Incipit - Claudiana
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Incipit - Claudiana
brunetto salvarani odoardo semellini il vangelo secondo Leonard Cohen Il lungo esilio di un canadese errante Prefazione di Stefano Cisco Bellotti Postfazione di Pasquale Troía CLAUDIANA - TORINO www.claudiana.it - [email protected] Brunetto Salvarani si occupa di dialogo interreligioso, insegna teologia, dirige le riviste “CEM Mondialità”, “QOL”, “Tempi di Fraternità” e nel tempo libero si dedica a cantautori, fumetti e altre quisquilie… Odoardo (Odo) Semellini è operatore culturale presso il Comune di Carpi, esperto di musica e di fumetti. Con Salvarani ha pubblicato Di questa cosa che chiami vita. Il mondo di Francesco Guccini, e Terra in bocca. Quando i Giganti sfidarono la mafia. © Claudiana srl, 2010 Via San Pio V 15 - 10125 Torino Tel. 011.668.98.04 - Fax 011.65.75.42 E-mail: [email protected] Sito web: www.claudiana.it Tutti i diritti riservati - Printed in Italy ISBN 978-88-7016-789-4 Ristampe: 16 15 14 13 12 11 10 Copertina: Umberto Stagnaro Stampa: Stampatre, Torino 1 2 3 4 5 1 «I’m the little jew…» «È così divertente credere in Dio!» (Leonard Cohen) «I’m the little jew / who wrote the Bible». Un’autodefinizione quanto mai impegnativa, quella di mister Leonard Norman Cohen, tratta da uno dei pezzi più riusciti della sua produzione relativamente recente (1992), The future. Un brano autobiografico e apocalittico, denso di metafore e forse un po’ oscuro (eccone l’incipit, tanto per gradire: «Datemi indietro le mie notti spezzate/ la mia stanza piena di specchi, la mia vita segreta/ sono ormai solo, qui,/ non c'è più nessuno da torturare./ Datemi il controllo assoluto/ su ogni anima vivente»). Difficile, peraltro, capire chi sia davvero questo geniale «piccolo ebreo/ che ha riscritto la Bibbia», da oltre quarant’anni capace di suscitare passioni profondissime e (quasi) altrettanta insofferenza presso un pubblico mondiale che lo ritiene il maggiore poeta della modernità in musica (a giocarsi la posizione con un altro artista ebreo sui generis, mister Bob Dylan ovviamente) o un fenomeno ampiamente sopravvalutato e troppo oscuro, persino ermetico, per i suoi testi complessi. Non ci riusciremo neppure noi, lo ammettiamo in partenza. Impotenti quanto incuriositi, tuttavia, di fronte a questa leggenda misteriosa che ha attraversato la seconda metà del Novecento e ogni tanto riappare sulle scene per poi scomparire, per anni, nel silenzio da cui proviene. Vero e proprio Lost Canadian. 15 Ciò che ci ha colpito, certo non per primi, e che ha motivato questo nostro lavoro, al di là della passione consolidata per un personaggio così sui generis, è il filo rosso della sua poetica. Perlomeno, uno dei fili rossi, se non il principale. Si potrebbe definirla, approssimativamente, la sua fascinazione per l’aspetto sacro e mitico della vita umana, unico elemento – in tandem con l’amore – in grado di riscattare la fugacità e la precarietà delle esistenze. Un dato più capitato fra le mani che scelto, in Cohen, e che certo trae radice dalla sua ebraicità, appunto, ma che tuttavia non la esaurisce: donandole, vorremmo dire, un tratto quasi sconosciuto alle coeve produzioni musicali su scala planetaria. Torneremo, naturalmente, su questo dato originario. Accanto al quale ne poniamo un altro, forse ancor più stupefacente a occhi europei, e senz’altro a occhi italiani. Il Nostro, infatti, scrive e canta di un’intima sacralità della realtà e di Scritture Sacre e di Gesù da ben prima di quando, nel quadro di quella che è stata definita la crisi dei Grandi Racconti (J.F. Lyotard docet), gli argomenti della spiritualità si facessero moda culturale. Moda a basso prezzo, non di rado. O anche sentita, più raramente, ma mai carne e sangue come in quel «piccolo ebreo» perennemente inquieto e in fuga da sé. Che – come sa bene ogni buon talmudista – è consapevole che la cultura, il sapere, l’intelligenza delle cose non possono essere ereditate, ma solo frutto di una ricerca inesausta e continua, dal primo all’ultimo giorno di vita: fino a moltiplicare i suoi siti della memoria, da Montreal a Hydra, da Nashville a Parigi, da Los Angeles all’India. Che ricorre alla Bibbia come al grande codice della sua poetica mentre impera incontrastata, nell’occidente euroamericano, la vulgata della morte di Dio (è la metà degli anni Sessanta, per capirci, tre dopo l’inizio del Vaticano II e altrettanti prima del famigerato Sessantotto). Dell’esaurimento, anzi, dell’eclissi del sacro. Della fine conclamata del discorso religioso in ambito pubblico. E della sua traduzione, semmai, in benzina pregiata per il fuoco dell’attesa rivoluzione proletaria… Prima di avventurarci a scoprire meglio quel filo rosso cui abbiamo solo accennato, però, è opportuno fare un passo indietro per cercare di intuire chi fosse quel giovane uomo che esordì così fragorosamente, e così tardi rispetto alla media abituale, nel (difficile) mondo della musica. Come si diceva, non si trattava per nulla di uno sconosciuto… 16 Cohen prima del mito Era un venerdì, l’ora in cui per gli ebrei di tutto il mondo si apre già lo shabbat, e mancavano appena due giorni all’inizio dell’autunno. Nato il 21 settembre 19341 in Canada, a Westmount in Belmont Avenue 599, quartiere di Montreal, da una famiglia ebraica eppure confortevole, come la definisce lui, di lingua inglese (elemento non banale, in una metropoli largamente a maggioranza francofona), Leonard perde il padre a soli nove anni. Quel padre di origini polacche che, insieme a quelle lituane della madre, in qualche modo gli ha impresso robusti cromosomi est-europei. Un evento, la morte precoce del genitore, che segnerà fortemente la sua personalità, e quella di sua sorella, di cinque anni maggiore, Esther. Il nonno materno, il rabbino Solomon Klinitsky-Klein, si era fatto luce negli ambienti culturali cittadini per aver firmato una ricca raccolta di interpretazioni talmudiche e un Dizionario dei Sinonimi e degli Omonimi di larga fama, fino a esser conosciuto come il Principe dei grammatici. A lui sarà dedicata una delle prime poesie pubblicate dal giovane nipote, Il canto dell’ellenista. Ma anche nel ramo familiare del padre Leonard può vantare ascendenze illustri, con il nonno che compare tra i fondatori del primo giornale anglo-ebraico dell’intera America e della Jewish Colonization Society, sorta per favorire lo spostamento dei contadini ebrei del Vecchio Continente agli Stati Uniti del Midwest. La famiglia paterna era approdata in Canada intorno al 1860, da una regione polacca che nel frattempo è diventata parte della Russia, mentre quella materna attorno agli anni Venti del secolo scorso, poco dopo la rivoluzione sovietica, dalla Lituania, per sfuggire all’antisemitismo montante. In realtà, ammetterà lui, entrambi i genitori si sentivano perfetti canadesi, senza alcuna nostalgia per il passato familiare. Cohen ci descrive la sua parentela – nonostante le ovvie conflittualità generazionali – come si fa memoria di qualcosa di nostalgicamente perduto, «ricca di molte cose, 1 Curiosità, legate agli astri della musica d’autore, probabilmente: Ornella Vanoni è nata il giorno dopo, e Gino Paoli due giorni dopo. 17 principalmente della gioia dell’impegno nei confronti della comunità e della religione, ma non di denaro», immersa in un mondo che aveva, per chi vi appartenesse, un enorme significato, e che rappresentava la continuità con la tradizione, l’aderenza alle radici2. Senza particolari ideologie politiche retrostanti: una famiglia ebraica piuttosto conservatrice, ma senza fanatismi, e senza dogmi. Degna, in ogni caso, di occupare la terza fila nella principale sinagoga di Montreal. Con un pizzico di orgoglio, egli arriverà a dichiarare, al riguardo: «Non ho mai sentito né conosciuto il significato di parole come alienazione o isolamento. I miei familiari avevano cresciuto una comunità perfettamente autosufficiente, retta da leggi giuste, ideali e grande disponibilità verso il prossimo». E a rassicurare: «Non avevano denaro né potere ma erano ricchi di felicità»3. Una volta rivelò che la sua bambinaia era cattolica, e spesso lo portava in chiesa con lei. E che da allora, lui guarda il cattolicesimo come un outsider, vedendolo soprattutto solo in termini di rito e di preghiera; finendo, in ogni caso, con il considerare senz’altro attraente la figura di Gesù. Di Leonard bambino, un suo educatore ai campi vacanze estivi scriverà che si trattava di «un ragazzo gentile, un leader naturale». Frequenta prima la Herzliah High School, e poi la Baron Byngh High School, un ottimo istituto protestante che – ironia della sorte – riportava all’epoca un 90% di presenze di ragazzi ebrei per la vicinanza con il quartiere ebraico: vi sono usciti, fra gli altri, i futuri poeti e scrittori Irving Layton e Mordechai Richler, autore della celebrata Versione di Barney. Dopo i primi studi4, nel 1951 si iscrive alla locale, ma prestigiosa, McGill University, senza altro scopo – dirà sornione – che dotarsi «di vino, di ragazze e di canzoni». Qui, infatti, diciassettenne, fonda un trio di musica country-western (!), i The Buckskin Boys. Con un repertorio assai disparato, che spazia dai pezzi di Hank Williams al tradizionale blues. «Ero pieno della frenesia di suonare – spiegherà – e dimenarmi battendo i piedi. Celebravo una sorta di vita emotiva 2 M. Cotto, Leonard Cohen, in Everybody’s talking. 50 interviste alle leggende del Rock, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2007, p. 295. 3 Ivi, p. 296. 4 Sotto la sua fotografia scattata in occasione della consegna del diploma, si legge che la sua ambizione sarebbe quella di diventare «oratore di fama mondiale». 18 insieme a tanti altri che la pensavano come me… Allora il country bastava per soddisfare questa esigenza». Già all’epoca, a dire il vero, emerge la sua vena poetica, tanto che la sua raccolta d’esordio dedicata al padre Nathan, Let us compare mythologies, vede la luce nel 1956, quando sta frequentando un anno accademico in trasferta, all’università newyorchese di Columbia, e ottiene da subito parecchie recensioni favorevoli (nonostante ami precisare che, «sfortunatamente, nel Nordamerica, la poesia non ha il medesimo valore e prestigio che le viene giustamente conferito in Europa»)5. L’anno, curiosità, è lo stesso in cui escono il famoso On the road di Jack Kerouac e l’altrettanto celebre Howl (L’Urlo) di Allen Ginsberg, ma il Nostro punta la sua bussola in tutt’altra direzione. Sono quarantaquattro liriche in tutto, che escono alla luce corredate dai disegni di Freda Guttman, una delle sue prime ragazze. In realtà, l’ha folgorato, letteralmente, l’incontro ideale con Federico García Lorca, destinato a essere il suo nume tutelare nell’ambito della poesia. L’ha scoperto per caso, imbattendosi in un suo libro in una libreria a metà prezzo: il mondo del poeta gitano gli risulta subito familiare, il suo linguaggio accessibile, «come una musica folk bagnata da un chiaro di luna». Aprendo il volume, trova questi versi: Voglio vederti passare sotto gli archi di Elvira per vedere le tue cosce e iniziare a piangere di cui dirà in seguito: «Quelle parole sconvolsero la mia vita e compresi che la mia esistenza sarebbe stata uno sforzo continuo per scrivere, un giorno, almeno una volta nella vita, una frase simile». E nell’album del 1988 I’m your man (senz’altro uno dei suoi più ispirati), lo omaggerà con un bellissimo pezzo che nella sostanza traduce una lirica del poeta andaluso (Pequeño vals vienes) con il titolo Take this waltz, «dandogli finalmente qualcosa in cambio». Ben presto, Leonard – non senza reiterati contrasti con la famiglia – diventa il principe riconosciuto della bohème di Montreal, 5 Ivi, p. 301. La raccolta è stata di recente pubblicata in italiano: L. Cohen, Confrontiamo allora i nostri miti, Minimum Fax, Roma, 2009. 19 e si aggira per le strade di questa sorta di Gerusalemme del Nord (come è stata chiamata) dispensando consigli di saggezza e versi come quelli di Poem (Poesia): «Ho sentito di un uomo/ che pronuncia le parole così splendidamente/ che se solo ne proferisce il nome/ le donne gli si concedono./ Se io sono muto accanto al tuo corpo/ mentre il silenzio sboccia come tumore sulle nostre labbra/ è perché sento che un uomo sale le scale/ e si schiarisce la voce alla porta»6. I suoi parenti, per la verità, si mostrano piuttosto preoccupati al riguardo («prima che il mio lavoro fosse riconosciuto, le persone della mia famiglia erano un po’ costernate per la mia scelta di diventare scrittore»). La causa per cui si mette a trafficare con i versi è la più antica del mondo… come ammette candidamente, conta infatti di aver così maggior fortuna con le donne: «Le volevo – avrebbe confidato al suo biografo Ira B. Nadel, parecchi anni dopo – ma non potevo averle. Questo è il vero motivo per cui ho cominciato a scrivere poesie. Scrivevo messaggi per le donne, per sedurle. Loro li facevano circolare, e la gente li chiamava poesia. Quando non funzionava con le donne, mi rivolgevo a Dio»7. In un’intervista ad Arthur Kurzweil per The Jewish Book News Interview, poi, spiegherà il significato della poesia per lui: «Nella sua forma più pura, la poesia è come il polline delle api… Il miele della poesia è dappertutto. È negli scritti del “National Geographic”, quando un concetto è assolutamente chiaro e bello; è nei film; è dappertutto, perché quello che noi chiamiamo poesia ha un significato universale. Poesia è quando qualcosa suona in maniera particolare. Forse non sempre possiamo definirla poesia, ma quel che sperimentiamo in determinati momenti è poesia. È qualcosa che ha a che fare con la verità e il ritmo e la fede e la musica…». Seguirà, nel ’61, The spice-box of earth. Ma è presto spinto a viaggiare, in prima battuta in Inghilterra, a Londra, dove vede la luce il romanzo The favourite game, ma poi, nel 1960, deciderà di stabilirsi nell’isola greca di Hydra, nel golfo Saronico di fronte ad Atene, meta classica prediletta da artisti e poeti (d’altra parte, lui ripete di non essersi mai sentito uno straniero in Europa). Con 6 Trad. D. Abeni e G. De Cataldo. Cit. in G. De Cataldo, Cohen, l’eterna domanda, prefazione a L. Cohen, Confrontiamo allora i nostri miti, op.cit., pp. 10-11. 7 20 Hydra, è un autentico colpo di fulmine: tutto, lì, dopo le tristi nebbie londinesi, lo entusiasma, «le persone, l’architettura, il cielo, i muli, l’odore, la vita»: «tutto ciò che guardavo era bello, tutto ciò che utilizzavo era al suo giusto posto». È qui che prosegue la sua feconda attività di autore, pubblicando un altro testo di poesie, Flowers for Hitler, e un paio di romanzi assai significativi per il suo itinerario artistico: lo stesso The favourite game e Beautiful losers. Saranno di lì a breve tradotti in diverse lingue, segnale evidente di una maturazione progressiva. Nel ’68 gli viene assegnato il massimo riconoscimento letterario canadese, il Governor General’s Award, ma lui lo rifiuta giudicandolo in contrasto con il messaggio presente nelle liriche di Selected poems, pubblicate in quell’anno. Nel frattempo, ha deciso di sperimentare la via del cantautorato, la leggenda vuole dopo aver ascoltato, in occasione di una festa, Higway 61 revisited di Bob Dylan. Ma questa, evidentemente, è un’altra storia, di cui diremo nelle pagine che seguono. La sua papa… Montreal, una nouvelle France più pia del Alistair MacLeod, canadese di origine scozzese, quasi coetaneo di Cohen, è unanimemente considerato uno dei maestri del racconto del Novecento. I suoi Il dono di sangue del sale perduto e Calum il rosso sono stati dei best seller anche in Italia. Parlando del suo paese di adozione, egli chiarisce: «Il Canada è un paese grande, il secondo al mondo per estensione dopo la Russia, e ha solo trenta milioni di abitanti sparsi ovunque, con preoccupazioni e ruoli diversi. Posso fare i nomi di Ondaataje, di Margaret Atwood, il mio, potrei fare altri trenta nomi: raccontiamo tutti cose diverse, qualcuno ambienta le sue storie nel centro di Toronto, qualcuno parla della vita dell’estremo nord, e ognuno è diverso dall’altro, non sono cloni, altrimenti leggeremmo un solo autore. Ognuno si spinge fin dove può, dà il massimo che può, in direzioni diverse». E uno dei nomi non fatti qui ma fattibili, certo, 21 è quello di Leonard. La cui irrequietezza esistenziale, che l’ha condotto a vagabondare tappa dopo tappa dalla Grecia agli States, nulla toglie alla sua profonda, e mai rinnegata, canadesità. Senza questa radice, non ci sarebbe il Nostro; o perlomeno, non sarebbe così. Così… arduo da definire! Come il Canada, dove – Cohen dixit – «non pensiamo di cambiare il mondo come fanno lì» (vale a dire, ovvio, negli States). Il Canada, perennemente alle prese con l’irrisolta questione di una nazione con l’Europa alle spalle e gli Stati Uniti di fronte, vero e proprio ibrido con il 40% di inglesi, un quarto di francesi, e tantissimi immigrati: fra cui quasi un milione di italiani, e un numero imprecisato di cinesi che ha reso in ogni caso la loro lingua la terza parlata nel paese. Multiculturalità, ma non melting pot (com’è successo al di là della frontiera, a sud), perché ogni gruppo tiene alla propria cultura, fino a produrre dei mondi a parte: spagnoli, ucraini, polacchi, tedeschi, indiani, e i natives delle riserve. E poi i québécois, naturalmente, che fanno mondo a sé. Tante etnie, tante lingue, una società difficile da decifrare in cui l’assenza di un’identità nazionale forte viene surrogata, invano, da una foglia d’acero appuntata sul bavero della giacca. Dove ognuno vorrebbe essere canadese, ma tutti, piaccia o no, sono cosmopoliti. Anche questo scenario può essere utile, per cercare di avvicinare il mistero-Cohen… il più europeo dei cantautori d’oltreoceano, senza dubbio. Allan Donaldson, uno dei primi critici che hanno messo mano all’opera di Leonard, già nel 1956 annotava come il Nostro «è ebreo e cittadino di Montreal, e questi due fatti influenzano pesantemente la sua poetica, che verte in gran parte sui temi del rapporto fra ebrei e gentili, sull’inumanità della moderna società urbana e sulla sua indifferenza per il fondamentale bisogno umano di libertà e amore»8. Sul suo ebraismo, così tradizionale e così sui generis (come tutti gli ebraismi, del resto), diremo poi. Ora, vale la pena di dire qualcosa dell’altro milieu dell’ispirazione coheniana, non sempre messo bene a fuoco. Montreal, infatti, fin dagli albori della Nouvelle France (xvii secolo), è il cuore pulsante di quel Québec – la provincia più estesa del Canada, perennemente in preda a pulsioni separatiste – in cui il senso religioso e le sue manifestazioni popolari hanno rappresenta8 22 In The Fiddlehead, novembre 1956. to una componente essenziale del carattere e del modo di interpretare la vita dei suoi abitanti. Beninteso, la religione cristiana nella sua variante cattolica: tanto che ogni villaggio, ogni corso d’acqua del Québec rurale porta ancor oggi il nome di un santo. Mentre a ogni incrocio di strada, o quasi, in campagna, si presenta al passante una croce del cammino. Ancora nel Novecento, negli anni Venti, recitano le statistiche dell’epoca, una donna maggiorenne ogni dieci era destinata a farsi suora; mentre tutto era in mano alla chiesa di Roma, ospedali, scuole, sindacato. Fino a mezzo secolo fa, quando Leonard è ancora un giovane uomo che si sta affacciando alle passioni e alle arti, le trecento fra chiese e monasteri facevano di Montreal e della sua regione il paese più cattolico del Nordamerica. All’interno del quale la consistente minoranza ebraica, peraltro, fungeva da contraltare naturale al predominio cattolico-romano, senza particolari problemi da segnalare e in un clima di accettazione privo di grandi conflitti. Il carattere ramificato e pervasivo dell’istituzione cattolica viene esplicitato in un testo coheniano dalla rara forza espressiva, che compare nella raccolta di poesie e prose Death of a lady’s man, del 1978: «Attenti a ciò che viene da Montreal, soprattutto d’inverno… Noi che abitiamo in questa città non abbiamo mai lasciato la Chiesa. Gli ebrei stanno nella Chiesa come stanno nella neve. I secessionisti più violenti, atei e radicali del Parti Québécois sono nella Chiesa. Tutti gli stili di Montreal sono nello stile nella Chiesa…»9. D’altra parte fu Mark Twain, già nel 1881, durante una visita a Montreal, a sentenziare: «È la prima volta che mi trovo in una città in cui sarebbe impossibile lanciare un mattone senza rompere la finestra di una chiesa…». Una vita da ebreo (errante) Abbiamo già detto qualcosa sull’infanzia ebraica di Leonard, ma si tratta di un punto da approfondire. Nella convinzione che l’appartenenza all’ebraismo costituisca un tratto del tutto cruciale 9 L. Cohen, Stranger music, trad. di A. Achilli, Baldini & Castoldi, Milano, 1997, p. 339. 23 non solo nella sua formazione umana, ma nell’intera esistenza artistica; e che vada ben al di là dei, pur notevoli, riferimenti espliciti («Sono stato cresciuto come un Messia, mi dicevano che io discendevo da Aronne», confidò nel ’67 a Richard Goldstein). Alla domanda su cosa abbia significato, e cosa significhi per lui, essere ebreo, la risposta, da principio, è piuttosto ovvia: «Difficile da dire, perché non so cosa significhi non esserlo, non avendolo mai provato… A parte gli scherzi, era l’acqua dentro cui nuotavamo, il marchio sulla nostra pelle, l’aria che respiravamo»10. È però già una risposta rivelativa, soprattutto per quel noi, per nulla scontato alle nostre latitudini, a indicare il riferirsi a un soggetto collettivo; o meglio, comunitario. Del resto, è impossibile pensare l’ebraismo se non in tale chiave, comunitaria, plurale e pluralistica. Da sempre, si badi… come rende bene la storiella ben congegnata del naufrago ebreo condannato a restare su un’isola deserta per parecchi anni, che – di fronte allo stupore dei suoi salvatori, che notano come nel lungo tempo della solitudine egli abbia costruito ben due sinagoghe – risponde tranquillamente: «Una è quella in cui andavo, mentre l’altra… era per non metterci mai piede!». Chiamato a dire qualcosa di più della propria famiglia, Cohen la descrive come osservante, ma non esageratamente, e per nulla estremista. Che ogni venerdì sera, all’aprirsi dello shabbat, si riunisce, anche quando lui è già ragazzo cresciuto, accendendo le candele, recitando la preghiera del kiddush su una coppa di vino, e osservando con scrupolo le regole di ciascuna festività. Il sabato mattina la famiglia Cohen si reca in sinagoga, e il piccolo Leonard viene condotto alla yeshivà settimanale la domenica, e alla scuola ebraica tre volte alla settimana: scuola e sinagoga, i due fari dell’istruzione ebraica di sempre. A dire il vero, da grande, dichiarerà con franchezza che non rammenta di aver mai provato un sentimento religioso intimo, con l’eccezione di qualche momento speciale, come l’ascolto della corale sinagogale impegnata in un canto liturgico, che gli procurava un brivido lungo la schiena… A parte quei rari frangenti, la sinagoga e la scuola ebraica sono per lui un’esperienza complessivamente noiosa, che lo spingeranno ad ammettere di non essere stato per nulla un giovanetto capace di 10 24 M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 299. emozioni in presenza del sacro: «Certo, in determinati momenti, quando la melodia del servizio religioso era particolarmente bella e sacra, si aveva coscienza di una certa dignità, di una certa solennità. Nulla di molto profondo, ma forse in tutta questa solennità, questo incantamento, questa dignità qualcosa mi avrà toccato. Più tardi, ho potuto comprendere che quelle persone si riunivano in nome di qualcosa che si trovava al di là della cupidigia o dell’ambizione»11. Alla domanda se la religione ebraica gli abbia in ogni caso insegnato dei princìpi che egli avrebbe conservato nel corso della vita, precisa: «Incontrare degli altri, o voi stessi, in nome di qualcosa di misterioso e di glorioso ha un significato. Noi intuiamo che qualcosa di importante è accaduto. Ma è difficile mettere il dito lì, tu non sei abilitato a farlo. Quando si legge la Torà12 in sinagoga, non bisogna toccarla con il dito, e si ricorre a un piccolo dito in metallo, d’argento…13 Come ha detto Gesù, “Quando due o tre fra voi si riuniscono in mio nome…”. Qualsiasi cosa ciò significa, si comprende d’istinto che c’è un’armonia che si trova al di là dei nostri accordi convenzionali, che li illumina, che ci invita a lasciare che tali armonie si estendano, e ci permette di abbracciare qualcosa che non siamo in grado di identificare»14. Fino a precisare, da parte sua, significativamente: «Questo posso dire: non ho mai, dico mai, sentito una volta sola pronunciare il nome di Dio. Credo che questo sia stato il modo migliore per farmi avvicinare a lui. Tutti mi dimostravano che c’era, ma nessuno me ne parlava direttamente. Ho dovuto andare a scoprirlo io stesso»15. È quanto ha fatto. Con l’aggravante citata di quel cognome impegnativo capitatogli in sorte, che da tempi lontanissimi contrassegna, nella tradizione d’Israele, i discendenti di Aronne, sommo sacerdote e fratello di Mosè. Se gli si chiede quanto l’abbia in11 C. Fevret, Beautiful loser, in “Les Inrockuptibles”, n. 30, luglio 1991. Si tratta dei primi cinque libri della Bibbia, chiamati appunto Torà (Legge) nella tradizione ebraica e Pentateuco in quella cristiana. 13 Il riferimento è all’usanza ebraica di adottare lo yad (in ebraico, letteralmente, «mano»), il puntatore usato per guidare le letture pubbliche del testo del Sefer Torà, talmente sacro da non poter essere toccato da mano umana. 14 C. Fevret, Beautiful loser, art. cit. 15 M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 299. 12 25 fluenzato sapere di questo collegamento, in genere replica: niente, se non in qualche camera oscura del mio cuore. Perché ogni uomo avverte dentro sé una chiamata divina. Ma, proseguendo nella riflessione, egli non può non riconoscere che la sua gente, al pari di quelle che portano il cognome Cohen, abbia costantemente avvertito una profonda connessione con il proprio passato, mista a un’altrettanto profonda consapevolezza della sua alta funzione su questa terra: «indossare abiti bianchi e vedere la presenza di Dio e toccare da vicino il radioso splendore dell’Altissimo»16. E ancora: «Io avevo l’impressione che le persone della mia famiglia lo prendessero sul serio, che esse fossero convinte di essere sacerdoti per eredità, di far parte di una casta di sacerdoti, della loro responsabilità verso la comunità»17. Sì, certo, la sua famiglia aveva preso sul serio tale vocazione, traducendola in imprese concrete: la fondazione di sinagoghe, di ospedali, di riviste e giornali. Ed è naturale, deve ammettere, che simili storie l’abbiano impressionato sin da bambino, insieme alla coscienza che esisteva un filo diretto che lo legava a un passato religioso e mitologico. Un passato splendido… Non è un dato da poco, per noi, che vi riflettiamo nel cuore della stagione dei rapporti liquidi e del tramonto dei legami sociali! Anche perché, sono sue parole, «il nostro dolore quaggiù nasce spesso dall’incapacità di dare un senso alle nostre vite, di trovare il nostro posto nel mondo, di attribuire un significato a tutto ciò che ci accade – tutte spiegazioni che pensiamo essere diritti acquisiti dalla nascita»18. Una volta dichiarò che, senza quel sentimento un po’ insensato di essere parte di un’eredità sacerdotale, non avrebbe mai potuto comporre una canzone come First we take Manhattan… In compenso, ha precisato più volte, nell’infanzia non sentiva parlare direttamente di Dio, elemento evidentemente dato per scontato, menzionato durante le preghiere e tradotto piuttosto in una grande fedeltà ai valori della famiglia, della posizione sociale, della lealtà. Valori poco mistici, ma discendenti da una spiritualità quotidiana e accettata come ovvia. Suo padre e suo zio, ad esempio, li ritrae come dei patrioti che avevano fatto 16 Ivi, p. 296. C. Fevret, art. cit. 18 Ivi, pp. 296 s. 17 26 la prima guerra mondiale da ufficiali, membri della Legione canadese, perfettamente leali verso la regina e l’Impero britannico; ma anche, al contempo, particolarmente fieri della loro tradizione ebraica. La religione di famiglia… Nonostante Cohen sia sempre stato attratto da diversi cammini spirituali, l’appartenenza all’ebraismo non l’ha mai messa in discussione. Sta lì il suo sangue, il suo retaggio. Ne fanno fede, ad esempio, le sue numerose dichiarazioni all’esaurirsi di un’esperienza importante (su cui dovremo tornare), di ritorno dal monastero zen di Mount Baldy, nei dintorni di Los Angeles, dove è vissuto dal ’93 al ’99: «Ho deciso di entrare nel monastero di Roshi (il suo maestro, N.d.A.) perché cercavo delle risposte. E ci sono rimasto più di quanto pensassi perché il maestro era affidato alle mie cure e adorava le mie zuppe di pollo. Non cercavo una nuova religione né l’ebbrezza di una conversione o di un’abiura. Mi sono tagliato i capelli, ho indossato l’abito del monaco zen, ma non ho mai nuotato in altri oceani, sono nato ebreo e morirò ebreo, la religione di famiglia già soddisfa tutti i miei appetiti spirituali. Tornare a casa è stata una bella sensazione». E ancora: «Sono diventato un monaco perché questa era la forma che il mio maestro aveva scelto: per studiare con lui era appropriata e direi anche naturale. Ma nello zen non c’è Dio, non c’è affermazione né negazione di Dio, e dunque non c’è mai stato alcun conflitto con la mia vecchia religione» (e qualcosa di simile, una volta, rispose allo stesso Allen Ginsberg, a sua volta assai attratto dai cammini spirituali dell’India, come faceva lui a conciliare la religione ebraica con la dottrina zen, precisando che «lo zen è più una forma di meditazione atea che una religione deistica»). La religione di famiglia, la mia vecchia religione… Definizioni che possono apparirci curiose, o agli occhi di qualcuno persino irritanti, nel tempo in cui le religioni si scelgono, si assaggiano, si sperimentano in chiave low cost, più che riceverle ereditariamente. Eppure, così è stato (ed è) 27 per il Nostro, che a più riprese è tornato sulla sua vita quotidiana da bambino, tutta ritmata dal calendario religioso. Quando ne parla, ricorda sempre che la sua figura di riferimento è stata la madre. E qui, è inevitabile, ci vengono in mente al volo le sublimi parodie delle yiddishe mame che abbiamo conosciuto da Moni Ovadia, con i suoi racconti che si trasformano in domande aperte sul senso del presente e sulla possibilità di un domani, scritte con la libertà e l’acume di chi, narrando da un palcoscenico, può concedersi di ridere della nudità del re19. Il fatto è che, stando ai resoconti di Cohen, il padre non è mai stato una figura forte della sua infanzia, essendosi malato piuttosto presto. Era toccato alla madre, perciò, di prendere le redini della famiglia. Una donna che ci viene presentata come una grande narratrice, come una che possedeva il dono di raccontare, essendo dotata di una sensibilità quasi cechoviana con cui condiva le sue storie innocenti, le sue avventure romantiche nella Russia prima della rivoluzione: «Raccontava quasi sempre di lei e di quei tempi – ha confidato una volta a Massimo Cotto – con un senso di nostalgia e malinconia, di autoindulgenza, che è presente in molta letteratura russa. Sai, quelle sensazioni agrodolci, quel senso dell’ineluttabile. Ci sedevamo vicini e lei iniziava una storia. Ma lo faceva in modo strano, i suoi racconti parevano non avere mai un inizio e non avere mai una fine. Quando ero molto piccolo ero, quindi, anche molto impaziente. Ma se riuscivi ad ascoltare tutta la storia, che in genere aveva la durata di due o tre teiere, tutte le tensioni si radunavano in un centro, ogni filo trovava la sua rocchetta. E quella che avevi ascoltato non era altro che la storia della vita di mia madre, ogni volta vista da un angolo e in un momento diverso: il suo innamoramento, l’avventura di un treno che correva verso Damasco, una notte in Russia alla musica di Chopin…»20. Una madre, per di più, che sa anche cantare, e piuttosto bene, in diverse lingue: yiddish (la lingua degli ebrei dell’Europa orientale), polacco, indiano… tanto che il giovane Leonard, diciassettenne, insieme agli amici, non disdegna di portarla con sé nel miglior ristorante greco di Montreal. Dopo aver mangiato e bevuto, è lui a tirare fuori la chitarra d’ordinanza, 19 Rimandiamo, ad esempio, allo straordinario M. Ovadia, Perché no? L’ebreo corrosivo, Feltrinelli, Milano, 2004. 20 M. Cotto, Leonard Cohen, op. cit., p. 298. 28 per una cantata collettiva in cui rifulge la bella voce di lei. Più che madre e figlio, sembrano complici… Popolo eletto? Un fatto certo è che, in un articolo uscito nel “New York Times” in occasione del suo più recente ritorno sulle scene, possiamo leggere: «Mr. Cohen è un ebreo osservante che rispetta anche lo shabbat persino quando è in tournée, e si esibì per le truppe israeliane durante la guerra arabo-israeliana del 1973»21. Mentre alla domanda, ripetutamente postagli, se non abbia mai sentito su sé la responsabilità di appartenere al cosiddetto popolo eletto, di solito ammicca, rispondendo che è difficile rispondere: «Molti ebrei pensano e sanno di essere nati in un universo morale, di prendere decisioni morali, e probabilmente ne ho subito anch’io l’influenza. Sul fatto di essere scelti... dipende dal perché si è stati scelti: perché una intera nazione ha accettato una relazione stretta con Dio, per ragioni di eccellenza, o per qualche virtù particolare? Probabilmente siamo stati scelti per eliminazione, per un qualche meccanismo automatico...». E così, ci tornano alla mente le diverse versioni burlesche di questo privilegio, che circolano proprio in seno al popolo ebraico, che – com’è noto – non ha mai avuto paura dell’umorismo. Una, cara a Moni Ovadia, riguarda proprio le tavole della Legge. Dice che in realtà Dio si era rivolto ai galli, i moderni francesi, ma quelli, lette le tavole, s’erano impuntati sul non desiderare la donna d’altri: «Quale sennò?». Allora Dio era andato dai germani, ma quelli s’erano opposti al quinto: «Noi la chiamiamo guerra». I fenici erano contrari al settimo: «Per noi è commercio». Finché Dio non arrivò in fondo alla lista. Gli ebrei ascoltarono in silenzio, poi si consultarono. «Ce n’è qualcuno che non vi piace?», chiese il Signore. «No, la Legge va bene. Ma, scusa, quanto costa?». «Nulla». «Allora, due!». Ce n’è un’altra, storica, che riporta lo scrittore ebreo ucraino Shalom Aleichem, nel 21 L. Rother, On the road, for reasons practical and spiritual, in “The New York Times” (25-2-2009). 29 suo straordinario Tewje il lattivendolo22: «D’accordo, d’accordo, è perché siamo il popolo eletto! Ma senti! Ogni tanto non potresti eleggere qualcun altro e lasciarci un po’ in pace?». Chissà che Leonard non pensasse a questa felice boutade, quando componeva i versi della poesia Il genio, tratta dalla sua raccolta The spice-box of earth, del 1961, che vale la pena di riportare per intero: Per te sarò un ebreo del ghetto e danzerò mettendo calze bianche sui miei arti contorti e sorgenti di veleno in tutta la città Per te sarò un ebreo apostata e parlerò al prete spagnolo del giuramento di sangue nel Talmud e gli dirò dove sono nascoste le ossa del bambino Per te sarò un banchiere ebreo e manderò in rovina un vecchio e orgoglioso re cacciatore interrompendone la linea di successione Per te sarò un ebreo di Broadway e nei teatri piangerò per mia madre vendendo sottobanco prodotti a prezzi stracciati 22 30 S. Aleichem, La storia di Tewje il lattivendolo, Feltrinelli, Milano, 2000. Per te sarò un medico ebreo e frugherò nell'immondizia in cerca di pezzi di latta per prepuzi ricuciti Per te sarò un ebreo di Dachau che giace in una fila con arti contorti e un dolore gonfio che nessuna mente può afferrare «Ho imparato, scrivendo canzoni, – ha detto Cohen in un’intervista di pochi anni fa – che più si è intimisti, più si parla di temi personali e più si diventa universali. E i sentimenti di una persona diventano quelli di tutti». La cosa vale, ci pare, per diversi dei suoi brani. Alla poesia appena riportata accostiamo allora una strofa di The captain, un pezzo tratto da Various positions (1984), che accenna enigmaticamente alla condizione ebraica, e al tradizionale antigiudaismo cristiano. Lamentarsi, lamentarsi: non hai fatto altro da quando abbiamo perso sin da quando abbiamo perso. Se non è la crocifissione allora è l’Olocausto. Possa Cristo avere pietà della nostra anima per aver scherzato così nel mezzo di questi cuori che bruciano come carbone e di questa carne color rosa come il fumo. Ha scritto Alessandro Carrera: «Quanto misticismo ebraico agisce nelle canzoni di Cohen, quante riflessioni sulla presenza femminile del divino sulla terra (in accordo al simbolismo della Cabala) Cohen riesce a cantare come se si trattasse di semplici canzoni d’amore!»23. 23 A. Carrera, Cohen la leggenda di un anti-mito, in “Europa” (11-12-2008). 31 La nascita di Jikan, il silenzioso «Certo, la meditazione di questi anni al monastero zen di Mount Baldy è stata necessaria per raggiungere nuovi equilibri. È stato un rigore che mi sono imposto ma di cui avevo bisogno. Oggi ho la percezione che non esiste la vita in orizzontale ma in verticale, e così si coglie il senso del tempo». Come si diceva, bisogna ritornare con la dovuta attenzione sulla vicenda buddhista di Cohen. Che nel 1994, dopo la promozione mondiale del suo album The future, decide appunto di ritirarsi al Mount Baldy Center, un monastero zen sorto nel 1971 e situato a duemila metri di altezza sulle montagne di San Gabriel, a oltre sessanta chilometri a est di Los Angeles. Non è un fulmine a ciel sereno, del resto, questa sintonia con la meditazione zen. È già durante la residenza europea a Hydra, infatti, che Leonard fa la conoscenza con un amico, Steve Stanfeld, che, a suo dire, faceva parte di «un piccolo gruppo di persone che studiava i testi buddhisti in una modalità molto interessante». Al suo ritorno a Los Angeles, Steve viene a sapere che un importante maestro zen si era installato nei dintorni: «egli cominciò a studiare con lui, e me ne parlò». Da allora, saltuariamente, Cohen prende a frequentare Kyozan Joshu Sasaki Roshi. Una biografia straordinaria. Nato nel 1907 in Giappone, diventa novizio all’età di quattordici anni sotto Joten Roshi Soko Miura, un maestro nella scuola Rinzai del buddhismo zen. Sotto la guida di Joten, Joshu Sasaki dopo sette anni si fa Osho, e quando Joten è nominato abate di Myoshin-ji, il principale tempio del filone Rinzai, lo segue per continuare la sua formazione. Nel 1947, ormai quarantenne, Joshu Sasaki riceve pieni poteri come un Roshi e viene eletto abate del suo tempio, il Shoju-uno, un monastero delle Alpi Giapponesi antico di diciotto secoli. Nel 1962 Daiko Furukawa, il successore di Joten Roshi come abate di Myoshin-ji, chiede a Joshu Roshi di iniziare il suo insegnamento negli Stati Uniti. Giunto a Los Angeles il 21 luglio 1962 da allora vi si stabilsce in permanenza. Il Rinzai-Ji, tempio principale della città, è stato fondato a Los Angeles nel 1968, seguito dai suoi due principali centri di formazione, il Mount Baldy Zen Center e il Bodhi Manda Zen Center in New Mexico, appena fuori Albuquerque 32 (1973). I suoi studenti hanno aperto diversi centri negli Stati Uniti, Porto Rico, Canada, Austria e Germania. Oggi, ultracentenario, Joshu Roshi rappresenta l’ultimo di una generazione di pionieri insegnanti giapponesi che hanno portato il Dharma in Occidente. Per Cohen, fulminato dall’incontro con lui, sono quasi sei anni di ritiro completo dalle scene artistiche. Lunghe giornate senza musica e senza poesia, organizzate da un ferrea disciplina (sveglia alle tre e mezza del mattino, tanto per dire). In cui si alternano, per lui, sedute di meditazione seduta, o zazen, e incontri privati con Roshi durante i quali il maestro suggerisce all’allievo un koan, sorta di parabola contraddittoria che lo studente è chiamato a risolvere nel modo più personale possibile. In realtà, al monastero giungono persone assai diverse fra loro, soprattutto in occasione del ritiro comunitario più intenso, due volte l’anno in inverno e in estate, detto sesshin: credenti, agnostici, razionalisti e mistici. Qui, se l’ispirazione di fondo è ovviamente buddhista, il grosso dell’impegno riguarda un lavoro individuale sul sé. Quando qualche giornalista, vinta la coltre dell’impenetrabilità del monastero californiano, lo raggiunge, cerca di capire il motivo del successo del buddhismo presso una buona fetta dello show-business americano, Leonard reagisce allontanando ogni sospetto su una scelta soft di matrice New Age… perché, chiarisce, questo genere di pratica non diverrà mai troppo popolare, in quanto assai difficile. E in quanto, a Mount Baldy, non si fa della religione! «La gente ha bisogno di religione, perché l’uomo ha bisogno di un’ancora di salvezza. Così, considera la salmodia dei sutra o l’immagine di Dio come una cosa oggettiva e separata, tanto più nella misura in cui questo vi fa bene. Per di più, io credo che le grandi religioni abbiano fatto il pieno di fedeli, e che numerose persone cerchino delle nuove forme di salvezza. Qui, non c’è salvezza. Nonostante io viva in questo modo a tempo pieno, io non mi sono mai considerato come un buddhista. Due anni fa, Roshi mi ha detto: “Sono vent’anni che ti conosco, Leonard, e non ho mai cercato di trasmetterti la mia religione. Io mi accontento di servirti del saké”». Ciò che lo attira, dirà, è la teologia negativa tipica del Dharma buddhista. Il senso del vuoto. E a chi gli fa notare che qualcosa del genere avviene nella kabbala ebraica, non lo nega, ma «la vita è troppo breve per provare tutto, e non si possono bere due tazze di 33 the nello stesso momento… ho incontrato questo vecchio uomo, e mi è piaciuto quello che non diceva». Roshi, il vecchio uomo di cui parla Cohen e di cui ha detto «siamo una bella coppia», una volta ha riconosciuto che Leonard è stato un ottimo allievo, «perché abbraccia il positivo e il negativo». Perché allora questa scelta, come al solito spiazzante? Ecco una delle sue spiegazioni più felici: «Io amo dimenticare Leonard Cohen. Nel 1994 dopo aver terminato una tournée, a quasi sessantun anni, ho parlato con il mio maestro, che ne aveva novanta. Lui mi ha detto che sarebbe entrato in un monastero buddhista. E io l’ho seguito. È stato un periodo che mi ha donato pace e tranquillità. Sono stato molto impegnato a occuparmi della vita ordinaria. Ho cucinato per lui, ho lavato i piatti. È stato un grande privilegio restare faccia a faccia con l’altra parte di me». Dal suo esilio volontario – nel frattempo, all’alba del 9 agosto ’96, ha deciso di assumere il nome da monaco di Jikan, vale a dire il silenzioso – filtrano poche notizie. Arriva però ancora della musica, anche se è quella di Cohen Live, che presenta dei brani registrati dal vivo nel 1988 e nel 1993 a Toronto, Vancouver, Austin, San Sebastian e Amsterdam. In realtà, era già dai primi anni Settanta che praticava sotto la guida di Roshi, famoso per il suo stile Rinzai Zen particolarmente severo e rigoroso. Dato che il cantante, prima di incamminarsi lungo la via del Rinzai, aveva praticato secondo gli insegnamenti della scuola Soto, il primo koan che ha ricevuto dal suo maestro è stato: «Come manifesti Shikantaza quando guardi un fiore?». E quando i giornalisti gli chiederanno, com’è stato tornare a casa per sempre dopo così tanti anni di isolamento? Risponderà: «È stata una bella sensazione. Mi sono seduto davanti al tavolo della piccola cucina che guarda sulla strada. E in quel preciso momento, osservando i movimenti all’esterno, ho cominciato a scrivere. L’ho fatto per una settimana di seguito, con la stessa routine, molto, molto felice di essere di nuovo lì». Dopo sei anni, ha spiegato ancora Cohen, si è chiuso un ciclo di vita, anche se in quel monastero era stato benissimo: «Ho avuto l’opportunità di riavvicinarmi ai miei studi, di approfondire la conoscenza e gli interessi che avevo coltivato disordinatamente in precedenza». E ancora: «Cucinavo per il mio maestro, ero il suo attendente: la nostra conversazione era elementare, nessuna 34 grande idea, nessun concetto complesso. Gli portavo la cena e lui diceva: “Questo ristorante buono”». Nel tempo dilatato di Mount Baldy, il Nostro ha in realtà scritto a lungo e messo nel cassetto oltre duecentocinquanta testi fra poesie, haiku, appunti, rapide osservazioni della realtà destinate ad un libro24: «La meditazione zen mi è molto servita: è la ricerca del significato, un’attitudine che non aiuta a trovare risposte ma piuttosto sollecita altre domande». È nel gennaio del 1999 che Leonard, quando risiedeva ancora nel monastero, ricevette la notizia della morte di Fabrizio De André: «Mi dispiace non averlo conosciuto, – disse al riguardo – aveva tradotto e reinterpretato benissimo un paio delle mie canzoni. Ero in monastero quando ho saputo della sua morte: anche se non c’eravamo mai incontrati mi ha molto colpito e ho scritto una poesia in sua memoria». Torneremo più avanti sui rapporti fra i due, che ci sembrano illuminanti anche nel nostro itinerario. 24 Buona parte di essi sono stati raccolti in L. Cohen, Book of mercy/ Libro della misericordia, Supernova edizioni, Venezia, 2000 e in Id., Il libro del desiderio, Mondadori, Milano, 2007. 35 Indice Prefazione. Leonard Cohen, «il poeta eletto» di Stefano Cisco Bellotti 7 Sister of mercy 9 Ringraziamenti 10 Introduzione. Quella sera a San Marco… 11 1. «I’m the little jew…» 15 17 21 23 27 29 32 37 40 41 43 45 47 51 52 54 56 58 61 63 66 67 71 Cohen prima del mito La sua Montreal, una nouvelle France più pia del papa… Una vita da ebreo (errante) La religione di famiglia… Popolo eletto? La nascita di Jikan, il silenzioso 2. Il filo rosso, la canzone come preghiera I Salmi del re David Bono, un fan di David Hallelujah! La reinvenzione coheniana Tutta colpa di Betsabea? Ancora nel segreto Il chiarirsi che si paga di Jeff Buckley Se sarà tuo volere The land of plenty The Faith… 3. La Bibbia, il grande codice di Leonard Il Gesù di Suzanne La storia di Isacco Come un midrash capovolto Il doppio tradimento 175 6. L’ultima torre della canzone 76 78 81 82 85 88 94 97 99 102 104 107 113 117 Postfazione. Cohen, il profeta che ha ospitato Dio nella sua vita di Pasquale Troía 121 Appendici Biografia Discografia Bibliografia Filmografia Siti Internet Album tributo Cover di Hallelujah Cover di Leonard Cohen di artisti italiani Indice delle canzoni di Leonard Cohen citate nel testo Indice dei nomi 131 133 139 146 150 155 157 160 166 170 171 Sui fiumi di Babilonia… Dove tu vai, io andrò 4. Uno strano connubio, il Cohen di Faber Quattro donne Il ruolo dell’artista Smisurate preghiere L’ordine dell’anima 5. Due ebrei, tre pareri: tra Bob e Leonard… Dal Talmud al Boogie… La giusta distanza La trilogia cristiana di Dylan Il sapore dell’Apocalisse «Io sono un alfabeto»… Finito di stampare il 16 aprile 2010 - Stampatre, Torino 176