#Liberare Auschwitz dall`ipocrisia

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#Liberare Auschwitz dall`ipocrisia
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#Liberare Auschwitz dall’ipocrisia
Settant’anni dopo l’irruzione dell’Armata Rossa nel più tristemente celebre campo di sterminio nazista
è doveroso non solo fare memoria dell’orrore che vi fu perpetrato (contro l ’umanità e contro Dio), ma
pure operare un bilancio di quella grave eredità nella nostra cultura occidentale. Ci sono traguardi che
chiedono dei passi avanti. Cristiani ed Ebrei insieme .
di Giovanni Marcotullio
«S
iamo tutti semiti». Si direbbe un hashtag, magari lanciato in un tweet
destinato a diventare virale in questa giornata di commemorazione.
Invece no, si tratta di un passaggio del discorso che il 6 settembre 1938
Papa Pio XI tenne a dei pellegrini belgi giunti “ad limina apostolorum”. Il discorso
era la reazione immediata del Papa alla vergognosa infamia della prima
promulgazione di leggi razziali in Italia, avvenuta il giorno prima (i provvedimenti
si sarebbero ripresi e “corretti” per diversi mesi, fino a quando lo scoppio della
seconda guerra mondiale avrebbe fatto precipitare gli eventi verso il peggiore dei
mondi possibili). Ad accrescere la vergogna di quel giorno buio per l’Italia sta il
fatto che le veline fasciste avevano fatto cantare all’unisono tutta la stampa
(comprese le grandi testate allora e tuttora esistenti come il Corriere), e perfino
L’Osservatore Romano e La Civiltà Cattolica (quotidiano ufficiale e quindicinale
ufficioso della Santa Sede) temettero la repressione fascista più delle ingiunzioni
del Pontefice. Pio XI riuscì a far pubblicare il suo discorso solo in Belgio, mediante
i giornalisti presenti all’incontro. Non che al nord si rischiasse meno: i
provvedimenti antisemiti si succedevano, nella Germania nazista, fin dal 1933
(sebbene senza l’efferata violenza della “soluzione finale”), e della Germania il
Belgio aveva già conosciuto l’aggressione militare ventiquattro anni prima, alla
vigilia della “Grande guerra”: avrebbe ripetuto l’amara esperienza appena due
anni dopo, nel 1940. Pio XI, però, “quell’uomo dal collo duro” (come ebbe a
definirlo Mussolini), morì pochi mesi dopo il discorso e della seconda guerra
mondiale non vide che le paurose avvisaglie: i suoi gesti di aperto rifiuto della
follia collettiva che avanzava furono ripetuti lampi di luce che – se riuscirono a
scuotere alcune coscienze dal torpore – tuttavia non poterono frenare la
tempesta.
Il 27 gennaio è data che costringe le pagine di cronaca dei giornali a prendere i
colori della storia e dei libri, e se non si vuole credere che l’orrore dei campi di
sterminio sia una sorta di incredibile e mostruoso fungo, comparso all’improvviso
nelle pagine del tempo, è necessario armarsi della pazienza dello studio, della
fatica del concetto, rifuggire le semplificazioni e le astrazioni. «La memoria
acquista un senso – ha scritto Piero Di Nepi nell’ultimo numero di Shalom –
soltanto se si libera dall’ipocrisia, se non si rifugia nelle formule rassicuranti, nel
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rito e nella liturgia delle commemorazioni. Che certamente sono e saranno
indispensabili, ma devono finalmente fare i conti con l’eredità malefica del Terzo
Reich». Un’eredità che ci chiede di “aggiornare l’agenda della memoria”, ingiunge
Di Nepi: «Non si deve dimenticare che Reich in tedesco significa “Stato” e Recht si
traduce con “diritto”. Il Reich che Hitler voleva millenario fu uno stato di diritto».
Per questo motivo «i meccanismi della memoria non possono fermarsi
all’emotività e alla commozione»: che sia un ebreo, a settant’anni dalla liberazione
del campo di Auschwitz, a spronarci a un passo ulteriore e realmente attualizzante
è cosa massimamente importante. Gli Stati di diritto si trovano ancora, ogni 27
gennaio, in un imbarazzo paralizzante, perché la mitologia della follia di un uomo
che inspiegabilmente si è portato appresso il mondo fa acqua da tutte le parti: il
27 gennaio è la giornata in cui lo Stato di diritto (ogni Stato di diritto) deve fare i
conti con la propria “cattiva coscienza”, mai del tutto sopita.
La storia tutta di Israele, poi, e la sua stessa esistenza, sono la testimonianza
perenne di un memoriale sostenuto da un’alterità invisibile e invincibile: gli Ebrei
sono perseguitati e trucidati da quando sono al mondo (in questi giorni anche il
cinema ne fa memoria a modo suo), e nel ricordo di questa diuturna persecuzione
sono incredibilmente cresciuti e si sono moltiplicati su tutta la terra, spesso senza
possedere una terra ma sempre senza smettere di essere un popolo. «Quando in
avvenire – avverte il “libro delle parole” – tuo figlio ti domanderà: “Che significano
queste istruzioni, queste leggi e queste norme che il Signore nostro Dio vi ha
dato?”, tu risponderai a tuo figlio: “Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il
Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri
occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l’Egitto, contro il faraone e contro
tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai
nostri padri di darci. Allora il Signore ci ordinò di mettere in pratica tutte queste
leggi, temendo il Signore nostro Dio così da essere sempre felici ed essere
conservati in vita, come appunto siamo oggi. La giustizia consisterà per noi nel
mettere in pratica tutti questi comandi, davanti al Signore Dio nostro, come ci ha
ordinato”» (Deut 6,20-25). Questo è il cuore del giudaismo, ed è con questo cuore
giudaico che Saulo di Tarso poté dire ai fedeli di Corinto, che solo in parte erano
ebrei: «Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa
potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni
parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non
abbandonati» (2Cor 4,7-9).
Israele è apparso nella storia del mondo come un soggetto politico-sociale
anomalo rispetto a ogni altro, refrattario alla disgregazione e alla dispersione
perché costantemente impegnato in un dialogo col trascendente – dialogo che
fonda e cementa Israele, nella diaspora come in Terra santa. Per questo motivo
ogni tentativo di comprendere i fenomeni storici in cui Israele è implicato a
prescindere dal giudaismo e dai suoi contenuti è destinato a naufragare; allo
stesso modo brancolano nel buio quelli che cercano di comprendere il giudaismo
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al netto degli aspetti politici della sua dottrina. In una luminosa lettera a Gershom
Scholem, Hannah Arendt replicava criticamente alle osservazioni dell’amico sulla
laicità del neonato stato di Israele: «Il solo motivo per cui Israele è un popolo, e
per cui ora ha un suo Stato, è che un giorno egli ha creduto di essere stato convocato da Dio ed eletto a suo interlocutore ».
La giornata della memoria, se è ciò che deve essere, interroga gli uomini
sull’uomo, su Dio e sullo Stato. In esso infatti la “città degli uomini” può
protendersi verso uno dei due amori di cui parla Agostino: uno di essi la fa tendere
alla “città di Dio” (pur senza che qui possa raggiungerla pienamente), l’altro a una
città idolatra di cui Auschwitz è l’orribile e diabolico “sacramento”. L’esperienza
sembra negare che vi sia una terza via, magari una comoda medianità, perché è
dal finto piano della banale e mediocre “indifferenza” che parte l’abisso del male.
Il processo di Eichmann a Gerusalemme (1961) e la relativa lezione della Arendt
lo hanno insegnato: anche il male più grande – quello che Giovanni Paolo II
chiamava “assoluto” e che la Arendt preferiva definire “estremo” – anche quello è
“banale”, e i suoi arcidiavoli somigliano molto più a degli impiegati incolori e
inoffensivi che ai variopinti genî della crudeltà rappresentati nelle tavole di Bosch.
Fa bene fare i conti con questa banalità (e farlo ogni anno) proprio perché è
sempre attuale, e a buon diritto occupa le prime pagine dei quotidiani. È un debito
che l’umanità ha con se stessa e con Dio, oltre che con gli Ebrei e le altre classi
d’umanità ritenute “colpevoli di esistenza”: «Io sono oggi qui come figlio del
popolo tedesco – diceva ad Auschwitz Benedetto XVI nel 2006 –, e proprio per
questo devo e posso dire […]: Non potevo non venire qui. Dovevo venire. Era ed è
un dovere di fronte alla verità e al diritto di quanti hanno sofferto, un dovere
davanti a Dio, di essere qui come successore di Giovanni Paolo II e come figlio del
popolo tedesco – figlio di quel popolo sul quale un gruppo di criminali raggiunse
il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di
recupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di
benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro
popolo poté essere usato e abusato come strumento della loro smania di
distruzione e di dominio. Sì, non potevo non venire qui».
Resta il fatto che il Dio di cui questi Papi hanno parlato – lo stesso in cui hanno
creduto i milioni di ebrei sterminati in quelle strutture – ha permesso tutto
questo: «In fondo – così sempre Benedetto XVI in quell’occasione – può restare
soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio:
Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Eppure,
ridotto al silenzio e al grido come tedesco e come teologo, Benedetto XVI sapeva
ugualmente che il rigetto e la persecuzione sono un segno, collaterale ma
distintivo, dell’elezione divina – nel giudaismo come nel cristianesimo. Di più, egli
non dimenticava che soltanto il Dio della croce può resistere ad Auschwitz senza
venirne travolto, perché nel Crocifisso i cristiani riconoscono l’eterno “agnello di
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Dio che prende su di sé il male del mondo”. Gli ebrei non lo riconoscono in Gesù,
ma il patriarca comune Abramo ne fu misticamente presago mentre saliva il
monte con Isacco: «Dio stesso provvederà all’agnello per l’olocausto, figlio mio»
(Gen 22,8). Il Dio degli ebrei, che è il Dio dei cristiani, può sopravvivere ad
Auschwitz perché ha promesso di raccogliere sul suo agnello “i peccati del
mondo”. Per questo, dicono, Pio XI pianse, al Vespro del 5 settembre 1938,
durante il canto del Magnificat: «…Così come aveva promesso ai nostri padri, / per
Abramo e per la sua discendenza, per sempre». E il giorno dopo tuonava (nel
deserto): «Spiritualmente siamo tutti semiti. L’antisemitismo è inammissibile».
La shoàh è stata dunque una sorta di teomachia politica, come ha spiegato il Rav.
Abraham Skorka, vecchio amico di Papa Francesco, in una lunga intervista
(rilasciata quasi un anno fa ad Antonio Spadaro per La Civiltà Cattolica): «Per
Bergoglio – dice Skorka – la Shoah è un genocidio come tanti altri del XX secolo,
ma ha una peculiarità: la costruzione di un’idolatria contro il popolo ebraico. La
razza pura e il superuomo sono gli idoli sui quali è stato edificato il nazismo. Non
si tratta solo di un problema geopolitico, c’è anche una questione religiosoculturale. Per lui, ogni ebreo ucciso fu uno schiaffo al Dio vivente in nome degli
idoli. Nell’obiettivo nazista di cancellare dalla faccia della terra e dalla storia la
presenza del popolo che definisce la propria identità nel testo biblico, si fa
presente l’intenzione di eliminare dall’orizzonte umano la presenza di quel Dio
che aveva stretto un patto con l’uomo affinché quest’ultimo curasse e lavorasse la
sua opera creativa».
Ecco la posta in gioco, se si guarda al complesso dei fatti e non alle sole date; ecco
il livello sopra il quale deve innalzarsi il dialogo, se non vuole stagnare nella
diatriba o – peggio – nel battibecco mediatico: nella confusione di quegli anni bui
ci sono stati i bagliori di uomini e donne che nel loro piccolo hanno riscattato
l’umanità, e nella giornata della memoria non si può tralasciarli né (che sarebbe
perfino peggio) dividerli “in squadre” gli uni contro gli altri. I “giusti delle nazioni”
stanno tutti dalla stessa parte, che è quella di Dio, qualunque sia stata la posizione,
qualunque il rango, qualunque il mezzo scelto da ciascuno di loro per “non piegare
le ginocchia davanti a Baal” (cf. 1Re 19,18). Nella Mishnèh Toràh Mosè Maimonide
raccomanda – è sempre Skorka a ricordarlo –: «Davanti a qualsiasi situazione
conflittuale devono primeggiare la calma e lo studio. […] Quando l’ira che acceca,
l’odio che oscura la ragione e le passioni più basse vengono in primo piano
rispetto alla risoluzione dei conflitti, si può sperare soltanto nella sparizione del
contendente, nella distruzione di qualche vincolo affettivo, o nell’assunzione di
posizioni estreme, in genere distruttive». Per questo motivo la “purificazione della
memoria” dovrebbe comportare la buona volontà di sedersi insieme a un tavolo,
aprire archivi, sfogliare documenti senza paura della verità che ne verrà fuori,
senza l’aggressività di chi ha già scelto una tesi ed è deciso a confermarla con ogni
mezzo possibile (magari per usarla “contro” qualcuno).
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È un peccato che ancora oggi le ombre gettate da Rolf Hochhut sulla figura di Pio
XII con la sua pièce “Il Vicario” sembrino tanto più considerevoli rispetto ai ricordi
dei romani, alle ricostruzioni degli storici, agli indizi e ai documenti che, giorno
dopo giorno, vengono alla luce da ogni dove – i quali documenti dovranno
verosimilmente delineare un chiaroscuro, fatto dunque di ombre e luci, come è
per ogni essere umano (papi inclusi). È pure un peccato che l’uso strumentale
della figura e della vicenda di Israel/Eugenio Zolli (abuso apologetico di cui si
sono spesso resi rei dei cattolici di scarsa intelligenza teologica) abbia di fatto reso
Zolli un innominabile per la stessa comunità ebraica romana.
Proprio come diceva Skorka: quando non prevalgono la calma e lo studio, la
“distruzione di vincoli affettivi” è ciò che resta, e si deve fingere di non ricordare
– di non portare nel cuore – chi per le comunità ha fatto quel che ha potuto, con
tutti i limiti ma con tutto il cuore. Mi sembra bello e doveroso auspicare che la
giornata della memoria possa incoraggiare un dialogo riconciliato su queste
figure, la cui grandezza e complessità vengono anche dall’aver attraversato un
momento storico indicibilmente grave. «Io faccio – dice ancora Skorka in
proposito – quel che i saggi talmudici hanno insegnato: “Non giudicare gli altri
finché non ti sei trovato al loro posto” (Mishnah, Abot 2,4)».
E perché ho detto che chi brandisce un rabbino capo convertito al cattolicesimo
come arma apologetica dimostra notevole miopia teologica? Anzitutto perché sta
immediatamente fraintendendo la portata e il valore di quella “conversione” (che
meriterebbe appunto i sospirati tavoli di studio): nello stesso 1938 delle infami
leggi razziali, Israel Zolli diede alle stampe un incredibile volume di ricerche
biblicoesegetiche su Gesù (Il Nazareno) dal quale emergeva un ritratto del
fondatore del cristianesimo molto più “ortodosso”, cristologicamente, di tanti
testi coevi di studiosi cristiani imbevuti di filosofie romantiche e persi dietro a
polemiche letterarie. Zolli scrisse quel capolavoro (ormai datato ma tuttora pietra
miliare) da ebreo, e l’anno dopo fu eletto rabbino capo di Roma (dunque la
comunità romana non dovette ritenerlo un testo “pericoloso” per l’ortodossia
giudaica): da ebreo Zolli precorse alcune tappe della ricerca cristiana sul “Gesù
storico” e il suo lavoro testimonia che l’ebraicità è una chiave di lettura
indispensabile – non “utile” – per avvicinarsi alla misteriosa identità di Gesù. Certa
“apologetica” è poi miope anche perché valuta con estrema trascuratezza il fatto
che buona parte dell’Israele del I secolo non ha accolto Gesù come il messia che
sarebbe stato mandato apposta per lui: dal punto di vista del cristianesimo
nascente questo non è “un problema” o “un imprevisto”, ma un “mistero”, ossia
qualcosa che ha a che fare col piano salvifico di Dio (tanto che Paolo gli dedica tre
capitoli [9-11] della sua Lettera ai Romani). In proposito Brem, contemporanea di
Bernardo di Chiaravalle e sua commentatrice, commentava così: «Stando alle
parole dell’Apostolo, la Chiesa non deve preoccuparsi della conversione dei
Giudei, perché occorre aspettare il momento stabilito da Dio, “quando la totalità
dei gentili avrà raggiunto la salvezza” (Rom 11,25)». E allo stesso modo
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sintetizzava Hans Urs Von Balthasar, uno dei più grandi teologi del XX secolo:
«L’eventualità di “venir riassorbito” nella Chiesa attraverso tante singole
conversioni non può essere il senso del perdurare del popolo di Israele. Israele ha
un destino in quanto popolo».
Il destino di Israele ha dunque a che fare con la salvezza del mondo e nessun
giorno come il 27 gennaio è buono per farne memoria. Del resto, poiché
«spiritualmente siamo tutti semiti» l’accostarci a questo mistero significa di
riflesso accostarci al nostro stesso destino di esseri umani. Trovo emblematico in
tal senso – e mi colpisce davvero – come ha risposto Papa Francesco al suo amico
il Rav. Skorka quando questo gli chiedeva quale dovesse essere il prossimo passo
del dialogo tra cristiani ed ebrei: «Teologico». Secco, senza esitazioni, mentre
spessissimo nel dialogo ecumenico e in quello interreligioso Francesco mostra di
prediligere a quella teologica la via degli impegni comuni, specialmente nelle
opere di carità. Tra cristiani ed ebrei invece il dialogo deve affrontare una fase di
dibattito teologico, a giudizio del Papa (e la sua bibliografia fondamentale si
compendia in La promesse di Jean-Marie Lustiger e in Dos caminos, una redención
di Yoel Ben Arye).
«Siamo tutti semiti», e per questo la giornata della memoria deve interrogarci
tutti, come persone e come comunità, sugli esiti che ogni società può toccare
quando l’intangibilità della persona umana, coi pretesti più disparati, viene messa
in discussione. Furono il giudaismo e il cristianesimo a portare il diritto romano a
proibire la crudeltà sugli schiavi (e lentamente ad estinguere la schiavitù), e lo
hanno fatto a partire dal principio antropologico della “somiglianza divina”. Dove
la persona umana è rispettata in modo assoluto e incondizionato, ciò avviene per
un influsso teologico sull’antropologia, mentre i guai cominciano quando i diritti
dell’uomo vengono sostituiti dai diritti del cittadino. Lo Stato di diritto si fonda
sull’assunto che il diritto debba riconoscere la giustizia e conformarsi ad essa:
«ma se sparisce la giustizia – osservava Agostino già nel V secolo – che cosa sono
i governi, se non grandi associazioni di criminali?»
Criminali furono gli ideatori, i costruttori, gli esecutori e gli impiegati di luoghi
come i campi nazisti di Auschwitz, e noi «siamo tutti spiritualmente semiti»,
almeno finché troviamo le forze necessarie a vigilare che “mai più” il valore di
alcune persone venga negato. Potrebbe anche darsi che i “sacrifici umani” si
facciano tuttora, come denunciò l’ultimo successore di Pio XI il 18 novembre
2013. E magari che noi facciamo finta di niente. 