Impatto Sonoro – intervista al GnuQuartet di Giulia Bertuzzi

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Impatto Sonoro – intervista al GnuQuartet di Giulia Bertuzzi
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Intervista agli GNU QUARTET
Di Giulia Bertuzzi · maggio 30, 2011 · Commenta
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Gnu Quartet è un quartetto dalle molteplici estrazioni
sonore, capace di sintetizzare la musica classica con le influenze rock e jazz.
Raffaele Rebaudengo ci parla del loro ultimo album, Something Gnu, nell’attesa di incontrarli live in una delle date
previste nel loro tour.
A cura di Giulia Bertuzzi.
Facendo riferimento al vostro ultimo lavoro, Something Gnu, cosa vi ha guidato nella scelta della canzoni?
Per ogni brano ci sono delle motivazioni diverse, si tratta in fondo di temi e noi abbiamo questa velleità cioè quella di
trattare i temi non per fare solo improvvisazione, ma sviscerare degli aspetti nascosti di quei pezzi musicali e poter
esprimere quindi qualcosa attraverso un tema riconoscibile che tranquillizza l’ascoltatore. Scegliere dei pezzi
conosciuti ci permette di rischiare di più da punto di vista della complessità dell’arrangiamento ed è un po’ viatico per
capire che con i nostri strumenti non abbiamo idea di riproporre e riprodurre esattamente l’originale. Ad esempio Beat
It è diventato un reggae, Message in a Bottle (il mio brano preferito) è stato completamente rimaneggiato. In questo,
forse, siamo stati aiutati dal fatto di aver scelto dei brani molto belli che, come si dice, “stanno in piedi da soli”.
Anche brani che attingono al conosciuto del pubblico e danno un appiglio durante l’ascolto.
Si, penso che siamo riusciti a scegliere in modo equilibrato essendo allo stesso tempo vicino ai Muse e agli U2 e
passando per brani non conosciutissimi come Megu Megun. In particolare la nostra casa discografica ci teneva a
questa scelta variegata, tanto più ora che stiamo uscendo in otto paesi diversi. Toccando generi diversi siamo riusciti
ad interpretarli in modo abbastanza giocoso, siamo riusciti a dare una buona “mano di gnu” e nonostante questo si
capisce che c’è un progetto ben delineato dietro, non si tratta di un’accozzaglia di canzoni.
Pezzi rivisitati in chiave molto ironica e talvolta
con intendo di sdrammatizzarne i contenuti. Tutto è indice della vostra capacità di gestire una vastità di
registri di certo non un’accozzaglia. Direi che l’album è estremamente ironico, sei d’accordo?
Si mi ritrovo molto in questa definizione. Il nostro intento, con questo album, è stato anche quello di ridefinire il
nostro modo di fare live. In realtà noi siamo molto ironici, io in particolare sono il “peggiore” di tutti, talvolta durante
le nostre presentazioni intrattengo il pubblico con piccoli aneddoti e tengo una relazione verbale. Noi non ci
prendiamo molto sul serio ma ci piace giocare con la nostra musica.
Come gruppo come vi siete trovati e incontrati. Quando nascono gli Gnu?
Il primo incontro è stato attorno agli undici anni in conservatorio. Io e Stefano Cabrera siamo i più “antenotti” più
tardi è entrata in conservatorio anche Francesca Rapetti, mentre Roberto ha studiato a Roma. Ci siamo conosciuti in
conservatorio e immediatamente “abbandonati”. Abbiamo preso strade soliste continuando per strade differenti,
coltivando sia l’aspetto un po’ indie e rock della musica. Io ho fatto tanti lavori coi cantautori, Francesca si è
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avvicinata alla musica sud americana e brasiliana. Ad un certo punto è arrivata una chiamata a Francesca dalla PFM
che festeggiava il compleanno di Faber a Milano; ci siamo trovati a suonare insieme, chiamati per l’occasione dalla
PFM nel giorno del compleanno di De Andrè, quindi siamo nati e battezzati sotto una sfera che sa quasi di cometa.
L’energia che è venuta fuori in quell’occasione ci ha fatto veramente sbattere le ciglia, è stato un vero contraccolpo e
abbiamo deciso di continuare.
Anche chi vi ha seguito in collaborazione con gruppi come gli Afterhours è stato soddisfatto di vedere un
progetto che porta il vostro nome.
In realtà c’erano dei programmi che stavano nascendo, ma lo scorso anno siamo stati così coinvolti da queste
collaborazioni che non siamo riusciti a fare nulla. Eravamo con gli Afterhours, Baustelle e in contemporanea
Cristicchi. Avevo soprannominato quel periodo “Trip Tour” per i chilometri che trituravamo su e giù per la penisola.
Lo scorso anno è stato un marzo-aprile shockante, uno di quei periodi che a distanza di anni diventano quasi epici.
Premesso che dare un’etichetta ad un gruppo è sempre
fuorviante e sgradevole, però quello che voi fate è particolare nel panorama musicale italiano. Voi credete che il
pubblico sia pronto a ricevere una produzione musicale senza parola e interamente acustica? Come percepite
la restituzione?
Io trovo che ci sia molto più pubblico preparato di quanto pensino sia chi organizza i concerti sia le case
discografiche. Abbiamo una riposta molto bella dal pubblico e allo stesso tempo trasversale; riusciamo a suonare e a
comunicare qualcosa sia in una sala di concerto che in piazza. Mi piace ricordare due episodi. Quando ci hanno
invitato qui, a Genova, siamo andati a suonare di fronte ad un pubblico di abbonati e persone anziane che si sono
esaltante a sentire la nostra versione dei Muse pur non sapendo di cosa si trattasse. Il primo maggio siamo andati a
fare un concerto a Trento e abbiamo suonato di fronte ai ragazzi trentini che rifornivano tutti quanto di birra e dopo il
secondo brano c’era la gente che si accalcava sotto il palco. Credo che quando al pubblico arriva una proposta che
comunica qualcosa di buono, la si accoglie altrettanto bene. Il problema è che non c’è un’educazione musicale, anche
scolastica, adeguata, e ci sono troppe difficoltà insite nel far arrivare la musica all’ascolto. Ci sono delle differenze
con le altre culture europee, ma nonostante ciò le persone apprezzano le cose belle basterebbe riuscire a fargliele
vedere.
Se ci pensi è assurdo che di fatto non venga insegnata la storia della
musica.
Penso che la struttura degli orari scolastici, così come è pensata oggi, sia molto insicura, ad oggi noi abbiamo una
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scuola che è sempre più orientata al business. Perciò siamo portati a credere che debba servire a qualcosa di concreto e
stiamo tralasciando completamente lo studio umanistico. Ma lo spirito della musica è qualcosa di differente.
Personalmente ritengo che se non avessi avuto la musica, oggi sarei una persona diversa e mi piace pensare che sarei
una persona peggiore che non sarebbe in grado di comunicare e mettersi in gioco. Lo scopo della musica è imparare
ad ascoltarla così come la lettura è lo scopo dei libri. Se non ti insegnano ad appassionarti alla letteratura ne risente la
tua capacità di comprendere la vita e di conseguenza se ne perde la complessità e la ricchezza.
Ho letto diverse dichiarazioni in passato di Gino Paolo, con cui voi collaborate, e spesso l’ho sentito dire che
Genova è una città da cui bisogna scappare se si vuole fare musica. Di fatto poi è smentito visto che il capoluogo
è sinonimo di musica d’autore. Cosa ne pensi?
Noi abbiamo con Genova un legame affettivo imprescindibile. Io, come altri, crediamo che Genova sia vissuta anche
dal punto di vista musicale. È vero che Gino Paoli ha questo amore e odio per Genova e devo dire che la città ha un
aspetto molto positivo più per il teatro che per la musica. Quando però sfondi qualcosa nel muro british che abbiamo
noi a Genova hai la riprova che stai facendo qualcosa di positivo mentre in altre città si incontrano favori con più
semplicità. Genova è purtroppo tra le capolista della scomparsa di locali in cui si suona; le mie perplessità sono mosse
dall’assenza di locali in cui si suona liberamente, locali che vanno via via scomparendo per questioni burocratiche e di
disponibilità economica. Per quanto riguarda i cantautori alcuni musicisti che conosco si sono spostati a Torino dove
ci sono più possibilità di vivere facendo qualcosa di stanziale nella città, mentre altri, come Max Manfredi, hanno
deciso di restare a Genova. C’è anche da dire che lo stile del musicista è nomade ed è fatta di viaggi.
Spostarsi vi porta anche a vedere città e persone nuove. Cambiare regione e città permette di incontrare climi
umani differenti e forse ci si rende conto che non c’è questo “piattume” generalizzato di cui si parla.
È vero sono solo fuori dall’occhio dei media. Spostarsi e vedere cosa succedono in posti diversi da casa tua ti fa capire
che esiste una vitalità che inizia a mettere in dubbio il tutto come lo viviamo noi.
Ho visto che presenterete a Genova il vostro lavoro la prossima settimana (26 maggio c/o Feltrinelli, Genova
ndr) avete altre date in programma diciamo verso il nord est?
Si 8 a Vicenza e 9 a Padova.
a cura di Giulia Bertuzzi
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