Incipit - Claudiana

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Incipit - Claudiana
brunetto salvarani
odoardo semellini
il vangelo secondo
Leonard Cohen
Il lungo esilio di un canadese errante
Prefazione di Stefano Cisco Bellotti
Postfazione di Pasquale Troía
CLAUDIANA - TORINO
www.claudiana.it - [email protected]
Brunetto Salvarani
si occupa di dialogo interreligioso, insegna teologia, dirige le
riviste “CEM Mondialità”, “QOL”, “Tempi di Fraternità” e nel
tempo libero si dedica a cantautori, fumetti e altre quisquilie…
Odoardo (Odo) Semellini
è operatore culturale presso il Comune di Carpi, esperto di musica e di fumetti. Con Salvarani ha pubblicato Di questa cosa che
chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini, e Terra in bocca.
Quando i Giganti sfidarono la mafia.
© Claudiana srl, 2010
Via San Pio V 15 - 10125 Torino
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ISBN 978-88-7016-789-4
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Copertina: Umberto Stagnaro
Stampa: Stampatre, Torino
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«I’m the little jew…»
«È così divertente credere in Dio!»
(Leonard Cohen)
«I’m the little jew / who wrote the Bible».
Un’autodefinizione quanto mai impegnativa, quella di mister Leonard Norman Cohen, tratta da uno dei pezzi più riusciti della sua produzione relativamente recente (1992), The
future. Un brano autobiografico e apocalittico, denso di metafore e forse un po’ oscuro (eccone l’incipit, tanto per gradire: «Datemi indietro le mie notti spezzate/ la mia stanza piena di specchi, la mia vita segreta/ sono ormai solo, qui,/
non c'è più nessuno da torturare./ Datemi il controllo assoluto/ su
ogni anima vivente»).
Difficile, peraltro, capire chi sia davvero questo geniale «piccolo ebreo/ che ha riscritto la Bibbia», da oltre quarant’anni capace di suscitare passioni profondissime e (quasi) altrettanta insofferenza presso un pubblico mondiale che lo ritiene il maggiore
poeta della modernità in musica (a giocarsi la posizione con un
altro artista ebreo sui generis, mister Bob Dylan ovviamente) o
un fenomeno ampiamente sopravvalutato e troppo oscuro, persino
ermetico, per i suoi testi complessi. Non ci riusciremo neppure
noi, lo ammettiamo in partenza. Impotenti quanto incuriositi, tuttavia, di fronte a questa leggenda misteriosa che ha attraversato
la seconda metà del Novecento e ogni tanto riappare sulle scene
per poi scomparire, per anni, nel silenzio da cui proviene. Vero e
proprio Lost Canadian.
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Ciò che ci ha colpito, certo non per primi, e che ha motivato
questo nostro lavoro, al di là della passione consolidata per un personaggio così sui generis, è il filo rosso della sua poetica. Perlomeno, uno dei fili rossi, se non il principale. Si potrebbe definirla, approssimativamente, la sua fascinazione per l’aspetto sacro e mitico
della vita umana, unico elemento – in tandem con l’amore – in grado di riscattare la fugacità e la precarietà delle esistenze. Un dato
più capitato fra le mani che scelto, in Cohen, e che certo trae radice
dalla sua ebraicità, appunto, ma che tuttavia non la esaurisce: donandole, vorremmo dire, un tratto quasi sconosciuto alle coeve produzioni musicali su scala planetaria. Torneremo, naturalmente, su
questo dato originario. Accanto al quale ne poniamo un altro, forse
ancor più stupefacente a occhi europei, e senz’altro a occhi italiani.
Il Nostro, infatti, scrive e canta di un’intima sacralità della realtà e
di Scritture Sacre e di Gesù da ben prima di quando, nel quadro di
quella che è stata definita la crisi dei Grandi Racconti (J.F. Lyotard
docet), gli argomenti della spiritualità si facessero moda culturale.
Moda a basso prezzo, non di rado. O anche sentita, più raramente,
ma mai carne e sangue come in quel «piccolo ebreo» perennemente
inquieto e in fuga da sé. Che – come sa bene ogni buon talmudista
– è consapevole che la cultura, il sapere, l’intelligenza delle cose
non possono essere ereditate, ma solo frutto di una ricerca inesausta e continua, dal primo all’ultimo giorno di vita: fino a moltiplicare i suoi siti della memoria, da Montreal a Hydra, da Nashville
a Parigi, da Los Angeles all’India. Che ricorre alla Bibbia come al
grande codice della sua poetica mentre impera incontrastata, nell’occidente euroamericano, la vulgata della morte di Dio (è la metà
degli anni Sessanta, per capirci, tre dopo l’inizio del Vaticano II
e altrettanti prima del famigerato Sessantotto). Dell’esaurimento,
anzi, dell’eclissi del sacro. Della fine conclamata del discorso religioso in ambito pubblico. E della sua traduzione, semmai, in benzina pregiata per il fuoco dell’attesa rivoluzione proletaria…
Prima di avventurarci a scoprire meglio quel filo rosso cui abbiamo solo accennato, però, è opportuno fare un passo indietro
per cercare di intuire chi fosse quel giovane uomo che esordì così
fragorosamente, e così tardi rispetto alla media abituale, nel (difficile) mondo della musica. Come si diceva, non si trattava per nulla
di uno sconosciuto…
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Cohen prima del mito
Era un venerdì, l’ora in cui per gli ebrei di tutto il mondo si apre
già lo shabbat, e mancavano appena due giorni all’inizio dell’autunno. Nato il 21 settembre 19341 in Canada, a Westmount in Belmont Avenue 599, quartiere di Montreal, da una famiglia ebraica
eppure confortevole, come la definisce lui, di lingua inglese (elemento non banale, in una metropoli largamente a maggioranza
francofona), Leonard perde il padre a soli nove anni. Quel padre
di origini polacche che, insieme a quelle lituane della madre, in
qualche modo gli ha impresso robusti cromosomi est-europei. Un
evento, la morte precoce del genitore, che segnerà fortemente la
sua personalità, e quella di sua sorella, di cinque anni maggiore,
Esther.
Il nonno materno, il rabbino Solomon Klinitsky-Klein, si era
fatto luce negli ambienti culturali cittadini per aver firmato una
ricca raccolta di interpretazioni talmudiche e un Dizionario dei
Sinonimi e degli Omonimi di larga fama, fino a esser conosciuto
come il Principe dei grammatici. A lui sarà dedicata una delle
prime poesie pubblicate dal giovane nipote, Il canto dell’ellenista. Ma anche nel ramo familiare del padre Leonard può vantare
ascendenze illustri, con il nonno che compare tra i fondatori del
primo giornale anglo-ebraico dell’intera America e della Jewish
Colonization Society, sorta per favorire lo spostamento dei contadini ebrei del Vecchio Continente agli Stati Uniti del Midwest. La
famiglia paterna era approdata in Canada intorno al 1860, da una
regione polacca che nel frattempo è diventata parte della Russia,
mentre quella materna attorno agli anni Venti del secolo scorso,
poco dopo la rivoluzione sovietica, dalla Lituania, per sfuggire
all’antisemitismo montante. In realtà, ammetterà lui, entrambi i
genitori si sentivano perfetti canadesi, senza alcuna nostalgia per
il passato familiare. Cohen ci descrive la sua parentela – nonostante le ovvie conflittualità generazionali – come si fa memoria di qualcosa di nostalgicamente perduto, «ricca di molte cose,
1 Curiosità, legate agli astri della musica d’autore, probabilmente: Ornella Vanoni è nata il giorno dopo, e Gino Paoli due giorni dopo.
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principalmente della gioia dell’impegno nei confronti della comunità e della religione, ma non di denaro», immersa in un mondo
che aveva, per chi vi appartenesse, un enorme significato, e che
rappresentava la continuità con la tradizione, l’aderenza alle radici2. Senza particolari ideologie politiche retrostanti: una famiglia
ebraica piuttosto conservatrice, ma senza fanatismi, e senza dogmi. Degna, in ogni caso, di occupare la terza fila nella principale
sinagoga di Montreal. Con un pizzico di orgoglio, egli arriverà
a dichiarare, al riguardo: «Non ho mai sentito né conosciuto il
significato di parole come alienazione o isolamento. I miei familiari avevano cresciuto una comunità perfettamente autosufficiente, retta da leggi giuste, ideali e grande disponibilità verso il
prossimo». E a rassicurare: «Non avevano denaro né potere ma
erano ricchi di felicità»3. Una volta rivelò che la sua bambinaia era
cattolica, e spesso lo portava in chiesa con lei. E che da allora, lui
guarda il cattolicesimo come un outsider, vedendolo soprattutto
solo in termini di rito e di preghiera; finendo, in ogni caso, con il
considerare senz’altro attraente la figura di Gesù.
Di Leonard bambino, un suo educatore ai campi vacanze estivi
scriverà che si trattava di «un ragazzo gentile, un leader naturale».
Frequenta prima la Herzliah High School, e poi la Baron Byngh
High School, un ottimo istituto protestante che – ironia della sorte
– riportava all’epoca un 90% di presenze di ragazzi ebrei per la
vicinanza con il quartiere ebraico: vi sono usciti, fra gli altri, i
futuri poeti e scrittori Irving Layton e Mordechai Richler, autore
della celebrata Versione di Barney. Dopo i primi studi4, nel 1951
si iscrive alla locale, ma prestigiosa, McGill University, senza
altro scopo – dirà sornione – che dotarsi «di vino, di ragazze e
di canzoni». Qui, infatti, diciassettenne, fonda un trio di musica
country-western (!), i The Buckskin Boys. Con un repertorio assai disparato, che spazia dai pezzi di Hank Williams al tradizionale blues. «Ero pieno della frenesia di suonare – spiegherà – e
dimenarmi battendo i piedi. Celebravo una sorta di vita emotiva
2 M. Cotto, Leonard Cohen, in Everybody’s talking. 50 interviste alle leggende
del Rock, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2007, p. 295.
3 Ivi, p. 296.
4 Sotto la sua fotografia scattata in occasione della consegna del diploma, si legge che la sua ambizione sarebbe quella di diventare «oratore di fama mondiale».
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insieme a tanti altri che la pensavano come me… Allora il country
bastava per soddisfare questa esigenza».
Già all’epoca, a dire il vero, emerge la sua vena poetica, tanto che la sua raccolta d’esordio dedicata al padre Nathan, Let us
compare mythologies, vede la luce nel 1956, quando sta frequentando un anno accademico in trasferta, all’università newyorchese
di Columbia, e ottiene da subito parecchie recensioni favorevoli
(nonostante ami precisare che, «sfortunatamente, nel Nordamerica, la poesia non ha il medesimo valore e prestigio che le viene
giustamente conferito in Europa»)5. L’anno, curiosità, è lo stesso
in cui escono il famoso On the road di Jack Kerouac e l’altrettanto
celebre Howl (L’Urlo) di Allen Ginsberg, ma il Nostro punta la
sua bussola in tutt’altra direzione. Sono quarantaquattro liriche in
tutto, che escono alla luce corredate dai disegni di Freda Guttman,
una delle sue prime ragazze. In realtà, l’ha folgorato, letteralmente, l’incontro ideale con Federico García Lorca, destinato a essere
il suo nume tutelare nell’ambito della poesia. L’ha scoperto per
caso, imbattendosi in un suo libro in una libreria a metà prezzo: il
mondo del poeta gitano gli risulta subito familiare, il suo linguaggio accessibile, «come una musica folk bagnata da un chiaro di
luna». Aprendo il volume, trova questi versi:
Voglio vederti passare sotto gli archi di Elvira
per vedere le tue cosce e iniziare a piangere
di cui dirà in seguito: «Quelle parole sconvolsero la mia vita e
compresi che la mia esistenza sarebbe stata uno sforzo continuo
per scrivere, un giorno, almeno una volta nella vita, una frase simile». E nell’album del 1988 I’m your man (senz’altro uno dei
suoi più ispirati), lo omaggerà con un bellissimo pezzo che nella
sostanza traduce una lirica del poeta andaluso (Pequeño vals vienes) con il titolo Take this waltz, «dandogli finalmente qualcosa
in cambio».
Ben presto, Leonard – non senza reiterati contrasti con la famiglia – diventa il principe riconosciuto della bohème di Montreal,
5 Ivi, p. 301. La raccolta è stata di recente pubblicata in italiano: L. Cohen,
Confrontiamo allora i nostri miti, Minimum Fax, Roma, 2009.
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e si aggira per le strade di questa sorta di Gerusalemme del Nord
(come è stata chiamata) dispensando consigli di saggezza e versi
come quelli di Poem (Poesia): «Ho sentito di un uomo/ che pronuncia le parole così splendidamente/ che se solo ne proferisce
il nome/ le donne gli si concedono./ Se io sono muto accanto al
tuo corpo/ mentre il silenzio sboccia come tumore sulle nostre
labbra/ è perché sento che un uomo sale le scale/ e si schiarisce la
voce alla porta»6. I suoi parenti, per la verità, si mostrano piuttosto
preoccupati al riguardo («prima che il mio lavoro fosse riconosciuto, le persone della mia famiglia erano un po’ costernate per la
mia scelta di diventare scrittore»).
La causa per cui si mette a trafficare con i versi è la più antica del mondo… come ammette candidamente, conta infatti di
aver così maggior fortuna con le donne: «Le volevo – avrebbe
confidato al suo biografo Ira B. Nadel, parecchi anni dopo – ma
non potevo averle. Questo è il vero motivo per cui ho cominciato
a scrivere poesie. Scrivevo messaggi per le donne, per sedurle.
Loro li facevano circolare, e la gente li chiamava poesia. Quando
non funzionava con le donne, mi rivolgevo a Dio»7. In un’intervista ad Arthur Kurzweil per The Jewish Book News Interview, poi,
spiegherà il significato della poesia per lui: «Nella sua forma più
pura, la poesia è come il polline delle api… Il miele della poesia è
dappertutto. È negli scritti del “National Geographic”, quando un
concetto è assolutamente chiaro e bello; è nei film; è dappertutto,
perché quello che noi chiamiamo poesia ha un significato universale. Poesia è quando qualcosa suona in maniera particolare.
Forse non sempre possiamo definirla poesia, ma quel che sperimentiamo in determinati momenti è poesia. È qualcosa che ha a
che fare con la verità e il ritmo e la fede e la musica…».
Seguirà, nel ’61, The spice-box of earth. Ma è presto spinto a
viaggiare, in prima battuta in Inghilterra, a Londra, dove vede la
luce il romanzo The favourite game, ma poi, nel 1960, deciderà
di stabilirsi nell’isola greca di Hydra, nel golfo Saronico di fronte
ad Atene, meta classica prediletta da artisti e poeti (d’altra parte,
lui ripete di non essersi mai sentito uno straniero in Europa). Con
6
Trad. D. Abeni e G. De Cataldo.
Cit. in G. De Cataldo, Cohen, l’eterna domanda, prefazione a L. Cohen,
Confrontiamo allora i nostri miti, op.cit., pp. 10-11.
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Hydra, è un autentico colpo di fulmine: tutto, lì, dopo le tristi nebbie londinesi, lo entusiasma, «le persone, l’architettura, il cielo, i
muli, l’odore, la vita»: «tutto ciò che guardavo era bello, tutto ciò
che utilizzavo era al suo giusto posto». È qui che prosegue la sua
feconda attività di autore, pubblicando un altro testo di poesie,
Flowers for Hitler, e un paio di romanzi assai significativi per
il suo itinerario artistico: lo stesso The favourite game e Beautiful losers. Saranno di lì a breve tradotti in diverse lingue, segnale
evidente di una maturazione progressiva. Nel ’68 gli viene assegnato il massimo riconoscimento letterario canadese, il Governor
General’s Award, ma lui lo rifiuta giudicandolo in contrasto con
il messaggio presente nelle liriche di Selected poems, pubblicate
in quell’anno. Nel frattempo, ha deciso di sperimentare la via del
cantautorato, la leggenda vuole dopo aver ascoltato, in occasione di una festa, Higway 61 revisited di Bob Dylan. Ma questa,
evidentemente, è un’altra storia, di cui diremo nelle pagine che
seguono.
La
sua
papa…
Montreal,
una nouvelle
France
più pia del
Alistair MacLeod, canadese di origine scozzese, quasi coetaneo di Cohen, è unanimemente considerato uno dei maestri del
racconto del Novecento. I suoi Il dono di sangue del sale perduto
e Calum il rosso sono stati dei best seller anche in Italia. Parlando del suo paese di adozione, egli chiarisce: «Il Canada è un
paese grande, il secondo al mondo per estensione dopo la Russia,
e ha solo trenta milioni di abitanti sparsi ovunque, con preoccupazioni e ruoli diversi. Posso fare i nomi di Ondaataje, di Margaret Atwood, il mio, potrei fare altri trenta nomi: raccontiamo
tutti cose diverse, qualcuno ambienta le sue storie nel centro di
Toronto, qualcuno parla della vita dell’estremo nord, e ognuno è
diverso dall’altro, non sono cloni, altrimenti leggeremmo un solo
autore. Ognuno si spinge fin dove può, dà il massimo che può, in
direzioni diverse». E uno dei nomi non fatti qui ma fattibili, certo,
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è quello di Leonard. La cui irrequietezza esistenziale, che l’ha
condotto a vagabondare tappa dopo tappa dalla Grecia agli States,
nulla toglie alla sua profonda, e mai rinnegata, canadesità. Senza
questa radice, non ci sarebbe il Nostro; o perlomeno, non sarebbe
così. Così… arduo da definire! Come il Canada, dove – Cohen
dixit – «non pensiamo di cambiare il mondo come fanno lì» (vale
a dire, ovvio, negli States). Il Canada, perennemente alle prese
con l’irrisolta questione di una nazione con l’Europa alle spalle e
gli Stati Uniti di fronte, vero e proprio ibrido con il 40% di inglesi, un quarto di francesi, e tantissimi immigrati: fra cui quasi un
milione di italiani, e un numero imprecisato di cinesi che ha reso
in ogni caso la loro lingua la terza parlata nel paese. Multiculturalità, ma non melting pot (com’è successo al di là della frontiera, a
sud), perché ogni gruppo tiene alla propria cultura, fino a produrre
dei mondi a parte: spagnoli, ucraini, polacchi, tedeschi, indiani, e
i natives delle riserve. E poi i québécois, naturalmente, che fanno mondo a sé. Tante etnie, tante lingue, una società difficile da
decifrare in cui l’assenza di un’identità nazionale forte viene surrogata, invano, da una foglia d’acero appuntata sul bavero della
giacca. Dove ognuno vorrebbe essere canadese, ma tutti, piaccia
o no, sono cosmopoliti. Anche questo scenario può essere utile,
per cercare di avvicinare il mistero-Cohen… il più europeo dei
cantautori d’oltreoceano, senza dubbio.
Allan Donaldson, uno dei primi critici che hanno messo mano
all’opera di Leonard, già nel 1956 annotava come il Nostro «è
ebreo e cittadino di Montreal, e questi due fatti influenzano pesantemente la sua poetica, che verte in gran parte sui temi del rapporto
fra ebrei e gentili, sull’inumanità della moderna società urbana e
sulla sua indifferenza per il fondamentale bisogno umano di libertà e amore»8. Sul suo ebraismo, così tradizionale e così sui generis
(come tutti gli ebraismi, del resto), diremo poi. Ora, vale la pena
di dire qualcosa dell’altro milieu dell’ispirazione coheniana, non
sempre messo bene a fuoco.
Montreal, infatti, fin dagli albori della Nouvelle France (xvii
secolo), è il cuore pulsante di quel Québec – la provincia più estesa
del Canada, perennemente in preda a pulsioni separatiste – in cui il
senso religioso e le sue manifestazioni popolari hanno rappresenta8
22
In The Fiddlehead, novembre 1956.
to una componente essenziale del carattere e del modo di interpretare la vita dei suoi abitanti. Beninteso, la religione cristiana nella
sua variante cattolica: tanto che ogni villaggio, ogni corso d’acqua
del Québec rurale porta ancor oggi il nome di un santo. Mentre a
ogni incrocio di strada, o quasi, in campagna, si presenta al passante una croce del cammino. Ancora nel Novecento, negli anni Venti,
recitano le statistiche dell’epoca, una donna maggiorenne ogni dieci era destinata a farsi suora; mentre tutto era in mano alla chiesa di
Roma, ospedali, scuole, sindacato. Fino a mezzo secolo fa, quando Leonard è ancora un giovane uomo che si sta affacciando alle
passioni e alle arti, le trecento fra chiese e monasteri facevano di
Montreal e della sua regione il paese più cattolico del Nordamerica. All’interno del quale la consistente minoranza ebraica, peraltro,
fungeva da contraltare naturale al predominio cattolico-romano,
senza particolari problemi da segnalare e in un clima di accettazione privo di grandi conflitti. Il carattere ramificato e pervasivo
dell’istituzione cattolica viene esplicitato in un testo coheniano
dalla rara forza espressiva, che compare nella raccolta di poesie e
prose Death of a lady’s man, del 1978: «Attenti a ciò che viene da
Montreal, soprattutto d’inverno… Noi che abitiamo in questa città
non abbiamo mai lasciato la Chiesa. Gli ebrei stanno nella Chiesa
come stanno nella neve. I secessionisti più violenti, atei e radicali
del Parti Québécois sono nella Chiesa. Tutti gli stili di Montreal
sono nello stile nella Chiesa…»9. D’altra parte fu Mark Twain, già
nel 1881, durante una visita a Montreal, a sentenziare: «È la prima
volta che mi trovo in una città in cui sarebbe impossibile lanciare
un mattone senza rompere la finestra di una chiesa…».
Una vita da ebreo (errante)
Abbiamo già detto qualcosa sull’infanzia ebraica di Leonard,
ma si tratta di un punto da approfondire. Nella convinzione che
l’appartenenza all’ebraismo costituisca un tratto del tutto cruciale
9 L. Cohen, Stranger music, trad. di A. Achilli, Baldini & Castoldi, Milano,
1997, p. 339.
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non solo nella sua formazione umana, ma nell’intera esistenza artistica; e che vada ben al di là dei, pur notevoli, riferimenti espliciti («Sono stato cresciuto come un Messia, mi dicevano che io discendevo da Aronne», confidò nel ’67 a Richard Goldstein). Alla
domanda su cosa abbia significato, e cosa significhi per lui, essere
ebreo, la risposta, da principio, è piuttosto ovvia: «Difficile da
dire, perché non so cosa significhi non esserlo, non avendolo mai
provato… A parte gli scherzi, era l’acqua dentro cui nuotavamo,
il marchio sulla nostra pelle, l’aria che respiravamo»10. È però già
una risposta rivelativa, soprattutto per quel noi, per nulla scontato
alle nostre latitudini, a indicare il riferirsi a un soggetto collettivo;
o meglio, comunitario. Del resto, è impossibile pensare l’ebraismo se non in tale chiave, comunitaria, plurale e pluralistica. Da
sempre, si badi… come rende bene la storiella ben congegnata
del naufrago ebreo condannato a restare su un’isola deserta per
parecchi anni, che – di fronte allo stupore dei suoi salvatori, che
notano come nel lungo tempo della solitudine egli abbia costruito ben due sinagoghe – risponde tranquillamente: «Una è quella
in cui andavo, mentre l’altra… era per non metterci mai piede!».
Chiamato a dire qualcosa di più della propria famiglia, Cohen
la descrive come osservante, ma non esageratamente, e per nulla estremista. Che ogni venerdì sera, all’aprirsi dello shabbat, si
riunisce, anche quando lui è già ragazzo cresciuto, accendendo le
candele, recitando la preghiera del kiddush su una coppa di vino,
e osservando con scrupolo le regole di ciascuna festività. Il sabato
mattina la famiglia Cohen si reca in sinagoga, e il piccolo Leonard viene condotto alla yeshivà settimanale la domenica, e alla
scuola ebraica tre volte alla settimana: scuola e sinagoga, i due
fari dell’istruzione ebraica di sempre. A dire il vero, da grande, dichiarerà con franchezza che non rammenta di aver mai provato un
sentimento religioso intimo, con l’eccezione di qualche momento
speciale, come l’ascolto della corale sinagogale impegnata in un
canto liturgico, che gli procurava un brivido lungo la schiena… A
parte quei rari frangenti, la sinagoga e la scuola ebraica sono per
lui un’esperienza complessivamente noiosa, che lo spingeranno
ad ammettere di non essere stato per nulla un giovanetto capace di
10
24
M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 299.
emozioni in presenza del sacro: «Certo, in determinati momenti,
quando la melodia del servizio religioso era particolarmente bella
e sacra, si aveva coscienza di una certa dignità, di una certa solennità. Nulla di molto profondo, ma forse in tutta questa solennità,
questo incantamento, questa dignità qualcosa mi avrà toccato. Più
tardi, ho potuto comprendere che quelle persone si riunivano in
nome di qualcosa che si trovava al di là della cupidigia o dell’ambizione»11. Alla domanda se la religione ebraica gli abbia in ogni
caso insegnato dei princìpi che egli avrebbe conservato nel corso
della vita, precisa: «Incontrare degli altri, o voi stessi, in nome di
qualcosa di misterioso e di glorioso ha un significato. Noi intuiamo che qualcosa di importante è accaduto. Ma è difficile mettere
il dito lì, tu non sei abilitato a farlo. Quando si legge la Torà12 in
sinagoga, non bisogna toccarla con il dito, e si ricorre a un piccolo
dito in metallo, d’argento…13 Come ha detto Gesù, “Quando due
o tre fra voi si riuniscono in mio nome…”. Qualsiasi cosa ciò significa, si comprende d’istinto che c’è un’armonia che si trova al
di là dei nostri accordi convenzionali, che li illumina, che ci invita
a lasciare che tali armonie si estendano, e ci permette di abbracciare qualcosa che non siamo in grado di identificare»14.
Fino a precisare, da parte sua, significativamente: «Questo
posso dire: non ho mai, dico mai, sentito una volta sola pronunciare il nome di Dio. Credo che questo sia stato il modo migliore
per farmi avvicinare a lui. Tutti mi dimostravano che c’era, ma
nessuno me ne parlava direttamente. Ho dovuto andare a scoprirlo
io stesso»15.
È quanto ha fatto. Con l’aggravante citata di quel cognome impegnativo capitatogli in sorte, che da tempi lontanissimi contrassegna, nella tradizione d’Israele, i discendenti di Aronne, sommo
sacerdote e fratello di Mosè. Se gli si chiede quanto l’abbia in11
C. Fevret, Beautiful loser, in “Les Inrockuptibles”, n. 30, luglio 1991.
Si tratta dei primi cinque libri della Bibbia, chiamati appunto Torà (Legge)
nella tradizione ebraica e Pentateuco in quella cristiana.
13 Il riferimento è all’usanza ebraica di adottare lo yad (in ebraico, letteralmente,
«mano»), il puntatore usato per guidare le letture pubbliche del testo del Sefer Torà,
talmente sacro da non poter essere toccato da mano umana.
14 C. Fevret, Beautiful loser, art. cit.
15 M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 299.
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25
fluenzato sapere di questo collegamento, in genere replica: niente, se non in qualche camera oscura del mio cuore. Perché ogni
uomo avverte dentro sé una chiamata divina. Ma, proseguendo
nella riflessione, egli non può non riconoscere che la sua gente, al
pari di quelle che portano il cognome Cohen, abbia costantemente
avvertito una profonda connessione con il proprio passato, mista
a un’altrettanto profonda consapevolezza della sua alta funzione
su questa terra: «indossare abiti bianchi e vedere la presenza di
Dio e toccare da vicino il radioso splendore dell’Altissimo»16. E
ancora: «Io avevo l’impressione che le persone della mia famiglia
lo prendessero sul serio, che esse fossero convinte di essere sacerdoti per eredità, di far parte di una casta di sacerdoti, della loro responsabilità verso la comunità»17. Sì, certo, la sua famiglia aveva
preso sul serio tale vocazione, traducendola in imprese concrete:
la fondazione di sinagoghe, di ospedali, di riviste e giornali. Ed è
naturale, deve ammettere, che simili storie l’abbiano impressionato sin da bambino, insieme alla coscienza che esisteva un filo diretto che lo legava a un passato religioso e mitologico. Un passato
splendido… Non è un dato da poco, per noi, che vi riflettiamo nel
cuore della stagione dei rapporti liquidi e del tramonto dei legami
sociali! Anche perché, sono sue parole, «il nostro dolore quaggiù
nasce spesso dall’incapacità di dare un senso alle nostre vite, di
trovare il nostro posto nel mondo, di attribuire un significato a tutto ciò che ci accade – tutte spiegazioni che pensiamo essere diritti
acquisiti dalla nascita»18. Una volta dichiarò che, senza quel sentimento un po’ insensato di essere parte di un’eredità sacerdotale,
non avrebbe mai potuto comporre una canzone come First we take
Manhattan… In compenso, ha precisato più volte, nell’infanzia
non sentiva parlare direttamente di Dio, elemento evidentemente dato per scontato, menzionato durante le preghiere e tradotto
piuttosto in una grande fedeltà ai valori della famiglia, della posizione sociale, della lealtà. Valori poco mistici, ma discendenti
da una spiritualità quotidiana e accettata come ovvia. Suo padre e
suo zio, ad esempio, li ritrae come dei patrioti che avevano fatto
16
Ivi, p. 296.
C. Fevret, art. cit.
18 Ivi, pp. 296 s.
17
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la prima guerra mondiale da ufficiali, membri della Legione canadese, perfettamente leali verso la regina e l’Impero britannico;
ma anche, al contempo, particolarmente fieri della loro tradizione
ebraica.
La religione di famiglia…
Nonostante Cohen sia sempre stato attratto da diversi cammini
spirituali, l’appartenenza all’ebraismo non l’ha mai messa in discussione. Sta lì il suo sangue, il suo retaggio. Ne fanno fede, ad
esempio, le sue numerose dichiarazioni all’esaurirsi di un’esperienza importante (su cui dovremo tornare), di ritorno dal monastero zen di Mount Baldy, nei dintorni di Los Angeles, dove è vissuto dal ’93 al ’99: «Ho deciso di entrare nel monastero di Roshi
(il suo maestro, N.d.A.) perché cercavo delle risposte. E ci sono
rimasto più di quanto pensassi perché il maestro era affidato alle
mie cure e adorava le mie zuppe di pollo. Non cercavo una nuova
religione né l’ebbrezza di una conversione o di un’abiura. Mi sono
tagliato i capelli, ho indossato l’abito del monaco zen, ma non ho
mai nuotato in altri oceani, sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali. Tornare a casa è stata una bella sensazione». E ancora: «Sono diventato
un monaco perché questa era la forma che il mio maestro aveva
scelto: per studiare con lui era appropriata e direi anche naturale.
Ma nello zen non c’è Dio, non c’è affermazione né negazione di
Dio, e dunque non c’è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione» (e qualcosa di simile, una volta, rispose allo stesso
Allen Ginsberg, a sua volta assai attratto dai cammini spirituali
dell’India, come faceva lui a conciliare la religione ebraica con la
dottrina zen, precisando che «lo zen è più una forma di meditazione atea che una religione deistica»). La religione di famiglia, la
mia vecchia religione… Definizioni che possono apparirci curiose, o agli occhi di qualcuno persino irritanti, nel tempo in cui le
religioni si scelgono, si assaggiano, si sperimentano in chiave low
cost, più che riceverle ereditariamente. Eppure, così è stato (ed è)
27
per il Nostro, che a più riprese è tornato sulla sua vita quotidiana
da bambino, tutta ritmata dal calendario religioso. Quando ne parla, ricorda sempre che la sua figura di riferimento è stata la madre.
E qui, è inevitabile, ci vengono in mente al volo le sublimi parodie
delle yiddishe mame che abbiamo conosciuto da Moni Ovadia,
con i suoi racconti che si trasformano in domande aperte sul senso
del presente e sulla possibilità di un domani, scritte con la libertà
e l’acume di chi, narrando da un palcoscenico, può concedersi di
ridere della nudità del re19. Il fatto è che, stando ai resoconti di
Cohen, il padre non è mai stato una figura forte della sua infanzia,
essendosi malato piuttosto presto. Era toccato alla madre, perciò,
di prendere le redini della famiglia. Una donna che ci viene presentata come una grande narratrice, come una che possedeva il
dono di raccontare, essendo dotata di una sensibilità quasi cechoviana con cui condiva le sue storie innocenti, le sue avventure romantiche nella Russia prima della rivoluzione: «Raccontava quasi
sempre di lei e di quei tempi – ha confidato una volta a Massimo
Cotto – con un senso di nostalgia e malinconia, di autoindulgenza,
che è presente in molta letteratura russa. Sai, quelle sensazioni
agrodolci, quel senso dell’ineluttabile. Ci sedevamo vicini e lei
iniziava una storia. Ma lo faceva in modo strano, i suoi racconti
parevano non avere mai un inizio e non avere mai una fine. Quando ero molto piccolo ero, quindi, anche molto impaziente. Ma se
riuscivi ad ascoltare tutta la storia, che in genere aveva la durata di
due o tre teiere, tutte le tensioni si radunavano in un centro, ogni
filo trovava la sua rocchetta. E quella che avevi ascoltato non era
altro che la storia della vita di mia madre, ogni volta vista da un
angolo e in un momento diverso: il suo innamoramento, l’avventura di un treno che correva verso Damasco, una notte in Russia
alla musica di Chopin…»20. Una madre, per di più, che sa anche
cantare, e piuttosto bene, in diverse lingue: yiddish (la lingua degli
ebrei dell’Europa orientale), polacco, indiano… tanto che il giovane Leonard, diciassettenne, insieme agli amici, non disdegna
di portarla con sé nel miglior ristorante greco di Montreal. Dopo
aver mangiato e bevuto, è lui a tirare fuori la chitarra d’ordinanza,
19 Rimandiamo, ad esempio, allo straordinario M. Ovadia, Perché no? L’ebreo
corrosivo, Feltrinelli, Milano, 2004.
20 M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 298.
28
per una cantata collettiva in cui rifulge la bella voce di lei. Più che
madre e figlio, sembrano complici…
Popolo eletto?
Un fatto certo è che, in un articolo uscito nel “New York Times” in occasione del suo più recente ritorno sulle scene, possiamo leggere: «Mr. Cohen è un ebreo osservante che rispetta anche
lo shabbat persino quando è in tournée, e si esibì per le truppe
israeliane durante la guerra arabo-israeliana del 1973»21. Mentre
alla domanda, ripetutamente postagli, se non abbia mai sentito
su sé la responsabilità di appartenere al cosiddetto popolo eletto,
di solito ammicca, rispondendo che è difficile rispondere: «Molti
ebrei pensano e sanno di essere nati in un universo morale, di
prendere decisioni morali, e probabilmente ne ho subito anch’io
l’influenza. Sul fatto di essere scelti... dipende dal perché si è stati
scelti: perché una intera nazione ha accettato una relazione stretta
con Dio, per ragioni di eccellenza, o per qualche virtù particolare?
Probabilmente siamo stati scelti per eliminazione, per un qualche
meccanismo automatico...». E così, ci tornano alla mente le diverse versioni burlesche di questo privilegio, che circolano proprio
in seno al popolo ebraico, che – com’è noto – non ha mai avuto
paura dell’umorismo. Una, cara a Moni Ovadia, riguarda proprio
le tavole della Legge. Dice che in realtà Dio si era rivolto ai galli,
i moderni francesi, ma quelli, lette le tavole, s’erano impuntati sul
non desiderare la donna d’altri: «Quale sennò?». Allora Dio era
andato dai germani, ma quelli s’erano opposti al quinto: «Noi la
chiamiamo guerra». I fenici erano contrari al settimo: «Per noi è
commercio». Finché Dio non arrivò in fondo alla lista. Gli ebrei
ascoltarono in silenzio, poi si consultarono. «Ce n’è qualcuno che
non vi piace?», chiese il Signore. «No, la Legge va bene. Ma, scusa, quanto costa?». «Nulla». «Allora, due!». Ce n’è un’altra, storica, che riporta lo scrittore ebreo ucraino Shalom Aleichem, nel
21 L. Rother, On the road, for reasons practical and spiritual, in “The New
York Times” (25-2-2009).
29
suo straordinario Tewje il lattivendolo22: «D’accordo, d’accordo,
è perché siamo il popolo eletto! Ma senti! Ogni tanto non potresti
eleggere qualcun altro e lasciarci un po’ in pace?».
Chissà che Leonard non pensasse a questa felice boutade,
quando componeva i versi della poesia Il genio, tratta dalla sua
raccolta The spice-box of earth, del 1961, che vale la pena di riportare per intero:
Per te
sarò un ebreo del ghetto
e danzerò
mettendo calze bianche
sui miei arti contorti
e sorgenti di veleno
in tutta la città
Per te
sarò un ebreo apostata
e parlerò al prete spagnolo
del giuramento di sangue
nel Talmud
e gli dirò dove sono nascoste
le ossa del bambino
Per te
sarò un banchiere ebreo
e manderò in rovina
un vecchio e orgoglioso re cacciatore
interrompendone la linea di successione
Per te
sarò un ebreo di Broadway
e nei teatri
piangerò per mia madre
vendendo sottobanco
prodotti a prezzi stracciati
22
30
S. Aleichem, La storia di Tewje il lattivendolo, Feltrinelli, Milano, 2000.
Per te
sarò un medico ebreo
e frugherò nell'immondizia
in cerca di pezzi di latta
per prepuzi ricuciti
Per te
sarò un ebreo di Dachau
che giace in una fila
con arti contorti
e un dolore gonfio
che nessuna mente può afferrare
«Ho imparato, scrivendo canzoni, – ha detto Cohen in un’intervista di pochi anni fa – che più si è intimisti, più si parla di temi
personali e più si diventa universali. E i sentimenti di una persona
diventano quelli di tutti». La cosa vale, ci pare, per diversi dei suoi
brani. Alla poesia appena riportata accostiamo allora una strofa di
The captain, un pezzo tratto da Various positions (1984), che accenna enigmaticamente alla condizione ebraica, e al tradizionale
antigiudaismo cristiano.
Lamentarsi, lamentarsi: non hai fatto altro
da quando abbiamo perso
sin da quando abbiamo perso.
Se non è la crocifissione
allora è l’Olocausto.
Possa Cristo avere pietà della nostra anima
per aver scherzato così
nel mezzo di questi cuori che bruciano come carbone
e di questa carne color rosa come il fumo.
Ha scritto Alessandro Carrera: «Quanto misticismo ebraico
agisce nelle canzoni di Cohen, quante riflessioni sulla presenza
femminile del divino sulla terra (in accordo al simbolismo della
Cabala) Cohen riesce a cantare come se si trattasse di semplici
canzoni d’amore!»23.
23 A.
Carrera, Cohen la leggenda di un anti-mito, in “Europa” (11-12-2008).
31
La nascita di Jikan, il silenzioso
«Certo, la meditazione di questi anni al monastero zen di
Mount Baldy è stata necessaria per raggiungere nuovi equilibri.
È stato un rigore che mi sono imposto ma di cui avevo bisogno.
Oggi ho la percezione che non esiste la vita in orizzontale ma in
verticale, e così si coglie il senso del tempo». Come si diceva,
bisogna ritornare con la dovuta attenzione sulla vicenda buddhista di Cohen. Che nel 1994, dopo la promozione mondiale del
suo album The future, decide appunto di ritirarsi al Mount Baldy Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila
metri di altezza sulle montagne di San Gabriel, a oltre sessanta
chilometri a est di Los Angeles. Non è un fulmine a ciel sereno,
del resto, questa sintonia con la meditazione zen. È già durante la
residenza europea a Hydra, infatti, che Leonard fa la conoscenza
con un amico, Steve Stanfeld, che, a suo dire, faceva parte di «un
piccolo gruppo di persone che studiava i testi buddhisti in una
modalità molto interessante». Al suo ritorno a Los Angeles, Steve
viene a sapere che un importante maestro zen si era installato nei
dintorni: «egli cominciò a studiare con lui, e me ne parlò». Da
allora, saltuariamente, Cohen prende a frequentare Kyozan Joshu
Sasaki Roshi. Una biografia straordinaria. Nato nel 1907 in Giappone, diventa novizio all’età di quattordici anni sotto Joten Roshi
Soko Miura, un maestro nella scuola Rinzai del buddhismo zen.
Sotto la guida di Joten, Joshu Sasaki dopo sette anni si fa Osho, e
quando Joten è nominato abate di Myoshin-ji, il principale tempio
del filone Rinzai, lo segue per continuare la sua formazione. Nel
1947, ormai quarantenne, Joshu Sasaki riceve pieni poteri come
un Roshi e viene eletto abate del suo tempio, il Shoju-uno, un monastero delle Alpi Giapponesi antico di diciotto secoli. Nel 1962
Daiko Furukawa, il successore di Joten Roshi come abate di Myoshin-ji, chiede a Joshu Roshi di iniziare il suo insegnamento negli
Stati Uniti. Giunto a Los Angeles il 21 luglio 1962 da allora vi si
stabilsce in permanenza. Il Rinzai-Ji, tempio principale della città,
è stato fondato a Los Angeles nel 1968, seguito dai suoi due principali centri di formazione, il Mount Baldy Zen Center e il Bodhi
Manda Zen Center in New Mexico, appena fuori Albuquerque
32
(1973). I suoi studenti hanno aperto diversi centri negli Stati Uniti, Porto Rico, Canada, Austria e Germania. Oggi, ultracentenario,
Joshu Roshi rappresenta l’ultimo di una generazione di pionieri
insegnanti giapponesi che hanno portato il Dharma in Occidente.
Per Cohen, fulminato dall’incontro con lui, sono quasi sei anni
di ritiro completo dalle scene artistiche. Lunghe giornate senza
musica e senza poesia, organizzate da un ferrea disciplina (sveglia
alle tre e mezza del mattino, tanto per dire). In cui si alternano, per
lui, sedute di meditazione seduta, o zazen, e incontri privati con
Roshi durante i quali il maestro suggerisce all’allievo un koan,
sorta di parabola contraddittoria che lo studente è chiamato a risolvere nel modo più personale possibile. In realtà, al monastero
giungono persone assai diverse fra loro, soprattutto in occasione
del ritiro comunitario più intenso, due volte l’anno in inverno e
in estate, detto sesshin: credenti, agnostici, razionalisti e mistici.
Qui, se l’ispirazione di fondo è ovviamente buddhista, il grosso
dell’impegno riguarda un lavoro individuale sul sé. Quando qualche giornalista, vinta la coltre dell’impenetrabilità del monastero
californiano, lo raggiunge, cerca di capire il motivo del successo
del buddhismo presso una buona fetta dello show-business americano, Leonard reagisce allontanando ogni sospetto su una scelta soft di matrice New Age… perché, chiarisce, questo genere di
pratica non diverrà mai troppo popolare, in quanto assai difficile.
E in quanto, a Mount Baldy, non si fa della religione! «La gente
ha bisogno di religione, perché l’uomo ha bisogno di un’ancora
di salvezza. Così, considera la salmodia dei sutra o l’immagine di
Dio come una cosa oggettiva e separata, tanto più nella misura in
cui questo vi fa bene. Per di più, io credo che le grandi religioni
abbiano fatto il pieno di fedeli, e che numerose persone cerchino
delle nuove forme di salvezza. Qui, non c’è salvezza. Nonostante
io viva in questo modo a tempo pieno, io non mi sono mai considerato come un buddhista. Due anni fa, Roshi mi ha detto: “Sono
vent’anni che ti conosco, Leonard, e non ho mai cercato di trasmetterti la mia religione. Io mi accontento di servirti del saké”».
Ciò che lo attira, dirà, è la teologia negativa tipica del Dharma
buddhista. Il senso del vuoto. E a chi gli fa notare che qualcosa del
genere avviene nella kabbala ebraica, non lo nega, ma «la vita è
troppo breve per provare tutto, e non si possono bere due tazze di
33
the nello stesso momento… ho incontrato questo vecchio uomo,
e mi è piaciuto quello che non diceva». Roshi, il vecchio uomo
di cui parla Cohen e di cui ha detto «siamo una bella coppia»,
una volta ha riconosciuto che Leonard è stato un ottimo allievo,
«perché abbraccia il positivo e il negativo». Perché allora questa
scelta, come al solito spiazzante? Ecco una delle sue spiegazioni
più felici: «Io amo dimenticare Leonard Cohen. Nel 1994 dopo
aver terminato una tournée, a quasi sessantun anni, ho parlato con
il mio maestro, che ne aveva novanta. Lui mi ha detto che sarebbe
entrato in un monastero buddhista. E io l’ho seguito. È stato un
periodo che mi ha donato pace e tranquillità. Sono stato molto impegnato a occuparmi della vita ordinaria. Ho cucinato per lui, ho
lavato i piatti. È stato un grande privilegio restare faccia a faccia
con l’altra parte di me».
Dal suo esilio volontario – nel frattempo, all’alba del 9 agosto ’96, ha deciso di assumere il nome da monaco di Jikan, vale
a dire il silenzioso – filtrano poche notizie. Arriva però ancora
della musica, anche se è quella di Cohen Live, che presenta dei
brani registrati dal vivo nel 1988 e nel 1993 a Toronto, Vancouver,
Austin, San Sebastian e Amsterdam. In realtà, era già dai primi
anni Settanta che praticava sotto la guida di Roshi, famoso per il
suo stile Rinzai Zen particolarmente severo e rigoroso. Dato che
il cantante, prima di incamminarsi lungo la via del Rinzai, aveva praticato secondo gli insegnamenti della scuola Soto, il primo
koan che ha ricevuto dal suo maestro è stato: «Come manifesti
Shikantaza quando guardi un fiore?». E quando i giornalisti gli
chiederanno, com’è stato tornare a casa per sempre dopo così tanti
anni di isolamento? Risponderà: «È stata una bella sensazione.
Mi sono seduto davanti al tavolo della piccola cucina che guarda
sulla strada. E in quel preciso momento, osservando i movimenti
all’esterno, ho cominciato a scrivere. L’ho fatto per una settimana
di seguito, con la stessa routine, molto, molto felice di essere di
nuovo lì». Dopo sei anni, ha spiegato ancora Cohen, si è chiuso un
ciclo di vita, anche se in quel monastero era stato benissimo: «Ho
avuto l’opportunità di riavvicinarmi ai miei studi, di approfondire
la conoscenza e gli interessi che avevo coltivato disordinatamente
in precedenza». E ancora: «Cucinavo per il mio maestro, ero il
suo attendente: la nostra conversazione era elementare, nessuna
34
grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena e lui
diceva: “Questo ristorante buono”». Nel tempo dilatato di Mount
Baldy, il Nostro ha in realtà scritto a lungo e messo nel cassetto oltre duecentocinquanta testi fra poesie, haiku, appunti, rapide
osservazioni della realtà destinate ad un libro24: «La meditazione
zen mi è molto servita: è la ricerca del significato, un’attitudine
che non aiuta a trovare risposte ma piuttosto sollecita altre domande». È nel gennaio del 1999 che Leonard, quando risiedeva
ancora nel monastero, ricevette la notizia della morte di Fabrizio
De André: «Mi dispiace non averlo conosciuto, – disse al riguardo
– aveva tradotto e reinterpretato benissimo un paio delle mie canzoni. Ero in monastero quando ho saputo della sua morte: anche
se non c’eravamo mai incontrati mi ha molto colpito e ho scritto
una poesia in sua memoria». Torneremo più avanti sui rapporti fra
i due, che ci sembrano illuminanti anche nel nostro itinerario.
24 Buona parte di essi sono stati raccolti in L. Cohen, Book of mercy/ Libro
della misericordia, Supernova edizioni, Venezia, 2000 e in Id., Il libro del desiderio,
Mondadori, Milano, 2007.
35
Indice
Prefazione. Leonard Cohen, «il poeta eletto»
di Stefano Cisco Bellotti
7
Sister of mercy 9
Ringraziamenti
10
Introduzione. Quella sera a San Marco…
11
1. «I’m the little jew…»
15
17
21
23
27
29
32
37
40
41
43
45
47
51
52
54
56
58
61
63
66
67
71
Cohen prima del mito
La sua Montreal, una nouvelle France più pia del papa…
Una vita da ebreo (errante)
La religione di famiglia…
Popolo eletto?
La nascita di Jikan, il silenzioso
2. Il filo rosso, la canzone come preghiera
I Salmi del re David
Bono, un fan di David Hallelujah!
La reinvenzione coheniana
Tutta colpa di Betsabea?
Ancora nel segreto
Il chiarirsi che si paga di Jeff Buckley
Se sarà tuo volere
The land of plenty
The Faith…
3. La Bibbia, il grande codice di Leonard
Il Gesù di Suzanne
La storia di Isacco
Come un midrash capovolto
Il doppio tradimento
175
6. L’ultima torre della canzone
76
78
81
82
85
88
94
97
99
102
104
107
113
117
Postfazione. Cohen, il profeta che ha ospitato
Dio nella sua vita di Pasquale Troía
121
Appendici
Biografia
Discografia
Bibliografia
Filmografia
Siti Internet
Album tributo
Cover di Hallelujah
Cover di Leonard Cohen di artisti italiani
Indice delle canzoni di Leonard Cohen citate nel testo
Indice dei nomi
131
133
139
146
150
155
157
160
166
170
171
Sui fiumi di Babilonia…
Dove tu vai, io andrò
4. Uno strano connubio, il Cohen di Faber
Quattro donne
Il ruolo dell’artista
Smisurate preghiere
L’ordine dell’anima
5. Due ebrei, tre pareri: tra Bob e Leonard…
Dal Talmud al Boogie…
La giusta distanza
La trilogia cristiana di Dylan
Il sapore dell’Apocalisse
«Io sono un alfabeto»…
Finito di stampare il 16 aprile 2010 - Stampatre, Torino
176