Pascoli e il radicamento nella lingua materna

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Pascoli e il radicamento nella lingua materna
Clelia Iuliani
Pascoli e il radicamento nella lingua materna
di Clelia Iuliani
1. Pascoli e la figura femminile
Ho amato Pascoli da sempre. Le sue poesie toccavano corde segrete dentro
di me e dicevano anche di me e per me. Quando però mi sono avvicinata - tra i
banchi della scuola secondaria - alle pagine critiche che lo riguardavano, ho avvertito disorientamento e sfasature: Pascoli non ne usciva illuminato, nel senso di rischiarato, diventava ‘altro’ attraverso le analisi degli studiosi e sembrava che la grande
scommessa fosse soprattutto quella di rimpicciolirlo, come uomo e come poeta.
Tutte le biografie, poi, ruotavano intorno a una specie di stella fissa: la morte violenta del padre ed essa era assunta come l’evento-chiave per leggere le inquietudini,
l’urgente bisogno di giustizia, il forte desiderio di un nucleo familiare ricostituito e
sicuro, ma anche per spiegare i cosiddetti limiti umani e sociali di Pascoli. Insomma
una chiave per amarlo e per ridimensionarlo.
Oggi a me sembra una chiave trappola, che ha fin troppo delimitato il campo di
indagine e forse per sfuggire alla tentazione di interpretare ancora la vicenda umana e
poetica di Pascoli alla luce di quell’evento occorreva ‘distanza’ in tutti i sensi: un altro
sguardo, un altro desiderio e il secondo sesso, per dirla alla Simone de Beauvoir.
Non certo per sminuire il tragico peso della violenza subita da casa Pascoli e
le sue evidenti intromissioni nei versi di Giovanni, ma per vedere e valorizzare ‘l’altro che c’è’ e che può aiutarci a capire il suo mondo, le radici della sua poesia, il suo
linguaggio. Il suo di più.
L’altro a cui alludo è la figura materna. Pascoli è tutto impregnato della figura
materna.
Di quella madre, Caterina Allocatelli Vincenzi, attiva e vitale, che aveva messo al mondo dieci figli e che dopo l’uccisione del marito “pianse poco più di un
anno e poi morì”.1 Era il 18 dicembre 1868.
Con lei e con il suo ricordo Giovanni ebbe un rapporto unico speciale fertile,
come ci testimonia egli stesso nella prefazione ai Canti di Castelvecchio (dedicati
proprio alla madre): “Non posso dimenticare certe sue meditazioni in qualche sera-
1
Prefazione ai Canti di Castelvecchio.
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ta, dopo un lungo giorno di faccende, avanti i prati della Torre. Ella stava seduta sul
greppo. Io appoggiavo la testa sulle sue ginocchia e così stavamo a sentir cantare i
grilli e a veder soffiare i lampi caldi all’orizzonte”.2 Dunque un rapporto che passò
attraverso la parola, il corpo, le esperienze vissute insieme e che rimase essenziale e
fondante per tutta la vita.
Non solo l’uomo Pascoli è impregnato di figura materna.
Myricae trasuda di presenza materna dalla prima all’ultima pagina. Com’è
possibile che sia sfuggita ai critici la sua visibilità, soprattutto alla critica attenta alle
frequenze, alla significatività delle ripetizioni, ad una lettura verticale dell’opera?
Nella mia ormai lunga esperienza di insegnante (trentatré anni) ho trovato
sulla figura materna un’unica citazione: di Giorgio Barberi Squarotti, che nella
metafora del ‘nido’ ha visto l’allegoria della vita di Pascoli. Egli ha scritto:
Dapprima il “nido” è esclusivamente quello familiare, popolato di pochi vivi e di un’infinità di morti dolenti e aggressivi (i maligni, aspri, insistenti, queruli morti familiari
del Pascoli): fra i quali anche la madre, i fratelli, le sorelle, tutti ugualmente connotati
dal pianto e da un inesauribile rancore: quello ferito a morte dalla malvagità degli
uomini (Il giorno dei morti; Accenni in Romagna; X agosto; La notte dei morti; La
tovaglia; Il nido di “farlotti”). In essi domina, custode, la madre: che è depositaria
delle ragioni del sangue e della terra, quella che convoca il giovane figlio al rito crudele
e inesorabile dell’investitura della vendetta contro l’assassino del padre (La cavalla
storna), quella che viene con la “voce stanca, voce smarrita, col tremito del batticuore”
a rimproverare più che a confortare il figlio tentato di morire.3
È, questa, una rappresentazione di Pascoli e della madre tutta schiacciata e
appiattita sulla figura paterna che toglie respiro e autonomia a entrambi e finisce
per orientare in un’unica direzione lo sguardo.
Una lettura più libera di Myricae ci offre intanto un dato molto significativo:
il richiamo alla madre, sua, biologica, o a una madre, è continuo e attraversa l’opera
dal primo all’ultimo componimento. Un quarto delle poesie contengono la citazione della figura materna: esplicitamente o con un chiaro riferimento ad essa. Quasi
una specie di denominatore comune che riguarda la maggioranza delle sezioni ed è
molto più presente della ricorrenza del padre o del nido.
Altro dato significativo è la varietà di rappresentazione. Ogni volta che Pascoli parla del padre torna alla morte, al momento atroce della violenza. Lo shock
insuperato ha bloccato l’immagine paterna su quell’attimo soffocando la loro storia
precedente, per cui non affiora altro che quel ricordo come simbolo dell’ingiustizia, del male, della precarietà della vita, della dignità offesa e violentata. Che non
recupera serenità neppure nell’aldilà. Anzi è il padre “che desia nel fango”, deluso e
infelice anche per l’assenza (tradimento?) dei figli:
2
3
Ibid.
Salvatore GUGLIELMINO – Hermann GROSSER, Il sistema letterario, Novecento, Milano, Principato, 1989, p. 937.
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Sazio ogni morto, di memorie, posa.
Non i miei morti [...]
e più oltre
O figli, figli! vi vedessi io mai!
io vorrei dirvi che in quel solo istante
per un’intera eternità v’amai.
mentre l’unica voce pietosa verso quei figli che hanno disertato il camposanto nel
giorno solenne della commemorazione dei morti è la voce della madre, pronta a
comprendere e a non chiudersi nel giudizio definitivo e nell’atteggiamento improduttivo della condanna:
e dice: -Forse non verranno. Ebbene,
pietà! […]
Pietà pei figli che tu benedivi!
In questa notte che mai non declina,
orate requie, o figli morti, ai vivi! -4
ribaltando il senso stesso del giorno dei morti. Sono questi ultimi che devono pregare per i vivi, che ne possono comprendere le debolezze. L’assenza non diventa
un’ennesima violenza della vita ma il sintomo di un’impossibilità o di uno smarrimento che chiede attenzione e sostegno attraverso la preghiera.
È una lezione di auctoritas e di pietas materna che Pascoli affida alla voce
della madre, eccezionale e altissima. Restituendo senso alle cose e creando spostamento simbolico rispetto alla cosiddetta normalità, alle regole sociali e ai pregiudizi.
Con questa madre, morta, lo ricordo, solo un anno dopo il padre, fisicamente fragile e sparuta ma evidentemente grande nella sua capacità di rapportarsi al
figlio, Pascoli ebbe sempre una specie di consuetudine di vita e un rendere conto di
sé: sono ben quattro le poesie che tornano all’anniversario della morte della madre:
31 dicembre ’89, ’90, ’91, Colloquio ’92 - ’93. Il poeta è ormai adulto e ha nelle
proprie mani il suo destino ma ama tornare a dialogare con la mamma, raccontarle
di sé e delle sue scelte, testimoniarle tenerezza e rimpianto. D’altronde gli anniversari sono momenti fortemente evocativi in sé e rappresentano occasioni speciali di
ritorni, di imprevisti e improvvisi recuperi memoriali, di bilanci, di abbandoni che
proprio attraverso quel ricordare intenso e unico possono restituire forza. È quanto accade in Colloquio, nell’ultima sequenza poetica, dove dopo un inizio accorato
e persino disperante:
4
Giovanni PASCOLI, Il giorno dei morti, in Myricae, Milano, Mondadori, 1981.
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[...] La vita che tu mi desti - o madre, tu! - non l’amo
c’è la risalita dal dolore e avviene, con il ritorno prima e la sua valorizzazione simbolica poi, attraverso la realtà condivisa con la madre nella loro breve stagione terrena: la cingallegra, l’ulivella, i gerani, i rumori della casa.
Ma sì: la vita mia (non piangere!) ora
non è poi tanto sola e tanto nera:
cantò la cingallegra in su l’aurora,
cantava a mezzodì la capinera.
I canarini cantano la sera
per la mia cena piccola e canora:
poi nell’orto vedessi a primavera
come il ciclame e l’ulivella odora!
I gerani vedrai, messi al coperto
dal gelo: qualche foglia ha la cedrina,
ricordi? l’erba che piaceva a te...
Sorridi? a questo sbatter d’usci? È certo
Ida tua che sfaccenda, oggi, in cucina.
E Maria? Maria prega, oggi, per me.
31 dicembre 1892-93
In questa capacità di riappropriarsi con pienezza della realtà io vedo l’eredità
grande della madre e il senso stesso del momento evocativo, un andare nel passato
con forza e dolore ma anche un prendere da esso energia per riaffrontare il quotidiano e sentirne la vitalità, riconfermando con questo gesto la più vera sostanza
dell’insegnamento materno: l’attenzione a ciò che ci è intorno, alla realtà, al dove
siamo e la capacità di simbolizzarli.
La fertilità del rapporto con la madre, la sua ricchezza permette a Pascoli lo
spostamento di sguardo dalla propria madre alle altre madri, com’è testimoniato da
Dopo?:
Forse è una buona vedova... Quand’ella
facea l’imbastitura e il sopramano,
venne il suo bimbo e chiese la novella.
Venne ai suoi piedi: ella contò del Topo,
del Mago… Alla costura, egli, pian piano,
l’ultima volta le sussurrò, Dopo?
Dopo tanto, c’è sempre qualche occhiello.
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Il topo è morto, s’è smarrito il mago.
Il bimbo dorme sopra lo sgabello,
tra le ginocchia, al ticchettìo dell’ago.
E questa è un’altra unicità - novità di Pascoli.
Molti altri poeti hanno cantato la propria mamma con accenti altissimi e di
grande poesia. Basti pensare a La madre di Giuseppe Ungaretti, intermediaria tra lui
e Dio, o a Mia madre, mia eterna margherita di Mario Luzi, ma nessuno ha nutrito
una fiducia cosi grande nella figura materna da ritrarla come “l’anello che tiene” (di
montaliana memoria), elemento chiave che governa il mondo anche nella difficoltà
più evidente. Sarebbe davvero povero leggere Dopo? come quadretto di puro realismo o frutto di un facile espressionismo e soprattutto significherebbe tradire Pascoli.
Quella madre e quel bimbo sono molto di più, sono, come diceva Natalino Sapegno
a proposito della poetica pascoliana, “scoperta di una realtà già sperimentata, ma ora
soltanto vissuta in tutta la sua pienezza”, capacità che “potenzia ogni immagine di un
sovrasenso, ritrova nell’impressione il simbolo, l’arricchisce di segrete corrispondenze, ne ricava un tessuto di sensazioni simultanee, una trama di embrionali analogie”.5
La conferma di quella fiducia e della forza che essa trasmette l’avvertiamo in
Il tuono:
E nella notte nera come il nulla,
a un tratto, col fragor d’arduo dirupo
che frana, il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,
e poi vanì. Soave allora un canto
s’udì di madre, e il moto di una culla.
In Dopo? c’era la simbolizzazione di una dolorosa condizione umana, della
fatica del vivere affrontata con coraggio e gestita con amore, dove al primo posto
c’è il desiderio di fare spazio al dialogo con il figlio, in Il Tuono c’è una natura
squassata che potrebbe generare paura e insicurezza e una madre che lo impedisce
contrastando col suo canto sereno la notte nera.
Né c’é per Pascoli il pericolo di una specie di eterna sudditanza rispetto alla
figura materna, una regressione all’infanzia (come pure è stato detto da tanta critica) dunque un di meno che prima è umano e poi diventerebbe anche poetico, se
leggiamo l’ultima poesia di Myricae.
È Ultimo sogno, una lirica che ha fatto discutere e che Ceserani definisce
ambigua per le sue possibilità polisemiche.
5
Natalino SAPEGNO, Antologia della storia e della critica letteraria, Roma, Barjes, 3 voll.: vol. III, p. 736.
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Da un immoto fragor di carriaggi
ferrei, moventi verso l’infinito
tra schiocchi acuti e fremiti selvaggi…
un silenzio improvviso. Ero guarito.
Era spirato il nembo del mio male
in un alito. Un muovere di ciglia;
e vidi la mia madre al capezzale:
io la guardava senza meraviglia.
Libero!… inerte sì, forse, quand’io
le mani al petto sciogliere volessi:
ma non volevo. Udivasi un fruscìo
sottile, assiduo, quasi di cipressi;
quasi d’un fiume che cercasse il mare
inesistente, in un immenso piano:
io ne seguiva il vano sussurrare,
sempre lo stesso, sempre più lontano.
Di essa va innanzitutto ricordata la posizione ‘importante’ rispetto a tutta
l’opera: chiude molto significativamente la raccolta e segna il confine tra l’io poetico e la madre. Mi sembrano decisivi gli ultimi due versi della seconda strofa e quasi
tutta la terza: è un momento onirico di grande intensità, liberatorio e che dà al
soggetto poetico, che è chiaramente il poeta stesso, il senso quasi fisico del distacco
della madre. Un momento che potrebbe tradursi in sperdimento e dunque in inerzia se avesse il sopravvento la paura dell’assunzione delle proprie responsabilità del
viaggio della vita.
ma non volevo [...]
dice con sicurezza Pascoli ed infatti si sente libero, guarito.
Il che non significa, però, cesura con il mondo materno, rimozione, abbandono, come avviene per la maggioranza degli uomini: è un andare avanti conservando il senso di quanto c’è stato e il riconoscimento della fecondità del rapporto.
“Io sento che a lei devo la mia abitudine contemplativa, qual ch’ella sia, la mia attitudine poetica”, scrisse infatti Pascoli nella prefazione ai Canti di Castelvecchio nel
marzo del 1903.
È la dichiarazione esplicita del suo radicamento nella figura materna e per me
la conferma che e lì che bisogna cercare per comprendere pienamente l’uomo Pascoli, le origini del suo mondo poetico, la lingua stessa. Così nuova rispetto al suo
tempo e così essenziale per tutto il ‘900.
Anche rispetto alla novità linguistica, riconosciuta e ammirata da tanti critici,
è stato subito problema: capacità di sperimentazione, tecnica, o altro?
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Insomma la radice di tanta modernità è da spiegarsi in una ricerca di elaborazione della lingua o in un bisogno più profondo che riguarda la sostanza stessa della
poesia pascoliana?
Mi sembrano, queste, due posizioni ben rappresentate da Pier Paolo Pasolini
e da Gianfranco Contini.
Il primo limita pesantemente il mondo psicologico di Pascoli fino a parlare di
“una ossessione, tendente patologicamente a mantenerlo sempre identico a se stesso, immobile monotono e spesso stucchevole” ma gli riconosce “uno sperimentalismo che, quasi a compenso di quella ipoteca psicologica, tende a variarlo e a rinnovarlo incessantemente. In altri termini coesistono in lui […] una forza irrazionale
che lo costringe alla fissità stilistica e una forza intenzionale che lo porta alle tendenze stilistiche più disparate”.6
Ed è in questa grandissima “funzione poetica”, per Pasolini, la lezione più
importante di Pascoli a tutto il ‘900, dai crepuscolari a Eugenio Montale, da
Umberto Saba a Giuseppe Ungaretti dalla poesia dialettale agli ermetici. “Un rivoluzionario ma solo in senso linguistico, o per intenderci meglio, verbale” dice
ancora in una sintesi che con estrema chiarezza delimita il contributo pascoliano
al ‘900.7
Ben diversa e più ricca è la posizione di Contini, anzi i suoi studi rappresentano una tappa fondamentale nella storia della critica a Pascoli, perché indagano la
profondità della lingua, nel senso più pieno della parola, e il suo rapporto con quella che per Contini è la proposta positiva della sua poesia: il ritorno alla natura “madre dolcissima”.
Mi sembrano decisivi sia l’individuazione dei tre livelli: il pre-grammaticale,
il durante la grammatica, il post-grammaticale, sia l’aver affermato che “ciò che è
unico in Pascoli, è meno il fatto di essere stato il primo a esperire, almeno parzialmente, il linguaggio pre-grammaticale, che quello di aver messo sullo stesso piano il
linguaggio a-grammaticale o pre-grammaticale e il linguaggio grammaticale e il postgrammaticale”.8 Insomma l’aver saputo tenere insieme i tre piani.
In questo che Contini definisce molto incisivamente “accordo eretico, accordo non canonico e non tradizionale”, in questa soppressione della “frontiera
[...] fra la grammaticità della lingua e l’evocatività della lingua […] fra determinato e indeterminato” io trovo la conferma linguistica della capacità di Pascoli di
non fare censura e cesura con il mondo materno (da me evidenziato a proposito
di Ultimo sogno). D’altronde non ci può essere una rivoluzione verbale (come
invece sosteneva Pasolini) senza una rivoluzione simbolica. Anzi è vero proprio
il contrario.
6
Pier Paolo PASOLINI, ripreso da Luperini, La scrittura e l’interpretazione, vol. III, tomo I, Palermo, Palombo, p. 442.
Ibid.
8
Gianfranco CONTINI, Pascoli, Milano, Mondadori, vol. I, p. XXXI.
7
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2. La lingua materna
La lingua materna è, come diceva Hannah Arendt, anche per Pascoli “nel
fondo della mia mente, in the back of my mind” e “non esistono alternative alla
lingua materna. Certo la si può dimenticare”,9 può - per dirla con Contini -, diventare indeterminata, ma è lì ed è fonte di creatività.
Su questa centralità assoluta per ogni individuo della lingua materna, sulla
necessità di non rimuoverne il lato affettivo e carnale ad essa intrinseco, “lato opaco, non direttamente formalizzabile, che resiste ad ogni schema” come invece hanno fatto finora i linguisti, c’è uno straordinario e recente saggio antologico, curato
da Eva Maria Thüne.10 Esso esplora la memoria della lingua materna, profonda e
antica dentro ciascuno di noi, che ci segna in tutto il nostro essere e ci apre all’interpretazione del mondo. Inizio di tutto e luogo di creatività.
Ed è, nella sua sostanza più intima e vera, lingua pre-grammaticale ma non
disordinata né anarchica: è una condizione assolutamente libera e giocosa, certamente svincolata da regole e convenzioni esterne, comunicazione piena che passa
attraverso il corpo fin dal nostro primo esistere. Né credo sia da confondere con la
pura emozionalità proprio perché è il tempo della pienezza linguistica e “ragione e
sentimento” stanno insieme nel modo più naturale e spontaneo, come forse mai più
avverrà nella nostra vita.
Mi sembrano illuminanti ed essenziali, e mi confermano il radicamento materno anche sul piano linguistico di Pascoli, le parole di Chiara Zamboni: “Lingua
materna è lingua viva, sostenuta dalla fiducia nelle parole e in chi ce le ha insegnate.
È amore per il linguaggio; il sentirci a nostro agio parlando. È un modo sorgivo di
stare in rapporto al parlare”.11
La situazione muta nel momento in cui interviene il sociale con le sue convenzioni anche linguistiche e, soprattutto per gli uomini, arriva quello che io chiamo il tempo della cesura e della censura. La lingua materna viene vista come momento da superare (del resto lo stesso Contini la definiva a-grammaticale o pregrammaticale e in questi prefissi mi sembrano evidenti i limiti da lui intravisti in
quel linguaggio di cui pure valorizzava le possibilità poetiche) e ne restano tracce
solo nel “profondo della mente”.
In realtà si pone, per ciascuno di noi e in questa organizzazione sociale, il
problema di passare dalla libertà e pienezza linguistica gestita nel microcosmo madre-figlio/a ad un macrocosmo che è stato costruito sulla figura paterna per cui né
riesce a valorizzare quella ricchezza né ad inglobarla. Sa solo cancellarla in nome
delle convenienze e necessità sociali.
9
Hannah ARENDT, La lingua materna, Milano, Mimesis, 1993, p. 42.
Eva-Maria THÜNE (a cura di), All’inizio di tutto la lingua materna, Torino, Rosenberg & Sellier, La prima ghinea, 1998.
11
Ibid., p. 113.
10
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Dice ancora Chiara Zamboni (riprendendo il pensiero di Julia Kristeva espresso nel saggio La rivoluzione del linguaggio poetico): “Sono solo i poeti o gli scrittori nella pratica del testo a lasciar emergere il legame pulsionale con la madre, che
scompiglia sintassi e codici. La loro lingua diviene materna. Femminile.”12 Dunque
una situazione che si verifica quasi senza intenzionalità e consapevolezza. Questo
rende per me ancora più unica la condizione poetica di Pascoli, in cui l’affiorare del
legame con la madre è non solo successo nei fatti, nel suo agire poetico, ma ha un
suo di più nell’esplicitazione prima ricordata, “Io sento che a lei devo la mia attitudine poetica”, e questa affermazione ha in sé una carica rivoluzionaria eccezionale,
che scardina l’ordine simbolico patriarcale dal di dentro.
È inoltre una affermazione che lo fa entrare davvero nel ‘900 e rappresenta
un livello di consapevolezza completamente altro rispetto a Ugo Foscolo, che pure
riconosceva alla madre la sua grecità: come dimensione di sé, uomo e poeta.
Il vero problema è che valore diamo a questa unicità di Pascoli e se ci liberiamo dagli imbarazzi ‘mentali’: se in essa vediamo solo il segno di un allargamento
quantitativo della lingua, come sosteneva Pasolini, o un ampliamento qualitativo e
quantitativo in nome di un ritorno alla natura, come scriveva Contini, o, come a me
sembra evidente, uno sconvolgimento e un ‘tradimento’, sia pure non sostenuto da
strumenti teorici, dell’ordine simbolico patriarcale, che per un uomo del primo ‘900
è stato davvero ‘eresia’ dire e praticare.
E Pascoli ha pagato prezzi altissimi per questo ‘spaesamento’ simbolico: se
infatti non si poteva negarne la novità linguistica perché troppo grande e reale, lo si
è rimpicciolito come uomo e come portatore di novità propositive rispetto all’interpretazione del mondo. Nella sua poesia c’è una rappresentazione della realtà
giocata sulla presenza di due figure, il padre e la madre, e sull’accettazione della
loro disparità nel modo di essergli accanto. Per lui non è stato un problema riconoscere la grandezza materna ma sicuramente lo è stato per i suoi tantissimi critici.
Uomini che hanno avvertito in lui il ‘tradimento’, l’accordo eretico con la
tradizione, ma non l’hanno saputo né interpretare né valorizzare. Il fatto vero è che
Pascoli non può essere stretto nell’ordine patriarcale, perché tutto di lui, alla luce di
quel modello, diventa povero e piccolo: l’attaccamento alla realtà vicina, un non
saper allargare lo sguardo al lontano, la relazione forte con le sorelle un qualcosa di
ambiguo, la fiducia nei sentimenti che ci nutrono ogni giorno un facile populismo
... e tanto altro.
Con quella porta stretta la novità linguistica rimane sperimentalismo e non
trova un senso più profondo né credo si spieghi fino in fondo il suo simbolismo,
che è veramente una rivoluzione grandissima se viene letta alla luce di un ampliamento dell’ordine simbolico. Piena rispetto alla lingua e piena rispetto ai suoi contenuti. Rivoluzione che forse solo oggi può essere davvero compresa, se però tenia-
12
Ibid., p. 117.
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mo conto di un pensiero femminile che ormai c’è e può aiutarci a leggere il mondo
e anche la poesia.
Pascoli - tra i poeti italiani - ha per me dato parola, voce e dignità poetica
alla lingua materna ed oggi quest’operazione acquista una più chiara dimensione politica, perché indica una strada agli altri uomini: la non cancellazione della
lingua materna, il viverla come ricchezza e luogo di creatività. Una conferma al
mio discorso la trovo anche nella sua mancanza di risposte a chi gli chiedeva
come lavorasse, quali fossero gli attrezzi del suo mestiere di poeta. Anche questo fu letto come gelosia delle proprie intuizioni, voglia di non svelare i propri
segreti. Io credo, molto più semplicemente che avrebbe potuto soltanto ripetere: “Io devo a mia madre la mia attitudine poetica” e scavare, come ha fatto, in
quell’enorme miniera che gli permetteva qualsiasi arricchimento e non lo limitava né al grammaticale né alle lingue speciali né al post-grammaticale, come
testimonia Italy.
Tutto questo è stato certamente più possibile in un momento storico e in una
atmosfera poetica, quella del simbolismo, che dava libertà e sensatezza al desiderio
di scavo. Anzi lo legittimava.
Vorrei, in chiusura, riandare a Lavandare, alla luce di quell’ampliamento dell’ordine simbolico e della valorizzazione della figura materna nel senso più generale, cioè figura femminile.
Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggiero.
E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
quando partisti, come son rimasta!
come l’aratro in mezzo alla maggese.
Lavandare rimane una lirica sull’assenza dell’altro e dunque sul dolore della
lontananza. Ma liberi dalla chiave del dramma paterno ne gustiamo tutta la carica
positiva: quello sciabordare si riempie delle chiacchiere tra le donne, del loro raccontarsi certamente anche la sofferenza, ma non solo la sofferenza. Io vengo da un
paese del sud e ho visto il suo spopolarsi per un’emigrazione - quella degli anni ’50
- massiccia e devastante, ma ho anche visto centinaia e centinaia di donne saper
continuare a vivere, a cantare, a mandare i figli a scuola: governare il mondo sia
pure desiderando il ritorno del loro uomo.
E Pascoli credo abbia proprio voluto cantare la capacità di stare al mondo
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anche nella sofferenza e valorizzare la grandezza simbolica che c’è in quest’atteggiamento verso la vita.
È poco e piccolo? Non acquistano un sapore nuovo e una forza nuova le
onomatopee, le ripetizioni, le ciance delle comari, il merlo che chioccola, l’organizzazione imprevista e scompaginante della sintassi, se ci liberiamo del modello Pascoli /padre /nido e lo rileggiamo senza il peso di quella tragedia?
Questo mio lavoro è il frutto di una riflessione nata nella vita della realtà
scolastica e nel rapporto con altre donne e uomini, insegnanti e non, in un circolo
culturale, La Merlettaia. Dunque nasce da due forti esperienze e da un nostro porci
rispetto al passato con la consapevolezza che esso va riletto e reiterpretato alla luce
delle nuove domande e dei nuovi contributi che questo momento storico pone e
porta.
Nasce anche da una maggiore libertà rispetto alla critica, che definirei
‘arbitrarietà non anarchica’.
Un grazie particolare ad Antonietta Lelario e a Maria Grazia Maitilasso per
le loro importanti sollecitazioni sulla lingua materna.
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