceva sedere, metteva al fuoco il pentolino con l’acqua e preparava l’infuso. Una volta bevuto, gli amici si sdraiavano all’aperto sulle stuoie e si addormentavano come ghiri, sognando uno di quei sogni che sembrano veri e che quando ti risvegli li ricordi come fosse stata la realtà. Successe però che un giorno si sbagliò e raccolse oltre alla sua erba un ciuffo di un’erba sconosciuta e la persona che andò da lei e ne bevve l’infuso invece di addormentarsi cominciò a balbettare. Fu così che tutti cominciarono a dire che l’erba di Tombolina portava sfortuna e lei fu isolata e perse tutti i suoi amici. 100 Diventò triste, tanto triste che perse il sorriso e cominciò a dimagrire, si chiuse in casa e non voleva più vedere nessuno. Trascorreva il tempo e le cose non cambiavano, fu così che gli animali del bosco si riunirono e decisero di fare qualcosa per far tornare l’allegria a Tombolina. Decisero di regalarle una collana con una pietra di luna, cioè presa proprio dalla luna, solo che non sapevano come fare per andarla a prendere così lontano. La volpe, che era intelligente, disse: - Montiamo tutti sulle spalle uno dell’altro, partendo dai più grossi fino ai più piccoli, fino ad arrivare alla luna. Così fecero: i primi furono gli elefanti, poi i rinoceronti, gli ippopotami, su … su, fino alle pulci, che toccarono la superficie della luna. Presero la pietra bianca più bella e più tonda che c’era e la passarono di mano in mano giù fino alla terra. Una scimmia preparò un cordoncino intrecciando dei peli presi dalla coda di un cavallo. A una ghianda incassò la pietra di luna, ci infilò il cordoncino e la collana fu pronta. Partirono tutti insieme e bussarono alla porta di Tombolina, che sorpresa e contenta aprì. 101 La collana era bellissima, Tombolina sorrise, e da quel giorno ricominciò ad ingrassare. 102 ZETA JONS Salì le scale scendendo in ascensore. Arrivò all’attico, prese la chiave, aprì la porta e si ritrovò sulla strada principale. Doveva percorrere 500 metri per arrivare in ufficio a piedi, 2 km se ci andava in bicicletta, 10 km se ci andava in moto, 15 km se ci andava in macchina. Visto che il tempo che impiegava era lo stesso qualunque mezzo utilizzasse, alternava la macchina all’andata (mattina presto) e i piedi al ritorno. Aveva un fratello maggiore di cinque anni più piccolo di lui e una sorella minore nata il suo stesso giorno, il padre e la madre si erano sposati e divorziati cinque volte sempre fra di loro; avevano fatto altrettanti viaggi di nozze e figli, e si litigavano e riappacificavano alternativamente un giorno sì e uno no. L’ufficio era situato al piano interrato di un blocco di 25 piani, vi crescevano gli alberi e il sole, quando c’era, vi risplendeva luminoso. Zeta Jons era un allevatore ma, poiché stava in città, aveva dovuto adattarsi un po’. Avevano dovuto adattarsi un po’ anche le stesse mucche che si nutrivano di pomodori pelati 103 in barattolo (compreso il barattolo) e producevano un latte rosso molto nutriente ricco di ferro. Con la sua giacca arrivò quella mattina in ufficio, prese il furgone e andò a fare rifornimento di pomodori ai grandi magazzini, una volta rientrato si spogliò, indossò la tuta da lavoro e cominciò a mettere le lattine nelle mangiatoie. Il problema più grosso di Zeta Jons era dove mettere quell’enorme massa di cacca che le sue mucche accumulavano ogni giorno, e che i condomini non apprezzavano facendo continue querele. Dopo aver studiato il problema in tutte le sue prospettive, arrivò ad inventare una macchina nella quale introduceva le feci, questa le seccava, le riduceva a cubetti e diventavano un ottimo combustibile per stufe a cacca da abitazione. Poi inventò le stufette a cacca. Affittò il terzo piano dell’edificio e mise su la fabbrichetta. Insomma fece una baracca di soldi, diventò così importante che lo elessero pure sindaco. Morale della storia, anche le cose più strane non è detto che siano impossibili e anche se siamo nella cacca può darsi che si riesca ad uscirne fuori e diventare pure ricchi. 104 INDICE 9 31/07/07 10 09/08/07 12 16/01/08 13 28/07/08 14 03/09/08 15 03/09/08 16 19/09/08 17 19/09/08 18 19/09/08 19 30/09/08 20 15/12/08 22 17/12/08 24 8-9/01/09 25 12/01/09 26 02/03/09 27 26/03/09 28 01/04/09 29 28/04/09 30 06/05/09 31 07/05/09 32 28/05/09 33 11/06/09 35 15/06/09 36 25/06/09 37 26/06/09 39 9/07/09 40 Antonino e lo sciopero delle finestre 43 Badù 45 La rete tessuta con i capelli 49 Mirella, apprendista strega 51 Pablito 58 Piedi lunghi quanto tante parole 61 Stanze 67 Una mucca, un maiale 71 1984 74 Arturo e i pacchi di ghiaccio 77 Gegia la tartaruga 81 Storia di una goccia d’acqua 85 Il giorno che gli orologi si fermarono 88 Kamò 90 La principessa brutta ed il pastore 95 Margherita 97 Neve, sole, inverno 100 Tombolina 103 Zeta Jons Prima Edizione Settembre 2009