vai all`articolo - Palazzo dei Diamanti
Transcript
vai all`articolo - Palazzo dei Diamanti
MARTEDÌ 13 SETTEMBRE 2011 APPUNTAMENTI GALLIANI AL POLDI PEZZOLI ◆ Epoche a confronto per rileggere i capolavori. Accade al Museo Poldi Pezzoli, dal16 settembre fino al 23 ottobre 2011, con una mostra in cui l’artista contemporaneo Omar Galliani reinterpeta non semplici opere di colleghi illustri del passato ma le "icone" assolute della casamuseo milanese: l’«Imago Pietatis» di Giovanni Bellini, il «Compianto sul Cristo morto» di Sandro Botticelli e il «Ritratto di dama» di Piero del Pollaiolo. I lavori di Galliani raggiungono anche le dimensioni di due metri d’altezza per quattro di base, e sono interamente realizzate a matita su tavola. L’allestimento è a cura di Mario Botta, che a sua volta dialoga con luoghi cardine del museo come la Sala dei tessuti e il Salone dell’affresco. ARTE Arezzo I cinquecento anni di Giorgio Vasari, perfetto «cortegiano» DA AREZZO MARCO MENEGUZZO arlando di artisti, non vorremmo mai usare stereotipi o categorie tipologiche che li costringano in una definizione, soprattutto se non proprio benevola, ma talora è davvero difficile sfuggire alla tentazione di affiancare certi attributi alla parola "artista", che quasi sempre la sminuiscono. Per Giorgio Vasari l’aggettivo è "intelligente": Vasari è un artista intelligente. Perché capisce come va (come andava) il mondo, comprende ciò che serve al successo, si adatta allo stato di fatto sfruttandone le possibilità, compiacendo il committente, non scontentando nessuno, cercando di essere, appunto, il più intelligente possibile nell’adeguare il proprio talento alle situazioni. Niente di nuovo sotto il sole. Come Don Abbondio, «uno il coraggio non se lo può dare» ma può lo stesso elaborare un sistema di rappresentazioni, tra il reale e il simbolico, infinitamente colte, che solletichino il potere nella sua vanità di trasmettere ai posteri la propria grandezza e, di riflesso, anche quella del redattore che l’«abbia messa in bella copia». Non è Jacques-Louis David che ha inventato la figura dell’intellettuale "organico" al potere, ma Vasari, che nella sua azione artistica perfeziona l’immagine del «cortegiano», ottenendo in tarda età uno strepitoso successo dopo inizi abbastanza stentati (troppa concorrenza?). Questa mostra che Arezzo, sua città natale, gli dedica nel cinquecentenario della nascita (per la verità sono tre mostre, una nel sotterraneo di San Francesco dedicata al disegno e una al Vasari "sacro" – Santo è bello – al Diocesano, oltre alla principale, curata da Alessandro Cecchi con Alessandra Baroni e Liletta da Fornasari, catalogo Skira, alla Galleria Comunale d’Arte Moderna) lo evidenzia in maniera inconfutabile, anche se le sue opere maggiori, come gli affreschi della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze o l’architettura degli Uffizi, ovviamente non si possono trasportare, mentre la sua opera più nota e importante, Le vite dei più eccellentissimi pittori…, fa parte di quel fortunato eclettismo umanista di derivazione rinascimentale. In pittura non c’è lavoro che non rimandi a qualcun altro, a Rosso Fiorentino, a Raffaello, a tutti i manieristi suoi amici, persino a Michelangelo, ma sempre senza la forza del modello (per la verità, lo stendardo di San Rocco non è male: opera tarda, a riprova che "dai e dai" qualcosa alla fine riesce…). Persino nei disegni il segno non è mai spigliato, ma sempre imbarazzato come quello di un copista, mentre il ciclo, l’immaginazione simbolica, il progetto di una decorazione anche vasta come quella di Palazzo Vecchio a Firenze sono le cose in cui rivela il suo talento migliore (mai il genio, però). Uno studioso, un lavoratore indefesso, ubbidiente e costante, un "uomo per tutte le stagioni", dotato anche di una certa autocritica, se descrivendo il suo lavoro nelle Vite, schermendosi afferma essere frutto di «istudio, diligenza et amorevole fatica». Appunto… P Arezzo, varie sedi GIORGIO VASARI Disegnatore e Pittore Fino all’11 dicembre 26 Parma Alla Magnani Rocca le litografie dell’artista che trasformò il manifesto in veicolo per comunicare il linguaggio della modernità Troppo scarno il confronto con gli altri «affichistes» DA PARMA MAURIZIO CECCHETTI isogna arrivare a pagina 77 del catalogo della mostra, edito da Mazzotta, per trovare una chiave di lettura pertinente a questa esposizione che presenta in massima parte le affiches di ToulouseLautrec. Se fino a ieri si poteva tollerare, pur con un certo fastidio, dato anche dal peso, che i cataloghi avessero ormai sempre una mole sproporzionata al valore della mostra che documentavano, oggi, mentre imperversa una crisi che invita a più ponderati pensieri, è un segno di pretestuosa vanità questa bulimia di pagine e pagine che si aggiungono solo per dare all’"evento" una importanza che non corrisponde alla realtà. Mi chiedo, per esempio, perché in un catalogo come questo vi debba essere un saggio dello storico Arturo Carlo Quintavalle lungo ben 54 pagine, che rilegge la percezione di Parigi da parte degli scrittori francesi dell’epoca di Lautrec (e di quella precedente dei Gautier, Sue e Hugo): sarà anche una bella promenade letteraria – non particolarmente nuova, peraltro – che evidenzia il legame fra scrittura e immagine, rappresentazione e società, tema degli incompiuti Passages di Benjamin, ma, alla fine, diventando un libro nel libro, rischia di essere più che altro uno sfoggio di narcisismo individuale. Dicevo che bisogna arrivare a pagina 77 del catalogo, dopo aver superato anche il profilo "biografico" di Ada Masoero, per trovare il saggio del curatore di questa mostra, Stefano Roffi, che ci offre una riflessione sull’importanza che Lautrec con le sue affiches (ma diciamo meglio: col suo stile) ha giocato sulla maturazione espressiva di Picasso. E dici niente, se Picasso è, come sappiamo, l’onnivoro barbablù che ha fatto propri, senza troppo preoccuparsi se le vittime fossero consenzienti, gli stili emergenti di alcuni dei maggiori artisti del suo tempo, metabolizzandoli e rigenerandoli dentro il suo inconfondibile segno, icastico e brutale, immaginoso e sulfureo, semplificatore e prosaico, scorrazzando lungo gran parte del Novecento e lasciando dietro di sé parecchi «cornuti», per usare un’espressione di Dalí. Roffi racconta che una notte Picasso strappò dai muri di Parigi un manifesto di Lautrec, la litografia pentacromatica che pubblicizzava lo spettacolo della ballerina inglese May Milton (fece «come un fan col poster del proprio idolo» commenta sagacemente Roffi), e lo appese sulla parete del proprio studio. Naturalmente, non di sola ammirazione si tratta, con Picasso l’ingenuità non è mai ammessa, nemmeno con beneficio d’inventario, perché se egli riconosceva la grandezza di Lautrec, non poteva d’altra parte respingere lontano da sé quell’invidia, nata dal narcisismo, che lo spingeva a desiderare (e a rubare) lo stile di altri convinto di poterlo migliorare e potenziare. Cosa che, in genere, gli riusciva assai bene. B a con Lautrec c’è di mezzo una diversità sostanziale del carattere: Henri è un déraciné aristocratico, uno che della sua gobba aveva fatto un passe-partout per addentrarsi nel mistero umano più nascosto; Picasso, che se solo avesse avuto una gobba l’avrebbe usata per creare uno stile speculare capace di sbattere in faccia al mondo la sua grandezza di storpio geniale e di farci su un bel po’ di soldi, ecco, Picasso tendeva invece a dare di quel demi-monde amato da Lautrec una interpretazione cinica, di superficie, ovvero attenta alla somatica esistenziale, da buon piccolo borghese che si pensa migliore del piccolo borghese che critica. «Eppure dipingo meglio di lui!» disse a Gertrude Stein parlando di Lautrec, che forse non incontrò mai. «Eppure, ha qualcosa che non riesco a far mio, qualcosa che mi sfugge, qualcosa che resiste alla mia divorante fame di essere tutto in tutto, io e un altro»: che fosse questa la parte di non detto in quell’esclamazione di Picasso? «Io meglio, io di più». Sembra di vedere lo spirito di competizione di un figlio col padre. In mostra figurano come introduzione alcuni dipinti di Lautrec provenienti da Boston e da Zurigo, un piccolo, straordinario olio di Picasso del 1900, Les Plastrons (Gli sparati da teatro), una policromia che si accende di una scarica elettrica lungo la traiettoria che brilla di luce sull’abito della vedette. Seguono alcuni fogli di stampe giapponesi, arte con cui Lautrec intrattenne un rapporto preciso, che può essere visto come guadagno M Lautrec e gli altri, muro contro muro della linearità, ma anche come esattezza delle campiture e dei loro accostamenti astratti che pure non negano la figurazione complessiva. Lautrec cambia valore al manifesto: da semplice immagine, che reclamizza un evento, un luogo o un prodotto, a veicolo di una comunicazione che fa passare nella sensibilità comune un certo linguaggio dell’arte moderna. Dal bellissimo Moulin-Rouge. La Goudue del 1891, alla serie dedicata all’attore e chançonnier Aristide Bruant, all’antiprussiano Babylone d’Allemagne, al raffinatissimo La Revue Blanche del 1895. Siamo ancora nel mito Lautrec, un mito difficile, perché la sua litografia e il suo disegno, contrariamente ai soggetti che rappresenta, è un’arte per palati esigenti. Anche l’ironia è sempre in agguato, con Lautrec. Il manifesto del fotografo Sescau è una caricatura dei retropensieri che si celano dietro l’obiettivo, pròtesi del fotografo, anzi, a voler essere onesti, una protesi sessuale, dove il simbolo corrisponde alla completa cancellazione dell’identità del fotografo il cui corpo culmina proprio nell’obiettivo. La mostra si chiude con una serie di affiches di altri autori dell’epoca, da Mucha a Berthon a Bonnard, che hanno la funzione di esaltare a contrasto il genio inventivo di Lautrec. Questa piccola mostra, dotata di un debordante catalogo, avrebbe potuto essere, con una maggiore esemplificazione della ricerca sul manifesto in Europa, un ottimo terreno di studio per risalire alle sorgenti del genio "storpio", che della sua immagine fece un conio per riportare il "brutto" nel grande ventre della bellezza che non rifiuta mai chi ha l’animo puro (ed è questo, in fondo, il mistero che Picasso non poteva capire). Mamiano di Traversetolo (PR), Fondazione Magnani Rocca TOULOUSE-LAUTREC E LA PARIGI DELLA BELLE EPOQUE Fino all’11 dicembre Henri de Toulose Lautrec, «La Rossa dal giubbetto bianco» Ferrara Modigliani e Picasso, Mondrian e Duchamp Tutti gli uomini che fecero grande Parigi siasi nozione di rappresentazione naturalistica e prospettica. Di Renoir c’è La fonte (1906), allegoria della fertilità ammirata da Picasso e Braque, rilettura della statuaria classica e della lezione di Ingres. La gioia per la fine della Picasso, «Mandolino, bicchiere e fruttiera», 1924 guerra e il bisogno di dimenticarne i traumi alimentano quell’atmosfera euforica e inquieta ricordata da Hemingway come una «festa DA FERRARA GIANCARLO PAPI mobile» e immortalata dalla cosiddetta arigi, all’indomani del primo conflitto "scuola di Parigi", costellazione di giovani tamondiale, è una scelta obbligata per gli lenti provenienti da ogni angolo del mondo artisti, i poeti, gli intellettuali che cercache animano il clima anticonformista di no visibilità e attenzione. Nella capitale franMontparnasse. Ecco allora il Nudo (1917) di cese convergono da tutta Europa e dall’AmeModigliani, il Nudo disteso (1922) di Foujita, i rica. Nel 1925 Giorgio de Chirico sintetizza personaggi circensi nelle visioni del russo l’irresistibile fascino della città: «Come Atene Chagall, come Il gallo (1928), o ancora Il chieai tempi di Pericle, Parigi è oggi la città per ecrichetto (1925) dalla pennellata inquieta del cellenza dell’arte e dell’intelletto. È lì che ogni connazionale Soutine. Negli anni Venti i padri uomo degno del nome d’artista deve pretenfondatori del Cubismo, Picasso e Braque, sodere il riconoscimento del suo valore». È lì, no ormai delle celebrità e danno vita all’ulticome scrisse Gertrude Stein, «il posto in cui ma stagione del movimento assieme a Léger e bisognava essere» perché Gris. Nascono così capoa Parigi in quegli anni si è lavori che sembrano pari protagonisti di un mon- A Palazzo dei Diamanti gli anni lare una lingua nuova, aldo che sta cambiando, in tra Grande guerra e totalitarismi, l’insegna di una ritrovata cui tutto si mescola e si leggibilità ed eleganza modifica: musica, pittura, in cui gli artisti giunti nella «Ville delle forme. Picasso con scultura, narrativa, poeChitarra, bicchiere e frutlumière» da tutto il mondo sia. Sul senso e il clima di tiera (1924) riscopre una effervescenza di quel pe- cambiarono la storia dell’arte morbidezza delle linee riodo è incentrata la mocurve e una cromia calstra Gli anni folli. La Parida, mentre a sua volta gi di Modigliani, Picasso e Dalì. 1918-1933 Braque con Il tavolino rotondo (1928) speri(catalogo Ferrara Arte) allestita a Ferrara al menta una monumentalità inedita. L’atelier Palazzo dei Diamanti a cura di Simonetta Fradi Mondrian a Montparnasse è uno dei crocequelli, Maria Luisa Pacelli e Susan Davidson. via in cui si scrive il futuro del Novecento. Qui L’esposizione presenta un’ampia selezione di l’artista realizza le prime opere neoplastiche a dipinti, sculture, fotografie, ready made, cogriglie di colori puri, quali Composizione con stumi e disegni che interpretano quella porosso giallo e blu (1922) e Composizione con lifonia di espressioni creative che ha segnato blu (1926), pure creazioni di limpide partiture in modo indelebile la storia dell’arte e della geometriche che esprimono un’ideale di belcultura del Novecento. Nella Ville Lumière le lezza e di ordine universale. È anche una vite di Hemingway, Fitzgerald, Pound, Joyce, straordinaria stagione di sperimentazione del Cocteau, Breton si incrociano con quelle di teatro che ha nelle produzioni dei Ballets RusMatisse, Picasso, Braque, Modigliani, Chagall, ses e dei Ballets suédois le punte di eccellenDuchamp, Mirò, Magritte, Man Ray. I caffè, i za, frutto della collaborazione dei più grandi teatri, le librerie, le gallerie sono i luoghi di inartisti, scrittori, musicisti e coreografi che terminabili discussioni, ma anche di gioia di concorrono alla creazione di vere e proprie ovivere, di frenesia e di fermento creativo. In pere d’arte totali. In mostra la suggestione dei quegli anni due soli dei protagonisti della riballetti di Diaghilev è restituita attraverso un voluzione impressionista sono ancora attivi: allestimento spettacolare degli splendidi coClaude Monet e Pierre-Auguste Renoir. È da stumi disegnati da Matisse, Larionov, de Chiloro che prende avvio il percorso. Di Monet rico. La Parigi del dopoguerra è anche lo sceviene presentato il Ponte giapponese (1918nario dell’epopea radicale e utopistica delle 1924), restituito con un tripudio di pennellate ultime sfide artistiche del primo Novecento: iridescenti che segnano una rottura con qualDadaismo e Surrealismo. Ironiche, provoca- P torie e iconoclaste le opere dei dadaisti sono qui rappresentate dalle celeberrime Air de Paris di Duchamp (una ampolla di vetro contenente aria portata da Parigi a New York) e da Cadeau di Man Ray, un oggetto perverso ottenuto applicando una fila di chiodi nella piastra di un ferro da stiro. Chiude il Surrealismo e il suo progetto utopistico di liberare la vita attraverso l’arte con l’imperativo di vincere ogni inibizione e risvegliare il potere inconscio del desiderio. Una immaginazione, come quella di Tanguy e Dalì, che sembra prefigurare i foschi scenari politici che avrebbero dissolto l’atmosfera spensierata degli «anni folli». Ferrara, Palazzo dei Diamanti GLI ANNI FOLLI La Parigi di Modigliani, Picasso e Dalì Fino all’8 gennaio 2012 LA POLEMICA MONTMARTRE NUOVA MINIERA PER LE MOSTRE FOTOCOPIA? È come se si rincorressero Ferrara e a Pavia nel cercare di documentare un mito dell’arte moderna. Pavia con «Le folies de Montmartre», che si apre venerdì al Castello Visconteo: gli anni del tardo ’800 e i primi del ’900, in cui erano attivi artisti come Degas, Lautrec e Zandomeneghi, ma in realtà non solo loro, bensì una folla di saltimbanchi che crearono un quartiere dell’arte nel cuore di Parigi; Ferrara invece ha appena inaugurato «Gli anni folli» – qui recensita da Giancarlo Papi – ovvero quelli di Modigliani, Picasso e Dalí (191833), artisti che più diversi tra loro non potrebbero essere. Qual è la ragione di questa concomitanza? Difficile trovarla, se non nello stereotipo mondano dell’impressionismo e della sua coda di cometa. Ciò che resta è solo lo specchio per allodole che fa eco alle ormai ripetitive mostre impressionistiche di Marco Goldin, artefice in Italia di uno schema fortunato di "turismo culturale". Sarebbe ora di cambiare marcia. (M.C.)