Libertà Edizioni

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Libertà Edizioni
Libertà Edizioni
Francesca Moretti
SOTTO L’ERBA IL CIELO
POESIE E RACCONTI
Libertà Edizioni
A mio padre
SOTTO L’ERBA IL CIELO
31/07/07
Sale
la discesa
di sentieri marini
che travolgono
la spiaggia
da meduse abitata.
Discende
dal ponte
che conduce
dai suoi pensieri
ai miei
per potersi
avvicinare.
Il fiume
raffredda
sudori estivi
e porta acqua al mare.
Nel mare annega
la voglia di
sognare ancora
e
sognare ancora.
9
09/08/07
Davanti a me
il mio viso
non si rispecchia
Crescono parole
prive di senso
le guardo
e me ne compiaccio
Lo specchio
dell’anima confusa
riflette ignaro
e muto
Il monitor mostra
pensieri
altrimenti vacui
e li fissa
Io poi li rileggerò
e mi stupirò
ricordandomi
un giorno fra tanti
I pensieri
sono attimi
di presenza
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nell’assenza della
monotonia
del quotidiano
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16/01/08
Piedi veloci corrono
su un terreno sconosciuto
distanziando la propria ombra.
Mentre la paura alberga in menti inquiete.
Mani tremanti raccolgono frutti troppo maturi
che si sfanno in bocca, dolcissimi.
Mentre la sorpresa stupisce in menti attente.
Arrivare al di là di ciò che possiamo
è la meta di chi scommette sui propri desideri.
Mentre l’incertezza risiede in menti sagge.
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28/07/08
La strada dissestata scorre in discesa
fra sassi e pozzanghere, pezzi di terra.
La memoria percorre viaggi lontani
da avventure ripetute.
Cammino, con te al fianco, mio bastone,
e perderti equivale a cadere.
Mi rialzo con fatica maggiore.
Ai lati erba verde ed alti alberi.
L’ovvio non mi è mai stato comprensibile,
oggi meno che mai.
Difficile diventa tutto ciò che è semplice e
semplice ciò che è difficile,
in questo imbroglio di realtàimmaginazione.
Mi perdo in solitari monologhi,
speranze afflitte,
voglie sconfitte,
e pessimismo umano.
Torno a cercare,
dentro e fuori,
la radice conficcata in quella terra dissestata,
a sostegno di questo misero corpo.
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03/09/08
Dirompenti risvegli al mattino,
l’alba asciuga
il sudore della notte.
Cammino solitario verso il sole
coprendomi di verde e di azzurro
appagato da sogni infantili
vivendo un senile quotidiano.
Marroni le foglie dopo l’arsura estiva,
piango lacrime di gioia
per la presenza assente della mia realtà.
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03/09/08
Asfalto bollente
macchine che vi scorrono sopra
Mezzanotte di un giorno qualsiasi di novembre
Aspetta
Lady conturbante, seduta, gambe incrociate
attira gli innamorati occasionali
Dono di un paradiso artificiale,
qualche spicciolo, poco amore
Chi acquista dignità
chi la perde
Punti di vista
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19/09/08
Dondolare
appesi a un filo
tra felicità e tristezza.
In assenza di aria un moto perpetuo,
immersi nell’aria
mediocrità.
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19/09/08
Icaro rubò al cielo le illusioni
La terra rubò a lui il coraggio
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19/09/08
Silenzio
Piove
Tambureggia l’acqua
Sul suolo umido
Invento ciò che sembra
“Coraggio”
Mi dicesti
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30/09/08
Ci siamo corsi incontro
dicendoci addio
solitudini piene di compagnia
forse …
domani l’alba rischiarerà
pensieri
troppo lontani
per essere raggiunti
Immagino
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15/12/08
intransigenze ricche di povertà
spettacoli superficiali per non pensare
ridicolo ascoltare parole vuote
mordersi la coda
sorridere per niente
sognare la realtà
immergersi in se stessi
santificare le feste
bestemmiare verità
ostacolare la velocità
rallentare
pensieri e azioni
riflettere
ascoltare il silenzio
silenzio
lentezza
arrivi quando parto
non ci incontriamo
ledere dignità
perverse frustrazioni
giacere immobile
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masticare ingiustizia
rincorrere un passato
scivolare nel futuro
essere se stessi
solo per se stessi
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17/12/08
Le parole esprimono concetti, a volte raccontano fatti, o inventano storie.
Le parole esprimono opinioni, a volte raccontano bugie o inventano poesie.
Le parole dicono la verità tante volte quante
mentono.
Le parole sono oggettive ma il significato è
soggettivo, l’interpretazione è soggettiva.
Le parole illudono, rallegrano, divertono,
gratificano.
Le parole feriscono.
Le parole fanno compagnia, comunicano,
parlano.
Le parole sono nel quotidiano la normalità,
anche se non per tutti.
Le parole si intrecciano
rotolando libere,
si allungano contraendosi
inventano il presente.
Soffiate come vento,
agitate come mare,
sono ciò che sono,
per me, per te.
Le parole penetrano
profonde
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scolpendo solchi
dove scorre linfa.
Sono talee che
attecchiscono
se lo vuoi,
si disperdono
se lo vuoi.
Rimescolio di 21 lettere, originariamente
solo suono a cui è stato attribuito un significato. Ogni popolo ha la sua lingua.
Ogni popolo ha collegato al suono un segno
e all’insieme di segni ha dato un significato,
i significati sono gli stessi per tutti i popoli,
i segni diversi e a causa di questo non ci capiamo.
Liberi di fraintendersi
giocando con la pelle
comunichiamo
al di là del vento
e del mare.
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08-09/01/09
Ti racconto la mia malinconia
sussurrata a voce alta,
piango senza lacrime una gioia che non sento.
Scaglio sassi verso l’alto
per colpire colui che sa,
e questi mi colpiscono, ricadendo, lapidandomi.
Non c’è giustizia nel caos della vita,
per i troppi
che non hanno colpa di essere nati
lì e in quel momento.
Afghanistan
Israele
e troppi paesi ancora.
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12/01/09
Crocevia di intenzioni
Attraverso cui si diramano
Le direzioni come possibilità
Scelgo una via
Casualmente
E casualmente mi ritrovo al crocevia
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02/03/09
Brevi tormenti idilliaci
rendono incandescente
l’aria
mentre
sfuggono gli sguardi
dall’altrui piacere
per ritrovarsi soli,
ma con se stessi.
Intanto
intensa ritorna
l’incessante
vacuità dell’oggi
e
si spaccano massi,
granito e marmo,
nel giorno dopo
quello del piacere.
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26/03/09
Malandrine aspettative
domandarono all’uditore ironico:
cos’è che vuoi?
Non voglio
riempire
panchine in ferro
calpestando erba.
Goliardici desideri
domandarono all’uditore attento:
cos’è che vuoi?
Non voglio fissare
il cielo o il muro
davanti a me.
E mentre ascoltava il mormorio
del vento di maestrale …
… Invecchiò
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01/04/09
Andirivieni di logiche anacronistiche
nel tempo che fu.
Nell’oggi tratto luoghi comuni
con sorprendenti novità e liberi paesaggi.
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28/04/09
Spaccati di vita
lustrati a lucido
traspaiono polvere di terra.
Andirivieni di
petulanti raziocini,
arroventati
da fornaci di mattoni,
ammirano
la trasparenza.
E tutto è così
come appare.
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06/05/09
Antiche coniugazioni
di intenti generosi
sopraffanno
isolate esplosioni
primaverili.
Ritornano
i passi di rondini
migranti,
dal nido al cielo,
volteggiano azzurre.
Dopo la pioggia
cala silenzio raro,
tanto prezioso
quanto
uragano
nell’universo.
Sale memoria,
futuro imprevedibile
ritorna
da lontano
oggi.
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07/05/09
Liberi di fraintendersi
sotto questo cielo
io e te
da domani
azioni significanti
da non voler comprendere,
perché fluido
è il divenire.
Se la notte segue il giorno
chi segue la notte?
Il sole e la terra
si incontrano
al crepuscolo
non sfiorandosi mai.
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28/05/09
L’acqua lava la polvere
riflette lo specchio la trasparenza
raffigurando immagini oblique.
Ancora mi dilungo
a ingannare il tempo,
preda di passaggi ostacolati
dall’imbrunire dell’alba.
Ritorno da fugaci sensazioni
indietro
verso l’indomani di parole
sussurrate ad alta voce,
perché capire non è facile.
Sorride l’allodola
del nido del cuculo,
ed io plasmo argilla
perché la forma prenda vita.
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11/06/09
Trasparenze ingombranti
affilano lame ormai sbeccate
e tu ti muovi sornione
all’interno di quattro mura
esasperato
dall’insperata persistenza.
Dal recipiente fuoriesce
lava incandescente
che riempie
un mosaico calpestato
da troppi piedi.
Ed io sfoglio pagine
di un diario pubblico
camminando avanti pur
guardando indietro.
Il vento agita le foglie
come i miei capelli grigi e tinti.
Fluisce aspettativa da una recondita
seconda vita … pensata
ma non desiderata, solo voluta.
Come possibilità
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il cavaliere errante
trafigge il drago
con una spada spietata
dritta nel cuore.
Indietreggia la puzzola dall’istrice.
Io canto canzoni stonate
perché non sempre piove di domenica
e poi porto con me l’ombrello.
Salgo sul proscenio in punta di piedi,
applausi e fischi a non finire,
non ricordando la mia parte
divento rossa come un peperone,
il regista si arrabbia:
mi licenzia.
Vorrà dire,
se ho fortuna,
che farò qualcos’altro.
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15/06/09
Marchingegni arrugginiti
quanto le mie membra
chiedono olio
per sopravvivenza
L’acqua li ha lavati
troppo a lungo
finché rossa è superficie
Corrosa e distorta
poiché
Recuperare l’irreversibile
è come chiedere
al rinoceronte
di volare
con leggerezza
Semplicemente
Non può
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25/06/09
Melodia sfuggente
tramandi ricordi ancestrali
privi di trama
che accarezzano
i capelli
Sovente ritorna
l’armonia
prima del tuono
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26/06/09
Volete libero Gesù o Barabba?
La Dea bendata
Miete grano
Ancora acerbo
Per la propria
Ingordigia
Pilato si lava le mani
Con acqua di fonte
Il Padre acconsente
Ai propri piani
Segreti
Insondabili
Ingiusti
Suoi
La Dea bendata arriva
Anche se non la vuoi vedere
E ti porta con sé
Anche se non la vuoi seguire
Ti seduce
Non c’è più domani
Non c’è più futuro
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Non c’è più niente
Se non un vuoto
Ed un silenzio
Perenni
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09/07/09
Immersa nella palude dei miei pensieri,
galleggio a stento.
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ANTONINO E LO SCIOPERO DELLE
FINESTRE
Antonino era vicino alla pensione e aveva
un compito: aprire tutte le finestre al mattino e chiuderle tutte alla sera. Il personale
del comune di Roma si aspettava questo da
lui, e lui lo faceva diligentemente.
Conosceva le finestre una per una: c’era
quella che strusciava, quella bloccata , quella coi cardini forzati, quella che sembrava
oliata, insomma erano tutte diverse le une
dalle altre.
Ogni cinque anni toglieva le persiane, le
passava con la cartavetra, poi le riverniciava
e le rimetteva al loro posto come nuove. Gli
voleva bene, lui, alle sue finestre!
Poi l’economia andò in crisi, mancavano i
soldi, si pensò che il lavoro di Antonino lo
potessero fare anche gli altri impiegati e fu
licenziato.
Quando le finestre, al mattino, non videro
Antonino, pensarono che si fosse ammalato,
poi udirono i pettegolezzi dei colleghi e decisero che se Antonino non fosse stato riassunto loro avrebbero fatto sciopero a oltranza.
Fu così che il mattino dopo nessuno riuscì
ad aprire una finestra. Provarono tutti gli
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impiegati, anche col piede di porco, ma non
ci fu verso. Accesero le luci.
Il giorno dopo le finestre si aprirono, ma a
metà mattinata tutte d’accordo sbatacchiarono così forte che tre vetri si ruppero. Gli
impiegati accorsero a togliere i pezzi di vetro e si tagliarono tutti uno dopo l’altro.
Il terzo giorno quattro maniglie girarono a
vuoto, il quarto si bloccarono le persiane, il
quinto pioveva a dirotto e le finestre erano
tutte spalancate. Insomma non si sapeva più
che fare con queste finestre.
Il sindaco, interrogando gli impiegati, capì
che i problemi con le finestre coincidevano
con il licenziamento di Antonino e allora
decise di riassumerlo.
Ma Antonino era orgoglioso. Rifiutò
l’offerta ed aprì un piccolo negozio di serramenti con sua moglie, e con questo riuscì
a sbarcare il lunario.
Nel frattempo in comune le finestre non
trovavano pace, facendo impazzire gli impiegati. Finché si dovettero smontare e fu
proposto ad Antonino di prenderle con sé.
Antonino le restaurò una per una, parlandoci dolcemente per smorzare la rabbia, e le
rivendette a persone di sua fiducia sicuro
che ne avrebbero avuto cura. Il negozietto
andava bene e non si pentì della sua scelta.
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Il comune invece spese un sacco di soldi per
acquistare tutti gli infissi nuovi, più di quanto avrebbe speso per pagare lo stipendio del
nostro Antonino fino ad arrivare alla pensione.
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BADÙ
Una volta, su un’isoletta sperduta del Pacifico, i vecchi del villaggio, alla sera, scrivevano con un bastone le proprie preoccupazioni sulla sabbia, in modo che le onde e il
vento le portassero via ed al mattino non ci
fossero più.
Quella sera i vecchi chiesero al mare che
non facesse più crescere Badù, una ragazzina nell’età dello sviluppo, che già misurava
un metro e ottanta di altezza.
Le preghiere non sempre vengono esaudite,
e Badù l’anno dopo era un metro e novantacinque .
I vecchi ripeterono la cerimonia e scrissero
la preoccupazione tanto grossa che
un’aquila poteva leggerla dall’alto dei cieli.
Ma i cieli evidentemente volevano che Badù fosse molto alta, perché, come l’anno
precedente, acquistò altri 15 centimetri.
Ogni anno si chiedeva che la ragazza smettesse di crescere ed ogni anno questa cresceva sempre più.
I vecchi allora si domandarono il perché,
ma non trovarono risposta finché non giunse un periodo di grande siccità e l’acqua potabile finì.
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Fu così che si scoprì il grande dono di Badù: lei con le sue lunghe braccia allungava
le caraffe fino alle nuvole cariche d’acqua
che passavano nel cielo, riempiendole di
acqua piovana.
Così tutti si dissetarono e capirono che forse
c’è sempre un perché.
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LA RETE TESSUTA CON I CAPELLI
C’era una volta un piccolo paese su un’isola
dove gli abitanti si facevano crescere i capelli lunghi fino ai piedi. Sia uomini sia
donne portavano un ciuffo alto sulla testa
fermato da un bastoncino appuntito e decorato che il capo villaggio costruiva e regalava alla nascita.
Una volta l’anno veniva celebrata una festa,
nella quale si donavano noci di cocco e banane al dio del mare e lo si ringraziava per i
frutti del mare regalati per sfamare la popolazione. In questa festa venivano tagliati i
capelli a tutte quelle persone che li avevano
lunghi fino ai piedi e con questi, nei mesi
successivi, le donne avrebbero tessute le reti
da pesca per i propri uomini.
Le reti così costruite erano molto resistenti e
non si consumavano facilmente, erano nere
e lucide e poi avevano con sé un po’ di tutti,
e questo era considerato propiziatorio.
Un giorno, a quattro uomini che pescavano
sulla loro barca, successe una cosa impossibile: fra tutti i pesci che erano nella rete, ce
n’era uno molto più grande degli altri: era
blu, con capelli biondi sulla testa e sapeva
parlare. Presi dallo stupore i quattro uomini
decisero che non si poteva uccidere un pe45
sce che sapeva parlare e aveva i capelli, così, una volta sistemati gli altri pesci sulla
barca, deposero il pesce gigante nell’acqua
avvolto dalla rete, per portarlo vicino alla
riva ed esaminarlo meglio.
Il pesce piangeva non conoscendo il suo destino.
Il capo villaggio interrogò il pesce gigante
che gli raccontò la sua storia:
- Sono nato in un paese del nord, dove
ghiaccio e neve nascondono il mare
quando la notte è lunga quanto il
giorno. Da allora ho vagato verso sud
da solo, mosso da un’irresistibile istinto e profumo che mi faceva decidere che questa era la direzione giusta, e scappando agli squali che mi
rincorrevano ovunque. Finché ho trovato ciò che inseguivo: l’odore delle
vostre reti. Così mi avete catturato.
Il capo villaggio era perplesso. Non sapendo
cosa altro domandargli e volendo riflettere
sulle parole appena udite, si ritirò per la notte, sperando che questa portasse consiglio.
Al mattino tornò sulla riva e trovò il pesce
gigante che si mangiava i capelli che dal
giorno precedente erano cresciuti di un
buon palmo.
- Perché ti mangi i capelli?
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- Perché crescono troppo velocemente
e se non li mangio mi impediscono di
nuotare.
Il capo villaggio se ne andò e rifletté anche
su queste parole.
Il giorno successivo ritornò dal pesce blu
con sicurezza:
- Ho una proposta da farti: tu ci doni
ogni dieci giorni i tuoi capelli e noi ti
lasciamo vivere nella nostra baia dove non ci sono squali.
Non è che avesse molta scelta, comunque il
pesce gigante accettò. E fu finalmente felice
della sua decisione due anni dopo, quando
una pesciolina gigante dai capelli rossi, attratta dall’odore dei capelli e della sua stessa razza, si ritrovò invischiata nelle reti come era successo a lui. Si sposarono ed ebbero molti figli.
Nel frattempo nel villaggio le usanze erano
cambiate. Poiché non era più necessario farsi crescere i capelli visto che i pesci giganti
provvedevano per questo, gli abitanti del
villaggio chiamarono un famoso parrucchiere dalla città della terra grande.
Questi tagliò i capelli a tutti, facendo le più
bizzarre capigliature con messe in piega voluminose e stravaganti. La tradizionale festa
annuale fu trasformata in una gara per
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l’acconciatura migliore e tutti vissero felici
e contenti … anche così.
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MIRELLA, APPRENDISTA STREGA
C’era una volta Mirella, una giovane apprendista strega di 146 anni. Viveva a Tiglio, in una piccola casetta nel bosco, circondata da mirto e con un albero di nocciolo a fianco.
La sua specialità erano i dolci magici, che
preparava con cura e propinava agli ignari
assaggiatori. Questi dolci, preparati con ingredienti che solo lei conosceva, avevano
diverse capacità: c’era quello che faceva
perdere i capelli, quello che faceva venire i
brufoli, quello che faceva invecchiare, quello che provocava la carie, quello che faceva
venire le verruche e così via. Bastava che
una persona dicesse a Mirella qualcosa di
storto che questa, tempo qualche giorno,
trovasse il modo di farle gustare uno dei
suoi dolci.
Fra le varie ricette, c’era la torta che faceva
ingrassare. Mirella l’aveva cucinata
un’infinità di volte per le sue amiche e anche per le nemiche. Questa volta la preparò
per il suo maiale, che ingrassò così tanto da
non stare più nel cortile. Fu ammazzato e se
ne ricavarono tante salsicce che Mirella
vendette al mercato del sabato.
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Le salsicce erano così tante che i soldi che
guadagnò le bastarono per tutto l’anno. Mirella si mise in affari. Costruì un recinto più
grande, comprò una coppia di maiali che
procrearono tanti maialini. Una volta cresciuti, li nutrì con il suo dolce magico ed
ebbe così tanti maiali grassi grassi da vendere come salsicce.
L’anno dopo raddoppiò, allevando due coppie di maiali, l’anno dopo quattro e così via.
Accadde l’imprevisto che le salsicce mantenessero le qualità del dolce magico e chi le
mangiava ingrassasse a dismisura. Fu così
che tutti diventarono grassi grassi, non c’era
alcuno sotto gli 80 chili.
Nessuno sapeva perché e come questo fosse
successo. Pian piano le persone si abituarono ad essere grasse e più uno era grasso e
più era considerato bello. Sulle riviste
c’erano foto di personaggi famosi tutti obesi.
Fu così che cambiò la moda prima e la storia poi.
Infatti i giovani, essendo obesi, non ce la
facevano più a combattere le guerre. Nel
mondo, grazie a Mirella, da allora in poi regnò la pace.
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PABLITO
Viveva tanti anni fa, in un paesino del Brasile, Pablito, un ragazzo di una bellezza disarmante. Fin da quando era bambino chiunque lo vedeva gli ripeteva quanto era bello e lui crebbe innamorato di se stesso e della sua immagine.
Ogni giorno, poiché gli specchi non esistevano ancora, per potersi guardare andava
sul fiume e si specchiava nelle acque limpide. Un giorno, mentre il ragazzo stava ammirando la sua immagine, all’improvviso un
coccodrillo uscì dall’acqua, repentinamente
lo avvolse nelle sue fauci e lo ingoiò.
Per combinazione passava di lì un re con
due servitori che, vista la scena, corsero ad
uccidere il coccodrillo. Con un coltello gli
aprirono la pancia e riuscirono a tirare fuori
il giovane, stordito, ma ancora vivo. Una
volta prestati i primi soccorsi, misero il ragazzo sul carro con cui erano venuti e si avviarono verso il paese dove trovarono la
madre che, preoccupata, fece portare il giovane nel suo letto dove lo avrebbe curato fino alla completa guarigione.
Pablito guarì in tre mesi e volle a quel punto
andare a sdebitarsi dal suo salvatore. Partì
col suo cavallo e dopo quattro settimane ar51
rivò alla fortezza di … dove abitava il re
con i suoi servitori.
- Sire ti ringrazio innanzitutto per avermi salvato la vita, poi vorrei che tu
mi chiedessi di fare qualcosa per te
per potermi sdebitare.
- La vita è corta ma anche lunga, capiterà un momento in cui avrò bisogno
di te, allora ti chiamerò.
- Ti prego di chiedermi qualcosa ora,
perché io non posso andarmene senza
averti ringraziato concretamente.
- Allora ti chiedo una cosa: vai sulla
cima del monte più alto delle Ande e
portami un uovo di aquila tenendolo
al caldo in modo che ne possa nascere
l’aquilotto.
Pablito partì sul suo cavallo con un sacco
sulle spalle, percorsero prati, foreste,
colline e montagne finché arrivarono alla
base del monte più alto da dove dovette
continuare a piedi da solo. Camminò a
lungo finché non ci fu più sentiero e dovette arrampicarsi fra rocce e sassi. Rischiò di cadere più volte ma, alla fine,
arrivò in cima e trovò il nido con due
uova.
Avvolse un uovo in un fazzoletto e se lo
legò intorno al petto in modo che stesse
al caldo, come aveva ordinato il re. Il vi52
aggio di ritorno fu veloce o almeno così
a lui sembrò, contento del successo della
sua missione.
Arrivato di fronte al re gli dette il suo
uovo. Il re rimase un po’ perplesso e gli
disse:
- Ma questo è un uovo di cornacchia!
- Scusami sire, ripartirò e ti porterò
l’uovo che desideri.
- Va bene, però questa volta ti chiedo
di portarmelo dal monte più alto delle
Alpi.
Pablito prese una nave che lo avrebbe portato nella vecchia Europa. La nave approdò,
cinque mesi dopo la partenza, a Lisbona e
da lì, a piedi, Pablito attraversò Portogallo,
Spagna, Francia, fino ad arrivare alle Alpi.
Era estate e le nevi erano sciolte, il Monte
Bianco si ergeva alto ed imponente sui paesaggi intorno. Pablito salì verso la vetta della montagna. L’unico nido d’aquila che vide, si trovava su un pendio verticale dove
era impossibile andare. Non c’era proprio
nessuna possibilità. Pablito dovette arrendersi.
Mortificato tornò dal re e gli espose il suo
fallimento, chiedendo però di poterci provare ancora.
- Non te la prendere, l’impresa è difficile, ti do un’altra possibilità, questa
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volta ti chiedo di andare a prendermi
l’uovo di aquila sulla cima
dell’Himalaya.
Pablito partì anche questa volta con le migliori intenzioni, attraversò il mare e molte
terre, deserti e città, fu il viaggio più lungo.
Quando arrivò alla base dell’Himalaya era
già stanco e si fermò due giorni per riposarsi prima di iniziare la salita.
L’ascesa fu la più dura perché il monte più
alto del mondo era difficile da scalare. Arrivato in cima trovò il nido d’aquila con le
due uova: ne prese una, se la avvolse di
nuovo intorno al petto e cominciò la discesa.
Mentre camminava per tornare a casa sentì
uno strano rumore, guardò l’uovo e vide che
questo si era riempito di crepe.
- Come faccio, come non faccio - pensava; per
fortuna c’era una casa sulla sua destra e così
chiese ai residenti una pagnotta per nutrire
l’aquilotto appena nato.
L’aquilotto se ne stava appollaiato sulle
spalle, e cresceva a dismisura ogni giorno
che passava. Mangiava sempre di più e pigolava sommessamente. Pablito, oltre al pane, raccoglieva i vermetti che trovava per
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terra e glieli dava e per ognuno di questi
l’aquilotto sbatteva le ali per l’entusiasmo.
Pablito pensò che era vero che il re gli aveva chiesto un uovo, ma era anche vero che
lo voleva per far nascere l’aquilotto, così se
lui gli avesse portato quest’ultimo probabilmente sarebbe stata la stessa cosa. Intanto
l’aquilotto cresceva sempre più..
Mancavano le ultime tre settimane di viaggio, quando nel cielo comparve un’aquila,
su, alta e maestosa che sembrava galleggiare nell’aria con i suoi volteggiamenti.
L’aquilotto la vide e si agitò, non le tolse gli
occhi di dosso per un bel po’, finché infine
spiccò il volo, prima incerto, poi più sicuro
e la raggiunse. Era primavera.
Pablito fu spettatore meravigliato del primo
volo del suo protetto, ma il problema fu che
l’aquilotto non ci pensava neanche a tornare
indietro e, dopo un po’, Pablito cominciò a
sospettare sull’esito della sua missione.
Infatti triste e dimesso arrivò dal re:
- O mio signore, ho fallito anche stavolta, ti chiedo perdono.
- Caro Pablito, io l’ho sempre saputo
che avresti fallito, perché l’impresa
era impossibile da realizzare. Però ti
ho messo alla prova, perché volevo
insegnarti che, oltre alla bellezza, tu
possiedi l’intelligenza e la devi usare
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anche quando a darti un ordine è un
re. E prima di partire per una missione ti devi informare bene di tutti i
perché, i come e i quando. Inoltre volevo insegnarti la prudenza e a non
essere precipitoso e irruente perché,
nella vita, per ogni cosa c’è il suo
momento. Io ti avevo chiesto di aspettare e tu hai voluto subito una
missione da compiere, così ti ho punito.
Però non sono stato troppo cattivo
perché ti ho punito “premiandoti”.
Cioè ti ho dato la possibilità di viaggiare e vedere il mondo, conoscere altre genti e posti diversi, spero tu
l’abbia sfruttata guardandoti intorno.
Pablito abbassò lo sguardo. Insicuro di
quanto avesse in realtà imparato. Era afflitto.
Passarono alcuni secondi di silenzio poi il re
disse:
- Comunque caro Pablito, non ti devi
più sdebitare perché in realtà non hai
fallito: l’unica aquila che era rimasta
in Brasile ha finalmente trovato un
compagno e così potrà riprodursi e
non estinguere la specie, che è esattamente l’obiettivo che volevo raggiungere, scusa se ti ho ingannato po56
co fa. Mi sono divertito un po’. Adesso sono io che vorrei farti un regalo.
È una nuova invenzione viene
dall’Oriente, tieni.
Pablito prese lo specchio tra le mani e vi si
guardò dentro. Non si era mai visto così bene e così bello. Il viso era raggiante perché,
al contrario di quanto pensasse, era riuscito
ad esaudire il desiderio del re.
Il giorno dopo Pablito ed il re si salutarono
con la promessa di rivedersi di nuovo presto
e Pablito tornò al suo paese, alla sua casa.
Mise lo specchio attaccato al muro, così la
mattina non aveva più bisogno di andare al
fiume a specchiarsi nell’acqua e i coccodrilli fecero a meno di lui.
57
PIEDI LUNGHI QUANTO TANTE
PAROLE
Non c’erano sensazioni più forti di quelle
che le offrivano i propri piedi, tramite tra lei
e il mondo. Eppure vedeva, udiva, gustava e
toccava come tutte le altre persone.
Da bambina, un medico le disse che aveva
dei piedi proprio brutti; ma cosa poteva sapere lui di tutto quello che questi le comunicavano?
Usava le scarpe solo perché così bisognava
fare, d’inverno era freddo e sarebbe stata
indicata a dito se avesse fatto diversamente
ma, quando poteva, stava a piedi nudi per
sentire tutto ciò che c’era sotto.
Attraverso la pelle passavano il calore della
sabbia o dell’asfalto estivo, il fresco delle
mattonelle in casa, il solleticare dell’erba in
giardino, il morbido avvolgersi dell’acqua,
il soffio dell’aria, lo sprofondare del fango e
la calda ruvidezza della pietra sotto il sole.
Erano così tante e svariate le sensazioni che
non c’erano parole per descriverle tutte.
Lui con le parole faceva quello che voleva
con grande naturalezza: dialogare, convincere, insegnare, poetare, raccontare, rimare.
Era una dote innata, infatti le parole erano
venute prima dei suoi primi passi incerti. A
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tredici anni aveva pubblicato un libro di poesie, a diciotto un romanzo, ma era nel “parlato” che faceva stupire chi lo ascoltava.
Il giorno che si incontrarono la prima volta,
avevano entrambi sei anni, e si odiarono
profondamente perché lui, per sbaglio, pestò
i piedi a lei e lei se ne andò mentre lui stava
ancora parlando.
Si incontrarono di nuovo alle scuole medie,
si riconobbero e stettero alla larga l’uno
dall’altra: troppo timida lei, troppo espansivo lui.
Gli anni passavano, lei studiò all’accademia
delle belle arti e lui si iscrisse a scienze politiche.
Quasi contemporaneamente si innamorarono: lei di un musicista di qualche anno più
vecchio, lui di una compagna di studi, con
cui entrambi andarono a convivere.
Dopo due anni lei ebbe una bambina; lui
non ebbe figli.
Lei trascorreva le giornate a dipingere, a
crescere la figlia e tenere in ordine la casa. I
suoi quadri ebbero un certo successo, e allestì diverse mostre qua e là. All’inizio andava spesso in giro per il mondo per i concerti
del compagno, poi trovò una sua dimensione più casalinga e preferì restare più spesso
a casa.
59
Lui trovò lavoro come rappresentante di
macchinari industriali, contemporaneamente
scriveva per un quotidiano locale e sperava
di riuscire, un giorno, a scrivere per qualche
grande rivista.
Dopo circa vent’anni a Los Angeles si tenne
un concerto. La notte non era particolarmente fredda e fiocchi di neve cadevano
lentamente. L’aria vibrava alle note del
quartetto, il pubblico era entusiasta.
Qualche chilometro più in là, per le strade,
migliaia di persone camminavano frettolosamente con pacchi nelle mani, alla ricerca
dell’ultimo regalo, Natale era vicino. Lui e
lei camminavano lungo la solita strada, uno
verso l’altra, immersi ciascuno nei propri
pensieri. Lui era lì perché doveva scrivere
un articolo sulla vita notturna della città, lei
perché il suo compagno partecipava al concerto.
Stavano
camminando
quando,
all’improvviso, si scontrarono. Lei quasi
cadde e lui cominciò a scusarsi per averle
pestato un piede. Lei lo guardò, gli sorrise e
se ne andò che ancora stava parlando.
Ci rimasero male entrambi, sentendosi feriti
nel profondo. A volte il destino gioca strani
scherzi.
60
STANZE
Luigi entrò dentro una stanza: aveva pareti
tinteggiate di giallo, una porta sul lato destro, un tavolo al centro, una sedia, due
quadri appesi ad una parete ed una vecchia
macchina da scrivere verde appoggiata al
tavolo.
Dalla finestra si vedeva lo scorrere di un
corso d’acqua sulle cui rive crescevano erba
e fiori arancioni e bianchi. Aperta la finestra
assaporò l’aria che profumava di mughetto,
lasciò che il vento gli sfiorasse i capelli ed il
sole scaldasse il suo viso, poi richiuse la finestra, si sedette al tavolo di fronte alla
macchina da scrivere ed iniziò a premere sui
tasti velocemente, macchiando di inchiostro
la macchina dei suoi pensieri: …
Dalla porta si passava in una seconda stanza
azzurra con un lampadario di rame al centro. Aveva una sedia nell’angolo con una
tromba appoggiata sopra. Non c’era altro oltre a un’altra porta e alla finestra a soffitto
da cui poteva vedere il cielo. Luigi soffiò
nella tromba e da questa uscì un suono pacato e profondo che sapeva di dialogo. Suonò una musica asimmetrica, fatta di note
semplici e si calmò.
61
La terza stanza era grigia col soffitto blu,
c’era un letto con accanto un comodino ed
una sveglia che indicava le 4.10. Luigi si
sdraiò e si addormentò per un tempo indefinito. Quando si svegliò credeva di aver
dormito per ore ma l’orologio indicava ancora le 4.10, probabilmente non funzionava.
Nella quarta stanza trovò un cavalletto con
su una tela bianca, dei colori a olio, pennelli, un bicchiere ed un piatto di plastica. Luigi dipinse l’angolo della stanza così come lo
vedeva: tre rette che si univano e bianco tutto intorno. Sentì un cinguettio arrivare da
lontano ma non c’erano finestre, era solo
con la sua tela e tre righe nere.
La quinta stanza di quel misterioso edificio
aveva quattro porte e basta. Luigi era indeciso da che parte proseguire, poi scelse
quella di fronte a sé e passò così nella sesta
stanza.
La sesta stanza era la più grande di quelle
che aveva fino ad ora visitato. Era un monolocale a tutti gli effetti ed era fornita di tutto. Una persona vi avrebbe potuto vivere in
tutta comodità, la sua essenzialità la rendeva
particolarmente bella e ariosa. Per Luigi era
solo di passaggio e dopo uno sguardo qua e
là se ne uscì.
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Nella settima stanza trovò una donna seduta
su una panca, nuda e raccolta con tristezza
intorno a se stessa. Luigi le chiese chi fosse,
perché fosse nuda, se avesse freddo, ma
questa non rispose, sembrava non sentire ed
essere assorta completamente nei propri
pensieri. Non sapendo cosa fare si sedette
vicino a lei e lì stette a lungo in silenzio. Ad
un certo punto la donna si voltò verso di lui,
gli sorrise e gli porse una piuma, dopodiché
se ne andò. Luigi pensò che forse era matta.
L’ottava stanza era beige, aveva un grande
tavolo rettangolare apparecchiato al centro e
otto sedie intorno. Al centro una fruttiera
piena di fragole. Luigi saziò la sua fame
prima di entrare nella nona stanza.
La nona stanza era rossa come il sangue.
La decima era violetta come il fiore.
L’undicesima era nera come la notte.
A quel punto Luigi decise che era ora di
tornare indietro, ma attraversando le porte si
ritrovava sempre in stanze nuove diverse da
quelle che prima aveva attraversato. Da
principio fu sorpreso, pensò che forse ricordava male, ma poi un senso di panico lo invase lentamente e sempre più forte.
63
Quello strano edificio sembrava non avere
né inizio né fine, si ripeteva sempre nuovo e
Luigi ne rimase prigioniero. Prigioniero di
quattro mura che si moltiplicavano infinite,
piene di accessori da rendere piacevole il
passaggio, ma sempre prigioniero. Prigioniero di se stesso.
Ogni porta era la speranza di uscire
all’esterno. Ogni porta era la delusione di
rimanere all’interno.
Aperta l’ennesima porta, vide un vecchio,
con una lunga barba bianca ed un bastone.
Se ne stava seduto su una sedia impagliata e
lo guardava come si guarda il mare
d’inverno, poi iniziò a raccontare:
- Sono cresciuto dove il grano mi superava in altezza e i girasoli si piegavano per farmi ombra a mezzogiorno.
Dalla mia famiglia ho imparato il rispetto e l’umiltà. Ed ho lavorato tanto
da piegarmi la schiena e asciugare il
sudore. Ti voglio dire una cosa: non
lasciare che il giorno scenda dal sole
senza aver lasciato un momento per
ascoltare la musica dell’aria. Non ho
altro da dirti.
Il vecchio continuò a guardare il mare
d’inverno, ma nessuna parola seguì a quelle
già dette.
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Luigi perplesso se ne andò nella stanza successiva senza aver capito molto di quelle
parole sussurrate troppo in fretta.
La stanchezza si faceva sentire, anche se
poteva dormire non riposava completamente. Le occhiaie si scurirono sotto i suoi occhi e capelli bianchi comparvero sulla sua
testa. Angosciato continuava a procedere di
stanza in stanza, con la speranza di trovare
un’uscita. Da un’alba ad un tramonto di luce artificiale in quel falso giorno interminabile, ora dopo ora, continuavano a essere le
4.10 e lui era ancora lì, nello strano e indecifrabile edificio.
Attraverso mille stanze passò il tempo senza
passare.
Nell’ultima stanza trovò uno specchio. Vi si
guardò incredulo per ciò che vedeva. Era
cambiato, invecchiato, aveva la barba ed i
capelli bianchi. L’orologio segnava le 4.10
e lui non ne poteva più.
Non aveva più voglia di aprire porte per ritrovarsi sempre dentro un qualcosa che non
riusciva a capire. Quello strano edificio lo
aveva logorato, e piangeva per ciò che non
era potuto essere, per l’erba che non aveva
calpestato, per il mare che non lo aveva ba65
gnato, per la sabbia che non lo aveva scottato e per tutto ciò che non c’era stato.
Un’ultima porta … pregò per l’ultima porta,
perché fosse l’ultima.
L’aprì …
Una luce immensa lo avvolse come in un
abbraccio.
Luigi fece un passo avanti, la luce era densa, fresca e bianca come la nebbia, non si
vedeva niente. Proseguì con le mani avanti
a cercare una parete (come era solito trovare) ma non la trovò. Ad un certo punto gli
mancò la terra sotto i piedi e cadde, cadde
nel vuoto, in una caduta libera che non finì
mai più.
Era finalmente libero.
66
UNA MUCCA, UN MAIALE
Abitava a Kabul una mucca giovane a cui
piaceva leggere. Le sue giornate erano piuttosto libere e lei le impiegava a mangiare e
a leggere sia le riviste sia i libri che i bambini le portavano una volta tornati da scuola. Conosceva il suo destino: una volta divenuta grande e grassa sarebbe stata uccisa
per nutrire, con le sue carni, gli abitanti di
Kabul.
Un giorno un bambino le portò un libro che
si intitolava I misteri dell’India; lei, che
amava le storie degli altri paesi, iniziò a
leggerlo con entusiasmo. Nel quarto capitolo trovò una notizia che cambiò la sua vita:
in India le mucche erano considerate sacre
ed era proibito ucciderle. La meraviglia fu
grande perché non sapeva che paesi diversi
potessero avere abitudini ed idee così contrastanti, ma soprattutto pensò al suo futuro:
se fosse riuscita ad andare in India non sarebbe diventata una bistecca.
Il giorno dopo partì nella direzione del sorgere del sole.
Viveva a Calcutta un maiale giovane che
era un chiacchierone e gli piaceva fermare
tutte le persone che incontrava per chieder67
gli qualsiasi cosa gli venisse in mente, tante
volte anche a sproposito. Era un burlone e
rideva sempre, però purtroppo conosceva il
suo destino: una volta diventato grande e
grasso sarebbe stato ucciso per nutrire, con
la sua carne, gli abitanti di Calcutta.
Un giorno conobbe un musulmano e quando, discutendo, quest’ultimo gli raccontò
che in Afghanistan, da dove veniva lui, i
maiali non venivano mangiati, per poco non
gli venne un infarto.
Il giorno dopo partì nella direzione del sole
che tramonta.
Sia la mucca sia il maiale viaggiarono molto, trovarono tante difficoltà ed il tragitto fu
molto lungo.
Un giorno la mucca guardò davanti a sé e
vide un maiale con uno zaino sulle spalle, lo
stesso successe al maiale che vide una mucca con una valigia in bocca. Curioso le chiese gentilmente chi era, da dove veniva e dove andava.
- Mi chiamo Lola, vengo da Kabul e
sto andando in India perché là le
mucche non vengono mangiate ed io
non voglio morire prima del tempo.
- Anch’io non voglio morire prima del
tempo e sto andando in Afghanistan
dove i maiali non vengono mangiati.
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Questo destino comune li intenerì e decisero
di andare al ristorante insieme per raccontarsi i propri vissuti e le proprie aspettative.
Entrambi volevano avere molti figli ed arrivare alla vecchiaia in salute e circondati da
nipoti e pronipoti, avere tanta erba da mangiare e poter stare tranquilli su un pezzo di
terra.
Si salutarono il mattino dopo e continuarono il proprio viaggio, uno rivolto verso il
sole, l’altra verso la luna.
Un mese dopo arrivarono entrambi a destinazione e cominciarono a cercare un pezzo
di terra dove poter stare, solo che le altre
mucche e gli altri maiali avevano già occupato tutti i terreni possibili e ne erano molto
gelosi, così non gli rimaneva che trovare
uno sposo o una sposa per potersi inserire
nella comunità.
Lola era tutta bianca a macchie nere e ai tori
di Calcutta piacevano le mucche marroncino con le tette piccole: a quanto pareva non
la voleva nessuno.
La stessa cosa successe al maiale: lui era
rosa ed in Afghanistan piacevano i maiali
grigi.
Il maiale non si fece prendere dallo sconforto, si rimboccò le maniche ed iniziò a lavorare gratis vuotando le latrine, cosa che non
voleva fare nessuno e grazie al suo bel ca69
rattere in poco tempo conquistò le simpatie
degli abitanti di Kabul. Fu così che un giorno un vecchio maiale andò da lui e gli disse:
- Io ho una figlia in età da marito che
però ha un difetto: capisce tutto
all’incontrario, per cui quando parli
con lei devi dire le cose col significato opposto a quanto vuoi esprimere,
altrimenti non capisce. Nessuno la
vuole: se tu la sposi ti offro una casa
dove poter abitare.
Il maiale non ci pensò due volte, accettò e
trovò la sposa pure bella.
La mucca invece non riuscì a trovare marito, ma si impiegò in una fattoria insieme a
tante altre mucche: praticamente donava il
suo latte, grazie alle sue tette grosse, in
cambio di cibo e acqua. Era un lavoro un
po’ monotono, però poteva chiacchierare
con le nuove amiche e ci si divertiva abbastanza.
Il maiale ebbe tanti figli e tanti nipoti. La
mucca nutrì tanti bambini che quando furono un po’ cresciuti le portarono i loro libri
da leggere.
E così questa storia si conclude con il maiale e la mucca che vissero a lungo, felici e
contenti a dispetto del loro destino.
70
1984
Era perso nella realtà che escludeva il suo
destino, rimasto impigliato in un lontano
1984.
Il suo umore, per lo più depresso, ogni tanto
aveva sprazzi di gioia ed entusiasmi onnipotenti che duravano quanto il fiorire di una
rosa. Per il resto lottava fra noia e malinconia, desiderando un futuro migliore ma non
ricordandosi quale dei suoi passati gli fosse
stato più congeniale.
La sua insicurezza lo aveva reso incapace di
scegliere fra le infinite possibilità di azione
che ogni giorno si presentavano. Lasciava
quindi agli altri ed a volte al caso di scegliere per lui, nel bene e nel male, in ricchezza
e povertà.
Per strada aveva sempre paura di incontrare
un conoscente, perché non gli piaceva raccontare balle, gli spiaceva non essere riconosciuto ma non riusciva a fingere, non sapeva cosa dire e si emozionava facilmente.
Così se poteva tirare dritto lo faceva, incurante del pensiero altrui.
Non era stimato, e risultava per lo più antipatico. In passato questa era una cosa che lo
avrebbe distrutto, adesso ci conviveva, la
accettava come si accetta che l’acqua di un
71
fiume non si esaurisca mai del tutto. Il suo
era un egoismo generoso.
A volte si sentiva piccolo come una formica, a volte grande quanto un elefante. A volte lento come un bradipo, altre volte veloce
come una gazzella. Mai feroce come il leone, però pigro sì.
Le giornate, per lui, non finivano mai, ma
allo stesso modo il tempo passava come un
battere di ciglia, e se da un lato aveva voglia
di fare ancora un sacco di cose nella sua vita, nello stesso tempo avrebbe accolto la
morte a braccia aperte come la più desiderata amante, qualora fosse arrivata
all’improvviso.
Erano anni che non andava in centro per
una passeggiata e malgrado si sentisse giù,
prese la macchina e si diresse in città. I cartelli attaccati al muro parlavano di iniziative
presenti e future, alcune passate. Bambini
giocavano nel poco verde a loro disposizione, con le rispettive madri poco distanti, attente. Un palco e delle foto di compagni di
classe: difficile dire quanti anni potevano
avere adesso quelle persone, non riconobbe
nessuno. Sole negli occhi, procedeva lento
ed indeciso. C’erano negozi nuovi, alcuni in
vendita, turisti e cittadini si confondevano
nel trantran quotidiano, macchine circolavano con pochi passeggeri.
72
Bevve un caffè, ma dopo un po’ cominciò a
domandarsi cosa ci facesse lì. Lì in città,
voglio dire. Cominciò a pensare che avrebbe potuto incontrare qualcuno, e non lo desiderava. E come sempre il suo sentirsi fuori
luogo ovunque prese il sopravvento. Era diventata una necessità: cambiare luogo il più
spesso possibile. Maggiore era la distanza
tra un posto e l’altro, meglio era, perché
piacevole era il viaggio, il desiderio. Una
volta arrivato il sentimento di malinconia si
impadroniva di nuovo della sua mente lasciandolo esausto.
Tornò a casa. Fra le quattro mura domestiche si sentiva al sicuro, protetto dagli altri
ma non da se stesso. Accese il computer e
cominciò a scrivere: “1984 …”
73
ARTURO E I PACCHI DI GHIACCIO
Tra i ghiacci e le nevi perenni del Polo Nord
viveva un signore di nome Arturo, piuttosto
anzianotto, con lunghi capelli e barba bianca, cugino di Babbo Natale.
Lavorava per la “Universal Global Ice
System” una grande multinazionale di cui
non si capiva chi fosse il proprietario ed il
suo lavoro consisteva nel confezionare in
pacchi termici, blocchi di ghiaccio grandi
all’incirca quanto una radio. Questi pacchi,
una volta sigillati ermeticamente, venivano
accatastati in pile di un metro e mezzo per
un metro e mezzo e poi stoccati su furgoni
volanti che il pilota veniva a ritirare ogni
giorno a fine mattinata. Nessuno sapeva dove venissero trasportati e a cosa servissero,
quello che si sapeva è che ogni giorno partivano pacchi pieni e tornavano pacchi vuoti
Un lunedì, il direttore del personale chiamò
Arturo nel suo ufficio e gli disse che era
prevista per lui una promozione con cambio
di ruolo operativo: doveva prendere la patente per guidare i furgoni volanti.
Arturo, che non era mai montato neanche su
un aereo, era un po’ preoccupato e non molto contento di quella che non gli sembrava
proprio una promozione, però pareva che gli
74
aumentassero lo stipendio, allora fece buon
viso a cattivo gioco.
Dopo un mese iniziarono le lezioni di guida.
Affiancato dal maestro, Arturo fece il suo
primo volo e ne rimase incantato: non credeva che ritrovarsi fra le nuvole desse un tale senso di libertà.
Cambiò idea sulla promozione e non vide
l’ora di effettuare la sua prima missione da
solo per scoprire dove andavano a finire tutti quei pacchi.
Il giorno fatidico arrivò dopo due settimane.
Venne convocato dal direttore e gli venne
detto che doveva andare nel deserto del Sahara a consegnare il ghiaccio.
Arturo accese il motore e partì, e dopo solo
dieci ore arrivò sul Sahara ed iniziò a scendere quando vide una pista di atterraggio
sotto di sé.
Sembrava lo aspettassero. Una fila molto
lunga di uomini, donne e bambini stava in
piedi al lato della pista e lo salutò quando
scese dal furgone. A ciascuno consegnò un
pacco e all’ultimo della fila chiese:
- Ma cosa ve ne fate del ghiaccio?
- Seguimi.
Camminarono a lungo in silenzio finché
non arrivarono ad una capanna dietro la
quale c’era un piccolo spiazzo dal quale
spuntava una pianta di pomodoro.
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- Qui abbiamo poca acqua e quella che
c’è non è nutriente, mentre l’acqua
del Polo Nord è ricca di tutti i nutrimenti necessari a far crescere i pomodori. Quando questi sono maturi,
metà li teniamo noi e metà li diamo
alla “Universal Global Ice System”
per i loro affari. A questo serve il
ghiaccio.
Così Arturo continuò a lavorare per la multinazionale contento.
76
GEGIA LA TARTARUGA
In una vallata attraversata da un piccolo ruscello vivevano, mangiando e dormendo,
dieci tartarughe di terra. L’ultima nata era
svagata e sognatrice e le tartarughe vecchie
ritenevano che avrebbe procurato dei problemi per questo suo “campare per aria”.
Un giorno Gegia (l’ultima nata) spinta dalla
curiosità cominciò ad allontanarsi dalle
compagne e a salire su verso il monte. Le
compagne la chiamarono perché tornasse
indietro, quelli erano posti sconosciuti e pericolosi, ma lei non le ascoltò.
Gegia non cercava niente di particolare, voleva solo vedere cosa c’era più in là, così
mangiava e dormiva ma risalendo il ruscello. Il percorso era in salita, quindi un po’
più duro, ma lei andava così piano che in
fondo non durava molta fatica. Gli alberi si
infittirono e un giorno Gegia si trovò davanti un fungo molto bello, tutto rosso a puntini
bianchi e le lamelle sotto. Stette ad ammirarlo per un bel po’ domandandosi se fosse
anche buono da mangiare come quei prataioli che si trovavano giù nella vallata.
Passava di lì un istrice che non aveva mai
visto una tartaruga e le si avvicinò:
- Non lo mangiare è velenoso!
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- Grazie per avermi avvisata, mi stavo
giusto domandando se fosse commestibile.
- Non ti ho mai vista da queste parti, da
dove vieni?
- Vengo giù dalla valle e sto risalendo
il ruscello, mi piacerebbe vedere cosa
c’è in cima.
- Io in cima non ci sono mai andato, la
mia zona è questa, qui trovo ghiande
e patate, qui ho la mia tana che è tutto
quello che mi interessa, comunque …
buona fortuna - e se ne andò.
Certo che era proprio un fortuna avere la
propria casa da portarsi dietro, trovare da
mangiare dappertutto e poter andare dove si
vuole.
Ad un certo punto le cadde un riccio di castagna proprio sulla testa. Si guardò intorno
e si accorse che c’era pieno di queste cose
pungenti e che contenevano qualcosa di
marrone. Si avvicinò ad una castagna e da
un piccolo buco spuntò la testa di un vermetto che stava masticando con ingordigia.
Gegia, visto il vermetto che mangiava la castagna, pensò che questa sicuramente non
fosse velenosa , ma magari pure buona, così
vi diede un morso. Che ghiottoneria !!!!
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Fece una tale scorpacciata di castagne che
per due giorni fu incapace di muoversi, così
si riposò.
La bella stagione stava volgendo al termine
e Gegia, come tutte le tartarughe, stava per
andare in letargo. Cercò un posto riparato,
scavò una buca, si ricoprì e lì si addormentò. Si sarebbe risvegliata a primavera.
Passò il tempo, venne il freddo, gli alberi
persero le foglie, gli uccelli migrarono e
cadde la neve, finché un giorno un timido
sole si affacciò nel cielo e tutto ricominciò
da capo.
Gegia fece un bello sbadiglio, si stirò le
zampe anchilosate, e si scavò la via per uscire dalla tana.
Era sempre una sensazione sorprendente il
risvegliarsi a primavera. Gegia si sentiva
piena di energia, di voglia di fare, in pace ed
entusiasta, e cosi ricominciò il suo viaggio
in salita seguendo il ruscello.
Ma a volte le avventure hanno un prezzo da
pagare, e fu così che la tartaruga si ritrovò
nel mezzo ad un branco di lupi affamati che
quando la videro muovere le saltarono addosso. Lei si ritirò tutta in se stessa mostrando solo il guscio, difendendosi così dai
loro morsi. I lupi la rigirano più volte, la
sballottarono da uno all’altro cercando di
morderla, e solo dopo un bel po’ si stanca79
rono e se ne andarono. Gegia rimase chiusa
nel suo guscio a lungo, tutta sudata ed impaurita, finché non trovò il coraggio di mettere la testa fuori accorgendosi così che il
pericolo era scomparso.
Quanti giorni erano passati da quando aveva
lasciato la valle? Aveva nostalgia, le mancavano le sue compagne. Quel giorno Gegia
era triste e si domandava se avesse fatto bene ad andarsene. Le avevano insegnato che
quando si ha un problema da risolvere la
cosa migliore è dormirci sopra che al mattino le idee sono più chiare; era notte, era il
momento dei sogni e Gegia si addormentò.
Al sorgere del sole decise però di non tornare indietro, camminò e camminò, e dopo
tanti giorni e tante avventure arrivò finalmente in cima alla montagna.
Qui c’erano un grande prato verde, un laghetto e dieci tartarughe di terra che vi vivevano mangiando e dormendo. Fra loro, la
più giovane sognava di andare un giorno a
vedere cosa c’era giù nella valle seguendo
le acque del ruscello.
80
STORIA DI UNA GOCCIA D’ACQUA
Sono una goccia d’acqua e voglio raccontarvi la mia storia. È una storia lunga, tanto
lunga che non mi ricordo quando è iniziata.
La mia memoria mi porta a quando ero un
bel cristallo di neve e ovunque c’erano mie
compagne e non facevamo niente perché era
freddo e col freddo ci si riposa.
Restammo cosi per tanto tempo, poi pian
piano i raggi del sole diventarono più caldi
e col calore ci sciogliemmo fino a diventare
acqua e così mare.
Era bello essere mare, dondolarsi dolcemente in armonia col vento e le correnti. Passare
dalla superficie calda alle profondità più
fredde e guardare i pesci e gli altri abitanti
degli abissi.
Era bello essere sempre così abbracciate e
sagomarci con ciò che toccavamo fino ad
assumere tutte le forme.
Poi un giorno, mentre galleggiavo cullata
dal sole, mi sentii leggera, sempre più leggera. Mi sciolsi dall’abbraccio delle mie
compagne e cominciai a volare. Diventai
trasparente e oscillando salivo verso l’alto.
All’inizio potevo toccare le mie compagne,
poi diventammo sempre più distanti e salivo
e salivo avvicinandomi al sole .
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Ad un tratto quasi d’improvviso un colpo di
vento e un poco di freddo mi ridettero il colore e la densità. Divenni bianca e grassa e
presi per mano due mie compagne e loro le
altre: eravamo nuvole .
Cominciammo a danzare muovendoci in
tutte le direzioni: formavamo spirali e cerchi ed il vento cullava la nostra danza.
Sotto di noi la terra girava e anche noi ci
muovevamo e la luna splendeva. Cambiammo colore, diventammo grigie e sempre più numerose. La danza era veloce e
frenetica e sembravamo quasi impazzite,
poi di colpo tutto si fermò.
Cominciammo a cadere una dopo l’altra.
Cademmo tutte e la caduta sembrava infinita ... Esplosi al suolo su di una roccia, sulla
cima di una montagna.
Quella fu la prima volta che toccavo terra.
Mi sentivo un po’ impaurita così vicina a
questo nuovo elemento tanto diverso da me.
La roccia era dura, liscia, in discesa. Io cominciai a scivolare verso il basso, attraversando scanalature, aggirando massi e pietre.
Ad un certo punto la roccia si ruppe e si
mescolò al terreno ed io venni risucchiata
da questo e lo resi umido.
Lì sotto c’erano le radici delle piante e a
qualche mia compagna capitò di essere as-
82
sorbita da queste, trasformandosi in foglia o
fiore.
Io proseguii la mia discesa purificandomi
delle scorie che avevo accumulato nel mio
percorso e scesi in rigagnolo al confine fra
roccia e terra, finché non diventai sorgente
di un piccolo ruscello che andava verso la
valle.
Il ruscello si unì al fiume dalle tante acque,
ed io e le mie compagne eravamo di nuovo
abbracciate e correvamo in una sola direzione .
Il fiume, grazie a noi, si era scavato un letto
su cui scorreva, scivolando fra una collina e
l’altra in morbide curve. Non ci crederete
ma alla fine del percorso, dopo un lungo
vagare, ci ricongiungemmo con nostro padre: il mare.
Quello che vi ho raccontato in poche parole
è il mio primo ricordo come goccia, da allora questa stessa mia storia si è ripetuta
un’infinità di volte, sempre uguale e sempre
diversa.
Dal mare salgo in cielo e poi torno sulla terra: questo è ciò che si ripete, però a volte
vado verso est, a volte verso ovest, sud o
nord.
A volte cado a terra come pioggerella leggera primaverile, altre come violento acquaz83
zone estivo. Qualche volta scendo sottoforma di neve o di grandine.
Sempre atterro in un posto diverso. Sono
diventata albero, poi fiore e addirittura anche uomo.
La mia vita scorre varia e infinita come il
sole e le stagioni, la luna e le stelle.
84
IL GIORNO CHE GLI OROLOGI SI
FERMARONO
Un giorno successe all’improvviso che tutti
gli orologi del mondo si fermarono.
Gli uomini non c’erano abituati e si disperarono perché non sapevano più quando era
l’ora di andare a lavorare, quando l’ora di
mangiare e quella di dormire. Non sapevano
quando andare a prendere i figli a scuola e
quando potevano andare in ferie. Era il panico.
Il sindaco disse:
- Togliete persiane ed avvolgibili,
quando sorge il sole è l’ora di alzarsi,
quando il sole tramonta è l’ora di andare a letto.
Era semplice, ma gli uomini avevano paura
dei ladri.
Il sindaco disse:
- Se qualcosa vi verrà rubato lo stato ve
lo restituirà - e assunse 1000 poliziotti che dovevano
lavorare di notte per controllare che non ci
fossero furti. Ed infatti nessuno rubò più
perché chi voleva qualcosa denunciava di
aver subito un furto e lo stato gli dava quello che voleva.
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Poi all’improvviso andò via la luce in tutto
il mondo. Gli uomini si disperarono, perché
non potevano più usare i computer, i macchinari si fermarono e non funzionavano più
le lampadine. Insomma non si poteva più
lavorare negli uffici e nelle fabbriche. Gli
uomini non sapevano cosa dare da mangiare
ai propri figli.
Fu di nuovo il panico.
Il sindaco disse:
- Ognuno coltivi l’orto nel proprio
giardino e chi ha il giardino più grande lo faccia anche per chi non ce l’ha.
Gli uomini ricchi si adirarono perché non
erano abituati a lavorare per gli altri.
Si ripopolarono equamente le campagne e
gli uomini tornarono all’agricoltura e
all’allevamento, svegliandosi all’alba e andando a letto al tramonto.
Un giorno, qualche anno dopo, successe che
si esaurirono i pozzi di petrolio. Gli uomini
non potevano più usare le automobili ed i
trattori. Non si potevano più fabbricare oggetti di plastica e asfaltare le strade. Fu ancora panico.
Il sindaco disse:
- Riunite tutti gli scienziati del mondo
e fategli inventare un motore ad acqua.
Così fu fatto.
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Furono anni difficili perché gli uomini non
erano abituati a lavorare la terra senza macchine sotto il sole. L’erba ricrebbe su tante
strade e le comunicazioni erano difficili.
Fu così che la vita tornò ad essere dura ma
semplice, più piena di natura e nessuno
rompeva le scatole al prossimo perché aveva da pensare per sé.
Ma gli scienziati trovarono la soluzione e
allora, di nuovo … ricominciò tutto da
capo.
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KAMÒ
C’era una volta un paese sulle pendici
dell’Himalaya dove gli abitanti, quando nevicava, raccoglievano la neve e ne facevano
delle palle belle grosse e rotonde, che mettevano dentro un cestino all’ombra di un
grande albero, nel punto più alto del paese.
Era usanza che quando qualcuno era triste
andasse sotto il grande albero, e piangendo
versasse le proprie lacrime su una palla di
neve. Esaurite le lacrime, lasciava andare la
palla di neve nel ruscello ai piedi del grande
albero, liberando così il dolore.
L’acqua del ruscello scorreva veloce e tortuosa giù lungo la vallata fino ad arrivare alla pianura del paese di Kamò, dove si apriva
ad irrigare delle grandi risaie.
Gli abitanti del paese di Kamò raccoglievano il riso, che era il loro principale alimento, e la sera (poiché il paese era piccolo) si
riunivano tutti, bambini, adulti e anziani,
nella piazza, dove veniva acceso un fuoco e
su questo veniva posta una grande pentola e
vi si cuoceva il riso.
Come per magia, una volta mangiato, tutti si
sentivano pervadere da allegria e leggerezza
e provavano una gran voglia di ridere. I
vecchi raccontavano storie e tutti ridevano; i
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giovani danzavano e i bambini si divertivano un sacco, giocando fino a non poterne più.
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LA PRINCIPESSA BRUTTA ED IL
PASTORE
C’era, pochi anni fa, una principessa brutta,
ma così brutta che chi se la trovava di fronte
senza aspettarselo faceva un salto per aria
dallo spavento.
La stessa principessa era però ricca, ma così
ricca che poteva esaudire tutti i propri desideri.
I genitori cercavano di educarla in modo
che avesse almeno un buon carattere. Ma la
principessa era anche ribelle, ma così ribelle
che, se si sentiva obbligata a fare qualcosa,
col cavolo che lo faceva!
Arrivata alla maggiore età, la principessa si
comprò una bella moto da strada e una volta
finita la scuola partì per le vacanze con questa e con una tenda a igloo da poter montare
dove voleva.
Visitò Vienna, Praga, Amsterdam e poi Parigi.
Percorreva la campagna francese mentre si
avvicinava la sera. Doveva trovare un posto
dove poter montare la tenda per la notte,
prese allora una stradina secondaria che la
portò alla base di una collina dove c’era anche una sorgente d’acqua. Si accampò lì:
montò la tenda, si rinfrescò con l’acqua,
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preparò il bivacco dove arrostire le due salsicce acquistate per la cena, mangiò, poi si
distese fuori dalla tenda per poter guardare
le stelle e riflettere, finché si addormentò.
Senza sapere quanto tempo fosse passato si
svegliò di colpo perché si sentì toccare il viso. Era circondata da un gregge di pecore.
Si alzò velocemente senza sapere se essere
contenta o arrabbiata e vide un poco distante un ragazzo con un viso d’angelo ed occhi
spenti che a sua volta fece uno scatto e domandò se c’era qualcuno.
Parlarono, e poi parlarono di nuovo, e di
nuovo ancora.
Gli occhi di lui non videro la bruttezza di
lei, e gli occhi di lei colsero la bellezza e la
sensibilità di lui, insomma si innamorarono
così su due piedi con la velocità di un battito di ali.
La principessa restò per tutto il resto delle
vacanze a casa del ragazzo, vivendo in povertà, semplicità, ma divertendosi un sacco
e piena di entusiasmo.
Arrivò il momento di rientrare al castello ed
entrambi erano disperati. Piansero insieme e
si salutarono con la promessa che si sarebbero rivisti presto senza sapere se fossero
parole vane o reali. La principessa partì ed il
pastore restò con le sue pecore, portandosi
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dietro, entrambi, il ricordo di quei giorni
d’amore.
Fu un anno difficile. L’ultimo anno delle
superiori. La principessa non riusciva più a
fare niente, non le riusciva di studiare perché la testa se ne andava altrove. Le mancava il suo pastore cieco, forse l’unico che si
fosse innamorato di lei, e sicuramente
l’unico con cui aveva vissuto insieme.
Perse il sonno, non mangiava più, non voleva vedere né parlare con nessuno, viveva di
ricordi.
La madre, preoccupata, intuì che quelle dovevano essere pene d’amore e capì senza
parole quello che era successo; una sera disse alla figlia:
- Nella vita le cose non sempre sono
facili, a volte bisogna soffrire per poter essere contenti e a volte non basta
neppure questo perché i momenti felici si alternano a quelli tristi come in
una giostra. Bisogna saper aspettare e
non arrendersi mai. Bisogna lottare,
ma anche sapere quando è il momento di mollare. Avere pazienza e fiducia in se stessi, nelle verità che solo
noi conosciamo e che non valgono
alcun consiglio. Ci sono dei doveri
che rendono più forti e che dobbiamo
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rispettare, ma questo non toglie che la
cosa più importante sia seguire la
propria strada, ovunque essa porti, e
questo è quello che devi fare tu. Valuta cosa è importante per te, pensa a
tutte le difficoltà che incontrerai, e
segui questa strada, rispettando sia gli
altri sia te stessa. Essendo leale agli
altri e a te stessa.
La principessa scoppiò in lacrime e raccontò tutta la sua storia alla regina madre.
Chiaramente le madri preoccupate non sanno mantenere un segreto e quella sera il re
venne a conoscenza del vissuto della figlia.
Lui non era un romantico come la moglie,
ma da uomo pratico qual’era non aspettò
cinque minuti ed al mattino la principessa lo
trovò a fare colazione.
Il re le disse:
- Devi pensare al tuo futuro, tu sei una
principessa, hai un regno da guardare.
Ti devi laureare, sposare con un buon
partito, soprattutto un uomo intelligente e di buon carattere che sappia
aiutarti a governare. Gli innamoramenti vanno e vengono, e poi un ragazzo cieco pensa i problemi che ti
potrebbe procurare.
Ma la principessa i problemi (ci saranno pure stati) proprio non li vedeva.
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Arrivò il tempo dell’esame finale e la principessa, a fatica, lo superò.
Con tutta la felicità che aveva preparò lo
zaino, caricò la moto, salutò i genitori con
la promessa di tornare dopo qualche mese e
se ne partì col cuore in gola.
Mai le strade erano state tanto belle, mai la
felicità di un qualcosa appena sbocciato più
grande, mai il futuro era parso più roseo,
mai e poi mai vi erano state parole adatte a
descrivere le emozioni di quell’estate.
Finalmente arrivò e non vide le pecore. Il
tempo passava ed il pastore non tornava a
casa.
Preoccupata andò in paese, vide un signore
di una certa età che le sembrava del posto,
lo fermò e gli chiese se avesse notizie del
pastore
- È morto, una macchina lo ha investito
mentre attraversava la strada, è successo circa un mese e mezzo fa, mi
dispiace.
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MARGHERITA
Margherita cercava un quadrifoglio. Verde
era il prato, dal centro non ne vedeva i contorni, solo una quercia lontana verso ovest.
Osservava attentamente fra l’erba i trifogli
che si mescolavano fra loro, a volte le sembrava di vedere quattro foglie, ma non era
così.
Aleggiava una lieve brezza ed il sole era
tiepido. Nuvole bianche si stagliavano contro un cielo azzurro, pulito, limpido.
Margherita era allegra. Con le mani carezzava l’erba e con lo sguardo contava le foglie. Prima vicino e poi sempre più lontano,
poi faceva un passo, girando intorno a spirale dal centro verso l’esterno e di nuovo osservava con le mani e con gli occhi.
Il primo quadrifoglio lo avrebbe regalato a
suo fratello, perché portasse fortuna a entrambi.
Il secondo lo avrebbe seccato e ne avrebbe
fatto un quadretto da appendere in camera
sua: un quadrifoglio a sinistra, tre trifogli a
destra e fili d’erba con qualche piccolo fiore
qua e là.
Dicono che la fortuna prima o poi arrivi a
chi la insegue e Margherita trovò entrambi i
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quadrifogli al calare del sole, quando le nuvole s’erano tinte di rosa .
La bambina inseguiva la sua lunga ombra
andando verso casa.
Aveva il sorriso sulle labbra. Poco dopo il
giorno si addormentò.
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NEVE, SOLE, INVERNO
C’era una volta una ragazzina che si chiamava Neve. Era bella e pura, ingenua e
buona.
Di lei erano follemente innamorati due uomini; si litigavano, si odiavano, tutti e due
l’avrebbero voluta per sé. Il primo uomo si
chiamava Sole, era biondo, era forte e caldo, passionale ed emotivo. Il secondo uomo
si chiamava Inverno, era moro, era freddo
ma sensibile, razionale e calmo.
Entrambi le chiesero il suo amore e lei si ritrovò indecisa su quale scegliere perché le
piacevano entrambi.
Chiese tempo per decidere.
Un giorno chiese a Sole:
- Tu dici che mi ami, ma cosa farai per
me?
- Riscalderò le tue giornate, porterò luce nei tuoi pensieri, e farò sciogliere
il tuo corpo con le mie carezze.
Qualche giorno dopo pose la stessa domanda a Inverno e questo rispose:
- Saprò capirti in ogni tuo momento,
saprò darti sicurezza quando ne hai
bisogno, e ti manterrò sempre giovane con il mio amore.
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Neve vedeva in entrambi aspetti diversi a
cui avrebbe con tristezza rinunciato e non
sapeva cosa fare, infine decise.
La prima volta che si ritrovò sola con Sole
gli propose:
- Io sarò la tua donna, la tua amante, la
tua amica dalle 6 di mattina alle 6 di
sera, ogni giorno, finche tu lo vorrai,
però non chiedermi di più, ti darò tutta me stessa ma non sarò soltanto tua.
Spero che tu accetti la mia proposta
altrimenti dovrai rinunciare a me.
Allo stesso modo disse ad Inverno:
- Io sarò la tua donna, la tua amante, la
tua amica, dalle 6 di sera fino alle 6
di mattina, ogni giorno, finché tu lo
vorrai, ti darò tutta me stessa , ma
non sarò soltanto tua. Spero tu accetti
la mia proposta altrimenti dovrai rinunciare a me.
I due uomini andarono in crisi, combattuti
tra dubbi, tristezza e angoscia, ma infine,
non volendo rinunciare a lei, accettarono la
proposta.
All’inizio fu difficile, perché entrambi si logoravano dalla gelosia, poi, pian piano, grazie al carattere di Neve, riuscirono a smettere di pensare all’altro e ad accontentarsi dei
momenti condivisi.
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Neve di giorno si scaldava e si scioglieva al
sole ed alla sera si rinfrescava e rinnovava
la sua giovinezza.
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TOMBOLINA
Se è vero che della vita bisogna accettare
anche la sofferenza, diversamente la pensava chi conosceva Tombolina, una ragazzina
di tredici anni dai riccioli ribelli, grassa e
tonda come una palla.
Tombolina viveva in montagna e passava le
sue giornate a cercare e raccogliere un’erba
che aveva il potere di regalare bei sogni a
chi ne beveva l’infuso.
Le persone che soffrivano d’insonnia andavano da lei, così anche chi aveva dei desideri irrealizzabili e ne era afflitto. Lei li faceva
sedere, metteva al fuoco il pentolino con
l’acqua e preparava l’infuso. Una volta bevuto, gli amici si sdraiavano all’aperto sulle
stuoie e si addormentavano come ghiri, sognando uno di quei sogni che sembrano veri
e che quando ti risvegli li ricordi come fosse
stata la realtà.
Successe però che un giorno si sbagliò e
raccolse oltre alla sua erba un ciuffo di
un’erba sconosciuta e la persona che andò
da lei e ne bevve l’infuso invece di addormentarsi cominciò a balbettare.
Fu così che tutti cominciarono a dire che
l’erba di Tombolina portava sfortuna e lei fu
isolata e perse tutti i suoi amici.
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Diventò triste, tanto triste che perse il sorriso e cominciò a dimagrire, si chiuse in casa
e non voleva più vedere nessuno.
Trascorreva il tempo e le cose non cambiavano, fu così che gli animali del bosco si
riunirono e decisero di fare qualcosa per far
tornare l’allegria a Tombolina.
Decisero di regalarle una collana con una
pietra di luna, cioè presa proprio dalla luna,
solo che non sapevano come fare per andarla a prendere così lontano. La volpe, che era
intelligente, disse:
- Montiamo tutti sulle spalle uno
dell’altro, partendo dai più grossi fino
ai più piccoli, fino ad arrivare alla luna.
Così fecero: i primi furono gli elefanti, poi i
rinoceronti, gli ippopotami, su … su, fino
alle pulci, che toccarono la superficie della
luna.
Presero la pietra bianca più bella e più tonda
che c’era e la passarono di mano in mano
giù fino alla terra.
Una scimmia preparò un cordoncino intrecciando dei peli presi dalla coda di un cavallo. A una ghianda incassò la pietra di luna,
ci infilò il cordoncino e la collana fu pronta.
Partirono tutti insieme e bussarono alla
porta di Tombolina, che sorpresa e contenta aprì.
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La collana era bellissima, Tombolina sorrise, e da quel giorno ricominciò ad ingrassare.
102
ZETA JONS
Salì le scale scendendo in ascensore. Arrivò
all’attico, prese la chiave, aprì la porta e si
ritrovò sulla strada principale. Doveva percorrere 500 metri per arrivare in ufficio a
piedi, 2 km se ci andava in bicicletta, 10 km
se ci andava in moto, 15 km se ci andava in
macchina.
Visto che il tempo che impiegava era lo
stesso qualunque mezzo utilizzasse, alternava la macchina all’andata (mattina presto) e
i piedi al ritorno.
Aveva un fratello maggiore di cinque anni
più piccolo di lui e una sorella minore nata
il suo stesso giorno, il padre e la madre si
erano sposati e divorziati cinque volte sempre fra di loro; avevano fatto altrettanti
viaggi di nozze e figli, e si litigavano e
riappacificavano alternativamente un giorno
sì e uno no.
L’ufficio era situato al piano interrato di un
blocco di 25 piani, vi crescevano gli alberi
e il sole, quando c’era, vi risplendeva luminoso.
Zeta Jons era un allevatore ma, poiché stava
in città, aveva dovuto adattarsi un po’. Avevano dovuto adattarsi un po’ anche le stesse
mucche che si nutrivano di pomodori pelati
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in barattolo (compreso il barattolo) e producevano un latte rosso molto nutriente ricco
di ferro.
Con la sua giacca arrivò quella mattina in
ufficio, prese il furgone e andò a fare rifornimento di pomodori ai grandi magazzini,
una volta rientrato si spogliò, indossò la tuta
da lavoro e cominciò a mettere le lattine
nelle mangiatoie.
Il problema più grosso di Zeta Jons era dove
mettere quell’enorme massa di cacca che le
sue mucche accumulavano ogni giorno, e
che i condomini non apprezzavano facendo
continue querele. Dopo aver studiato il problema in tutte le sue prospettive, arrivò ad
inventare una macchina nella quale introduceva le feci, questa le seccava, le riduceva a
cubetti e diventavano un ottimo combustibile per stufe a cacca da abitazione.
Poi inventò le stufette a cacca. Affittò il terzo piano dell’edificio e mise su la fabbrichetta. Insomma fece una baracca di soldi,
diventò così importante che lo elessero pure
sindaco.
Morale della storia, anche le cose più strane
non è detto che siano impossibili e anche se
siamo nella cacca può darsi che si riesca ad
uscirne fuori e diventare pure ricchi.
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INDICE
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31/07/07
10
09/08/07
12
16/01/08
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28/07/08
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03/09/08
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03/09/08
16
19/09/08
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19/09/08
18
19/09/08
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30/09/08
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15/12/08
22
17/12/08
24
8-9/01/09
25
12/01/09
26
02/03/09
27
26/03/09
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01/04/09
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28/04/09
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06/05/09
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07/05/09
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28/05/09
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11/06/09
35
15/06/09
36
25/06/09
37
26/06/09
39
9/07/09
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Antonino e lo sciopero delle finestre
43
Badù
45
La rete tessuta con i capelli
49
Mirella, apprendista strega
51
Pablito
58
Piedi lunghi quanto tante parole
61
Stanze
67
Una mucca, un maiale
71
1984
74
Arturo e i pacchi di ghiaccio
77
Gegia la tartaruga
81
Storia di una goccia d’acqua
85
Il giorno che gli orologi si fermarono
88
Kamò
90
La principessa brutta ed il pastore
95
Margherita
97
Neve, sole, inverno
100
Tombolina
103
Zeta Jons
Prima Edizione
Settembre 2009