Algeria tra grandi investimenti e ripresa del terrorismo

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Algeria tra grandi investimenti e ripresa del terrorismo
N. 9
3 novembre 2008
Franco Zallio
Dopo Washington e Dubai:
un nuovo ruolo europeo nel Mediterraneo?
Il tema
Il 3-4 novembre si svolge il Summit euro-mediterraneo dei ministri degli Esteri, che dovrà completare la
definizione dell’Unione per il Mediterraneo approvata a Parigi dello scorso luglio. Inevitabilmente l’attenzione
sarà rivolta prevalentemente agli aspetti istituzionali (sede del Segretariato generale, nazionalità del direttore,
ecc.). Più in prospettiva, tuttavia, va sottolineato che la crisi finanziaria internazionale potrebbe offrire ai paesi
europei un’opportunità per tornare a svolgere un ruolo centrale nell’orientamento dello sviluppo economico dei
paesi mediterranei, ruolo che negli ultimi 20 anni è andato declinando a vantaggio prima degli organismi
multilaterali (il “Washington consensus”) e poi delle monarchie del Golfo (una sorta di “Dubai consensus”).
L’analisi
Si parla tradizionalmente di “Washington consensus” per riferirsi alle prescrizioni di politica economica
sostenute dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca mondiale che si sono diffuse nei paesi del
Mediterraneo – Medio Oriente negli anni Ottanta e Novanta, in ritardo rispetto al resto dei paesi in via di
sviluppo (fa eccezione la Turchia, che dovette ricorrere alla ristrutturazione del debito estero già nel 1979).
Il “Washington consensus” ha stimolato le economie mediterranee verso una profonda riforma orientata alla
progressiva integrazione nell’economia internazionale: un processo fondato sulla liberalizzazione degli scambi
con l’estero, le privatizzazioni e la modernizzazione del quadro regolamentare, diretto a favorire una
accelerazione della crescita economica. Cruciale per la diffusione nella regione di queste prescrizioni è stata la
necessità di ricorrere al finanziamento degli organismi di Washington a seguito di una crisi di bilancia dei
pagamenti con conseguente grave difficoltà o totale incapacità di servire il debito estero.
Questo processo ha dominato lo scenario economico mediterraneo dagli anni Ottanta dello scorso secolo ai
primissimi anni di questo secolo. Successivamente il boom petrolifero dell’ultimo quinquennio – con le sue
ricadute positive in tutta la regione – ha creato un nuovo scenario economico, consentendo tra l’altro di
migliorare drasticamente la situazione
debitoria dei paesi mediterranei. Come si
vede nella tabella, i due grandi paesi
petroliferi del Mediterraneo (Algeria e
Libia)
hanno
drasticamente
ridotto
l’indebitamento estero, che è ormai a livelli
irrisori. E anche gli altri paesi mediterranei
hanno nettamente migliorato la loro
posizione debitoria estera grazie sia al minor
fabbisogno finanziario, dovuto ad un
migliorato saldo della bilancia dei
pagamenti correnti, sia ad un ingente
afflusso di investimenti diretti esteri (IDE),
che ha reso meno necessari i finanziamenti che creano debito. Alcuni paesi hanno poi fatto ricorso a rimborsi
anticipati (come nel caso del buy-back realizzato nel 2008 dalla Giordania utilizzando i ricavi da
privatizzazioni) o hanno ottenuto interventi agevolati concessi da alcuni creditori (come l’accordo raggiunto nel
2005 dalla Siria con la Russia e relativo al debito verso l’ex Unione Sovietica). Attualmente, con la sola
eccezione del Libano, il debito estero è in larga misura sotto controllo in tutta la regione: la bilancia dei
pagamenti correnti registra un disavanzo soltanto in Giordania e Siria (entrambi con debito estero contenuto) e
in Turchia, l’unico paese della regione che sta valutando il ricorso al credito precauzionale del FMI a seguito
del contagio della crisi finanziaria internazionale. Non si può escludere un nuovo deterioramento della
posizione debitoria, ma è indiscutibile che grandi progressi siano stati realizzati e che la vulnerabilità
finanziaria della regione sia decisamente inferiore a quella degli scorsi 20-25 anni.
La minore dipendenza finanziaria del Mediterraneo si accompagna ad una aumentata integrazione economica
internazionale. Particolarmente rilevante è la accresciuta integrazione con i paesi del Golfo, integrazione che –
a differenza dagli anni Settanta e Ottanta – non è più fondata sui flussi di lavoro dal Mediterraneo al Golfo ma
vede il ruolo centrale dei flussi di capitale dal Golfo al Mediterraneo. Particolarmente rilevanti i flussi di IDE
provenienti dal Golfo, che hanno superato quelli dagli USA e sono prossimi a quelli dall’intera UE.
Questo processo ha certamente ridotto l’influenza del “Washington consensus” sulle politiche economiche dei
paesi mediterranei. Ma qual è l’impatto economico degli investimenti provenienti dal Golfo? Gli investitori del
Golfo portano, oltre ai capitali, modelli di consumo e sviluppo economico non necessariamente coerenti con le
economie locali: gli investimenti in grandi progetti immobiliari e turistici, e nella costruzione di shopping malls
hanno rappresentato il 53% degli IDE provenienti dai paesi dal Golfo nel 2003-2007. Seguono il settore
finanziario e le telecomunicazioni, pari entrambi al 15% del totale degli IDE, e l’industria pesante (13%:
chimica, petrolchimica, cemento, energia, metallurgia) mentre assai modesto è il peso dell’industria leggera e
dei beni di consumo. Potremmo definire questi modelli di consumo e di sviluppo il “Dubai consensus”,
adottando Dubai come paradigma di uno sviluppo economico largamente fondato sul binomio settore
immobiliare – settore finanziario.
Il “Dubai consensus” ha avuto un impatto iniziale – in termini di flussi finanziari e di crescita dell’occupazione
– generalmente positivo, ma il suo effetto di medio – lungo termine è più ambiguo proprio per la difficile
conciliabilità dei suoi modelli di consumo e di sviluppo con quelli locali. Inoltre, un effetto negativo si è già
manifestato nel breve periodo: la pressione esercitata dagli IDE del Golfo sui prezzi dei terreni e dei materiali
da costruzione ha aggravato i fenomeni inflazionistici messi in moto dall’aumento dei prezzi delle materie
prime (petrolio, altri minerali, beni agricoli), che solo nelle ultime settimane sta dando luogo ad un sensibile
declino. In tutta la regione la rapida crescita economica e il boom delle materie prime hanno prodotto
un’accelerazione dell’inflazione, che quest’anno ha superato il 10% in Egitto, Giordania, Libano, Libia e
Turchia. Specie nei paesi fortemente importatori di prodotti agricoli ne è derivato un deterioramento delle
condizioni di vita, soprattutto nelle grandi città, particolarmente accentuato nei paesi dove i sussidi pubblici ai
prodotti di base sono stati ridotti o eliminati del tutto.
Se ha allentato la dipendenza finanziaria dall’Occidente, il “Dubai consensus” non sembra dunque aver causato
un deciso e sostenibile miglioramento del quadro economico-sociale. Inoltre, nella prospettiva della attuale crisi
finanziaria internazionale, il suo sviluppo potrebbe venire ridimensionato. Si potrebbero così aprire nuove
opportunità per i paesi europei nell’orientare lo sviluppo economico della regione: sfruttando i risultati delle
politiche promosse dal “Washington consensus” e la maggiore solidità finanziaria ottenuta grazie al “Dubai
consensus”, le economie mediterranee potrebbero orientarsi verso un modello di sviluppo sostenibile sul piano
economico-sociale in cui l’integrazione con i sistemi produttivi europei giochi un ruolo centrale.
L’approccio scelto dal rinnovato “Processo di Barcellona: Unione per il Mediterraneo” (UpM), fondato su
progetti, sembra coerente con queste nuove opportunità. Tuttavia, la selezione dei progetti è finora stata
deludente visto che la qualità dello sviluppo economico è stata largamente trascurata a vantaggio dei progetti
infrastrutturali e ambientali: soltanto il progetto promosso da Italia e Spagna (l’Iniziativa per lo sviluppo
imprenditoriale) pare coerente con il rafforzamento qualitativo dello sviluppo economico nel Mediterraneo. Per
tutti i progetti rimane poi aperta la questione finanziaria: visto che non sono previsti nuovi finanziamenti
comunitari per l’UpM, il buon esito dei progetti dipenderà dalla capacità di combinare finanziamenti di diversa
provenienza, un compito che si è fatto assai più difficile con l’aggravarsi della crisi finanziaria internazionale.
Se in fase di attuazione sarà in grado di migliorare il quadro progettuale, ponendo in primo piano la qualità
dello sviluppo economico, e di raccogliere una sufficiente massa finanziaria per i singoli progetti, l’UpM potrà
accrescere il ruolo europeo nelle strategie di sviluppo economico dei paesi mediterranei e rinvigorire
l’influenza europea nella regione, invertendo il declino degli scorsi decenni.