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MARCO CIPOLLINI CARMI PROFANI Postfazione di Sergio Spadaro 2 INDICE Degli ultimi grandi eventi 4 Idillio di San Benedetto 15 La vita anteriore 21 Stigmate 36 Soggiorno all’isola delle capre 42 Paderdes rimmonim 63 Gli ultimi fatti di Ulisse 69 Meditazione su una morte innominata 84 La grande metamorfosi 95 Le stigmate formali di Cipollini (di Sergio Spadaro) 3 114 DEGLI ULTIMI GRANDI EVENTI RIMASUGLI Hic amor, haec patria est… Eneide IV, 347 4 SFOLLAMENTO è il poema dell’infanzia, dal quale, nostra sorte, fummo esclusi; ma toccò l’ascoltarlo, a noi e non altri dopo di noi: si spenge ogni leggenda, con noi avrà fine questa... Che diremo? Sempre di meno... finché non sarà, la tribù con la tremula sua gloria, che un vecchio accartocciato, cui nessuno presta orecchio nei discorsi di cena... Por, tra chi vive, del fiume di storie non scorrerà più un rivolo di fiato. Ma aleggiavano d’aglio i grandi fatti che l'aedo di turno risbraciava strusciando i piedi a veglia, ai giorni in cui col languoroso flauto di sirena dolceimpigliata ci immergeva in bionde profuse voluttà di fumo e alcool Rita Hayworth, la dea dei vincitori... dalle ascelle, ombra odore di peccato, candida la sua carne inattingibile più adorata ondulava a ogni ventata sugli schermi topposi... Coppi e Bartali nostri eroi pane e cacio, lei la dea, e il volto tutto sguardi e desiderio, il meridiano mare delle chiome, stillava miele sulle occhiute insonnie... *** 5 In fondo ai buii cunicoli del tempo muovi le labbra, o Musa, se ti è caro chi arrughito, vegliando qui a riudire del fanciullo che fu, stenta a filarti questo bandolo o un altro... “Angiolo anemico, ripìgliati i geloni e il cuor di latte di quei lupeschi e cheti inverni ch’era la festa dei giganti sbaraccata, ridotto il mondo a un torsolo di giorni...” Troppo stanco è oramai... Quasi per caso cada a lui dal tuo nido e rechi il fiato qualche piumata parola, che un poco dire “io” ancora possa, e soffregata la polverosa mente, apparir quando rigovernati i già lucidi piatti, sulle seggiole tutti inchioccioliti a sbucciare ballotte al buon vampore di una zoppas – vent’anni dopo, l’ossea sua carcassa in cantina, serrai gli occhi bruna quiete impastata ruminando, “io vidi” rovesciava rospi e stelle su di me a bocca aperta, ne grondavo come un fauno muschioso di fontana... Riparlami di quando il mondo c’era ma noi non c’eravamo, non per noi giorno ed oscurità veniva in terra... Sia il tuo murmure un cerino che sfrigola nel cavernoso oblio... larve fosforee guizzino nella notte della mente come da tombe pregne di sospiri, da un sonno screpolato fiacchi gemiti in quei capanni fradici o nei buchi dei poggi che a una vita verminosa 6 Fa’ che le cose evaporate ormai, se ancor le infiala qualche stenta sillaba, riaffiorino in un fragile bagliore di reliquia, fosse pure l’odore doloroso del fieno che esalava Io zodiaco dei grilli, la inchiodata solidità lassù del grande nulla... la Luna obesa e pallida... la pioggia di zanzare che agheggiava sul viso e il radente fruscìo dei topi alati… o in attenta paura, nei canneti, lo sciaguatto del luccio o della serpe lumicosa, demoniaci riflessi via ad un segno di croce repentino... Quelle notti d’estate enormi e afose sul Padule spossato, che il bengala sagomava orizzonti a gobbe e inferni, ed erano laggiù vaticinate fioriture di fuoco dagli aerei, da cannoni sperduti preludeva madreperla di lampi a tuoni morbidi in quel cielo che d’albìa nevistiosa ferì il mio primo pianto, e un dì ricucia questi cigli, io ne prego, a un’altra luce... Così nel tempo avanti il nostro tempo, cieca lentezza di tosse e pidocchi notte e poi notte passava... l’esistere, esausta a fior dell’erbe ala agitate, vastamente passava ombra sul mondo, sullo scompìglio di formiche umane... Finché, sbadigliando il fango dei sogni, un cielo di fessure stenebrava, tra uno sbiadito intirizzire, il giorno... 7 Distinguo fra filamentose ombre nonna Ecuba, nonno Priamo là al foco, favoleggiando in cerchio la famiglia, in una Troia maceriosa e viva, “io vidi... e vidi...” Fu questo il cantare, metronomo minestre risucchiate a lume spento, un biascicare eterno, la musica dei morti in mezzo a noi... Ade? Eden? Era il loro crepuscolo l’alba di me ove il cuore, nel fruscìo de’ fiati, dubitoso andava... a quando i Tedeschi dun! dun! passi chiodati, i maschi rificcati in qualche buio, “òmini Arbeit!” gli M.P.38 canneggiavano cavi occhi di squalo: frignavan mogli e madri “fame! fame!” , le figliole trecciute, moccolose, come senza violini, in un provino, sguaiate annemagnani. Anima mia tra poco in uno di quei grembi urlanti per noi si aprì il cencioso paradiso. *** E un giorno si scoprì dal vecchio Beppe, quindici anni il nipote sotto il letto, il comodino siepe di boccette, che a tre suoni sbianchivano i Tedeschi, e fu di bocca in bocca abracadabra: “Ti Bi Ci! Ti Bi Ci” A una fiatata rotolavan le scale! Non la farsa mescevi al tuo poema... Nel lettuccio, 8 tuo eremo acciaccato, occulte vigne strizzavi con i cigli, finché si spalancava assolata piana d’Ilio: la risacca di ferri e d’ossa, dove, accorsa sulle mura (sul terrazzo), mamma Andromaca un dì le ventò in viso passare oltre la polvere, cantando, gli emblemi dei grandi barbari biondi... *** E un giorno la polenta, a chicco a chicco racimolata, dal paiolo a Ecuba splasciò dorata in terra tra urli e pianti. E diaccia, esagerata, fu raschiata dal suggello di rosse mattonelle. *** Fu in pochi giorni: come topi, tutti. Qualche vecchio, in paese. Case cieche. *** E cascò Fosca urlando, era in camicia da notte, tra le bombe... E il resto? Appena di lei resiste sull’oceano Niente questa filigranata foglia secca... *** Oh anni anni striminziti e immensi che al cucciolo, annicchiato allo scaldino fra la cispa degli occhi blu sgorgava 9 una fredda lucenza di fontane, a nomi e nomi incantato, di quanti errando Libie o Russie, o tra i canneti di Padule o d’Arno, simili a nebbia salivan senza alito da qualche erebo in lui, con mormorii di tenebre Vita li richiamava... e di sua vita ansimavano avidi!... A esiliarli a lui bastava suggere coi cigli dai rami pomiciati un fioco oro che aurorava di vergini orizzonti l’ammaccata panòplia là sul muro... Ma dei vecchi, a occhi spenti, eran le rughe abissi che esalavano crepuscolo... Eppur Benito, arma virumque, in petto tatuato martellava: alte sui solchi priamèi, oscillavano le grigie stoppie a un rotto di sospiri... “Non la guerra franata ci tolse l’onore, sappi, ma solo un punto fu quel che ci vinse, ché la rocca gelosa tutta aprimmo a un cavallino a dondolo... The end,” sgranava il patriarca rade zanne, “non fu la guglia di maledizioni tra scrosci di fiamme: ma una risata!” *** ...Come una notte, uno stellio d’estate, cannonate remote, i poggi pani di pece ai lampi soffici, ed un uomo, rimbalzò voce, e più da cresta a cresta tra un abbaiar qua e là dei casolari, “sono già a Pontedera!” urli piccini 10 - era un vecchio, sleprato in bicicletta, fisarmonica d’asma - e che i Tedeschi col fuggire fuggivan della luce... E a ognuno udire, di là dal Padule crostoso e vuoto, oltre i canneti secchi, prima uno poi tutti, udire parve come un non mai interrotto sgretolio, martoriato da grilli e rospi, immane parve, auscultando, strisciare il Destino, la interminabile coda del drago sferragliare nel buio alla sua tana... E fu grido: da stalle, da cantine “ a casa! a casa!”, da’ capanni, tutto ribollir di carretti e biciclette, di pentole, un frignare di coperte, “ a casa! a casa!”, è un rotolare allegro giù per i colli, va torna col vento un presepe di suoni, di non sai se lucciole o lumini adagio errare... Ci si ritrova per le valli al piano... di qua, di 1à, è un pigolio di passi, di vocine vicine, e scintillare di sguardi amici, e abbracci: “ a casa! a casa!” Come una festa fioca e sconfinata, fu una notte di ciechi echi, richiami in una vastità di grilli e stelle, e tramestio e sbadigli... E nella bruna brezza degli orizzonti tremolanti, nel cerchio di vapori ove distante s’ingobbiva un fantasma di paese, entrarono... Da un sonno lacrimoso parevano, a guardarle, memorarsi le cose intorno... Poi, verso Firenze, un lagore di perla inestinguibile, 11 a poco a poco zaffìro freschissimo farsi i deserti sulla testa, tutte soffiate via le stelle, e un gran si spanse ventaglio “oh!” d’arancio... E lì, in un mucchio, le quinte di mattoni sgangherate di un borgo del Valdarno, era l’estate millennovecentoquarantaquattro, un galleggiare, in exitu Israel, di visi vivi e guasti, e umidi lampi di ricordi là a tanta azzurrità dove fu la persiana fu il balcone... La vita, a pezzi, che n’è della vita? Ma presto, presto a nozze il campanile inonderà di bronzea gioia il cielo... e ancora avrà gerani il davanzale, la sposina in vestaglia per la rosea chiarità delle stanze canterà con voce più sbocciata la domenica, fioriranno finestre spalancate!... Così, volando per gli squarci i passeri, tra case rotte tetti usci sfondati tacite si aggiravano comparse... E un incredulo tutte frustò facce crocidare di cingoli... “Ritornano?!” Nel grave di macerie gran silenzio spuntò il cannone, di un giammai veduto pachiderma e avanzava, sgretolando le vecchie lastre della vecchia Europa... *** “Io ti dirò come crollò il Ventennio,” Priamo rizzava il suo artiglio di scricciolo, d’aspra luce i suoi occhi più arrughivano, 12 “sappilo, bimbo, non fu con lo scempio matto e bestiale a piazzale Loreto: carcassa e menzogna in noi penzolante già quell’ora di stridi e sole e rondini. Svanì perché il carrista, di carbone, s’eran visti così nel buio del cine, dalla cintola in su sgusciò com’ernia sudando pece, e nel girarsi attorno con occhi infulminati e labbri gonfi, alta su noi scoppiò la sua risata, lampo d’avorio. Poi cavò dal mostro una lattina, e pff ! pisciò gran birra a noi ebeti sotto, steccoluti, sgrondarci in capo, e se la tracannò. S’era vivi. Si prese a rider tutti sbiaditi e vuoti, a pianger, batter mani, e diluviò un evviva. Altre lattine, chocolate buttava, lui, il centauro metà gigante metà cingolato, cento mani crestate ad arraffare, lui buttava colori, la risata raggiava dal muso di toro nero: marciasurromaimpero e un morso d’anima si sputò via, pentiti finalmente libertà, libertà ci battezzò, su noi amarognola una stummia d’oro...” *** IL PRIMO APPUNTO Ettore mai morì sotto le mura. La rocca, bruciacchiata, restò in piedi: arrivarono i nostri. E Troia risorse. 13 Poi le foto, i turisti… Morti i vecchi, tutto ci si scordò. Nessun Omero. 14 IDILLIO DI SAN BENEDETTO Prendi il tuo latte, anima mia… C. E. Gadda 15 16 Quattro banchi, è mercato nel borgo, la fontana, frullare piccioni sulle vie del mattino deserte... Nel vicolo in ombra - una striscia di sole scivola in gronda s’ affaccia un’anziana in grembiule, “bongiorno, “ al vicino sull’uscio, “siamo for dell’inverno, sor Ezio?” “Oh bongiorno sor’Anna, parrebbe.” Passa Pietro il lattaio, ha le stagne, bussa qui, di 1à passa e bussa: da porta a porta alla cantilena vanno e vengon d’incanto i pentolini... Ma chi piange lassù dai gerani su quel davanzale a bacìo? È un nodo di voci bambine che striga (sgridando, blandendo) Marietta, sorella e un po’ mamma: “smettetela, il latte è sul foco! Silenzio!” Fa un gesto. In ciabatte - sente aprire bottega - esce svelta, lascia 1ì i fratellini, le scale svelta scende nei vicolo vizzo, ed a Gino, che ieri non venne, fa roca: “va’, tanto ci ò un altro!” “Sì, fanno la fila,” sbadiglia lì che apre i battenti, di spalle. Dai gerani già strillano tutti - lui fischietta tra tavole e trucioli “ trabocca!” gridano, e lei 17 si volta, i begli occhi induriti, e: “scuorato, potessi partire,” le affonda la voce in singhiozzo “un briciolo quel che patisco...” D’un fiato risale, va al foco che tutto è una bianca parrucca e trema nel fare le parti, trema e versa fra strilli, vorrebbe - Paolino s’è messo a frignare vorrebbe piangere ecco... Ma dalla finestra – l’accende un raggio di sguìncio e arrubina vaporano lente e leggere, tra colpi attente d’arnesi, parole di quella romanza, “signora, crudele non siate, v’imploro, v’imploro perdon...” Lei tutta un respiro si schiara, “sbrigatevi, oggi è mercato,” il groppo (sospira) è gorghéggio, “se state buoni e la tazza bevete d’un fiato, vi porto tre fichi secchi a ciascuno!” E già il grembiule si slaccia, “voi quando apparite, signora, s’illumina a festa la chiesa,” ravvia lo scialletto, i capelli, e un guizzo di canto le smuore in gola che madida trema, cangiante colomba, cantare cantare vorrebbe e non può per troppa dolcezza di cuore... 18 Sbrigatevi, occhioni sul latte, sbrigatevi: il tempo per voi sarà quel che è, primavera, oggi e per sempre così per voi racchiusi in parole... Sbrigatevi... oh nulla perdete, l’ora che fugge ritorna, ritornerà fino a che rifioriranno parole, rifiorirà primavera! E tu, mentre d’oro è la voce da quella finestra di gronda, férmati, o tempo, che limpida sempre zampilli nel cuore... Férmati là su quel tetto topposo di muschi e licheni, fin dove si vede la chiesa scrostata e serena e la torre, férmati, o tempo, anche là fra le campane annerite, fra i platani chiari del poggio, al fonte di marmo corroso: il getto stia lì qualche istante, cristallo vivo in eterno, e farsi di gemma il silenzio degli incredibili abissi oggi che arrivan le rondini! Lo so che allo stridere azzurro Anna Pietro il sor Ezio Marietta, per la via alla finestra nell’orto, alzan tutti la testa all’istante: di chi al cornicione quest’anno? Férmati, e fa’ che i gerani sian fiamma alla mensola amata: 19 fanciulli fummo e il buon latte tutto godemmo d’un fiato, tutto, e la tazza lustrava... L’ora che fugge e fu bella ritornerà a primavera solo che udremo, passando, da una finestra cantare... Anche per noi china voce com’ala dagli alti cieli, “sbrigatevi, cari,” fu dolce, “bevetelo e ben crescerete,” sorriso dei limpidi giorni!... Ché ben visse chi in cuore gli visse, bisbìglio eterno, la voce che il tempo né appanna o scalfisce, che i passi poi guida nel lento crepuscolo, passi dubbiosi, piano e incrollabile dice: “ alla sera che scende non credere, è un soffio d’ombre, o immortale.” *** E nel vicolo scese Marietta, in cuore un azzurro di rondini, la mimosa dal muro dell’orto spandeva un sussurro dorato, nel vento odoravano gli ultimi fiori... 20 LE STIGMATE FORMALI DI CIPOLLINI Postfazione di Sergio Spadaro 114 In questa raccolta di Carmi di Marco cipollini, la qualificazione di profani sottintende una “sacertà” a contrario che va riferita ad altre sue opere edite (come una cristologica Passione in 1911 endecasillabi, del 1991) ed inedite (come una “sacra rappresentazione” in tetrametri, dal titolo La nascita eterna). Profani, dunque, perché argomento di essi sono - o dovrebbero essere - i fatti dell’esistenza comune e quotidiana, come i ricordi d’infanzia dei primi due Carmi o la conscientia mortis degli ultimi due (indotta però dai riferimenti reali in Meditazione e dall’immaginazione in Metamorfosi); ma profani, anche, perché tali fatti passano attraverso il filtro mitopoietico della cultura “pagana, (come nei riferimenti degli episodi de La vita anteriore) o perché di essa assumono direttamente gli “apologhi” narrativi (come il ratto di Europa da parte di Zeus in Stigmate, o il canovaccio memoriale dell’Odissea omerica ne Gli ultimi fatti di Ulisse). O dovrebbero essere, dicevamo: ché poi le cose si complicano e interviene il filtro mitopoietico dell’area biblico-ebraica (come in Pardes rimmonim, che è il giardino dei melograni, il paradisus voluptatis del Cantico dei cantici, filtrato attraverso Ceronetti), talvolta persino inaspettatamente (come in Stigmate, non soltanto per il titolo richiamante il “segno” della passione di Cristo caro all’esperienza mistica dei santi e qui forse allusivo di quella poetica non meno “marchiante a sangue”, ma anche per l’epigrafe biblica che subito dopo segue e che, ricollegando allegoricamente all’autore gli stessi ratto e possessione della vergine poi descritti nel testo, ci induce a ritenere che per il poeta - flaubertianamente – il senso ultimo del carme è in definitiva “Europe c’est moi”). Gli è in effetti che paganesimo e cattolicesimo in Cipollini sono infibrati tra loro. Eros e religione sono le due parti simmetriche di un’unica faccia: due occhi ma un solo sguardo. Storicamente il nostro eros è pagano, la nostra religione è cattolica: anche se a volte certe mescolanze possono far stirare le labbra. Ma è dai contrasti che i rispettivi sapori si esaltano; e poi la poesia è uno smarrimento istantaneo della legge di gravità della ragione. 115 Torneremo su questa compresenza degli opposti e sul poetico smarrimento, che da istantaneo può correre il rischio di diventare permanente e perdere così di poeticità. Intanto giova precisare che l’ordinamento dei poemetti, nella raccolta, segue un ordine, per così dire, biografico: dall’infanzia alla maturità e alla morte, almeno quest’ultima nel senso di immaginaria anticipazione quale cosmico processo di molecolare metamorfosi dell’ultimo poemetto (relativamente al quale confessa l’autore: “Il primo getto nacque da una esperienza curiosa: mentre dal barbiere venivo via via preso da quella semipnosi dovuta alla stagione e alla postura, e ascoltando alla radio un arrangiamento, mi parve di colpo che le braccia si allungassero come binari in fuga e i peli ne diventassero erba al vento. Il segreto morale della poesia è il saper covare un lampo per anni e anni”). I nove Carmi della raccolta (sei dei quali sono apparsi sulla rivista “Erba d’Arno”, tra il 1980 e il 1991) tendono infatti al paradigma, cioè a una circolarità, più che narrativa, mitico-rappresentativa. Sono insomma le metope della Vita (non gli episodi di una vita), a partire dalla sua esistenza prenatale (i fatti bellici degli Ultimi grandi eventi, narratigli poi nella prima infanzia) fino alla non-conclusione (La grande metamorfosi). Si passa così dall’età “eroica” del primo poemetto (ma senza rispecchiamento epico: nessun Omero) al cerchio di mattoni e di facce dell’Idillio, dove la memoria fanciullesca del paese natale - in verità, felix - si contrappone a quella straziata di C.E.Gadda, richiamato attraverso la citazione di Dalle specchiere dei laghi apposta in epigrafe. Con La vita anteriore (titolo ripreso da Baudelaire, al pari - ci sembra – della stessa ispirazione di fondo: C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes / [...] et dont l’unique soin était d’approfondir / le secret douloureux qui me faisait languir...; sicché l’epigrafe della Dickinson resta a nostro avviso di secondaria importanza) si passa dall’età eroica a quella erotica, attraverso una reale iniziazione. Non c’è più l’adesione immediata al mondo mitico greco (come negli Eventi), ma esso è vissuto piuttosto come citazione. Dunque più mitologia che mito: il giovanissimo protagonista è già in fase letteraria... Della “possessione” di Stigmate abbiamo detto prima: sotto l’aspetto paradigmatico vale aggiungere che si è nella fase d’incontro 116 con la Musa: la prima giovinezza, vicino al mezzodì della giornata terrena. Il Soggiorno all’isola delle capre (nella specie la mediterranea Elba) ripercorre attraverso una giornata estiva, lo stesso arco del libro: la lunga giornata esistenziale, in cui il mare luminoso è come tutti i veri simboli - bagliore ora di vita ora di morte. Non amore e morte, bensì amore anche dopo la morte nel Pardes rimmonim (così almeno, press’a poco, le epigrafi; la forma imita quella concertante di lento-allegro-adagio e i “tempi” relativi - come si desumeva dalla pubblicazione in rivista - potrebbero intitolarsi: I. Domus tui cordis; II. Ricordo del vecchio vicolo degli studenti; III. Al futuro a noi ignoto), in cui si preannuncia il declino; anche qui le varie “stazioni” prefigurano quelle esistenziali: il periodo giovanile, la pienezza matrimoniale, il ricongiungimento nell’aldilà. Il verso lungo, dal ritmo ricorrente e ondoso, contrassegna Gli ultimi fatti di Ulisse e, nella sua rivisitazione memoriale dell’Odissea (come abbiamo detto prima), sottolinea quanto c’è di ruvido e di arcaico, congruente allo spirito della vicenda. Infine, se nella Meditazione l’aspetto autobiografico e “reale” è maggiormente evidente, ché la morte è vista dal fuori, vi si assiste, ne La grande metamorfosi essa è partecipata dal di dentro: come se il film della vita scorresse velocissimo, però con improvvise dilatazioni e riflussi memoriali. Se il paradigma dell’esistenza umana ci dà la chiave di lettura della raccolta, dobbiamo ricorrere ad altri parametri per qualificare l’orizzonte scrittorio in cui Cipollini si colloca. Come abbiamo visto, sia gli apporti del mito greco sia di quello ebraico-cristiano sono compresenti ed anzi volutamente accostati affinché, dal contrasto, scaturiscano ossimoriche scintille poetiche: infatti, quello che conta, è richiamare l’intera tradizione letteraria che ci sta alle spalle, per poterla inverare e innovare - nella trattazione in re - attraverso il concreto atto linguistico ed espressivo, il concreto ductus formale che contrassegna - come un marchio o, appunto, delle stigmate - la nostra scrittura e la nostra personalità. È quest’eterno spirito di “variazione sul tema” che ci consente anzi di affermare noi stessi varietur ut sit. Qualunque apporto contenutistico, qualunque suggerimento letterario, possono così essere accolti dalla vorace ricettività di un temperamento come quello di Cipollini, che di sé afferma: “Preferisco sbagliare per eccesso che per difetto. Mi re- 117 golo nella forma, non nei contenuti: ove sono senza ritegno”. Dunque è la forma alla fin fine a contare: quanto più è connotata espressivamente, tanto più essa ci appartiene come nostra e ci contrassegna individualmente. In questa direzione bisogna allora ripudiare ogni facile denotazione comunicativa, del modo per così dire immediatamente “naturale” (un verso dice proprio: “non par1o come i tempi, mi si accetti”); non ha importanza che il lettore possa a volte restare interdetto, dato che non è il livello popolare e “volgare” della scrittura a contare (odi profanum vulgus, diceva già Orazio); dev’essere anzi egli a “collaborare” con l’autore,sottoponendosi innanzi tutto alla fatica che a volte la lettura può comportare. A parte poi che l’atteggiamento di fondo resta quello di deprivare di ogni sostanza “naturalistica” i fatti della vita di relazione; abolendo il piano storico, vale solo la “quintessenza” dei fatti che residua sul piano della fabula. Questo atteggiamento mitopoietico resta, così, affine al sogno, i cui fili si inseguono all’infinito nella rappresentazione che si va a costruire. Né conta la verosimiglianza o la rispondenza con gli elementi della “realtà” oggettiva e naturale: quello che importa è lo statuto d’interno trasognamento che, se sfugge alle leggi di gravità della ragione e si avvicina a volte a un vero e proprio stato di trance, è in se stesso” reale” e “oggettivo” quanto una pietra. Come altra volta abbiamo avuto occasione di dire, per la scrittura di Cipollini si può ricorrere alla nozione di Manierismo (nel senso già indicato da E.R.Curtius), in cui ha prevalenza l’ornatus. Non è questa la sede per un riscontro testuale della “forma” dei Carmi. Tra i vari accorgimenti retorico-formali adoperati, ci limitiamo a indicare i più ricorrenti e caratteristici: 1) costruzione paratattica delle frasi, collegate tra loro attraverso i puntini sospensivi; 2) enàllage (scambio funzionale) dai modi finiti per uno dei modi indefiniti del verbo: in particolare a favore dell’infinito storico; 3) impiego esuberante dell’iperbato e della perifrasi; 4) impiego costante di allitterazioni, paronomàsie, rime interne, ripetizioni di uno o più membri in tutti i modi e le varianti possibili: al fine di esaltare - al pari dell’iperbato - la musicalità dei versi; 5 ) scelte lessicali rare e difficili, o formanti inusitate parole composte (a volte anche a 118 mezzo di trattino, secondo l’uso dei futuristi storici) o quasi-neologismi. E poiché la caratterizzazione in senso manieristico di un’opera è un fenomeno che affonda nella notte dei tempi e vale perciò per tutto un filone ricorrente nella tradizione letteraria europea, si può concludere affermando che l’“Europe c’est moi” di Cipollini non è poi soltanto una battuta. Marzo 1993 Sergio Spadaro 119