Le logiche dell`immaginario e la grammatica dei simboli

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Le logiche dell`immaginario e la grammatica dei simboli
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Le logiche dell’immaginario e la grammatica dei simboli
di Maurizio Nicosia
Le logiche dell’immaginario e la grammatica dei simboli
Tanti anni fa C. G. Jung ricordava che l’uomo, prima d’essere un animale sociale e razionale,
come voleva Aristotele, è anzitutto un animale simbolico, che cioè costruisce simboli dei quali si
nutre incessantemente. Se diamo al termine simbolo una significazione ampia, non v’è nulla nel
campo dell’attività umana che non sia simbolico. Tuttavia il simbolo indica una realtà irriducibile
alla dimensione strettamente razionale. Ciò non significa che il simbolo sia ‘irrazionale’ o ‘non
razionale’, ma che gli strumenti della ragione non possono completare la totalità che il simbolo
rappresenta.
Nei confronti del simbolo si ha sovente un atteggiamento da collezionisti, come chi trovi una rara
farfalla, andando in Brasile, la catturi e poi la collochi nella sua collezione. Accade insomma
sovente che gli studiosi del ramo, forti d’una raccolta impressionante di significazioni del simbolo,
tendano ad adottare un comportamento non dissimile a quello che abbiamo nel campo dell’arte, in
cui ci è naturale staccare un quadro dalla sua ubicazione naturale, sia una cappella, un edificio
privato o una chiesa, e metterlo in un museo. Una sorta di congelamento.
Uno degli aspetti che possono connotare il simbolo è la sua possibile topografia reale o ideale: il
simbolo del sole se posto a oriente può avere un significato, se posto a occidente un altro. Molto
spesso il codice simbolico si articola all’interno d'uno ‘spartito’ non diverso da quello di un
pentagramma musicale in cui viene collocato in rapporto all’axis mundi: allora un certo simbolo
potrà parlare d’uno stato dell’essere corrispondente a un certo livello di coscienza e a una certa
posizione cosmogonica.
Ma fin qui stiamo semplicemente lambendo la polisemia di un simbolo e di tutti i simboli. Cioè,
in altre parole, un simbolo, come una qualsiasi parola, ha un ventaglio semantico, un ventaglio di
significati, di più o meno ampia ricchezza.
Supponiamo che io dica “gli aerei che sorvolavano il mare andarono a bombardare l’Inghilterra”,
e dopo dica “il naufragar m’è dolce in questo mare”. Tra queste due frasi l’unico elemento in
comune è proprio la parola ‘mare’, ma è altrettanto chiaro che si sta parlando di due mari
completamente diversi: uno è un mare geograficamente precisabile nella Manica e quella frase è
parte di un periodo che si riferisce ai primi bombardamenti dell’Inghilterra da parte dei tedeschi, il
secondo è un verso di Leopardi in cui addirittura non si parla nemmeno di un mare liquido dove ci
si possa fare il bagno.
I simboli sono l’anello finale di un sistema linguistico infinitamente più complesso di cui spesso
percepiamo singole parole e non il senso d’una frase. Per cercare d’intendere un simbolo va
considerato il contesto in cui esso viene espresso. Decontestualizzando il simbolo si perde la
possibilità d’intendere il suo senso più profondo.
Dobbiamo parecchio a Gilbert Durand, un francese allievo di Bachelard, uno dei più grandi
epistemologi dello scorso secolo e primo ha inteso che la “dimensione poetica” non era
semplicemente un aspetto di gusto o d'espressione, ma manifestava una forma di conoscenza
diversa e autonoma rispetto a quella della scienza.
Bachelard cominciò cos’ a indagare il campo della poesia e dell’arte in genere e per una prima
intuizione cominciò prevalentemente a lavorare sui quattro elementi, terra e aria, acqua e fuoco,
cercando di mettere a fuoco ciò che la poesia diceva intorno a essi. Ma Durand, suo allievo, avvert’
che mancava l’aspetto sistemico, l’aspetto strutturale e su una scorta impressionante di dati, di
studi psicologici, antropologici, ha scritto un testo che oggi è capitale: Le strutture
antropologiche dell’immaginario.
Durand ha còlto che l’immaginario è sostanzialmente un esorcisma, un esorcisma della morte, e
del tempo che ci conduce alla morte. Egli ha individuato come, rispetto alle pulsioni personali, i vari
complessi psicologici, l’aspetto più universale, l’angoscia prima, il dramma primo dell’uomo è
appunto la morte. E dunque il tempo diviene, nell’immaginario dell’uomo, ciò che conduce alla
morte, ineluttabilmente. L’immaginario da questo punto di vista non è altro che un innesco
attraverso cui l’uomo tenta di esorcizzare questo percorso che lo conduce alla morte. Traccio
adesso quattro segni sintetici:
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Quest’ultimo simbolo non va assolutamente inteso come «simbolo ebraico». Il sigillo di
Salomone diventa simbolo di Israele solo nel secolo scorso mentre è usato da secoli per tutt’altre
indicazioni. Basti dire che è l’insieme dei quattro elementi di cui si parlava prima. Il primo è
semplicemente un segno e sta a indicare la clessidra: nient’altro che il tempo.
Mi limiterò ad abbozzare due aspetti dell’immaginario: funzione e funzionamento. La funzione
l’ho già sintetizzata: esorcisma del dramma della morte. È il tempo che ci conduce inevitabilmente
alla morte. Un tempo che, vedremo, assumerà connotazioni di natura diversa in ragione
dell’atteggiamento dominante dell’uomo.
Rispetto dunque al correre verso la morte questi tre segni non rappresentano altro
che tre atteggiamenti diversi della natura umana e quindi i tre principali aspetti
dell’immaginario. Quindi l’immaginario non è altro –secondo Durand– che un
processo attraverso il quale l’uomo o rifiuta completamente o metabolizza, fa propria, l’esperienza
della morte prima che essa avvenga: in questo percorso v’è un nucleo che possiamo considerare
squisitamente iniziatico. E d’altronde le iniziazioni non si inventano a tavolino ma sono il frutto esse
stesse della dimensione immaginaria dell’uomo.
L’atteggiamento più netto dell’immaginario è quello che vedete contrassegnato da questi due
triangoli: uno schema generale di separazione.
Qui ci troviamo agli antipodi, nel senso che ciò che nel primo simbolo è separato e distinto, qui
viceversa risulta omogeneo e confuso. Non appaiono due triangoli riconoscibili ma un rombo o
una losanga.
Qui troviamo i due triangoli riconoscibili come prima ma non più separati, anzi concentrici e in
equilibrio tra loro.
Questi tre segni possono in un certo senso sintetizzare quelle che sono le tre dominanti, per
cos’ dire, dell’essere umano, che sono dominanti riflessologiche: in rapporto alla nostra attività
continua e quotidiana certi atteggiamenti ripetuti plasmano il nostro essere. Queste tre dominanti
sono: la prima di posizione, la seconda digestiva, la terza ritmico sessuale.
La dominante di posizione è sostanzialmente la verticale. Il passo decisivo che ci fa divenire
uomini è conquistare la posizione eretta con tutto ciò che essa comporta e cioè la capacità
manipolatoria e soprattutto il nostro senso principe, la vista, che si fonda sulla distanza. Nulla può
essere visto bene, accuratamente, se si è troppo vicini. La vista è uno dei sensi principi che
comportano la distanza, agli antipodi dunque di quelli che sono i sensi come quello tattile e
gustativo che viceversa richiedono un contatto immediato.
Questi tre segni li possiamo vedere come vere e proprie configurazioni dell’immaginario, che
hanno un aspetto specificamente diurno, uno specificamente notturno e uno che Durand ricovera
nel «tempo della notte» ma che io ritengo piuttosto aurorale, che si situa tra giorno e notte. Infatti
Durand da queste dominanti che improntano tutta l’antropologia del nostro essere, il nostro stesso
essere uomini, ricava questi che sono gli assetti principali:
Il primo è un regime di antitesi, di separazione. Questo regime dell’immaginario,
sostanzialmente antitetico, della divisione, Durand lo collega al seme della spada nei tarocchi.
Là dove invece di dividere si confonde, si mescola, si raccoglie, Durand utilizza il seme delle
coppe.
Oro e bastoni contrassegnano la polarità del regime sintetico, che mantiene le differenziazioni,
ma al contempo le supera.
Ciò che attiva il percorso immaginario è il rapporto nei confronti del tempo. Questo diverso
modo di modellarsi rispetto al tempo, di rifiutarlo o di accettarlo, o di metabolizzarlo, determina
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degli schemi mentali e comportamentali che generano degli archetipi generali, i quali a loro volta e
solo in fine generano i simboli. I simboli non sono altro, per cos’ dire, che localizzazioni, casi
particolari di un assetto generale della mente, dell’immaginario.
Cominciamo dal regime diurno o antitetico: qui sono le polarità più forti e assolute -lo vedete
già da questi due segni- che si catalizzano fra l’alto e il basso. Questo schema generale di
‘alto’ e ‘basso’, su un asse cosmico che vede naturalmente il cielo in alto e la terra in basso,
genera quelli che possono essere gli archetipi generali, sicché per esempio è inevitabile che l’alto
si connoti di colorazioni morali o filosofiche, che sia puro, chiaro, limpido e che viceversa il basso
sia tutto il contrario di ciò: impuro, orrido, fetido, oscuro, tenebroso. Da questo schema generale
dell’alto e del basso si cominciano a generare questi archetipi di fondo basati su un’antitesi
continua tra i due poli, come la scacchiera d'un pavimento bianco e nero.
Dagli archetipi generali si giunge a quelli che Durand chiama archetipi sostantivi e infine ai
simboli. Da questo meccanismo di progressione si genera uno schema generale che dipende da
una nostra dominante antropologica; questo schema genera delle famiglie di archetipi e queste a
loro volta vengono costellate di simboli che vanno a precisare ulteriormente questo rapporto tra
l’uomo e il cosmo. Quando queste costellazioni entrano, come dire, in un ‘tessuto dinamico’
diventano miti, diventano riti, diventano vere e proprie narrazioni.
Un altro processo generale vede il primato del verbo sull’aggettivo e dell’aggettivo sul
sostantivo, perché il sistema simbolico immaginario tende sempre a generalizzare, a rendere
universale l’esperienza e perciò tende a privilegiare il verbo che dal punto di vista logicogrammaticale contiene la funzione più generale. Il sostantivo è il caso di maggiore
particolarizzazione o di individualizzazione e anche quando il sistema simbolico utilizza dei
sostantivi o ciò che potremmo definire come ‘sostantivi’ molto spesso li utilizza però con una
funzione verbale o aggettivale. Per fare un esempio: il simbolo del serpente non necessariamente
indica il ‘sostantivo’ serpente ma la funzione generale verbale di cui il serpente è un caso
particolare. Questa funzione generale è precisamente quella dello strisciare, dell’essere avvinti al
suolo, dell’essere legati alla terra. Il serpente nell’immaginario è una spina dorsale sconfitta,
l’esatto opposto dell’uomo. Il serpente diventa nient’altro che un caso particolare di quel basso,
fetido, impuro a cui abbiamo appena accennato prima.
Con la stessa logica l’uccello, come simbolo, sottolinea la funzione opposta, cioè la capacità di
volare verso l’alto; tant’è che poi l’immaginario può, con una logica ben precisa, utilizzare sostantivi
analoghi per indicare la medesima funzione dell’elevarsi. Da questo punto di vista, per esempio,
per l’immaginario hanno la stessa funzione la scala, la cima, la montagna, la piramide, l’uccello, la
freccia: sono nient’altro che famiglie di simboli che indicano sempre una volontà ascensionale.
L’uomo desidera l’ascesa, si è fatto dono di poterla immaginare; l’ascesa può essere lenta,
difficile, la via allora diviene ripida, la scala scoscesa, la montagna erta.
Dunque l’immaginario prima configura uno schema generale, che potrebbe molto spesso
coincidere con lo schema cosmogonico, e solo alla fine lo concreta di precisi simboli. Ecco che
l’angelo da questo punto di vista è la perfetta quintessenza di un’umanità che conquista l’ala. Una
volta che si intende questo meccanismo diventa possibile comprendere la ricchezza
semantica del sistema. Per esempio, nella logica propria del regime antitetico
dell’immaginario, certi riti culturali di purificazione si chiariscono: la tonsura, la circoncisione,
persino l’infibulazione non sono altro che un processo attraverso il quale ci si separa d’una
parte diversa dalla propria. Nel caso dell’infibulazione si elimina l’elemento maschile dalla donna,
nel caso della circoncisione l’elemento femminile dall’uomo e nel caso della tonsura l’elemento
dell’animalità.
Il regime diurno o antitetico dell’immaginario è uno dei regimi più ‘forti’ ed è quello dominante
nell’Occidente: il razionalismo è un sistema sostanzialmente dualista che polarizza. È
estremamente significativo da questo punto di vista come l’Occidente, cos’ plasmato da questa
logica dualista che è tipica del regime antitetico, sia entrato in crisi quando questa divisione
dualista che aveva generato nel mondo è venuta meno.
È estremamente sintomatico che col venire meno del muro di Berlino, delle divisioni e delle
separazioni, i muri si siano moltiplicati all’infinito e addirittura qualcuno lo vorrebbe erigere accanto
alla casa del vicino. La religione, la cultura, lo sport, persino semplicemente l’abitare da una parte
o dall’altra possono costituire fattore di divisione: la causa in realtà è proprio una sorta di forma
patologica di questo regime dell’immaginario, profondamente dualista.
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D’altronde dovremmo cominciare a chiederci con più serietà come mai questa società che noi
riteniamo la più evoluta, la più avanzata tecnologicamente, la più sofisticata, è quella che ha
prodotto le più atroci barbarie di tutti i tempi, di tutte le civiltà: l’unica che abbia progettato il
genocidio sistematico delle popolazioni, l’unica che sistematicamente produca l’irrazionalità più
stolida e feroce. Come mai una società cos’ razionalista, cos’ ‘limpida’, cos’ tecnologica, d’un tratto
produce i nazismi, l’intolleranza, le atrocità, le barbarie? Perché quando si reprime l’immaginario si
verifica l’effetto Pompei: se scoppia il tappo è un disastro.
L’uomo ha bisogno dell’immaginario, non solo per attivare quell’esorcisma nei confronti del
tempo e della morte, ma ne ha bisogno in primo luogo perché è solo l’immaginario che gli
consente di proiettare nell’eterno l’angustia del vivere quotidiano. Molto spesso l’attività dell’uomo
non è consistita in altro che concretare i sogni dell’immaginario, ciò che l’immaginario prospettava
alla mente dell’uomo.
Nel regime diairetico (o della separazione) il tempo assume un volto che si catalizza in tre
grandi famiglie di simboli teriomorfi, nictomorfi e catamorfi, cioè i simboli di forma animale, di
forma notturna e tenebrosa, e i simboli correlati alla caduta. Il regime diurno dell’immaginario
crea delle polari famiglie antitetiche a quanto è correlato all’animale, al mostro; oppone, in sintesi,
la purezza, la purificazione all’impuro.
Non bisogna dimenticare la correlazione tra l’animalità, la notte e la caduta. Dal punto di vista
dell’immaginario l’elemento primario che appare in tutte le lingue antiche è proprio l’animato: la
prima differenziazione linguistica è tra animato e inanimato. E l’animato viene avvertito come
portatore della morte. Cos’ il tempo assume tratti animali, diventa figura divoratrice. Kronos, ovvero
il tempo, mangia i propri figli. E il morso del tempo acquista dunque un volto animale, canino;
Anubi, dal volto di lupo, non a caso accompagna i morti nel loro percorso. Questo tema è parallelo
a quello della caduta, vissuta come distacco, come perdita. Non a caso c’imbattiamo nella
simbolica del cieco, dello zoppo, di colui che ha perduto una parte della coscienza. E infine questa
caduta non può che portare inevitabilmente nel buio, nella tenebra.
Il regime diurno della separazione oppone in maniera speculare ai simboli animali, tenebrosi e
della caduta quelli della separazione, la spada fra tutti, quelli dell’ascesa e della luce. Una luce che
però in questa dimensione dell’immaginario si presenta come incolore, è una luce vivida,
abbagliante, che coincide con l’autorità, con il dio padre.
Nel regime della separazione prevale l’ingigantimento, perché sostanzialmente la logica di
questo assetto immaginario ingrandisce la difficoltà perché il trionfo su essa sia maggiore. Qui
troviamo le figure come Perseo e Teseo che entrano negli inferi, affrontano le figure
mostruose e terrificanti, ne hanno ragione e trovano la luce. È una serie di eroi solari che
manifesta questo processo di rifiuto del tempo. In altre parole il regime diurno dell’immaginario al
tempo oppone lo spazio, lo “moltiplica” e tramite questa moltiplicazione nega sostanzialmente il
tempo. Non esiste il passato nel regime diurno dell’immaginario.
Nel regime mistico, invece, la caduta non è più l’abisso che conduce agli inferi ma è discesa
dolce e graduale. Il regime mistico si muove in una direzione opposta, quella dell’asse
digerente, quindi una discesa dolce, morbida, accogliente. Qui si ricovera una serie di simboli
come il grembo, la caverna, l’antro, la barca, la culla, la crisalide. Tutti indicano questo processo di
eufemizzazione del tempo e di ottimizzazione della sua portata negativa.
L’aspetto che più Durand fatica a mettere a fuoco è quello che possiamo chiamare ‘sintetico’ e
che si innesta sulla dominante ritmico sessuale; come vedete dal segno che ho utilizzato per
contraddistinguerlo si prefigge di unire ma non di confondere. I due triangoli originari sono ben
riconoscibili ma fra loro armonizzati.
Il regime sintetico è corrispondente nei tarocchi ai semi di denari e bastoni, della ruota (denari) e
della ciclicità (bastone che germoglia). Nel regime sintetico il rito è già un atto di questo
immaginario: l’atto fondamentale del rito è ripetere. E il ripetere, in quanto tale, nega il passare del
tempo. In questo caso il tempo non viene rifiutato in maniera drastica, come nel regime diurno o
della separazione, ma viene metabolizzato attraverso la sua ripetizione. Un tempo-ripetizione che
di fatto è un tempo-negazione. Il rito è per eccellenza il mezzo attraverso il quale il tempo si
arresta. Il tempo dunque non viene rifiutato ma esorcizzato rendendolo ciclico. Non a caso tutti i
nostri sistemi di misurazione del tempo sono in definitiva sistemi di misurazione spaziale e che
tendono a una spazializzazione del tempo, a iscriverlo nella circolarità. Il nostro calendario afferma
una perenne circolarità: al 31 dicembre succede perpetuamente un nuovo primo gennaio.
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Ma parallelamente a questa concezione ciclica del tempo ne appare un’altra che avvalora
positivamente il tempo. Appare il bastone dei tarocchi: dunque una rinascita, un germogliare: alla
ciclicità del calendario si sostituisce una vera e propria accelerazione della storia in cui in definitiva
l’alchimia, che può sembrare pratica marginale del tutto secondaria, ha un ruolo in realtà centrale,
in quanto si prefigge l’obiettivo di accelerare il corso della storia. Cosa ripetono gli alchimisti? Che i
metalli diventeranno tutti oro, ma in tempi estremamente lunghi. Accelerare questo processo
trasmutatorio, ecco la ragione della serie di ricerche per accelerare questo processo che
naturalmente avverrebbe. In altre parole là dove Natura non arriva deve intervenire l’Arte. L’uomo
dunque non si deve opporre alla natura, ma deve accelerarne i processi. Lo sviluppo della tecnica
e poi della tecnologia in Occidente s’innesta proprio su questa direttrice, almeno inizialmente, e
traggono dall’alchimia proprio la funzione di accelerare il corso della natura.
Se qui appare l’autorità, l’altissimo, il puro, il perfetto, se qui troviamo nella madre l’elemento
accogliente (non a caso mater-materia, luogo in cui la discesa diviene infine accogliente e calda),
questo non è la madre né il padre, ed è ambedue: è il figlio. Questi due triangoli, identici ai due
triangoli originari, in realtà sono qualcosa di nuovo; in altre parole si concreta in questo assetto
immaginario quel principio platonico del conoscere pensato come una diairesis, un dividere, e
quindi una sinagoghé, un unire.
Termino questo sommario abbozzo dei regimi dell’immaginario con una citazione zen: “prima di
cominciare i miei studi per me il monte era il monte e il lago era il lago , poi quando ho cominciato
a studiare il monte non era più il monte e il lago non era più il lago , adesso che ho terminato gli
studi il monte è di nuovo il monte e il lago è nuovamente il lago” .